Festival della Missione 2022. Svelare l’umano condivisibile


Quattro giorni di convegni, aperitivi missionari, mostre, laboratori, spettacoli. Cento ospiti, centoventi testimonianze, duecento volontari, trentamila partecipanti. Grandi quantità legate a grande qualità e profondità nell’affrontare temi cruciali. Per la vita della Chiesa e della società.

Arriviamo alle colonne di San Lorenzo, a Milano, nel pomeriggio di giovedì 29 settembre.

Sta per iniziare uno dei molti eventi in programma in questa piazza fino a domenica 2 ottobre nella cornice del secondo Festival della Missione. Il cielo è incerto se chiudersi o lasciare il campo a un sole intenso e caldo.

Qui c’è il cuore della movida milanese e, allo stesso tempo, il cuore storico della chiesa Ambrosiana. La basilica sorta tra il IV e il V secolo, infatti, è tra le più antiche della città, e oggi si trova in un contesto di vie molto affollate non distanti dal Duomo, disseminate di bar, locali e negozi.

Sul sagrato, nello spazio suggestivo tra la facciata della chiesa e le antiche colonne, è allestito un palco con megaschermo. L’immagine proiettata è quella di un gomitolo composto da fili di diversi colori dal quale ne esce uno rosso a comporre la parola «missione». È il logo del Festival: un globo terrestre che non presenta confini ma i colori intrecciati dell’umanità. Il tema dell’intero evento è «Vivere perdono»: un gioco di parole nel quale il dono è, allo sesso tempo, causa e fine del vivere.

Diverse file di sedie iniziano a riempirsi di persone attorno alla statua che troneggia al centro della piazza: l’imperatore Costantino, quello che firmò nel 313 d.C. il famoso editto di Milano che concesse libertà di culto ai cristiani.

La missione in piazza

La prima edizione del Festival della Missione si è tenuta a Brescia nel 2017 (cfr MC dicembre 2017, p. 14). Un’occasione di festa, incontro e scambio missionario così entusiasmante da convincere i due organismi promotori, la fondazione Missio e la Cimi (Conferenza degli istituti missionari italiani di cui fanno parte 14 istituti ad gentes: 6 femminili e 8 maschili), a organizzarne, cinque anni dopo, una seconda edizione.

In entrambe le manifestazioni, sia a Brescia che a Milano, la missione si è fatta presente in piazza, tra la gente.

Ma perché portare in strada la missione e i «suoi» temi?

Di certo perché «la ricchezza delle esperienze missionarie è ricchezza per tutti» – come ha detto don Giuseppe Pizzoli, direttore della fondazione Missio, alla conferenza stampa di presentazione del 19 settembre -, e quindi vale la pena portarla tra la gente, raccontando le storie di persone che nel mondo vivono «per dono», come ha aggiunto Lucia Capuzzi, giornalista di «Avvenire» e direttrice artistica del Festival, parafrasando il tema della quattro giorni.

Di certo per «far crescere la missione nella società italiana», nella convinzione che «la fede si rafforza donandola e non difendendola» – come ha chiosato in quella stessa sede padre Fabio Motta, missionario del Pime e rappresentante della Cimi -.

Ma anche per portare in superficie e porre all’attenzione di tutti, cristiani e non, alcune «tracce dell’umano condivisibile: gli spazi, i valori, le sfide, i sogni che ci accomunano tutti come esseri umani», come ci dirà Agostino Rigon, direttore generale del Festival, che sentiremo dopo la sua conclusione.

I linguaggi della missione

Quando abbiamo deciso di partecipare al Festival e abbiamo letto il programma degli eventi sul sito festivaldellamissione.it, siamo stati colpiti dalla varietà di temi e di ospiti. Il mondo missionario vuole comunicare con la città attraverso i linguaggi che gli sono propri: quelli della testimonianza, della Scrittura, della fede, della spiritualità, della teologia; ma anche tramite quelli (che non gli sono estranei) dell’economia, della politica, dell’ecologia integrale, dei diritti umani, dell’etica, della giustizia.

Forse perché impegnati quotidianamente a confrontarsi faccia a faccia con i poveri, gli ultimi, gli scartati di ogni latitudine, con i conflitti, le conseguenze dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento indiscriminato della terra, i missionari non possono fare a meno di domandarsi (e domandare) il perché, e di denunciare quali sono i meccanismi che schiacciano nella marginalità la maggior parte della popolazione mondiale (la «violenza strutturale», direbbe Johan Galtung, o le «strutture di peccato», secondo Giovanni Paolo II).

Storie di «semplici» missionari

Dato che diverse iniziative del Festival si terranno in contemporanea, a malincuore siamo costretti a scegliere.

Parteciperemo ad alcuni incontri nei quali «semplici» suore, famiglie, sacerdoti missionari racconteranno le loro esperienze in terre lontane (o vicine).

Ascolteremo, ad esempio, suor Dorina Tadiello, sorella comboniana, già missionaria in Uganda, a Roma e Verona, che da due anni fa parte della comunità intercongregazionale di Modica, provincia di Ragusa, composta da sacerdoti e suore di diversi istituti religiosi che condividono la vita e la fede per fare accoglienza di persone migranti.

Sentiremo le parole appassionate di don Dante Carraro, medico cardiologo dall’87, sacerdote dal ‘91, e dal 2008 direttore dell’Ong Medici con l’Africa Cuamm, con la quale viaggia spesso in Angola, Etiopia, Mozambico, Tanzania, Sierra Leone, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Uganda.

E poi la testimonianza ricca e colorata di Chiara Bolzonella e suo marito Mauro Marangoni che, con tre anni di missione fidei donum in Kenya alle spalle e cinque figli, hanno fondato nel padovano, assieme ad altre tre famiglie, la comunità Bethesda per condividere il Vangelo nella forma dell’accoglienza e dell’animazione spirituale.

Di giustizia, diritti, vangelo e altro

Parteciperemo poi ad altri eventi nei quali sentiremo parlare di giustizia riparativa dalla ministra Marta Cartabia (che verrà in seguito sostituita nel nuovo governo da Carlo Nordio) con il prof. Adolfo Ceretti, grande promotore della restaurative justice in Italia come all’estero; di «economia che uccide» dall’ex presidente del consiglio Mario Monti con suor Alessandra Smerilli, figlia di Maria Ausiliatrice, insegnante di Economia politica e Segretaria del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale del Vaticano. Ascolteremo Patrick Zaki in collegamento dal Cairo parlare di diritti umani e della sua situazione di attivista sotto processo nel suo paese; il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, condividere riflessioni sull’annuncio della Parola; il leader indigeno Adriano Karipuna denunciare la situazione di violenza e devastazione subita dal suo popolo e dalla foresta Amazzonica.

Parteciperemo, tra le altre cose, al laboratorio sull’agenda 2030 e a una sfilata di moda «etica».

Faremo anche un aperitivo missionario e visiteremo una delle mostre allestite in diversi luoghi della città.

non solo Numeri

Nell’arco dei quattro giorni del Festival più di cento ospiti si alterneranno sul palco in trenta eventi e convegni, centoventi missionari «testimonieranno» la loro esperienza agli «aperitivi» organizzati in ventisette bar e bistrot del centro, saranno coinvolte dieci piazze, quattro musei, ci saranno otto mostre, undici percorsi artistici con visite guidate in basiliche e chiese, quattordici presentazioni di libri e incontri con gli autori, sei proiezioni di documentari, cinque spettacoli, dieci laboratori per bambini, ragazzi e giovani, un torneo di calcetto, una serata di racconto e sfilata di moda. I partecipanti saranno circa 30mila.

Semi di futuro

Guardandoci attorno, mettiamo a fuoco alcuni volti di missionari conosciuti, alcune famiglie, molti giovani, veli di suore.

C’è un gruppo un po’ chiassoso che si infila nell’edificio dell’oratorio della parrocchia di San Lorenzo. Lì è stata allestita «Casa Missione»: stanze con tavoli e sedie, una macchinetta per il caffè, il bagno, un fasciatoio, un luogo per riposare nelle pause tra una conferenza e la proiezione di un documentario, e magari mangiarsi un panino facendo due chiacchiere con qualche sconosciuto che diventerà presto un volto amico.

Ci avviciniamo a uno dei gazebo del Festival per la registrazione. Uno dei duecento volontari ci consegna il libretto con l’elenco di tutte le proposte. Abbiamo la conferma che a molte non potremo partecipare, ma siamo consolati dalla promessa di ritrovare, in seguito, molti dei contenuti del Festival sul web. Alcuni degli incontri ai quali non potremo partecipare li potremo fruire a casa, andando sul canale Youtube
@FestivaldellaMissione.

Il volontario ci sorride e, prima che noi ci allontaniamo, ci consegna una bustina di carta contrassegnata con il logo e i colori della kermesse. «Vivere per dono» c’è scritto. Dentro alla bustina si sentono rotolare alcuni semi di piante a sorpresa. È l’auspicio di questo secondo Festival della Missione: essere un seme da piantare nella terra con la fiducia che qualcosa di buono e bello spunterà.

Luca Lorusso

Fare rete per dire la missione

A distanza di qualche settimana dal Festival, abbiamo sentito alcuni dei protagonisti del dietro le quinte per raccogliere impressioni «a freddo»: Agostino Rigon, direttore generale del Festival, padre Piero Masolo, direttore operativo, ed Elisabetta Grimoldi, del consiglio direttivo.

Elisabetta Grimoldi

Elisabetta è una laica missionaria saveriana, promotrice del coordinamento dei laici missionari legati ai diversi istituti ad gentes in Lombardia e, tra le altre cose, membro del Suam (l’organo della Cimi per l’animazione missionaria). È manager per un’azienda multinazionale. Si fa chiamare Betty: «Da qualche anno sono nel comitato dei laici lombardi legati agli istituti missionari di cui fanno parte anche le Famiglie missionarie a Km0 e i laici fidei donum. Già da tempo lavoravamo in rete, poi il Festival ci ha spronato a farlo ancora di più. Io sono stata scelta come rappresentante dei laici a livello nazionale, e, durante la preparazione, con Emanuela Costa (Famiglie missionarie Km0) e Claudia Del Rosso (di Missio), abbiamo cercato di aprire i confini della rete coinvolgendo realtà come il Mato Grosso, la Papa Giovanni XXIII e altre».

Le chiediamo cosa le è piaciuto di più del Festival. «Il dono dell’accoglienza, i legami creati tra tante reti. Il fatto che le relazioni proseguono ancora oggi. Questo significa che la rete non aveva come unico fine quello dell’evento. C’è desiderio di continuare assieme. Poi mi sono piaciuti i contenuti, e il fatto che ci fossero tante realtà a costruirli. Infine, il tentativo di intercettare chi è fuori dal mondo missionario e dalla Chiesa».

Padre Piero Masolo

Padre Piero Masolo è un missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere), sacerdote dal 2008, è stato sette anni in Algeria. Lavora al centro missionario della diocesi di Milano. La sua funzione di direttore operativo del Festival ha aiutato a raccordare «la macchina» organizzativa con il territorio. Gli chiediamo se, secondo lui, l’obiettivo dei promotori di far incontrare i tanti soggetti del mondo missionario tra loro e di comunicarsi al di fuori è stato raggiunto. «Sì. I feedback sono positivi. Intanto le 30mila presenze sono già un dato importante. Poi dobbiamo tenere conto anche del grande lavoro fatto nel “pre Festival”. Volevamo che il tutto fosse un percorso e non un evento: è il percorso che può dare frutto. Oggi, ad esempio, molte persone in diocesi ci chiedono di aiutarli a trasformare in realtà quotidiana l’atmosfera di incontro del Festival. Si cammina». Chiediamo quali sono le ricadute positive per la chiesa missionaria di quanto fatto: «Uno: non è vero che la missione è una ciliegina sulla torta. È, anzi, quel filo rosso del logo che tiene assieme il gomitolo. La Chiesa è missionaria, oppure non è. È lo spirito con il quale appartenere alla Chiesa. Questo penso che sia stato recepito da chi ha seguito il Festival. Due: l’evento dice anche che uniti non si è insignificanti. A volte noi missionari ci lamentiamo di non venire ascoltati. Ok, ma noi come ci proponiamo? Il Festival ha provato una modalità nuova di proporre la missione a tutti, e mi pare ci sia riuscito».

Agostino Rigon

Agostino Rigon è il direttore generale del Festival. Ha alle spalle sei anni di Messico e molti anni di lavoro missionario in Italia. È l’attuale direttore dell’ufficio missionario di Vicenza. «Il desiderio dal quale è nato il Festival era triplice. Uno: superare l’autoreferenzialità dei soggetti missionari, vincere la fatica di interfacciarci tra di noi e con il mondo. Il secondo desiderio era quello di aiutare lo svelamento dell’umano condivisibile: non volevamo che il Festival fosse un’occasione per parlarci addosso, volevamo, invece, portare in evidenza gli spazi, i valori, le sfide che ci accomunano tutti come umani. Per questo il Festival ha ascoltato anche voci estranee al mondo ecclesiale. Terzo: mettere in luce la bellezza del Vangelo come dono per la vita del mondo. Attraverso il racconto delle storie di molti missionari, mostrare che ci sono ragioni di vita che ispirano uomini e donne a vivere e a servire l’umanità».

Questo triplice desiderio si è realizzato? «Io direi di sì. Non come obiettivo raggiunto, ma per i passi avanti fatti. Ad esempio, la Cimi e Missio non avevano mai lavorato insieme con tanta corresponsabilità e convergenza di visione, e mai avevamo creato una tale rete di alleanze con cui parlare dell’umano condivisibile».

Anche ad Agostino domandiamo cosa è piaciuto di più della manifestazione: «La sinodalità: nel consiglio direttivo eravamo decine di soggetti diversi e ho visto che tutte le cose fatte con un’intesa comune sono state quelle più belle. La sinodalità intesa come esperienza di relazioni e corresponsabilità molto pratica e concreta.

Un altro aspetto è “la contaminazione”: abbiamo visto che è possibile condividere valori e sfide, sogni e speranze con molte più persone di quante immaginassimo. A volte ci consideriamo un’isola che lavora controcorrente, invece c’è una moltitudine di gente che condivide tante cose e ha sete e fame di fare sistema e impegnarsi con altri».

E adesso cosa si fa? «È un discernimento che spetta a tutti, non solo agli organizzatori del Festival. Sono stati proposti metodi, idee, occasioni, ma poi bisogna che ciascuno li faccia propri».

Il prossimo Festival? «L’idea è di fare il Festival ogni 3 anni, ogni volta in una sede diversa. Il prossimo potrebbe essere nel centro Italia o al Sud… ma è tutto da verificare».

L.L.

Un laboratorio sinodale

I quattro giorni del Festival della Missione di Milano, che hanno visto la partecipazione di 30mila persone, non sono stati «solo» un evento, ma l’apice di un percorso che, cominciato nel 2020 con la sua ideazione e progressiva attuazione in una serie di iniziative «pre Festival», prosegue ancora oggi con il «post Festival».

Promosso da Fondazione Missio (Cei) e Cimi (Conferenza istituti missionari in italia) e realizzato dall’Arcidiocesi di Milano in rete con più di 70 partner, sia ecclesiali che laici, tra istituzioni, sponsor, diocesi lombarde, media, enti formativi, associazioni, Ong, fondazioni, il Festival è stato, ed è ancora, un laboratorio di «sinodalità».

Padre Piero Masolo, missionario del Pime, direttore operativo del Festival, fa un elenco di diciannove ambiti nei quali la «sinodalità» della rete messa in campo dagli organizzatori si è espressa nei mesi scorsi, a volte a livello nazionale.

Per citarne solo alcune, ricordiamo le proposte didattiche che hanno raggiunto 64mila studenti nelle scuole dell’interland milanese nell’anno scolastico 21/22; i progetti di giornalismo a livello universitario; i gemellaggi internazionali tra gruppi di ragazzi del Nord e del Sud del mondo; la proposta di un song contest rivolto ad adolescenti e giovani, sfociato nel concerto del 2 ottobre a Milano; il cosiddetto «cantiere festival», cioè l’organizzazione di eventi, conferenze, serate, testimonianze, spettacoli, momenti di preghiera, di dialogo interconfessionale e interreligioso, giornate di spiritualità da parte dei centri missionari diocesani, degli istituti missionari, di altre congregazioni religiose, monasteri, gruppi di tutta Italia; i percorsi di giustizia riparativa per i detenuti di Agrigento e Campobasso, e sul dialogo islamo-cristiano nelle carceri di Busto Arsizio e di San Vittore a Milano.

Dal «pre Festival», a fine settembre si è passati al Festival. Dai quattro giorni di Milano, si è passati ora al «post». Succederà presto, anche se non sappiamo ancora quando, che dal «post» si passerà a un nuovo «pre» che ci accompagnerà a un nuovo percorso.

L.L.

 




Abramo, l’amico di Dio


Abramo viene chiamato l’amico di Dio (Gc 2,23), perché esempio di relazione ideale con il Signore. È considerato tale da ebrei, cristiani e islamici.

C’è chi dice, probabilmente senza allontanarsi dal vero, che non sia mai davvero esistito e che la figura di Abramo sia un’«invenzione», basata su antiche tradizioni riguardanti qualche personaggio lontano nella storia, per porre, all’inizio della Genesi, un’introduzione alle vicende di Giacobbe allo scopo di indicare da subito l’atteggiamento giusto nel rapporto con Dio.

Noi qui, però, non vogliamo fare i lettori super critici e saccenti, ma lasciarci coinvolgere dal racconto, come desiderava chi ha scritto questi testi.

L’inizio di un ascolto

«Esci dalla tua terra, dalla casa di tuo padre, e vai verso un luogo che io ti indicherò» (Gen 12,1). Abbiamo tutti in mente questa chiamata che, soprattutto nella tradizione cristiana, si considera spesso il passaggio centrale per capire la figura di Abramo, visto come un uomo che segue esclusivamente la vocazione divina: lasciare tutto, e seguire Dio.

Una lettura più attenta del testo biblico ci offre però un quadro più complesso e, forse, anche più interessante.

Abramo, come suo padre Terach, è di Ur dei Caldei, nel Sud della Mesopotamia. In Gen 11,31 si dice che lascia, sì, quella terra, ma non suo padre. In effetti, la lascia insieme a lui, ai suoi ordini. È Terach a prendere figlio, nuora e nipote (Lot) per andare nella terra di Canaan, che sarà poi quella che Dio indicherà ad Abramo. Sul cammino, la piccola comitiva si ferma per qualche tempo a Carran, nel Nord della Mesopotamia, più o meno a metà strada, e lì Terach muore. È a questo punto che arriva la chiamata divina ad Abramo. Abramo inizia il suo viaggio semplicemente ubbidendo al padre (come in quella società era previsto facesse, tanto più che non aveva figli propri), ma poi si interrompe a un certo punto per la morte dello stesso. Che cosa fare ora? Nulla dice che Terach avesse condiviso che cosa sperava di trovare in Canaan, e Abramo, suo figlio primogenito ed erede, si trova ora responsabile di una moglie e un nipote. Tornerà indietro con il proprio gregge o proseguirà? In base a che cosa?

Ecco la svolta: Abramo si pone in rapporto con qualcuno che non è suo padre defunto e non è una garanzia mondana. Si mette in relazione e si fida di Qualcuno che, pur non offrendogli prove, gli chiede di affidargli la sua vita con la semplice promessa che non lo abbandonerà.

A 75 anni (Gen 12,4), Abramo ascolta una parola che non gli promette vittoria e bottino, ma di diventare una benedizione per gli altri, e di trasformarsi (lui, vecchio e con una moglie vecchia e sterile) in una grande nazione. Un pazzo illuso, potremmo dire. Ma Abramo parte. Anzi, diciamo che riparte, o prosegue, perché nulla, esteriormente, è cambiato nel suo viaggio, se non che la comitiva ha una persona in meno, che è morta. Eppure, dentro tutto è diverso.

Un arrivo che è inizio

Quando Abramo arriva nella terra di Canaan, questa ovviamente non è vuota (Gen 12,6), né lui si trova immediatamente trasformato in un popolo. Eppure, in questa terra che non è sua, senza nulla che gli confermi di aver fatto bene ad ascoltare la voce di Dio, Abramo gli innalza un altare, come ringraziamento, segno di dedizione e luogo di incontro (Gen 12,7), come farà altre volte in seguito.

Lungo il racconto, la promessa divina si fa sempre più precisa:

  •   dapprima parla di fare di Abramo una grande nazione e un nome benedetto (12,1-2);
  • poi Dio garantisce che sta parlando della terra che Abramo vede davanti a sé, e che sarà offerta ai suoi discendenti (12,7-8);
  • quindi promette che quella discendenza sarà numerosa come la polvere della terra ed erediterà tutto ciò che si vede (13,14-17);
  • più avanti, che la discendenza di Abramo sarà numerosa come le stelle del cielo (15,4-5);
  • e vivrà in un territorio dai confini precisi che andranno ben oltre ciò che un essere umano può vedere solo con lo sguardo  (15,18-21);
  •   e poi che addirittura Abramo sarà capostipite non solo di un popolo ma di «una moltitudine di popoli», che abiterà proprio lì in Canaan e vivrà per sempre in comunione con Dio (17,4-8).

Questo elenco non esaurisce tutte le promesse e benedizioni divine ad Abramo raccolte nella Genesi, ma è già sufficiente per farci stupire del fatto che, davanti a tante promesse e al fatto che finora lui non abbia nulla in mano, Abramo si fida comunque di Dio.

Questa sua fiducia si ripercuote anche intorno a lui. Quando in Canaan le greggi sue e del nipote Lot sembrano essere troppe per la terra che hanno a disposizione, Abramo lo invita a dividersi. La scelta di come dividere il territorio spetterebbe al capo della comitiva, che lascia però decidere al nipote, il quale prende per sé la parte migliore (Gen 13).

I lettori potrebbero pensare che Abramo sia semplicemente un debole o un pavido, ma, subito dopo (Gen 14), una spedizione di cinque re assale Sodoma, dove Lot si è insediato, e porta via in bottino anche lui con la sua famiglia. A quel punto Abramo insegue e sconfigge i cinque re, chiedendo semplicemente la liberazione dei prigionieri.

Poiché vive nella fiducia verso Dio, non si affanna a garantirsi protezioni o garanzie terrene.

 

Perché amico

All’inizio ricordavamo come nella lettera di Giacomo si presenti Abramo non tanto come servo fedele e ubbidiente di Dio, ma come chi entra in una relazione distesa, affettuosa, di amicizia con il Signore. Ci sono almeno tre episodi che confermano di questa relazione alla pari.

I tre viandanti

Molto noto è quello in cui Abramo accoglie nella sua tenda tre viandanti, che poi sembrano diventare uno e si svelano come presenza divina (Gen 18). Abramo, senza una terra e senza discendenza, accoglie con serenità e generosità i tre passanti, in un mondo in cui non c’erano leggi che proteggessero chi non era del posto. E dopo quel gesto di dono, che viene seguito dalla promessa (nuovamente!) di un figlio, Dio e Abramo fanno due passi fino ad affacciarsi sulla profonda valle del Giordano, in fondo alla quale contemplano Sodoma. E Dio si trova a non poter nascondere ad Abramo ciò che ha intenzione di fare: distruggere Sodoma per i suoi peccati (18,17-19). Questa confidenza mostra un atteggiamento intimo di Dio nei confronti di Abramo. Dio non è un padrone, sia pure generoso e benevolo, ma un amico che, in coscienza, non può nascondere dei segreti al proprio amico.

Il figlio della schiava

Un altro passaggio è quello nel quale diventa protagonista anche Sara, la moglie di Abramo (Gen 16). A fronte della costante promessa di una discendenza, è lei ad avere l’idea di far concepire un figlio di Abramo alla sua schiava. Il figlio di una schiava nasce schiavo, ma se venisse adottato dalla padrona (con quel gesto antico e simbolico di parto sulle sue ginocchia), sarebbe libero e potrebbe ereditare i beni del padre. L’atteggiamento di Sara e Abramo nei confronti di Dio è quello non dei creditori che pretendono dal debitore ciò che questi ha promesso, ma degli amici che cercano di venire incontro alla promessa fatta dall’amico, di rendergli la vita più facile, facendo ricorso anche a una certa dose di automortificazione (Sara accetta di essere esclusa dalla promessa) e di inventiva.
Quando, poco dopo (17,18), Abramo, a colloquio con Dio, invocherà: «Possa almeno vivere Ismaele davanti a te!», di fatto pone il figlio della schiava Agar davanti a Dio, quasi a chiedergli: «È questo il figlio di cui parlavi, no?».

E la risposta di Dio è dolce e tenera: «Certo, benedirò anche lui, ma se ti ho promesso un figlio, l’ho promesso a te e a Sara». La promessa divina guarda ad altro, ma Dio non può non contemplare con commozione e un sorriso il tentativo (maldestro) di Abramo e Sara di semplificargli la vita, come tra amici.

L’alleanza

Un altro brano è per noi di comprensione più difficile, più solenne e mistico (Gen 15). Dio invita Abramo a predisporre una scena cruenta, con tre animali divisi a metà. A noi non dice nulla, ma i primi lettori del testo comprendevano bene di che cosa si trattasse: quando si concludeva un contratto, il più forte si impegnava a rispettarlo, mentre il più debole era esposto alla vendetta del primo, se non lo avesse mantenuto. Quando due contraenti si reputavano alla pari, si appellavano, come garante, a qualcuno di superiore. Quando a stringere un’alleanza alla pari erano due re, che non potevano rimandare a nessuno superiore a loro, seguendo un antico rituale hittita, squartavano degli animali e ci passavano in mezzo, mano nella mano: simbolicamente invocavano che chi avesse tradito l’alleanza finisse squartato come quegli animali.

Abramo viene chiamato ad allestire quel quadro, e quindi a pensarsi in un’alleanza alla pari con Dio. Al momento di sigillarla, però, non sa come procedere, finché un torpore non lo blocca, e ode promesse di fatica e schiavitù, ma anche di ricchezza e libertà per i suoi discendenti, e vede passare in mezzo agli animali «un braciere fumante e una fiaccola ardente» (15,17): Dio si impegna in un’alleanza e si offre alla condanna di essere squartato nel caso in cui non la dovesse rispettare. Allo stesso tempo, però, evita ad Abramo di passare a sua volta in mezzo alle due metà di animali, lo protegge (lui e i suoi discendenti) dalle conseguenze di un eventuale futura trasgressione del patto.

Un vero amico, che si espone in prima persona ma non vuole neppure concedere il rischio di male per gli altri.

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, icontra i tre alle quercia di Mamre – AfMC / Gigi Anataloni

Il dono definitivo

Il figlio promesso arriva quando Abramo ha cento anni (Gen 21,5). Isacco viene, però, chiesto in dono da Dio, capace di calcare la mano in modo apparentemente crudele sulla richiesta: «Prendi tuo figlio (sì, quello promesso e atteso da tanto tempo), il tuo unico figlio (non ci sono piani di riserva), che ami (non è un figlio ribelle, non sopportato: Abramo gli vuole bene), Isacco (chiamato per nome, non più solo il ruolo) e offrilo in olocausto» (Gen 22,2).

Se per la tradizione cristiana il cuore della chiamata di Abramo è l’iniziale invito a uscire dalla sua terra, per il mondo ebraico è invece questo brano. Se è impegnativo lasciare il quasi niente che si ha, in vista di una promessa più grande, molto più difficile è accettare di rinunciare a ciò che si è desiderato per tutta la vita e alla fine è arrivato.

Conosciamo la storia: Abramo si mette in movimento, inganna il figlio e si accinge a sacrificarlo finché viene fermato da Dio appena in tempo.

Può sembrarci un Dio improvvisamente crudele, ma non dimentichiamoci che il mondo antico riflette e insegna attraverso i racconti. Davvero Abramo avrà predisposto il sacrificio del figlio? Per gli antichi bastava che si fosse posto il problema se restituirlo a Dio qualora glielo avesse chiesto. Abramo continua a confidare fino in fondo nella promessa, senza attaccarsi a ciò che gli è stato donato come se fosse irrinunciabile, sapendo che è la relazione con Dio a garantirgli tutto ciò che gli serve. Dio non chiede il sacrificio della vita umana, e non chiede che si doni a lui ciò che si ama: sarà lui a farlo, con il Figlio suo, sulla croce, compiendo quel dono di sé assoluto, totale e sovrumano che all’uomo non può e non vuole chiedere.

Con una scelta feroce tra i tanti episodi che interessano Abramo (molto di più avremmo potuto riprendere e spiegare), ecco dispiegata davanti a noi un’esperienza umana ideale, fatta di relazione alla pari con Dio, di fiducia, di scambi e aiuto.

Ciò che la Bibbia ci dice è che il Dio di cui ci parla è fatto così, non cerca servi, ma amici con cui conversare, sorridere, vivere. «Non vi chiamo servi, ma vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Il primo, fondamentale uomo che vive in relazione con lui non ubbidisce a leggi ma si pone semplicemente nell’incontro, senza filtri né paure.

Angelo Fracchia
(Camminatori 01 – continua)

Maria Mfariji shrine. Marsabit, Kenya – Abramo, esci dalla tua terra – AfMC / Gigi Anataloni


2023, Un cammino nuovo

Per due anni abbiamo camminato insieme al popolo ebraico lungo le strade del deserto, nei sentieri dell’Esodo.

Quasi a prendere respiro da un percorso compatto e impegnativo, vogliamo dedicare il 2023 a respiri più brevi, ma speriamo non meno corroboranti. Incontreremo dieci personaggi del Primo Testamento, alcuni più noti, altri meno, ma tutti significativi per la loro esperienza ed esempio di fede, perché facciano da modello a noi che viviamo in un contesto completamente diverso.

Come ogni occasione in cui leggiamo la Bibbia, lo scopo non è tanto di imparare qualcosa su un mondo antico e lontano, ma di scoprire pillole di divina umanità utili al nostro cammino quotidiano di oggi.

A.F.




«Talitha, kum» – «Fanciulla, alzati»


Sommario

Una rete mondiale che lotta contro la tratta di persone

Per un mondo senza tratta

Il traffico di esseri umani è un crimine grave, molto diffuso nel mondo, a tutte le latitudini. Nel 2009 diverse realtà in lotta contro questo flagello si sono unite dando vita a una rete globale. Pubblichiamo in questo dossier un’intervista esclusiva alla sua coordinatrice internazionale e riportiamo alcuni estratti dell’ultimo rapporto che presenta attività e risultati raggiunti dalla rete.

La «tratta di esseri umani» è il processo tramite il quale una persona viene obbligata o allettata da false prospettive, impiegata o trasferita in un altro luogo e costretta a lavorare e vivere in condizioni di sfruttamento e di abuso.

I trafficanti hanno come bersaglio le persone che vivono in contesti di vulnerabilità. Sfruttano il fatto che queste desiderino una vita migliore e che vogliano potenziare la propria situazione finanziaria, sviluppare le proprie abilità e talenti o, più semplicemente, trovare un ambiente in cui vivere in sicurezza.

Le vittime della tratta possono essere costrette a sfruttamento sessuale, a contrarre matrimoni forzati o precoci (persino in età infantile) o a lavorare in condizioni sottopagate, per esempio nei settori dell’assistenza domestica, dell’agricoltura, dell’ospitalità, dell’industria mineraria o della manifattura. Le persone vengono sfruttate contro la loro volontà, sono limitate nella libertà e subiscono un potere che viene esercitato su di loro attraverso minacce, violenza e punizioni. La tratta di persone toglie alle vittime la dignità, il diritto di disporre della propria vita e di vivere in sicurezza e libertà.

La tratta di persone miete milioni di vittime, ovunque. Esse non rientrano tutte in un unico profilo. Tuttavia, le diseguaglianze economiche, sociali, familiari, culturali e religiose rendono donne e bambine particolarmente vulnerabili. Le Nazioni Unite riferiscono che oltre il 72% delle persone individuate come vittime di tratta sono donne e bambine. A livello globale una vittima ogni tre identificate non ha ancora compiuto i 18 anni.

Il traffico di persone è un’attività illegale ad alto rendimento: 150,2 miliardi di dollari sono i profitti annuali derivanti dalla tratta nel mondo, di cui due terzi dallo sfruttamento sessuale. 34.800 dollari sono i profitti annuali per ogni vittima di tratta nelle economie avanzate, 15.000 dollari nel Medio Oriente, 7.500 in America Latina e Caraibi, 5.000 nell’Asia e Pacifico, 3.900 in Africa. Il 50% dei lavoratori sfruttati svolge un lavoro forzato a risarcimento di un debito (Profits and poverty: the economics of forced labour, International Labour Organization, 2014).

Cos’è Talitha Kum

«Talitha Kum. Fanciulla, io ti dico: alzati!».

Gesù rivolse queste parole alla figlia di Giairo, una ragazza di 12 anni che giaceva apparentemente morta. Quando Gesù le prese la mano, lei subito si alzò, cominciando a camminare.

Queste due parole trasmettono un messaggio forte e sono state scelte come nome per Talitha Kum, la «Rete internazionale contro la tratta di esseri umani».

Queste parole invitano le reti che fanno parte di Talitha Kum ad alzarsi con coraggio e speranza, rimanendo accanto alle vittime e ai sopravvissuti alla tratta di persone, che tendono le mani verso di noi e a promuovere un mondo più giusto in cui ogni essere umano possa vivere in dignità e pienezza, realizzando così il messaggio di Cristo: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv. 10,10).

Formalmente fondata nel 2009 presso l’Unione internazionale delle superiore generali degli isituti religiosi femminili (Uisg) come iniziativa contro la tratta di esseri umani e lo sfruttamento, Talitha Kum promuove la collaborazione tra reti organizzate a livello nazionale, regionale e continentale, sostenendo attivamente le vittime, i sopravvissuti e le persone a rischio.

Ogni rete di Talitha Kum mantiene la sua identità unica e opera all’interno del proprio paese o regione, mentre il Coordinamento internazionale presso la Uisg sostiene lo sviluppo delle competenze e la formazione delle reti e dei membri, facilitando la condivisione di informazioni, risorse ed esperienze.

La forza di Talitha Kum

La forza della rete Talitha Kum risiede nell’impegno della sua base attraverso una strategia bottom-up (dal basso verso l’alto) e nella sua impostazione incentrata sulla persona e sulla comunità, che garantisce la vicinanza alle vittime e ai sopravvissuti alla tratta, alle loro famiglie e a coloro che sono a rischio di sfruttamento.

La tratta di persone è un fenomeno complesso e multidimensionale che ferisce decine di milioni di individui e l’intera società umana. La parola «Talitha Kum» è un invito rivolto a tutti ad alzarsi in piedi per contrastare con la nostra voce, le nostre azioni, le scelte quotidiane e le nostre vite tutto ciò che promuove e sostiene la tratta di persone, denunciando l’arroganza e la violenza del potere economico finanziario quando agisce contro la dignità della persona.

In una relazione tra pari, camminiamo insieme alle vittime lungo il percorso di guarigione mentre queste ultime riacquistano una profonda consapevolezza del proprio valore interiore come individui e membri delle loro famiglie e comunità.

In questo modo, Talitha Kum affronta le cause sistemiche che espongono le persone al rischio di cadere nelle mani delle reti della tratta, coinvolgendo le famiglie e le comunità locali, insieme ai principali stakeholder (attori, ndr) sia a livello nazionale che internazionale.

In linea con tale approccio, chi aderisce ai valori di Talitha Kum si impegna a farsi prossimo di coloro che soffrono le serie conseguenze della tratta di persone, donne, bambini, uomini e le loro famiglie. Le azioni di Talitha Kum sono rivolte a tutti coloro che sono deturpati della dignità e privati della libertà, indipendentemente dal loro stile di vita, etnia, religione, condizioni economiche o orientamento sessuale. I membri di Talitha Kum riconoscono e testimoniano i valori cristiani, in dialogo e nel rispetto delle diverse tradizioni religiose e di chi non crede.

La missione di Talitha Kum è porre fine alla tratta di esseri umani e allo sfruttamento attraverso iniziative di collaborazione incentrate su prevenzione, protezione, reinserimento sociale e riabilitazione dei sopravvissuti, partenariato e difesa, promuovendo azioni che incidono sulle cause sistemiche.

rete Talitha Kum

Incontro con suor Abby, coordinatrice internazionale

Puntare sulla prevenzione

Filippina, missionaria in Giappone, dove contribuisce a fondare la rete Talitha Kum Japan, per poi diventare referente per l’intera Asia. Da settembre è coordinatrice internazionale. Le sfide sono numerose, perché la tratta di esseri umani è in espansione, ma anche Talitha Kum sta aumentando il numero di reti associate e di paesi in cui opera. Suor Abby Avelino ci racconta come funziona.

Dal settembre scorso, Talitha Kum ha una nuova coordinatrice internazionale. Si tratta di suor Abby Avelino, che succede alla comboniana suor Gabriella Bottani, coordinatrice per quasi otto anni.

Di origini filippine, è migrata con la sua famiglia negli Stati Uniti. Qui è diventata ingegnere meccanico. Qualcosa è poi maturato in lei fino a farle comprendere il suo desiderio di mettersi al servizio in ambito sociale. È entrata in contatto con le missionarie Maryknoll e ha iniziato a frequentarle. È quindi entrata nella congregazione nel 2006, ed è stata poi mandata missionaria in Giappone, presso una parrocchia nella quale si è occupata dei migranti asiatici (e non solo). I voti perpetui li ha presi nel 2014.

Nell’ambito del suo servizio, è entrata in contatto con la rete mondiale Talitha Kum e si è adoperata per fondarne la sezione giapponese, nel 2016. Cinque anni dopo è diventata referente regionale per l’Asia, contribuendo allo sviluppo delle reti di Talitha Kum nel continente. Oggi vive a Roma dove coordina la squadra internazionale.

L’abbiamo raggiunta telefonicamente nella sede della capitale, in un momento tra i suoi tanti impegni.

Suor Abby, ci spiega come è organizzata Talitha Kum?

«A Roma c’è il coordinamento internazionale, sotto il cappello dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg). La nostra squadra è composta da sei persone più la sottoscritta, scelte dalle nostre superiore. Ognuna rappresenta un continente: Africa, Asia, Europa, Oceania, Amerca del Nord e America Latina. Il nostro lavoro consiste nel relazionarci con le reti locali nei continenti che chiamiamo regioni. Il mio ruolo è adesso quello di coordinatrice internazionale, ovvero dirigo questa squadra. Ci sono poi le reti locali che sono a livello della base, dove lavoriamo con i nostri partner, come governi, Ong, e gruppi religiosi.

Nel mio ruolo attuale mi relaziono molto con i nostri partner e collaboratori. Ad esempio, a Roma, con le agenzie internazionali (come quelle dell’Onu, ndr) e con i dicasteri del Vaticano».

Lei ha lavorato molto con la base, in particolare in Giappone.

«Ho iniziato a livello locale, ero membro di Talitha Kum Giappone. Poi ho avuto un doppio ruolo, quando sono stata anche coordinatrice per l’Asia. Seguivo allora 14 reti nazionali in altrettanti paesi (oggi sono 18 contando il Medio Oriente) e facevo parte del comitato di coordinamento.

Io sono originaria delle Filippine, e lavoravo in una parrocchia a Tokyo, con migranti e rifugiati. Molti erano filippini, ma anche indonesiani, thailandesi e di altre nazionalità, e alcuni di paesi africani. Lavoravo in particolare con donne e bambini. Io e le mie consorelle abbiamo saputo di questa organizzazione dalla nostra conferenza delle superiore. Quindi abbiamo iniziato a coordinarci con il contesto asiatico di Talitha Kum, in particolare con la coordinatrice Asia di quel periodo. Quindi abbiamo iniziato formalmente
Talitha Kum Giappone, iniziativa di quattro suore. In Giappone Talitha Kum si focalizza sul lavoro sfruttato (e sottopagato)».

Quali erano i problemi che affrontavate in Giappone?

«Il lavoro con i migranti è vasto, e affronta molte tematiche. Ad esempio, i rifugiati, la violenza domestica e gli abusi, le vittime migranti provenienti da diversi paesi. Abbiamo scoperto un grande fenomeno di traffico in Giappone. È in crescita lo sfruttamento in ambito lavorativo. Sfruttamento sessuale, specialmente per le donne migranti, in particolare dalle Filippine. Anche per questo abbiamo deciso di organizzare una rete Talitha Kum a livello giapponese.

Quindi, inizialmente ci siamo concentrate a fare rete con i paesi di provenienza delle migranti e con il Giappone, che è la principale destinazione migratoria dell’area. Quindi “fare rete” è stato molto importante per noi. Ad esempio, ci siamo connesse con alcune sorelle nelle Filippine, per affrontare insieme il traffico di persone tra quel paese e il Giappone. Lo stesso abbiamo fatto per un canale di traffico dalla Cambogia e dalla Thailandia. Grazie a Talitha Kum è stato più facile per noi metterci in rete e collaborare».

Ci può fare qualche esempio concreto di intervento?

«Avevamo alcune vittime delle Filippine, che è il paese principale di origine del traffico. Il collegamento tra le sorelle nelle Filippine e noi in Giappone ci ha permesso di identificare le vittime e intervenire. Abbiamo verificato chi erano quelle persone, e di cosa avevano bisogno. Siamo state in grado di isolare i trafficanti, e siamo riuscite ad aiutare quelle donne a tornare nelle Filippine con dignità. Erano state ingannate, con la promessa di arrivare in Giappone e avere un lavoro dignitoso, invece sono state sfruttate, sono state messe a lavorare molte ore al giorno, per di più sottopagate. È successo lo stesso anche con delle vietnamite che erano state portate in Giappone con la promessa di un lavoro in una fabbrica della carta, ma in realtà erano state messe in un’industria della pesca, a lavorare con orari eccessivi e paga ridotta. Sono state abusate fisicamente, verbalmente e sfruttate».

Come arrivano i casi di violazioni da voi?

«Molte volte veniamo a conoscenza delle violazioni solo quando sono già in corso. I casi arrivano in modo spontaneo. I nostri gruppi vengono a conoscenza dei casi, oppure le denunce arrivano attraverso una linea telefonica dedicata, o i social media e il sito web. Ma anche le parrocchie, oppure altre Ong con le quali siamo in rete, ci avvisano o mandano i casi. Una volta ricevute le segnalazioni, cerchiamo di prenderci cura delle vittime. Anche per la protezione, offriamo dei luoghi dove stare, assistenza di vario tipo, a seconda dei bisogni della persona, e cerchiamo di fare un accompagnamento psicologico, giuridico o altro a seconda dei bisogni.

Lo stesso metodo lo usiamo in tutti i continenti, declinato nella realtà di ogni paese. La cosa fondamentale è il networking (fare rete, ndr).

Ad esempio, se in un paese c’è una donna immigrata che ha bisogno di supporto psicologico o di protezione, e qualcuno riceve il suo caso (una parrocchia, una Ong, ecc), contatta noi del coordinamento internazionale. Noi ci connettiamo alla nostra rete presente in quel paese per capire chi può appoggiare la donna.

In un altro caso, in Asia, abbiamo ricevuto una segnalazione, ma Talitha Kum non riusciva a intervenire da sola, allora ci siamo connessi con altre organizzazioni che lavorano sul tema della tratta.

Ma oggi puntiamo alla prevenzione, ovvero fare in modo che non succeda che i migranti si trovino in difficoltà e diventino vittime».

 

E per la prevenzione cosa fate?

«Lavoriamo a livello locale per dare informazioni e facciamo campagne di sensibilizzazione, orientate a una migrazione “in sicurezza”.

Intendiamo fornire informazioni di base a chi vuole migrare: ad esempio, quando si arriva in un paese, non è bene dare il proprio passaporto a qualcuno o, quando si firma un contratto, occorre essere sicuri di quello che c’è scritto. Cerchiamo di offrire un’introduzione di base alla lingua, perché per le migranti può essere molto difficile. Spesso non capiscono quello che stanno firmando. Talvolta riusciamo a tradurre i contratti nella loro lingua. Nei paesi di destinazione cerchiamo di connetterle con qualche organizzazione di base o rete, magari cattolica, che possa aiutarle al loro arrivo.

Ma non è facile: per molte di loro non abbiamo informazioni, possiamo averle forse per il 20%».

Che lavoro fate con le vittime?

«Le sopravvissute, che non sono più vittime, le supportiamo in modo da fare loro rielaborare il trauma, poi le accompagniamo cercando di integrarle nella società o nella comunità. Non è facile, ma le seguiamo almeno finché non siano completamente recuperate.

Ci sono molti modi: con interventi psicosociali, aiutandole ad avere una vita sostenibile, facendo loro formazione, e aiutandole nel recupero. Abbiamo casi di successo e altri di fallimento. Cerchiamo di integrarle e renderle indipendenti, ma non sempre ci riusciamo.

Qualche partner ci aiuta a lavorare con i giovani, per metterli in guardia, sensibilizzarli, ovvero fare prevenzione con loro.

Se una sopravvissuta vuole tornare al suo paese, noi collaboriamo con agenzie internazionali, o con il governo, per il rimpatrio. Ma prima ci accertiamo che chi torna nel proprio paese lo faccia in condizioni di sicurezza. Questo cerchiamo di farlo anche attraverso le nostre reti».

Nel 2019 avete realizzato l’assemblea generale dei primi dieci anni di Talitha Kum. Che cosa avete deciso?

«Sono state definite tre priorità sulle quali focalizzarci per rafforzarci nel periodo 2020-25: educazione e prevenzione, collaborazione con le sopravvissute e advocacy (campagne d’influenza rivolte all’opinione pubblica, ndr). Inoltre si sono definiti come prioritari i continenti Africa e Asia.

Stiamo operando per integrare e rinforzare la nostra comunicazione, per migliorare la prevenzione, e siamo forti nella formazione. Da tre anni, facciamo una formazione a 33 dei nostri leader, sui programmi di Talitha Kum. Facciamo pure formazione a livello locale, e più comunicazione, perché questa può aiutare per la sopravvivenza della vittima. Usiamo le piattaforme social media.

Inoltre, abbiamo iniziato ad avvalerci dell’aiuto di giovani, che chiamiamo “giovani ambasciatori”.

È un programma nato inizialmente in Asia. Si tratta di un gruppo di giovani, ai quali facciamo dei training, in modo che poi ci aiutino nella formazione e sensibilizzazione tra pari. Sono attivi nelle campagne di comunicazione, in particolare attraverso i social. Siamo al secondo anno, con altre 30 persone in differenti continenti. In Africa abbiamo iniziato in Kenya e Sud Sudan, e in Medio Oriente in Giordania. È un’attività che stiamo cercando di far crescere.

Produciamo poi degli strumenti per i nostri collaboratori nelle reti, documenti per fare advocay sulle questioni legate alle migrazioni, sull’economia, perché è questo uno dei fattori che fa aumentare il traffico, ovvero il neoliberismo, e anche sulla violenza di genere».

Cos’è la vostra «call to action»?

«Nel novembre 2021, nel settore dell’advocacy, abbiamo realizzato una “call to action”: è un documento utile per guidarci, ma anche da fornire ai nostri partner affinché siano più coscienti di cosa sta succedendo, e su cosa vogliamo lavorare e in che modo. Come ad esempio l’empowerment delle donne e delle ragazze, lo studio dei percorsi di migrazione, ecc. Il tutto per essere più efficienti».

Nell’ultimo rapporto, uscito a giugno 2022, ripotate che il 24% delle reti collaborano con altre religioni.

«Ci sono alcune reti interreligiose, stiamo cercando di collaborare con gruppi di base di altre fedi, in Asia, Medio Oriente, per crescere ancora di più sul nostro fare rete».

Marco Bello

Rilanciare la rete a 13 anni dalla sua creazione

Rafforzare e comunicare

Nel 2019, a dieci anni dalla sua fondazione, un’assemblea generale della rete traccia un bilancio del trascorso e delinea le priorità future. Da allora le forze di Talitha Kum si impegnano per consolidare il proprio operato e migliorarne l’impatto nella lotta contro la tratta.

Talitha Kum è stata fondata nel 2009 per massimizzare le risorse a disposizione delle suore che operano nella lotta contro la tratta di persone. Fin dall’inizio, Talitha Kum International è stata particolarmente attiva nel promuovere il lavoro in rete, la formazione e la comunicazione tra le religiose, collaboratori e amici che si impegnano a prevenire la tratta e a sostenere le vittime, le sopravvissute e le persone a rischio. Nel 2019, durante l’ultima assemblea generale, Talitha Kum ha stabilito nuove priorità interne per far crescere e rafforzare la rete e migliorare il suo impatto per il periodo 2020-2025. Queste priorità sono: educazione e prevenzione, la collaborazione delle sopravvissute e l’advocacy, con aree prioritarie in Africa e Asia.

Rafforzare le reti

Nel 2021 ci siamo impegnate nel promuovere la cooperazione tra le congregazioni religiose – rafforzando le reti di Talitha Kum in connessione con le Conferenze nazionali dei superiori maggiori e le organizzazioni religiose – e nell’implementare la politica della Uisg di protezione dei bambini e delle persone vulnerabili. Questo ha portato alla creazione di nuove reti di Talitha Kum, all’arrivo di nuovi membri e collaboratori e al rafforzamento delle azioni di assistenza e protezione delle vittime e dei sopravvissuti della tratta a livello locale e regionale.

La formazione

Nel corso del 2021, Talitha Kum International ha continuato a offrire corsi, workshop e seminari per lo sviluppo delle capacità.

Alcuni esempi sono elencati di seguito.

  • Trentasei membri di Talitha Kum hanno ricevuto una qualifica di leadership attraverso la seconda edizione del nostro corso per leader, coordinato da Talitha Kum, dalla Pontificia università Antonianum e dal Tangaza university college (Nairobi, Kenya).
  • La formazione dei formatori di Talitha Kum ha incluso il tutoraggio di nove sorelle in Asia e tre in Africa.
  • Il corso base di Talitha Kum, dedicato allo sviluppo professionale di coloro che vogliono impegnarsi nella lotta alla tratta e accompagnare i sopravvissuti nel loro reinserimento sociale, ha avuto i seguenti momenti salienti:
  • In Asia, il corso online è stato offerto a 82 religiose in cinque paesi (Bangladesh, Pakistan, Taiwan, Vietnam e Cambogia);
  • In Africa, sono state raggiunte in presenza 116 religiose in otto paesi (Ghana, Nigeria, Burkina Faso, Kenya, Tanzania, Malawi, Sudafrica e Botswana), mentre 16 coordinatrici di Talitha Kum, tra cui nuovi religiosi, hanno richiesto un supporto online per implementare la rete in quattro paesi (Marocco, Tunisia, Mauritania e Algeria).

La comunicazione

La comunicazione è un elemento fondamentale della rete, uno strumento strategico per sensibilizzare e fare emergere il crimine nascosto della tratta di persone attraverso il lavoro delle sorelle di Talitha Kum alla base.

Nel 2021, Talitha Kum ha ampliato la raccolta dei dati dei membri della rete: il 94,5% delle reti li ha aggiornati nel 2021. La raccolta dei dati ci permette di rendere visibili i nostri sforzi, massimizzando la comunicazione e lo scambio di informazioni e buone pratiche. Talitha Kum International ha implementato un piano di comunicazione strategica per facilitare gli scambi interni della rete a diversi livelli. Abbiamo anche progettato un piano di comunicazione esterna per sistematizzare l’uso di diversi canali di social media. Quest’anno abbiamo anche realizzato un nuovo progetto di comunicazione: Journeys of liberation (Percorsi di liberazione) nel quale vengono condivise testimonianze di suore impe- gnate contro la tratta e di sopravvissute alla tratta in diversi contesti e regioni.

Talitha Kum ha anche promosso e sostenuto campagne internazionali contro la tratta. La principale è la Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone: l’8 febbraio 2021, la Giornata si è svolta per la prima volta online e il tema proposto è stato «Un’economia

senza tratta». Nel 2022 si è svolta una maratona di preghiera che ha interessato tutti i continenti ed è durata l’intera giornata. Un’altra data importante è il 30 luglio, la Giornata internazionale delle Nazioni Unite contro la tratta di persone, che abbiamo celebrato attraverso l’organizzazione di una campagna online con il titolo #CareAgainstTrafficking.

L’advocacy

Il 25 novembre 2021, il Comitato di coordinamento internazionale delle suore di Talitha Kum ha presentato la «Call to Action» (si veda articolo pag. 47) durante l’evento di lancio tenutosi a Roma al quale hanno partecipato il segretario di stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ambasciatori presso la Santa Sede e diversi partner che da tempo accompagnano il lavoro della rete.

La Call to Action di Talitha Kum è il primo documento di advocacy ratificato e approvato dal consiglio esecutivo dell’Unione internazionale dei superiori generali.

Questa Call to Action si rivolge agli attori della governance globale, compresi gli stati, le organizzazioni internazionali, gli attori non governativi come i gruppi della società civile, le organizzazioni del settore privato e le istituzioni accademiche, e a tutti coloro che hanno un ruolo da svolgere nell’instancabile sforzo di sradicare la tratta di persone e lo sfruttamento. Il documento si rivolge anche alle suore, alla Chiesa cattolica, ai leader di altre tradizioni religiose o spirituali, ai non credenti, ai collaboratori, agli amici e a tutte le persone di buona volontà che condividono la nostra visione di un mondo libero dalla tratta di persone e dallo sfruttamento. Un altro documento importante nell’ambito dell’advocacy è stato il «pacchetto di Talitha Kum 3 per lo studio, la preghiera e l’azione: donne e tratta di esseri umani», che rientra nella prima priorità individuata all’Assemblea generale di Talitha Kum del 2019. Questo documento continua ad approfondire e denunciare le cause della tratta di esseri umani.

Coinvolgere le sopravvissute

Nel corso del 2021, abbiamo assistito a un aumento del coinvolgimento delle sopravvissute nelle attività e nella vita di Talitha Kum: 24 reti di Talitha Kum (44%) hanno dichiarato di collaborare con i sopravvissuti (sei reti in più nel 2021). Le sopravvissute sono particolarmente impegnate nelle attività di prevenzione e nella realizzazione di progetti di empowerment per le vittime e i sopravvissuti. Nel settembre 2021, Talitha Kum International ha accolto nel suo team di Roma una sopravvissuta e giovane ambasciatrice anti tratta.

rete Talitha Kum

Le principali aree di azione

La cura e la giustizia

La lotta alla tratta si sviluppa secondo diverse direttrici. La prevenzione è fondamentale, ma poi c’è la cura delle vittime,
e l’appoggio alle stesse per un accesso alla giustizia. Tutto sempre in un lavoro di collegamento tra i molti attori radicati sul territorio.

Le reti hanno realizzato programmi educativi e formativi a medio e lungo termine nelle scuole e nelle comunità locali e hanno accompagnato e sostenuto, in modi diversi, gruppi considerati a rischio di tratta, ad esempio le donne delle comunità rurali in Asia, le donne in contesti di prostituzione in America Latina, i giovani migranti in Africa e le famiglie nelle zone di conflitto in Medio Oriente. Nel contesto delle restrizioni imposte dal Covid-19, le reti hanno adattato nuove strategie di prevenzione, soprattutto attraverso l’uso della tecnologia (ad esempio, consulenza online per i lavoratori migranti e implementazione della linea telefonica diretta per la segnalazione dei casi). Le attività di prevenzione sono state caratterizzate dall’uso dei media tradizionali (soprattutto la radio), dei social media per la promozione di varie campagne di sensibilizzazione e informazione, e dalla creazione di materiali digitali per la prevenzione online. I principali beneficiari in questo ambito sono le comunità ecclesiali, la vita consacrata, i migranti per lavoro, le famiglie in aree di conflitto, le donne, gli studenti e i giovani.

L’aumento del numero di persone beneficiate nell’area della prevenzione è notevole. Sono stati raggiunti 258.549 individui, il 47% in più rispetto al 2020. Questo dato corrisponde probabilmente all’aumento dell’uso dell’internet e delle tecnologie durante il lockdown, permettendo alle reti di raggiungere nuovi spazi per la prevenzione e la formazione.

Come operano le reti

Le reti di Talitha Kum coordinano attività di prevenzione a livello locale e internazionale. Ciascuna rete nazionale o regionale adatta il suo approccio al contesto locale, ma tutte si concentrano su tre aree principali: la sensibilizzazione, la formazione e le campagne di informazione. Queste iniziative sensibilizzano il pubblico sulla realtà della tratta, condividendo informazioni e buone pratiche. Contribuiscono a dare maggiori strumenti ai leader delle comunità, il cui ruolo è fondamentale per identificare possibili casi di tratta. Inoltre favoriscono la formazione di reti, che rinforzano la consapevolezza e motivano l’azione e il lavoro di prevenzione con gruppi a rischio. Fanno parte di queste iniziative le attività di sensibilizzazione mirate a gruppi specifici, come coloro che vivono situazioni di vulnerabilità al fine di identificare potenziali vittime di tratta, fornendo ai singoli gli strumenti e le informazioni necessari per proteggersi.

Il sostegno ai sopravvissuti, alle loro famiglie e comunità ha l’obiettivo è impedire che le vittime, una volta messe in salvo o liberate, cadano nella disperazione, si sentano in colpa o indifese.

I sopravvissuti vengono accompagnati durante l’intero percorso di cura e vengono aiutati a prendere decisioni salutari per vivere con dignità e acquisire autonomia per la realizzazione della propria vita.

Per prevenire la tratta di persone, Talitha Kum individua quei sistemi politici, culturali ed economici che consentono lo sviluppo della tratta e si impegna per dei cambiamenti efficaci e sostenibili. La rete chiede politiche e leggi che prevengano queste attività criminali, aiutino i sopravvissuti e favoriscano processi penali contro i trafficanti. Inoltre, insieme ai nostri collaboratori, continuiamo a impegnarci affinché queste leggi vengano emanate e messe in pratica a livello locale e nazionale.

Talitha Kum è convinta che una società libera dalla tratta di persone e da ogni forma di sfruttamento è possibile. Promuovere azioni che trasformano idee e comportamenti, è fondamentale per raggiungere questo obiettivo.

Cura delle vittime

Le reti hanno fornito sostegno materiale ed economico a vittime e sopravvissute, principalmente attraverso strutture di accoglienza. Hanno accompagnato nel sostegno psicosociale e materiale sopravvissute alla tratta di persone fino al loro ritorno nel paese d’origine, hanno offerto cure mediche, corsi di studio, sostegno spirituale e psicologico e assistenza legale e burocratica alle vittime.

Inoltre, hanno realizzato diversi programmi di formazione tecnica per il reinserimento sociale e professionale delle sopravvissute alla tratta e hanno svolto azioni di advocacy collaborando con le istituzioni governative e intergovernative per garantire i diritti dei lavoratori migranti, delle donne, delle ragazze e dei ragazzi.

Le vittime, le sopravvissute e le persone a rischio accompagnate da Talitha Kum nel 2021 sono state 13.404, registrando una diminuzione del 18% rispetto all’anno precedente. Questo dato potrebbe essere legato alle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, che ha influito sul sistema delle case di accoglienza in molte parti del mondo. Un’altra possibile spiegazione è legata all’aumento dei servizi forniti a sopravvissuti e vittime per l’accesso alla giustizia.

Accesso alla giustizia

Le principali attività nel settore della giustizia comprendono l’accompagnamento delle vittime nel denunciare. Alcune reti hanno fornito strumenti per la segnalazione di casi di tratta o sfruttamento lavorativo (linea telefonica e consulenza online). Le reti hanno segnalato alle autorità competenti casi di violenza, sfruttamento o potenziali casi di tratta, individuati nelle scuole e tra i lavoratori migranti.

Un’altra azione importante in questo ambito è stata il sostegno alle vittime durante il processo giudiziario fino al risarcimento dei danni.

Il numero di persone che nel 2021 hanno beneficiato del supporto delle reti per l’accesso alla giustizia è stato di 6.589, ovvero l’82% in più rispetto al 2020. La crescita dei servizi forniti dalle reti di Talitha Kum per l’accesso alla giustizia è in costante aumento dal 2019. Questo può derivare da una maggior capacità delle reti di Talitha Kum di differenziare la raccolta dei dati relativi ai servizi forniti a sopravvissuti e vittime o la reale crescita della loro capacità nell’accompagnare le vittime e i sopravvissuti ad accedere alla giustizia.

rete Talitha Kum

L’appello ai governanti (ma non solo)

Chiamata all’azione

Il 25 novembre del 2021 Talitha Kum decide di lanciare un appello, una chiamata a tutte e tutti alla responsabilità e all’impegno. Perché occorre unire le forze per farla finita con il traffico di persone. Per passare dall’economia della tratta all’economia della cura.

La Call to action (chiamata all’azione) di Talitha Kum è rivolta alle suore, alla Chiesa cattolica, ai leader di altre tradizioni religiose o spirituali, ai non credenti, ai collaboratori, agli amici e a tutte le persone di buona volontà che condividono la nostra visione di un mondo libero dalla tratta di persone e dallo sfruttamento. In particolare, questa chiamata all’azione vuole raggiungere i protagonisti della governance globale, compresi gli stati, le organizzazioni internazionali, i protagonisti non statali come i gruppi della società civile, le organizzazioni del settore privato e le istituzioni accademiche, e tutti coloro che hanno un compito da svolgere nello sforzo instancabile verso l’eliminazione della tratta di persone e dello sfruttamento.

Attingendo alle intuizioni delle reti e dei membri di Talitha Kum che lavorano sul campo come anche alla dichiarazione del 27 settembre 2019 che segna il decimo anniversario di Talitha Kum, questa chiamata all’azione è modellata intorno a quattro obiettivi principali: curare le vittime della tratta e dello sfruttamento umano e le persone a rischio; guarire le ferite fisiche, psicosociali e spirituali; empower (rafforzare, dare consapevolezza, ndr) le vittime e i sopravvissuti, così come le persone a rischio, amplificando le loro voci; rigenerare la dignità umana promuovendo l’accesso alla giustizia.

Al fine di raggiungere questi obiettivi, Talitha Kum desidera invitare le parti interessate a unire le forze nelle seguenti aree di impegno, che hanno un impatto particolare a livello di individui, comunità e sistemi.

Giustizia e assistenza

Garantire l’accesso alla giustizia e all’assistenza psicosociale e sanitaria a lungo termine, sostenuta dallo stato, nonché a permessi di lavoro e di soggiorno per le vittime nei paesi di destinazione.

«Le vittime sono le prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società». «Tutta la società è chiamata a crescere in questa consapevolezza, soprattutto per quanto riguarda la legislazione nazionale e internazionale, al fine di poter garantire che i trafficanti siano assicurati alla giustizia e i loro guadagni ingiusti reindirizzati per la riabilitazione delle vittime», papa Francesco.

Inoltre, ci ricorda suor Gabriella Bottani: «Essere riconosciuti come vittime è un lavoro duro. Quando si assistono le vittime nell’affrontare le procedure legali burocratiche, le suore si trovano di solito di fronte alla fatica di dimostrare che le persone trafficate non sono colpevoli di reati, come la violazione delle leggi sull’immigrazione, sul lavoro, sulla famiglia o altre disposizioni del codice penale. Inoltre, le vittime di solito devono dimostrare che, in quanto vittime di tratta, non hanno acconsentito al loro sfruttamento, cosa che spesso può essere impegnativa». Talitha Kum crede che le vittime debbano essere trattate con compassione, oltre che con pieno rispetto e riconoscimento della loro dignità.

A tal fine, la rete si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per: la fornitura di servizi legali supportati dallo stato alle vittime della tratta, con misure appropriate per garantire la loro sicurezza e quella di chi le assiste; l’applicazione della clausola di non punibilità alle vittime presunte e di fatto per i reati commessi come conseguenza o nel corso della tratta; l’accesso a un’assistenza psicosociale e sanitaria efficace, a lungo termine, sostenuta dallo stato, come anche permessi e opportunità di residenza e di lavoro, fondamentali per le vittime per riacquistare autostima e fiducia evitando così una nuova vittimizzazione; strategie investigative e processuali incentrate sul trafficante, anche in ambienti difficili come il web e i social media; la promozione di forme ben calibrate di giustizia procedurale, riparativa e di transizione che garantiscano il processo di guarigione delle vittime e dei sopravvissuti.

L’empowering di donne e bambine, così come delle loro famiglie e comunità

Talitha Kum è determinata a contrastare il divario di potere tra uomini e donne in tutti i settori – economico, sociale, familiare, politico, culturale e religioso – come fattore chiave che contribuisce all’oggettivazione e denigrazione delle donne e alla conseguente cultura della violenza, di cui un’espressione atroce è la tratta di persone per lo sfruttamento sessuale, lo sfruttamento lavorativo e altre forme di sfruttamento.

A tal fine Talitha Kum si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per migliorare la consapevolezza e promuovere azioni per eliminare gli squilibri di potere di genere, tenendo conto delle intersezioni tra il genere e altre categorie sociali come l’origine etnica, lo status sociale e la disabilità, e gli effetti cumulativi prodotti da molteplici forme di discriminazione. Garantire la parità di accesso a un’istruzione di qualità, alla formazione professionale e alle opportunità di lavoro per le ragazze e le donne, in particolare per le sopravvissute alla tratta di persone e per quelle a rischio di essere trafficate. Infine, garantire pari diritti al lavoro per le donne, in particolare in settori a predominanza femminile e più inclini allo sfruttamento, come il lavoro domestico e di cura, l’agricoltura, la lavorazione e il confezionamento degli alimenti, il turismo e l’ospitalità.

 

Sostenere percorsi di migrazione sicuri e legali

Talitha Kum riconosce che i percorsi di migrazione legale si sono ridotti a livello globale, anche nei casi di migrazione forzata, riducendo la possibilità di viaggiare attraverso canali sicuri. Agli individui che fuggono da conflitti prolungati, povertà, instabilità, disastri, mancanza di opportunità socioeconomiche, violazioni dei diritti umani e da altre situazioni, viene sempre più impedito lo spostamento al di fuori del proprio paese per accedere a opportunità di sicurezza e sviluppo umano. Questo approccio – spesso accompagnato da una retorica politica che fomenta l’odio, il razzismo e la xenofobia – ostacola la sicurezza, la dignità, i diritti umani e le libertà fondamentali di migranti, richiedenti asilo e rifugia- ti, comprese le vittime della tratta di persone e altri gruppi vulnerabili.

Per promuovere percorsi migratori efficaci e legali, Talitha Kum si rivolge in particolare agli attori della governance mondiale per: l’individua-

zione precoce delle situazioni di sfruttamento subite dai migranti, compresi i richiedenti asilo, i rifugiati e gli sfollati; la promozione di attività di sensibilizzazione rivolte a presentare i rischi di abuso, violenza e sfruttamento lungo i percorsi migratori e nei paesi di destinazione; la creazione di percorsi migratori sicuri e legali, con particolare attenzione alle donne e alle bambine, anche in situazioni di migrazione forzata; l’assunzione e il trattamento equo dei lavoratori migranti nel mercato del lavoro, indipendentemen- te dal loro status giuridico, con particolare attenzione alle donne e alle ragazze.

Così facendo, Talitha Kum sostiene l’invito di papa Francesco ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare migranti, rifugiati e sfollati, per evitare che cadano nelle mani dei trafficanti di esseri umani.

Promuovere un’economia della cura e della solidarietà

Talitha Kum aderisce al messaggio di papa Francesco per la 7° Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone (8 febbraio 2021): «Un’economia senza tratta è un’economia di cura. La cura può essere intesa come prendersi cura delle persone e della natura, offrendo prodotti e servizi per la crescita del bene comune. Un’economia che ha cura del lavoro, creando opportunità di impiego che non sfruttano il lavoratore per condizioni di lavoro degradanti e orari estenuanti».

Così facendo, Talitha Kum riconosce che le crescenti disparità socioeconomiche forniscono un terreno fertile per il fiorire della tratta di persone, e si impegna per una trasformazione, sistemica e a lungo termine, da un’economia della tratta a un’economia della cura e della solidarietà. Quest’ultima deve anche favorire uno sviluppo sostenibile e integrale, alla luce della crisi ambientale che colpisce la nostra casa comune, la Terra.

Pertanto, la rete si rivolge in particolare ai governanti mondiali per: modelli di business e di consumo etici e responsabili che siano basati su catene globali del valore non legate alla tratta di persone e allo sfruttamento e che promuovano la dignità umana e la sostenibilità ambientale, comprese iniziative volte a contrastare il cambiamento climatico; l’integrazione e l’inclusione socioeconomica dei sopravvissuti alla tratta di persone e degli individui a rischio.

rete Talitha Kum

I numeri della rete

Nonostante le sfide della pandemia di Covid-19, nel 2021 le reti di Talitha Kum sono cresciute, mostrando maggiore capacità di coordinamento a diversi livelli.

Nel 2021 Talitha Kum era presente in 92 paesi, organizzata in 55 reti nazionali, 9 comitati di coordinamento regionali e 3 continentali, sostenendo attivamente vittime, sopravvissuti e persone a rischio. Nell’anno sono state create cinque nuove reti: in Africa (Zambia), in
America Latina (Ecuador), in Asia (Bangladesh e Vietnam) e in Medio Oriente – collegato all’Africa – (Egitto). Il numero di paesi in cui
Talitha Kum è presente è aumentato di tre unità rispetto al 2020.

Il numero assoluto di suddivisioni (sotto reti) delle reti nazionali riportato nel 2021 è aumentato del 15% rispetto all’anno precedente. Dal 2019, il numero di suddivisioni è stato stabile e costante, questo dato dimostra la capacità delle reti Talitha Kum di creare suddivisioni e gruppi di lavoro decentrati.

Il 2021 mostra una crescita del numero totale di membri e collaboratori, confermando la tendenza dell’anno precedente. Con un aumento del 72% rispetto al 2020, le reti Talitha Kum dimostrano la loro capacità di coinvolgere personale volontario e collaboratori laici. Il volontariato è una caratteristica fondamentale delle reti Talitha Kum e rappresenta il 94% dei collaboratori.

Un altro dato importante di crescita riguarda il coinvolgimento dei sopravvissuti e delle loro famiglie nelle azioni.

Nel 2021, 24 reti hanno segnalato la partecipazione di sopravvissuti nelle diverse azioni, evidenziando una crescita del 7% rispetto ai numeri del 2020. Questo dato conferma l’impegno delle reti nell’implementare le priorità comuni identificate dall’Assemblea del 2019. I sopravvissuti si sono coinvolti in particolare nelle attività di prevenzione e assistenza alle vittime.

La partecipazione e il coinvolgimento delle congregazioni religiose all’interno delle reti Talitha Kum nel 2021 sono diminuiti del 5%. Questo processo è iniziato nel 2020, come possibile conseguenza dell’impatto della pandemia del Covid-19. Il tasso di congregazioni religiose maschili coinvolte in Talitha Kum rispetto al 2020 mostra la riduzione di un punto percentuale, rappresentando nel 2021 l’8% del totale delle congregazioni religiose coinvolte.

Nel 2021 sono state inoltre raccolte informazioni per mappare la capacità di collaborazione interreligiosa delle reti di Talitha Kum. Tredici reti, pari al 24% del totale, hanno dichiarato di aver avuto collaborazione interreligiosa, in particolare in Asia e in Africa.

rete Talitha Kum

Camminare per la dignità

Talitha Kum ha lanciato la «IX giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone» con tema «Camminare per la dignità». Un invito a camminare con le popolazioni migranti, come pellegrine e pellegrini della dignità umana.

L’8 febbraio 2023 si terrà un «Pellegrinaggio online», una maratona di preghiera sul web alla quale parteciperanno tutte le reti antitratta del mondo, diverse organizzazioni e partner. Uno spazio mondiale per pregare insieme contro la tratta e riflettere su questo fenomeno.

Per saperne di più:


 

Hanno firmato il dossier:

Talitha kum
Diversi testi di questo dossier sono tratti dall’ultimo rapporto di Talitha Kum, presentato a giugno 2022 e riferito a dati e attività del 2021.

Marco Bello
Giornalista redazione MC che ha curato il dossier

Archivio MC sulla tratta:

Si ringraziano:
Anna Pozzi, Stefano dal Pozzolo e sr Mayra  Cuellar per le foto fornite per questo dossier.

 




La guerra dei sonnambuli


Nel tempo del pericolo nucleare, i decisori politici e l’opinione pubblica sono prigionieri della logica binaria che non vede alternative alla violenza per rispondere alla violenza (e «vincere»). È necessario rimettere al centro i principi e i saperi della resistenza nonviolenta. Prima che sia tardi.

Di questi tempi bisognerebbe rileggere il libro I sonnambuli dello storico Christopher Clark che descrive tutti coloro che avevano le leve del potere e dell’informazione nel 1914 come sonnambuli, apparentemente vigili, ma incapaci, in realtà, di rendersi conto che stavano conducendo il mondo nel baratro di quella «grande guerra» che papa Benedetto XV avrebbe definito «l’inutile strage».

A giudicare dalle scelte fatte e reiterate dai governi rispetto alla guerra in Ucraina, e dalle posizioni veicolate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione, un’analoga epidemia di sonnambulismo sembra contagiare anche i decisori e i media di oggi.

Essi, infatti, fanno scelte ed esprimono posizioni non all’altezza dei tempi che attraversiamo, perché prive di consapevolezza della «situazione atomica» nella quale siamo immersi.

Siamo come gli «utopisti al rovescio» de Le tesi sull’età atomica del filosofo Gunter Anders: «Mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto». Siamo incapaci di superare la distanza che separa la capacità distruttiva delle armi nucleari da quella di generare pensieri, discorsi e azioni consapevoli e responsabili. Soprattutto in questo varco critico della storia, nel quale la minaccia atomica viene brandita come mai prima.

Photo by Thomas Gaulkin/Bulletin of the Atomic Scientists.

100 secondi alla mezzanotte

Se questa definizione di Anders del 1960 era vera allora, quando la coscienza del pericolo atomico era diffusa, è incomparabilmente più vera oggi, quando si è persa la memoria del trauma di Hiroshima e Nagasaki: se nel 1960 le lancette dell’«orologio dell’apocalisse», l’orologio simbolico ideato dal «Bollettino degli scienziati atomici» per misurare quanto siamo vicini all’olocausto nucleare, erano posizionate a 7 minuti dalla mezzanotte (la fine del mondo), oggi sono a soli 100 secondi.

Questa dimenticanza dell’olocausto atomico la spiega bene lo storico Daniel Immerwahr su «The Guardian», riportato da «Internazionale» del 21-27 ottobre 2022: «Con il passare del tempo i traumi svaniscono, per nostra fortuna. Vogliamo che la bomba atomica sia proprio questo: un fatto arcaico definitivamente relegato nel passato. Ma non raggiungeremo questo obiettivo ignorando la possibilità della guerra nucleare. Dobbiamo smantellare gli arsenali, rafforzare i trattati e consolidare le norme contro la proliferazione. In questo momento stiamo facendo il contrario. La nostra coscienza nucleare si è atrofizzata. Ci rimane un mondo pieno di armi atomiche che però si sta svuotando delle persone consapevoli delle possibili conseguenze».

Benzina invece di pompieri

Questo svuotamento di consapevolezza sembra attraversare il dibattito pubblico e le scelte politiche fin dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina conducendo tutti a irreggimentarsi nella logica binaria – pace/vittoria; resistenza/resa – che ha militarizzato il pensiero e la discussione, alimentando «l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia», come ha scritto la politologa Nadia Urbinati su «Domani» già il 5 marzo 2022.

Il sostegno armato alla legittima difesa degli ucraini è così diventato, immediatamente, il solo mezzo e l’unica via alla «pace». Altre possibilità di uscita dalla guerra sono state escluse. L’unica opzione è rimasta quella di mandare sempre più armi per raggiungere la «vittoria» (impossibile in un contesto di permanente minaccia atomica).

Abbiamo così visto all’opera, ancora una volta, il riflesso pavloviano, automatico, del rispondere alla guerra con la guerra, e di gettare benzina sul fuoco invece di inviare «pompieri» per spegnerlo e dipanare la matassa del conflitto in favore di una soluzione sostenibile e duratura. In un avvitamento progressivo verso l’escalation che ha riportato all’ordine del giorno anche il possibile uso di armi nucleari.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Ripartire dal dialogo

Tutto questo ha impedito ai singoli governi europei e all’Ue nel suo insieme di assumere una posizione di «neutralità attiva» – come ha chiesto fin da subito la Rete italiana pace e disarmo – che non è equidistanza tra aggressore e aggredito, ma la postura che forse le avrebbe consentito di ricoprire il ruolo di soggetto pacificatore nel contesto di un conflitto che non è scoppiato un anno fa, ma già nel 2014.

Una colpevole rinuncia, questa dell’Ue, che lascia il ruolo di mediatore all’autocrate Erdogan.

Chi, invece, si è tenuto vigile e lungimirante nella ricerca di una mediazione, è stato papa Francesco, con i suoi ripetuti appelli alla pace e al disarmo, sui quali ha condotto anche i principali leader religiosi con la straordinaria Dichiarazione del Colosseo dello scorso 24 ottobre, un testo che – proprio perché ignorato da media e governi – merita di essere ampiamente citato.

«Con ferma convinzione diciamo: basta con la guerra! Fermiamo ogni conflitto. La guerra porta solo morte e distruzione, è un’avventura senza ritorno nella quale siamo tutti perdenti. Tacciano le armi, si dichiari subito un cessate il fuoco universale. Si attivino presto, prima che sia troppo tardi, negoziati capaci di condurre a soluzioni giuste per una pace stabile e duratura. Siamo di fronte a un bivio: essere la generazione che lascia morire il pianeta e l’umanità, che accumula e commercia armi, nell’illusione di salvarsi da soli contro gli altri, o invece la generazione che crea nuovi modi di vivere insieme, non investe sulle armi, abolisce la guerra come strumento di soluzione dei conflitti e ferma lo sfruttamento abnorme delle risorse del pianeta. L’umanità deve porre fine alle guerre o sarà una guerra a mettere fine all’umanità. Il mondo, la nostra casa comune, è unico e non appartiene a noi, ma alle future generazioni. Pertanto, liberiamolo dall’incubo nucleare. Riapriamo subito un dialogo serio sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche. Ripartiamo insieme dal dialogo che è medicina efficace per la riconciliazione dei popoli. Investiamo su ogni via di dialogo. La pace è sempre possibile! Mai più la guerra! Mai più gli uni contro gli altri!».

Mezzi coerenti con i fini

Per trovare, dunque, una via di uscita dalla guerra che non sia catastrofica per tutti – a cominciare dal popolo ucraino -, occorre recuperare un principio fondamentale e alcuni saperi dell’agire politico. Il principio è quello teorizzato già da Max Weber alla fine della Prima guerra mondiale: l’etica della responsabilità che, al contrario dell’etica delle intenzioni, cerca di prevedere le conseguenze dell’agire. Essa indica il rischio che un obiettivo buono possa essere realizzato producendo «effetti collaterali» negativi. Suggerisce, quindi, di mettere in campo mezzi coerenti con i fini da raggiungere. In altre parole: il fine non giustifica i mezzi.

Nel nostro tempo il «Principio responsabilità», riformulato da Hans Jonas come «etica per la civiltà tecnologica», prescrive di agire «in modo che le conseguenze dell’azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra». È il principio espresso anche nel Manifesto Einstein-Russell del luglio 1955: «Dobbiamo imparare a pensare in modo nuovo. Dobbiamo imparare a domandarci non già quali misure adottare affinché il gruppo che preferiamo possa conseguire una vittoria militare, poiché tali misure ormai non sono più contemplabili; la domanda che dobbiamo porci è: quali misure occorre adottare per impedire un conflitto armato il cui esito sarebbe catastrofico per tutti?».

(Photo by Tiziana FABI / AFP)

La nonviolenza

Per fare in modo che il «principio responsabilità» sia applicato nei conflitti, però, non basta enunciarlo, occorre mettere in campo i saperi conseguenti della nonviolenza, fondati esattamente sulla coerenza tra i mezzi e i fini dell’agire. Si tratta, per esempio, dei saperi della mediazione che forniscono la consapevolezza che nei conflitti degenerati in violenza e lasciati a se stessi (o, peggio, alimentati da istigatori come l’industria bellica che vince tutte le guerre), a ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo che arriva alla potenziale distruzione dell’altro, o di entrambi, se non intervengono soggetti terzi a mediare.

Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che «occhio per occhio, il mondo diventa cieco».

Inoltre nella vulgata binaria che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di efficaci lotte nonviolente e resistenze disarmate. Essi, anche in Ucraina, soprattutto nel primo periodo di invasione, sono stati praticati dalla popolazione civile, prima di essere superati e oscurati dal massiccio invio di armi.

Sono saperi che non sfuggivano, per esempio, ad Hannah Arendt che ne La banalità del male, faceva un appello (inascoltato) affinché la resistenza disarmata danese all’occupazione nazista fosse studiata in tutte le facoltà di scienze politiche «per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori». La Danimarca, infatti, fu l’unico paese in Europa che, sotto l’occupazione nazista, venne risparmiato da stragi e rappresaglie, e nel quale furono salvati dalla deportazione quasi tutti i cittadini di origine ebraica.

Corpi civili di pace

I movimenti per la pace, da almeno trent’anni – dalla guerra nella ex Jugoslavia -, propongono ai governi, senza essere mai stati presi in considerazione, la costituzione dei Corpi civili europei di pace, e mettono in campo esperienze di interventi di mediazione internazionale di pace nati e gestiti dal basso.

Con un esperimento di storia controfattuale potremmo immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se nelle regioni del Donbass, a partire dal 2014, invece di far arrivare armi e armati a entrambe le parti, fosse stato inviato un Corpo civile di pace internazionale per fare interposizione, mediazione, comunicazione, riconciliazione tra le comunità, secondo la proposta che già nel 1995 Alex Langer aveva avanzato al Parlamento europeo. Langer non fu ascoltato, e nemmeno i movimenti nonviolenti che hanno continuato a proporlo, a progettarlo e, qualche volta, anche a sperimentarlo.

(Photo by Andrea Ronchini, Ronchini / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Obiettori e disertori

Tra i saperi da recuperare e valorizzare, ci sono poi quelli dei disertori e obiettori di coscienza, sia alla guerra di Putin che alla difesa armata dell’Ucraina.

Il movimento degli obiettori di coscienza russi è in crescita: si stima che siano almeno 100mila, come spiega Elena Popova, coordinatrice del Movimento degli obiettori russi: «Sono tanti i giovani che non vogliono partecipare alla guerra, e quelli che sono stati obiettori di coscienza in passato stanno ora aiutando altri a diventare obiettori. Grazie alla loro esperienza, guidano amici e familiari in tutto ciò che è necessario fare per non prendere parte all’esercito».

Anche i pacifisti ucraini – incontrati dalla delegazione della carovana #Stopthewarnow lo scorso ottobre (cfr. MC dic 2022) – rifiutano la logica della guerra a oltranza e chiedono al proprio governo di impegnarsi nei negoziati di pace. Per gli uni e gli altri è attiva la campagna internazionale di protezione e asilo.

Ripudiare la guerra

Nella Costituzione italiana il «principio responsabilità» e i saperi elencati sopra non mancano. A essa i costituenti iniziarono a lavorare poco meno di un anno dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Per questo, nell’articolo 11, non sembrò abbastanza esplicito il verbo «rinunciare» della prima stesura, e scelsero il verbo «ripudiare», che contiene il disprezzo per ciò che si è conosciuto e si vuole allontanare per sempre.

Inoltre, non sembrò sufficiente ripudiare la guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma aggiunsero anche come «mezzo di risoluzione delle controverse internazionali», nella duplice consapevolezza che i conflitti non sono eliminabili e che non si possono risolvere con la guerra. Soprattutto nell’epoca atomica. Per questo bisogna trovare mezzi alternativi alla guerra per affrontarli.

A questo scopo, il secondo comma dell’articolo 11 – che «consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» – fa riferimento alle
Nazioni Unite che erano nate già nell’ottobre del 1945 per «liberare l’umanità dal flagello della guerra» attraverso la risoluzione delle «controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo».

Un’altra difesa possibile

È alla luce di questi principi e saperi che le organizzazioni impegnate per la pace e il disarmo, riunite nel cartello Europe for Peace, hanno organizzato molte iniziative di mobilitazione dal basso: da quella del 5 marzo a quella del 23 luglio, dal 21-23 ottobre alla grande manifestazione del 5 novembre a Roma.

La richiesta ai governi, sempre più pressante, è di cessare il fuoco, indire una Conferenza internazionale di pace, sottoscrivere il Trattato Onu per la messa al bando delle armi nucleari.

Principi e proposte coerenti con la campagna «Un’altra difesa è possibile» che, in Italia, già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento una proposta di legge organica per la creazione di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione.

È necessaria una via d’uscita nonviolenta dalla crisi sistemica globale in corso, che è ecologica, climatica, idrica, energetica, alimentare, pandemica, e che genera continui conflitti per le risorse (circa 170, secondo l’università di Uppsala, Svezia). Oppure, con 13mila testate nucleari puntate sulle teste di tutti, non ne usciremo vivi.

Pasquale Pugliese*

* Filosofo di formazione, ha studiato il pensiero della nonviolenza. Per anni educatore in contesti complessi, oggi si occupa di politiche giovanili. Cura percorsi sulla nonviolenza, ed è formatore per il Servizio civile.
È impegnato nel Movimento Nonviolento e, fino al 2019, nella Segreteria nazionale. Fa parte della redazione di «Azione nonviolenta», rivista fondata nel 1964 da Aldo Capitini.
A Reggio Emilia ha contribuito a fondare e animare la Scuola di Pace.
Sul web, oltre ai suoi profili Facebook, Twitter e Instagram, cura un sito su nonviolenza e disarmo. Inoltre, oltre a collaborare con diverse testate, cura un blog personale sulla rivista vita.it.
Nel 2018 ha pubblicato il volume Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini. Elementi per la liberazione dalla violenza, i cui diritti d’autore vanno al Movimento Nonviolento, e nel 2021 Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca della pandemia, entrambi editi da GoWare.




Velo, pallone e turbante


Tutto è iniziato con la rivolta delle donne contro l’obbligo del velo. Poi, sono arrivati i mondiali di calcio con le proteste (più caute) dei calciatori. Il clero sciita al potere ha risposto con la repressione e la violenza. Basterà per fermare un popolo stanco della dittatura teocratica?

Nella prima partita dei mondiali di calcio in Qatar, quando la nazionale iraniana e la nazionale britannica sono entrate in campo, il primo pensiero è andato a come si sarebbero comportati i giocatori dell’Iran.

A cantare subito l’inno, lunedì 21 novembre, sono stati gli inglesi. Per la prima volta, hanno intonato a un mondiale «God save the king». Quando lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato l’inno iraniano, sono partite le note. Ma, in solidarietà con le proteste, nessuno degli undici calciatori ha cantato i suoi versi:

«Verso l’alto, all’orizzonte, sorge il sole orientale / La luce negli occhi dei credenti nella giustizia / Bahman è lo zenith della nostra fede / Il tuo messaggio, oh Imam, d’indipendenza, libertà / Oh martiri, i vostri clamori risuonano nelle orecchie del tempo / Duratura, continua ed eterna / La Repubblica islamica dell’Iran!»

Di fronte alle bocche cucite dei calciatori, i tifosi iraniani hanno reagito in modo diverso tra loro. Ci sono state donne – con il velo – che non hanno trattenuto la commozione per il gesto dei giocatori, ritenuto coraggioso. Dalla tribuna c’è stato invece chi ha contestato fortemente la scelta della squadra, rivolgendo il dito medio o il pollice in direzione del campo. In realtà, le contestazioni ai calciatori non sarebbero state fatte solo perché essi si sono astenuti dal cantare l’inno, ma anche perché due giorni prima erano stati convocati dal presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi (in carica dal 3 agosto 2021, ndr) e davanti a lui si erano inchinati. L’impressione è stata, quindi, che i giocatori abbiano voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, compiacendo sia le autorità iraniane sia i loro connazionali che rischiano la vita protestando in strada. Per questo motivo, in quella partita, sui social, tanti iraniani e iraniane hanno fatto il tifo per la squadra avversaria. Hanno vinto loro, gli inglesi, e già questo è stato uno smacco perché, da sempre, il Regno Unito interferisce nelle questioni interne all’Iran.

Elnaz Rekabi, campionessa iraniana di arrampicata, ha gareggiato senza velo in segno di protesta contro il regime e di solidarietà con le donne. Foto dal web.

Inglesi e americani

Nel 1953, furono i servizi segreti inglesi, il cosiddetto MI6, a rovesciare il premier Mohammad Mossadeq che stava trasformando l’Iran in una monarchia costituzionale, percorrendo un cammino democratico. Due anni prima il politico iraniano, esponente del Fronte nazionale, aveva osato nazionalizzare il petrolio, fino a quel momento ampiamente sfruttato dagli inglesi, che agli iraniani lasciavano le briciole. Dopo due anni di embargo, con l’industria petrolifera allo stremo, Mossadeq fu rovesciato da un colpo di stato. La Cia si prese il merito di quella operazione, passata alla storia con il nome «Ajax». Come, però, ben racconta il documentario «Coup53» del regista Taghi Amirani, fu in realtà la spia inglese Norman Derbyshire (1924-1993) a fare in modo che lo scià Muhammad Reza Pahlavi potesse tornare sul trono del pavone.

Rimesso al potere dagli occidentali, per contenere il dissenso, lo scià creò la polizia segreta Savak che mise in atto una durissima repressione nei confronti degli oppositori. Seguirono decenni segnati da gravi violazioni dei diritti umani, tollerati dall’Occidente perché lo scià era un loro alleato.

A Doha, Al Thani (a destra), emiro del Qatar, presenta la maglia della sua nazionale di calcio a Ebrahim Raisi, presidente iraniano (21 febbraio 2022). Foto Iranian Presidency – AFP.

Il velo di Masha Amini

Oggi come allora gli iraniani reclamano diritti e libertà. Le proteste di questi mesi sono state innescate dalla morte di Mahsa Amini. Il 13 settembre 2022 la ragazza viene fermata all’uscita della metropolitana a Teheran, dove si trova in vacanza con i genitori prima dell’inizio dell’anno accademico. «Studiava microbiologia, voleva diventare dottore», racconterà il padre alla Bbc. Forse le spunta una ciocca di capelli dal velo. Forse indossa pantaloni troppo stretti, oppure si intravede un pezzo di caviglia. Fatto sta che trasgredisce il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica, imposto con maggiore severità – rispetto al passato – dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento inclemente anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.

Mahsa ha ventidue anni e vive a Saghez, un’area rurale nel Kurdistan iraniano (zona occidentale del paese), dove l’abbigliamento tradizionale non risponde a codici rigorosi. È, quindi, poco avvezza alle retate della Gasht-e Ershad, la «buoncostume» che si sposta con le camionette bianche contraddistinte da una fascia verde orizzontale. Quel 13 settembre è una giornata soleggiata. Quando Mahsa viene presa di mira dalle poliziotte, il fratello minore (di diciassette anni) cerca di proteggerla. Invano. Malmenato, si ritrova con gli abiti stracciati. Le poliziotte caricano Mahsa sulla camionetta e la portano nel centro di riabilitazione, dove le chadorì (in questo caso le filogovernative con il chador nero dalla testa ai piedi) insegnano alle bad-hejabì (le «mal velate») come vestirsi. La ragazza viene picchiata e il giorno stesso entra in coma. Dopo tre giorni, il 16 settembre, muore nell’ospedale Kasra di Teheran. Il decesso viene dapprima imputato a un «arresto cardiaco» e poi definito un «incidente», dovuto a «malattie pregresse» e in particolare alle «conseguenze di un tumore al cervello di cui aveva sofferto quand’era bambina», una patologia che i genitori negheranno. Nel frattempo, la notizia si diffonde sui social media. La televisione di stato manda in onda due brevi video per dimostrare che non ci sarebbe stato contatto fisico tra gli agenti e la ragazza. Nel primo, in quello che, verosimilmente, è un commissariato di polizia, si vedono numerose donne. Una di loro, presentata come Mahsa Amini, si alza per discutere con una poliziotta in merito al proprio abbigliamento, dopodiché sviene. In un altro video, il corpo della giovane viene trasportato verso l’ambulanza.

Intanto, visto che la morte della ragazza suscita indignazione tra gli iraniani in patria e all’estero, il presidente Ebrahim Raisi incarica il ministro dell’Interno di aprire un’inchiesta. Il capo dei medici legali di Teheran dichiara alla televisione di stato che le indagini sono in corso e che ci vorranno tre settimane. Le autorità intimano alla famiglia di seppellire Mahsa la notte, per evitare assembramenti. Ma i genitori decidono altrimenti e sabato 17 il funerale nella città natale di Saghez si trasforma in una manifestazione di protesta. I manifestanti si riuniscono davanti agli uffici governativi.

Saeed Piramoon, noto giocatore iraniano di beach soccer, fa il gesto di tagliarsi i capelli in segno di protesta e solidarietà con le donne del suo paese. Foto dal web.

Un potere repressivo e corrotto

Quelle scatenate dalla morte di Mahsa Amini sono le manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

La causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è solo l’obbligo del velo di per sé, ma anche la grave crisi economica e – soprattutto – l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre di più dai suoi giovani e dal suo popolo.

Tra gli slogan di questi mesi, i dimostranti hanno scandito Zan, zendeghì, azadì («Donna, vita, libertà») e Na be hejab-e ejbari («No al velo obbligatorio», imposto dal 1979), Na be ‘amame («No al turbante», portato dai religiosi del clero sciita).

Un gruppo di donne iraniane pro-regime protestano davanti all’ambasciata tedesca a Tehran (1 novembre 2022).
Foto Atta Kenare – AFP.

Nika e Sarina

Nonostante fin dall’inizo le forze di sicurezza disperdano i manifestanti usando i lacrimogeni, le proteste si diffondono rapidamente in tutto l’Iran. Nel giro di qualche giorno coinvolgono tantissime città e cittadine. Mahsa era una ragazza di provincia, non abitava nei quartieri chic di Teheran Nord; quindi, è facile identificarsi in lei e nel dolore della sua famiglia. A morire, e a diventare un simbolo delle proteste, sono anche le adolescenti Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh. Nel caso di Nika, nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è, invece, che sia morta «dopo essere caduta da un edificio». In un altro caso, nelle proteste a Karaj, a Est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh.

Per la prima volta nella storia dell’Iran, nelle manifestazioni di piazza gli uomini sono accanto alle loro donne. In ogni caso, le iraniane si stanno dimostrando decisamente più coraggiose degli uomini. Anche nello sport. Pensiamo a Elnaz Rekabi, la campionessa di arrampicata che, nei campionati di Seoul, gareggia senza velo in segno di solidarietà. A distanza di qualche settimana si viene a sapere che la casa della sua famiglia, assai benestante, è a rischio esproprio e per questo è obbligata a tacere. Inutilmente: la casa viene demolita.

Non si tratta di una novità del governo dell’ultraconservatore Raisi: le stesse misure intimidatorie erano state prese negli scorsi anni nei confronti del filosofo Ramin Jahanbegloo, rilasciato su cauzione, e di tanti altri intellettuali che avevano criticato il sistema politico iraniano e avanzato l’ipotesi di una qualche riforma. Ma intanto Elnaz Rekabi si è tolta il velo in pubblico e il suo gesto, pagato a caro prezzo, ha lasciato il segno.

A Los Angeles, uno striscione si augura che le proteste iraniane si trasformino in una rivoluzione. Foto Craig Melville – Unsplash.

Le donne del cinema si schierano

Nelle proteste del 2022 le iraniane si stanno dimostrando più coraggiose degli uomini anche nel mondo della cultura. Pensiamo alla regista Rakhshan Bani-Etemad che in un video ha dichiarato: «Se fino ad oggi sono stata zitta e non ho detto una parola, è stato solo per affetto materno e amore incondizionato. Non mi sono concessa di parlare perché non volevo che il mio sostegno alle legittime proteste dei giovani cagionasse anche solo un morto in più. Ma la vostra violenza non conosce fine e non conosce confini. In ogni angolo di questo paese, ovunque, scorre il sangue di giovani e bambini abbattuti come passerotti in volo. Quanto ancora dovremo pazientare? Fin dove potremo sopportare? Governare un popolo straziato, inconsolabile, ferito, disarmato e ignorato… Quale merito o valore può mai avere? Io mi auguro solo una cosa: se il sangue versato da tutti questi giovani nel corso di tutti questi anni ancora non vi ha fatto rinsavire, che la morte di Kian [Pirfalak], bambino innocente di appena nove anni, vi tolga il sonno per il resto della vostra vita».

A causa di questo video, a causa di queste parole, la figlia della regista è stata convocata dalla magistratura di Teheran: il regime se la prende spesso anche con i familiari di coloro che osano esprimere il dissenso. Rakhshan Bani-Etemad ha sessantotto anni e vive nella capitale iraniana. Tra i registi della sua generazione, è la donna di maggior spicco.

È andata peggio a Mitra Hajjar, una delle attrici iraniane più conosciute, arrestata lo scorso 3 dicembre. E, mentre scriviamo, pare correre rischi anche un’altra nota attrice iraniana, Shaghayegh Dehghan.

Con i pasdaran alla finestra

Le difficoltà economiche sono al centro delle proteste. In Iran un litro di latte costa l’equivalente di 90 centesimi di euro, una pagnotta 30 centesimi, un chilo di pollo tre euro. Ma un maestro porta a casa uno stipendio equivalente a soli 250 euro. Con l’inflazione al 41 per cento, tirare a campare è complicato.

È difficile prevedere quale esito possano avere le proteste in corso. La macchina repressiva funziona molto bene, purtroppo. La variabile è rappresentata dai pasdaran, ovvero dalle Guardie rivoluzionarie istituite dall’ayatollah Khomeini all’indomani della rivoluzione del 1979. Fedeli alla sua ideologia, sono loro a controllare l’economia e a reprimere il dissenso. Tenuto conto che in questi quarantatré anni il clero sciita non è stato in grado (o forse non ha voluto) di far crescere una nuova generazione di teologi a cui passare il testimone, potrebbero essere loro – i pasdaran – a prendere il potere nel caso in cui i manifestanti riuscissero a scalfire la repubblica degli ayatollah. Si passerebbe così da una repubblica islamica a una repubblica non più a carattere religioso, ma dominata dai militari. Dalla padella alla brace.

Farian Sabahi

L’autrice

  • Farian Sabahi è iranista, islamologa, professore universitario e giornalista professionista. È autrice di numerosi articoli scientifici e saggi pubblicati da editori italiani e internazionali. Questa è la sua prima collaborazione con MC. Sito: www.fariansabahi.com

La guida suprema Ali Khamenei interviene sulle proteste di piazza (12 ottobre 2022). Foto Iranian leader Press office – AFP.


Repressione, esecuzioni, resistenza

La teocrazia impicca (ma barcolla)

Mohsen Shekari è stato impiccato l’8 dicembre, accusato di moharebeh («avversione verso Dio»). Aveva attaccato un basij (miliziano volontario) in una manifestazione del 25 settembre. Il 12 dicembre è toccato a Majidreza Rahnavard, giustiziato dopo soli 23 giorni dal suo arresto. Risulta difficile scegliere gli aggettivi più adatti per definire il comportamento dei teocrati islamisti che tengono in ostaggio l’Iran e il suo popolo. Mentre scriviamo, i morti di queste proteste che vorrebbero diventare rivoluzione sono 458 (compresi 60 bambini e 29 donne, al 12 dicembre, secondo il sito di Iran human rights), con migliaia di persone arrestate in un crescendo di tensioni.

Durante i mondiali di calcio del Qatar, la protesta dei calciatori della squadra iraniana è durata lo spazio della prima partita. Nelle due successive, anch’essi si sono dovuti adeguare alle pressioni e minacce del regime, cantando (sussurrando) l’inno nazionale, anche su spinta dell’allenatore, il portoghese Carlos Queiroz, accusato di essere al servizio del regime dal sito Iran wire.

A inizio dicembre, poco dopo la demolizione della casa di Elnaz Rekabi (la climber che, in Corea del Sud, aveva osato gareggiare senza hijab), è stata fatta circolare la notizia della soppressione del corpo della «polizia morale», prima responsabile della morte di Masha Amini. Negli stessi giorni, nonostante repressione, vendette e condanne a morte per impiccagione, è stato proclamato uno sciopero generale che, nelle città, ha avuto adesioni altissime. Il governo islamista è in difficoltà internamente e isolato a livello internazionale.

Lo scorso 19 luglio, il leader supremo, l’ayatollah Ali Kamenei, aveva incontrato a Teheran Vladimir Putin per esprimere il proprio appoggio alla Russia contro «l’aggressione della Nato». Peraltro, nonostante le smentite, è assodato che l’Iran fornisca a Mosca droni da combattimento per sostenere la sua guerra contro l’Ucraina.

A dispetto di tutto questo e delle sanzioni imposte al paese, con l’Iran la diplomazia internazionale rimane cauta per due ragioni di banale real politik: le immense risorse petrolifere del paese e l’incertezza rispetto al suo arsenale nucleare. Nel frattempo, tocca soprattutto alle donne iraniane combattere a volto scoperto e mani nude contro gli uomini del regime teocratico.

Paolo Moiola

Una camionetta della famigerata polizia morale (Gasht-e Ershad), che ha arrestato anche la giovane Masha Amini. Foto dal web.




ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

ESwatini. Un paese in guerra con se stesso?

Dopo i disordini del 2021, gli insistenti appelli al dialogo lanciati da tutte le Chiese del paese sembravano aver aperto vie di speranza. In realtà, nuovi episodi di violenza ai primi di ottobre 2022, segnalano una situazione che sta degenerando, come scrive il vescovo in questo testo indirizzato alla sua gente, ma anche a tutti noi.

Alcuni di noi non hanno mai dimenticato la violenza sperimentata in eSwatini nel giugno 2021@. Nel mio caso perché non ero riuscito a raggiungere casa a Manzini dopo un incontro a Mbabane con il primo ministro in carica. I blocchi istituiti lungo la strada dai giovani mi avevano costretto a cercare un posto alternativo dove dormire. Avevamo trascorso quella notte ascoltando una sparatoria nelle vicinanze. La mattina seguente ci eravamo svegliati trovando pneumatici e veicoli bruciati e pietre sulla strada.

Le domande naturali che ci poniamo sono: a che punto siamo, un anno e mezzo dopo? Che cosa è stato fatto da allora?

Alcuni, probabilmente, speravano che fosse business as usual, tutto come prima, ma gli eventi degli ultimi mesi devono essere stati un brusco risveglio per loro.

Un dialogo nazionale

Sembra esserci un accordo comune sulla necessità di un dialogo nazionale. Credo che ogni voce che ha parlato dal giugno 2021 (il governo, le organizzazioni politiche, le Chiese, le Ong) abbia ripetuto lo stesso appello.

Molti, se non tutti, hanno anche sottolineato la necessità di avere «un dialogo sul dialogo». Ricordo che mons. Sithembele Sipuka (presidente della Sacbc – Southern african catholic bishops’ conference) ne ha parlato durante una conferenza stampa al termine della visita di solidarietà a eSwatini. Questo «dialogo sul dialogo» dovrebbe aiutare tutte le parti coinvolte a mettersi d’accordo su cosa si intende per dialogo e su come dovrebbe svolgersi.

Purtroppo, a parte la richiesta di un dialogo nazionale, non pare essere successo molto di più. Sembra che si senta parlare più del «no» («nessun dialogo in mezzo alla violenza») che del «sì» (una via da seguire). Non si dice nulla sulle misure adottate nell’ultimo anno e mezzo per attuarlo. Abbiamo sentito che il denaro per un dialogo nazionale è stato stanziato, ma non abbiamo mai saputo se sia mai stato usato e come.

Il fatto che i membri del parlamento abbiano chiesto al primo ministro di parlarne con Sua maestà Mswati III rafforza l’impressione che non sia stato fatto nulla.

Questo crea, almeno in me, la preoccupazione che la parola dialogo stia lentamente (o rapidamente?) perdendo ogni significato. Diventa più uno slogan che una realtà concreta.

Nel frattempo, probabilmente si è sviluppato un circolo vizioso. La violenza è giustificata dalla mancanza di passi concreti verso il dialogo, e il dialogo non ha luogo a causa della violenza che non si ferma nel paese.

Chi avrà il coraggio di romperlo?

Visita di solidarietà di FOCCISA (the Council of Churches for Southern Africa), foto davanti alla cattedrale di Manzini

Il paese sta cambiando

L’ultimo mese (ottobre 2022, ndr) ha visto chiaramente un aumento della violenza (che è sempre stata presente a livelli più bassi). È una nuova realtà per questo paese che si è sempre vantato di essere presentato come pacifico. È interessante notare che la popolazione sembra aver accettato che la violenza sia ormai diventata parte della nostra vita ordinaria. Come ho detto nella mia dichiarazione (del 19/10/2022)@, è molto probabile che la violenza aumenterà e continueremo tutti ad adattarci ad essa.

Giovedì 10 novembre la violenza ha colpito parti di Manzini. Mentre stavo lasciando la città per Mbabane, ho potuto vedere il fumo provenire dalla zona in cui erano stati dati alle fiamme il posto di polizia presso la stazione dei Satellite Bus e altri negozi. Tornato a Manzini ho visto che l’esercito era stato schierato. Vedere l’esercito e non la polizia è stata la prima cosa che mi ha sorpreso. La seconda sorpresa è stata di vederli con il volto coperto, un’indicazione della loro paura di essere identificati dai violenti e di esporsi al richio di essere uccisi in seguito o di avere le loro case date alle fiamme.

Chi avrebbe mai pensato che eSwatini potesse cambiare così rapidamente? Chi avrebbe mai pensato che questo (che vediamo in altri paesi in Tv) potesse accadere tra di noi?

Anche le nostre relazioni ne sono influenzate. Visto che quel giorno non c’erano mezzi pubblici a Manzini, la gente cercava buoni samaritani disposti a dare un passaggio. Qualcuno ha deciso che non doveva essere così, e le persone soccorse sono state costrette a scendere dai veicoli e a camminare, mentre ad altri è stato impedito di aiutare chiunque. Anche questa è violenza, quando alcuni decidono per gli altri.

Vandalismi e distruzione nella biblioteca di una scuola, Aprile 2022

La violenza

La paura è un altro elemento che sembra essere diventato parte della nostra vita quotidiana.

Dopo gli eventi dello scorso anno, ricordo che alcuni cattolici che conoscevo bene mi informavano della presenza di membri dell’esercito che «visitavano» le case di notte. Nulla era stato detto sui media al riguardo. Doveva essere un coprifuoco in cui tutti noi dovevamo rimanere a casa.

Non molto tempo fa, tornando a casa dopo la cena a casa di un prete, ho trovato un posto di blocco fatto dai membri dell’esercito. Erano pesantemente armati. Non ero a conoscenza di blocchi stradali che si svolgevano da parte dell’esercito di notte. Siamo riusciti a scherzare mentre volevano sapere perché ero in viaggio di notte. Non è stato annunciato alcun coprifuoco, ma sembra che dobbiamo giustificare il motivo per cui viaggiamo di sera.

Un nuovo tipo di paura è diventato parte della nostra vita. Proviene dalle Swaziland Solidarity Forces (Ssf). Esse rivendicano gli attacchi incendiari e le uccisioni. Minacciano di uccidere o incendiare le proprietà di coloro che non fanno ciò che viene loro detto. Non so se qualcuno sa chi siano e chi li sta finanziando. Queste domande – per quanto importanti – sono difficili da porre.

Stiamo progettando di costruire il nostro futuro sulla paura e su più violenza? Qualunque cosa seminiamo è ciò che abbiamo intenzione di raccogliere in seguito. Poiché la paura e la violenza sono attribuite al governo, stiamo progettando di sostituirle con la paura e la violenza di qualcun altro?

I media

Da un giornale locale di eSwatini

Quello dei mezzi di comunicazione è un altro settore in cui abbiamo assistito a cambiamenti. Ero solito dire in passato che si poteva trovare poco su eSwatini sui social media. C’era una sorta di autocensura in molti: «È meglio non parlare». Non è più così da giugno 2021. Molto di più può essere letto sui social media e sulle pagine web. La sfida è essere critici nei confronti di ciò che si legge. L’informazione è difficilmente «indipendente» e «imparziale», come proclamano i media.

Tutti noi dobbiamo interrogarci su ciò che viene e che non viene detto. Si può sottolineare che i media statali limitano ciò che viene riportato sulla violenza che ha luogo, ma la stessa cosa potrebbe essere detta di coloro che scelgono di non riportare nulla di positivo su quanto fatto dal governo perché potrebbe non piacere loro. Sembra importante dipingere l’altro come il nemico che deve essere affrontato.

Entrambe le parti dicono cose sui social media che non sono state provate e che l’altra parte nega che siano vere: «I mercenari sono entrati nel paese» e «ci sono stranieri tra i soldati del nostro esercito», sono due esempi familiari.

Violenza e media vanno insieme. L’informazione può essere usata come arma per instillare rabbia e paura. Anche qui bisogna chiedersi: chi paga per questo? A volte su Twitter è possibile trovare gli stessi post su profili di persone diverse che molto probabilmente non esistono. Tutto è impostato con un unico obiettivo: sostenere una parte o l’altra e influenzare il modo in cui le persone leggono la situazione.

In questi giorni è interessante vedere la mancanza di informazioni su eSwatini da fuori dei nostri confini. I media, che in passato parlavano così tanto dei nostri disordini, ora tacciono. Sembra che non ci sia alcun interesse per ciò che sta accadendo qui. Forse la nostra violenza non è abbastanza forte da renderla degna di essere denunciata.

Tentazioni

  • In mezzo a tutto questo, si possono individuare una serie di tentazioni che colpiscono ogni parte in causa:
  • «Questo passerà, le cose torneranno alla “normalità”. Tutto questo è solo il lavoro di pochi facinorosi».
  • «Non ci sarà corruzione una volta che avremo un sistema democratico».
  • «Possiamo distruggere il paese ora, lo ricostruiremo più tardi sotto un nuovo sistema politico».
  • La democrazia risolverà tutti i nostri problemi… in una notte.
  • Il pensare che chiunque può decidere per l’intera nazione.
  • Il pensare che combattere la violenza con la violenza le metterà fine.
  • Il pensare che la violenza di genere sia sbagliata ma la violenza politica sia giustificata.

Ignorare che:

  • eSwatini è una delle società più diseguali del mondo@;
  • nel paese manca formazione politica;
  • un futuro costruito sulla violenza innescherà solo altra violenza una volta che la popolazione sarà di nuovo infelice;
  • i nostri giovani provano rabbia, paura, frustrazione (ma non solo);
  • il 60/70% dei nostri giovani è disoccupato e potrebbe sentire di non avere nulla da perdere;
  • la maggior parte dei nostri giovani non ha mai fatto parte del processo che ha portato alla Costituzione del 2005 e potrebbe non identificarsi con essa.

È necessario inoltre:

  • Non ignorare quanto sia grande la necessità di un processo di guarigione già oggi a causa dei disordini dello scorso anno e quanto la violenza dividerà questa piccola nazione (famiglie e comunità) in futuro.
  • Non sentirsi superiori ad altri paesi senza imparare dalla loro esperienza di violenza e dai loro processi democratici.

Cattedrale di Manzini, preghiera per le vittime della violenza

Le chiese

Eswatini (già Swaziland) è conosciuto come un paese cristiano. Il numero di chiese, gruppi, profeti, pastori, apostoli e altri è molto grande. Ogni anno Sua maestà chiede un servizio di preghiera di ringraziamento a palazzo. Nonostante tutto questo, non riesco proprio a ricordare un momento in cui qualcuno di questi predicatori abbia mai aperto gli occhi della nazione sul fatto che questo tipo di disordini (che non erano mai stati visti prima) si sarebbero verificati. Tutti hanno rassicurato che tutto andava bene o sarebbe andato bene.

Tre sono i gruppi cristiani più conosciuti nel Regno, ciascuno dei quali riunisce un certo numero di chiese cristiane.Tra di essi c’è il Csc – Consiglio delle chiese dello Swaziland (di cui siamo padri e madri fondatori) che è il più piccolo (solo 13 Chiese). La cosa positiva è che la leadership di questi organismi fa del suo meglio per tenersi in contatto. La sfida consiste nel trovare un terreno comune su come affrontare la situazione. Ciò potrebbe essere dovuto a ragioni storiche e ai diversi modi in cui leggiamo la Bibbia.

Il Csc è stato il più visibile: ha rilasciato dichiarazioni, ha incontrato ogni possibile attore (governo, partiti politici, gruppi tradizionali …), ha coordinato visite di solidarietà nel paese, ha sostenuto le persone in prigione, ha fornito pacchi alimentari alle famiglie di coloro che sono morti durante i disordini.

La Chiesa cattolica, da sola, è stata attiva anche in diversi modi: ha rilasciato dichiarazioni, incontrato le parti interessate, riunito alcuni cattolici per riflettere sulla situazione e sul contributo che possiamo dare alla costruzione della pace, sostenuto le vittime della violenza, fornito pacchi di cibo, offerto consulenza, creato club per la pace nelle scuole superiori, dedicato giorni o settimane speciali di preghiera per la pace, aperto spazi per il dialogo locale, condiviso brevi dichiarazioni sui social media sull’importanza della nonviolenza.

Qualche settimana fa (in ottobre 2022, ndr) la polizia ha chiesto di utilizzare la nostra cattedrale per un incontro di preghiera. La violenza che l’ha colpita ha innescato direttamente questo bisogno di riunirsi per pregare. Abbiamo acconsentito. L’avevamo aperta in passato alle vittime di violenza da parte delle forze di sicurezza. Tutti abbiamo bisogno della guarigione e della guida di Dio.

Non ho potuto evitare di ricordare che nel febbraio 2013 (se la memoria non mi inganna), la polizia aveva fatto irruzione nella stessa cattedrale per fermare un incontro di preghiera per la pace nello Swaziland accusando gli organizzatori di mascherare un raduno per disturbare le elezioni nazionali dietro un incontro di preghiera.

Quello che stiamo facendo è una goccia nell’oceano. Sono necessarie molte più gocce. C’è sempre una sfida tra i cattolici (forse i cristiani in generale) su chi abbia la responsabilità di affrontare i disordini. Come dico sempre scherzosamente: «Quando la gente dice “la Chiesa è tranquilla”, quello che intende è che “il vescovo è tranquillo”, come se gli altri avessero il diritto di stare tranquilli».

Come ho scritto sui social media non molto tempo fa: «Il nostro paese è come una persona malata, che cura il dolore, ma non ciò che lo sta causando».

+ José Luis Ponce de León
vescovo di Manzini

Il vescovo José Luis visita una scuola vicino ai confini con il Mozambico per incoraggiare gli insegnati dopo le violenze, danni e incendi subitie dalla scuola.




Da «Propaganda» a «Evangelizzazione»


Sotto il titolo «Euntes in mundum universum» (andate in tutto il mondo), si è svolto, dal 16 al 18 novembre 2022, presso la Pontificia università Urbaniana, il Convegno internazionale di studi per celebrare il IV centenario della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (22 giugno 1622-2022).

Nata nel XVII secolo in pieno contesto coloniale, Propaganda Fide (lett. «propagazione della fede», ndr) ha posto al centro della Chiesa l’azione missionaria che ha portato al rifiuto della colonizzazione e del razzismo ad essa correlato, e ha scelto il rispetto delle culture e delle lingue di tutti i popoli.
È stato un percorso segnato inizialmente dalla missione in stile coloniale, per giungere a quella interculturale. Un percorso che è passato dal conflitto e scontro al dialogo nell’incontro con le diverse culture del mondo.

Tutti i relatori del convegno, provenienti da nove nazioni dei cinque continenti, nelle cinque sessioni di lavoro hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide» e della sua missione evangelizzatrice nella Chiesa.

Collegio urbano di Propaganda Fide vicino all’Università Urbaniana a Roma – AfMC/Gigi Anataloni

Da «Propaganda Fide» al «Dicasterium pro Evangelizatione»

L’anniversario della bolla Inscrutabili Divinae con cui il papa Gregorio XV il 22/06/1622 istituì la «Sacra congregatio de Propaganda Fide» ha coinciso con la promulgazione della Costituzione apostolica «Praedicate Evangelium», con cui papa Francesco ha conferito una struttura più missionaria alla Curia perché sia sempre meglio al servizio delle Chiese particolari e dell’evangelizzazione. Con questo documento il papa ha, inoltre, unito la secolare e conosciuta «Propaganda Fide» con il pontificio «Consiglio per la nuova evangelizzazione» creando il nuovo «Dicasterium pro evangelizzazione».

Giovanni Battista Cavalieri Pontificum Romanorum effigies Roma: Domenico Basa : Francesco Zanetti 1580

L’anniversario ricorda quattro secoli segnati non solo dal passaggio della missione da uno stile coloniale a uno interculturale, ma anche dal passaggio dalla propagazione della fede all’evangelizzazione, come ha sottolineato padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio comitato di scienze storiche.

Dopo il concilio di Trento (1545-1563), la necessità di unire e centralizzare l’organizzazione dell’attività missionaria nel mondo aveva mosso papa Gregorio XV a fondare Propaganda Fide. Occorreva dare maggiore impulso a un’azione più unitaria e concertata in un contesto segnato dalla colonizzazione e dal sistema del «patrocinio» (per il quale l’evangelizzazione era affidata a uno stato, come Portogallo o Spagna, ndr) che non rispondeva più ai bisogni del tempo. L’intenzione era quella d’impegnarsi affinché: «L’evangelizzazione non fosse condizionata dalle grandi potenze del momento o da particolarismi religiosi» (prof. Pizzorusso, Università degli studi G. D’Annunzio, Chieti, Pescara).

«Propaganda Fide nasce dunque per coordinare le forze, per dare direttive alle missioni, promuovere la formazione del clero e delle gerarchie locali, per incoraggiare la fondazione di nuovi istituti missionari e, infine, per provvedere agli aiuti materiali per le attività missionarie». Inoltre, non certo per ultimo, avrebbe avuto la responsabilità della diffusione della fede cattolica in America, Africa e Asia.

Con la costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae, del 15 agosto 1967, san Paolo VI ha confermato la competenza generale del dicastero missionario come organo centrale della Chiesa, e nel contempo ne ha cambiato il nome in «Congregatio pro gentium evangelizatione seu de Propaganda Fide» (Congregazione per l’evangelizzazione delle genti o di Propaganda Fide, ndr). Paolo VI aveva ben capito che il nome «Propaganda» non era più adeguato: la missione della Chiesa non è «la propagazione della fede», ma «l’evangelizzazione dei popoli». Il passaggio è dalla propaganda al servizio, dall’imposizione al dono gratuito, dall’obbligo alla libertà.

Papa Francesco, con la costituzione apostolica Praedicate Evangelium del 19 marzo 2022, ha istituito il «Dicastero per l’evangelizzazione», presieduto direttamente dal pontefice, composto dalla sezione per le questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo e dalla sezione per la prima evangelizzazione e le nuove chiese particolari. La prima sezione raccoglie l’eredità di Propaganda Fide, dalla seconda dipendono alcune circoscrizioni ecclesiastiche delle Americhe, quelle di quasi tutta l’Africa, dell’Asia (ad eccezione delle Filippine) e dell’Oceania (ad eccezione dell’Australia). Attualmente ci sono 1.117 circoscrizioni ecclesiastiche (arcidiocesi, diocesi, vicariati apostolici, prefetture apostoliche, ecc.) sotto la competenza del dicastero missionario, con l’obiettivo di ritrovarsi come unità.

Padre Ardura ha sottolineato che la Praedicate Evangelium mette in luce un aspetto preciso: l’impegno per una nuova evangelizzazione nei territori dove è arrivato storicamente l’annuncio, ma dove non ci sono più, nelle nuove generazioni, evidenze di cristianizzazione.

Quattro secoli di missione nel mondo

Gli studiosi intervenuti hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in questi 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice, e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Si è trattato di offrire «una rilettura storica delle origini istituzionali di Propaganda Fide, ponendo in rilievo le istanze dei pontefici tra il XVI e il XVII secolo, soffermandosi su alcune rilevanti figure di prefetti (il capo di una congregazione è chiamato «prefetto», ndr) tra il Settecento e il Novecento, per poi porre in evidenza la feconda apertura del cattolicesimo a una dimensione universale, che in Propaganda Fide ravvisa al contempo un testimone privilegiato e un pionieristico attore».
In sintesi, come ha posto in rilievo il cardinale Luis Antonio Tagle, nel discorso inaugurale, l’obiettivo del convegno è stato quello di capire il passato e il presente attraverso le testimonianze di prima mano.

Cardinal Luis Antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC nel 2017 – AfMC/Gigi Anataloni

Gli elementi qualificanti

La professoressa Françoise Fauconnet-Buzelin ha messo in evidenza la grande importanza che ebbero «Les instructions de la S. Congregatio de Propaganda Fide», documento redatto nel 1659 che può essere definito la «magna carta» delle missioni moderne, perché condensa le linee essenziali della strategia missionaria: la proibizione ai missionari di intervenire nella vita politica e di partecipare ad attività commerciali, la necessità di fornire agli stessi una preparazione scientifica e spirituale, la creazione di un clero indigeno e l’adattamento alle culture native.

1. impegno culturale e scientifico

Pietro_da_Cortona_-_Pritratto di Urban_VIII_(ca._1624-1627)

Urbano VIII, con la bolla Immortalis Dei Filius del 1° agosto 1627 fondò il «Pontificio ateneo de Propaganda Fide», con le facoltà di Filosofia e Teologia per la formazione di base dei missionari. Il 1° settembre 1933 la Congregazione dei seminari e delle università degli studi creò il «Pontificio istituto missionario scientifico», per offrire un’ulteriore specializazzione garantita da gradi accademici nelle discipline missiologiche e giuridiche. L’università ha sede sul Gianicolo, a due passi dal Vaticano, e ospita le facoltà di Teologia, Filosofia, Diritto Canonico e Missiologia (per missionari e sacerdoti di tutte le parti del mondo) e, dal 1976, anche l’Istituto di catechesi missionaria. L’Università oggi è frequentata da circa 2mila studenti, con un corpo docente di circa 170 professori. Uno dei suoi gioielli è la Biblioteca missionaria che contiene circa 350mila volumi, e dal 1933, ogni anno, pubblica un’apprezzata «Bibliografia missionaria» che cataloga tutte le pubblicazioni sul tema a livello mondiale.

2. un collegio per la formazione

Gli stessi motivi apostolici che ispirarono l’istituzione di «De Propaganda Fide» furono all’origine dell’erezione del «Pontificio collegio de Propaganda Fide», conosciuto come Collegio Urbano, nel 1627. L’obiettivo era chiaro sin dall’inizio, ha sottolineato il padre Leonardo Sileo, rettore della Pontificia Università Urbaniana: essere una residenza per accogliere e formare al sacerdozio e alla missione giovani provenienti dai vari continenti e da differenti riti cristiani (in specie quelli orientali) con una speciale attenzione alla conoscenza e allo studio delle lingue e delle culture del mondo.

A partire da questa esperienza, Propaganda Fide ha fondato dei collegi per la formazione del clero locale anche nelle «terre di missione». Tale il caso del Collegio di Zacatecas, in Messico, che ha cominciato a funzionare nel 1707.

Propaganda Fide ha poi portato migliaia di giovani a Roma da paesi lontani per sostenere la loro formazione, senza stravolgere le culture d’origine, e farli tornare alle comunità di provenienza. Questo può essere considerato anche uno straordinario esperimento, «un contributo alla comprensione reciproca e al rispetto tra popoli e culture», iniziato secoli prima degli scambi e dei programmi «Erasmus» attivati dalle moderne istituzioni accademiche e universitarie.

3. Incontrare altri popoli e culture

Nei secoli in cui il colonialismo europeo invadeva il mondo ed esportava ovunque l’idea di superiorità dell’Europa, Propaganda Fide seguiva la strada opposta. «Non la superiorità di qualcuno – bianco, europeo e occidentale -, ma l’uguaglianza e la pari dignità di tutti», come ha detto il professor Giampaolo
Romanato del «Pontificio comitato di scienze storiche». Di questo approccio ha dato testimonianza anche il principio sempre affermato che il missionario «deve imparare la lingua locale, per quanto difficile e lontana essa sia». Perché «parlare la lingua dell’interlocutore è la via maestra affinché egli si senta trattato alla pari», e non debba sentirsi ridotto a una condizione di sudditanza.

Propaganda Fide è la prima istituzione «globale», in essa i flussi di scambio informativo che da secoli vi si attivano sono finalizzati non a gestire la «politica alta», ma ad affrontare l’esistenza quotidiana di persone e comunità.

4. Unità di dottrina, fede e liturgia

Nell’incontro con l’altro, Propaganda Fide si confrontava con la diversità delle culture, delle forme politiche, delle civiltà, delle lingue, in un tempo in cui le distanze e i pericoli nei viaggi rendevano precario lo scambio delle informazioni. Nello stesso tempo doveva promuovere l’unità cattolica di dottrina, fede, liturgia. Come ha ricordato il professor Burigana, nel parlare di «Propaganda Fide e il mondo della riforma», i missionari arrivati in Estremo Oriente, oppure nelle regioni americane più impervie come le Ande o l’Amazzonia, avvicinavano popolazioni «radicalmente diverse, con forme di civiltà e lingue a loro sconosciute». I quesiti che si ponevano rendevano evidente che «la verità del cattolicesimo romano era chiamata a confrontarsi con queste radicali diversità. Bisognava trovare soluzioni in grado di conciliare l’unità della stessa fede, e della teologia che la esprimeva, con la diversità delle lingue, e la molteplicità delle sensibilità». Salvare l’unità abbracciando la molteplicità fu il compito spesso gravoso affidato a Propaganda Fide, chiamata sempre a esercitare una grande disponibilità all’adattamento e a trovare soluzioni nuove per situazioni non previste, e neppure prevedibili, in Europa.

Un lavoro enorme che «incise anche sul Diritto canonico», con l’emergere di una specifica sezione dedicata al «Diritto missionario» che «divenne una sorta di regno dell’eccezione e della tolleranza rispetto alla normativa vigente nella Chiesa latina», ha continuato il professor Romanato.

Maggio 2022. Una delegazione dalla Mongolia incontra papa Francesco – foto Osservatore Romano

Tipografia poliglotta

L’utilizzo della stampa fu deciso nella Congregazione (assemblea, ndr) generale di Propaganda Fide tenutasi il 3 giugno 1626. Il cardinale Francesco
Ingoli, uomo di cultura e di riconosciute competenze linguistiche, era fortemente convinto che il neonato dicastero dovesse provvedere, tra i suoi compiti principali, alla stampa di libri nelle diverse lingue che fossero utili ai missionari, i quali avevano bisogno di testi della Sacra Scrittura e della Dottrina cattolica che fossero redatti nella lingua dei popoli a quali erano stati mandati. Si pubblicavano così documentazioni che davano un quadro completo dell’attività missionaria della Chiesa cattolica a metà del XVII secolo, sia per far conoscere ai missionari sparsi nel mondo quanto veniva fatto a Roma, sia per rendere partecipe Roma, e la Chiesa in generale, di quanto facevano i missionari.

La controversia dei riti in Asia

Padre Matteo Ricci

Il tema della controversia dei riti in Asia è stato affrontato dal professor Benedict Kanakappally. L’introduzione del cristianesimo in Asia a fine Cinquecento vide due modelli di evangelizzazione. Da una parte quello dei missionari (uno dei più noti è padre Matteo Ricci, di cui nel 2022 si è aperta la causa di beatificazione, ndr)) che ritenevano che il cristianesimo dovesse inculturasi e accettare espressioni linguistiche e riti (come certe manifestazioni del culto dei morti) delle culture locali, ad esempio in Cina (riti cinesi) e in India (riti malabarici). Dall’altra, quello di chi sosteneva con forza che i nuovi cristiani dovessero abbandonare tutte le tradizioni locali per abbracciare solo il modello cattolico che valeva per tutto il mondo. Questi ultimi consideravano la pratica dei riti cinesi e malabaresi una «superstizione» incompatibile con la dottrina cattolica.

I missionari avevano affrontato il problema dell’adattamento a civiltà lontane e cercato di mediare fra la propria cultura e quella locale, soprattutto in Giappone, Cina e India; tuttavia, vi fu la condanna dei riti cinesi (la prima nel 1645), poi di quelli malabaresi.

Nel 1659 Propaganda Fide inviava ai Vicari apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, un’istruzione in cui si leggeva tra l’altro: «Cosa potrebbe essere più assurdo che trasferire in Cina la civiltà e gli usi della Francia, della Spagna, dell’Italia o di un’altra parte d’Europa? Non importate tutto questo, ma la fede che non respinge e non lede gli usi e le tradizioni di nessun popolo, purché non siano immorali, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli». Propaganda Fide fu, dunque, esempio di integrazione religiosa.

La questione delle lingue

Un altro contributo di Propaganda Fide fu dato alla questione dello studio delle lingue che ha sempre cercato di diffondere tra i missionari sia che fossero essi religiosi o diocesani. Nel processo di evangelizzazione è indispensabile «la conoscenza degli idiomi delle varie parti del mondo nello sforzo di comunicare con le varie popolazioni allo scopo di ottenerne la conversione oppure di mantenerle nella fede cristiana, potendo in tal modo istruirle adeguatamente nei principi dottrinali e nella pratica di un comportamento canonicamente corretto».

Domande aperte

Il professor Romanato nel discorso conclusivo ha affermato: «C’è un punto mai smentito nella “politica missionaria” di Propaganda Fide: la pari dignità di ogni cultura, l’obbligo di usare le lingue locali e di non imporre la propria. La necessità di portare nel mondo la fede e non la cultura occidentale». Questi tratti, come si è visto durante il Convegno, hanno segnato la vicenda storica della Sacra congregazione «de Propaganda Fide» fin dalla sua istituzione.

Propaganda Fide ha avuto un suo percorso nei suoi quattro secoli di vita, ma oggi vede aprirsi davanti a sé nuove sfide.

Bisognerà, dunque, rispondere alle domande poste inizialmente dal cardinale Luis Antonio Tagle, attuale prefetto del nuovo Dicastero per l’evangelizzazione, e che propongo come domande conclusive sulle quali meditare: «Chi racconterà la storia di Gesù? Quali parole e quali strade si troveranno per raccontarla nei nuovi mondi contemporanei segnati dall’intelligenza artificiale e digitale, dall’estremismo polarizzante, dall’indifferenza religiosa, dall’immigrazione forzata, dai disastri climatici?».

Afonso Osorio Citora*

* Missionario della Consolata mozambicano, lavora al servizio del Dicastero per l’evangelizzazione.

 


«Euntes in mundum universum»

Dal 16 al 18 novembre 2022 si è svolto, presso l’aula magna «Benedetto XVI» della Pontificia università Urbaniana, sul Gianicolo a Roma, il Convegno internazionale: «Euntes in mundum universum» per celebrare il IV centenario dell’istituzione della «Sacra congregatio de Propaganda Fide» (1622-2022). Ogni giorno c’erano più di 500 partecipanti tra professori, studiosi e studenti. I relatori sono stati 24 provenienti da nove nazioni dei cinque continenti e hanno sottolineato l’importanza di «Propaganda Fide», cercando di rispondere alla domanda: «Qual è stato l’impatto di Propaganda Fide nei cinque continenti in 400 anni di esistenza e di missione evangelizzatrice e quali sono state le figure della Congregazione che hanno marcato questi quattro secoli?».

Il Convegno è stato diviso in 5 sessioni sui seguenti temi:

  1. la Congregazione de Propaganda Fide: evangelizzazione e missione;
  2. figure chiave e configurazione istituzionale;
  3. al servizio della fede e dei popoli in tutti i continenti;
  4. dal conflitto al dialogo;
  5. l’incontro con le culture.

Af.Os.Ci.

Tythu, Kenya 1905 ca. formazione die primi catechisti kikuyu. – AfMC / Filippo Perlo




Cop27, un passo avanti necessario ma insufficiente


La 27ª Conferenza delle parti di Sharm el-Sheikh si è conclusa con un accordo per compensare i paesi del Sud del mondo, i meno responsabili delle emissioni, per i danni che il cambiamento climatico sta causando nei loro territori. Ma sulla mitigazione non si è andati oltre la Cop26 di Glasgow, che era stata troppo debole sull’eliminazione dei combustibili fossili.

Una sintesi efficace di questa Cop27 l’ha tracciata Manuel Pulgar-Vidal, che aveva presieduto l’edizione 2014 del vertice, la Cop20, e ora è il responsabile del clima per il World wide fund for nature, Wwf (già World wildlife fund): «L’accordo su perdite e danni è un passo avanti», ha detto Pulgar-Vidal al New York Times, ma il fondo di compensazione che l’accordo crea «rischia di diventare un “fondo per la fine del mondo” se i paesi non si muovono più veloci per ridurre drasticamente le emissioni. Non possiamo permetterci un altro vertice sul clima come questo»@.

L’accordo su perdite e danni (loss and damage, in inglese)@ prevede l’istituzione di un fondo che compensi i paesi più poveri e vulnerabili per i danni provocati da disastri climatici che le emissioni dei paesi ricchi e il conseguente aumento delle temperature hanno contribuito a rendere più frequenti e intensi.

L’accordo rappresenta una svolta nel lungo e duro scontro fra gli stati del Sud del mondo, che da decenni sollecitano i paesi industrializzati a pagare per i danni causati al clima dalle loro economie, e le potenze come Usa e Ue, decise a evitare che queste compensazioni vengano viste come un’ammissione di responsabilità e per questo dovute per decenni a venire.

Un comitato di transizione, composto dai rappresentati di 14 paesi in via di sviluppo e 10 paesi sviluppati, avrà dunque l’incarico di preparare nel corso del 2023 tutte le raccomandazioni per creare il fondo e regolarne la gestione, in modo che possano essere discusse e adottate durante la Cop28 e che il fondo stesso diventi operativo nel giro di un paio di anni. Le risorse necessarie per le compensazioni, riportava Ferdinando Cotugno su Domani del 21 novembre 2022, «potrebbero essere tra i 300 e i 500 miliardi di dollari all’anno già entro la fine di questo decennio»@.

foto da screenshot della Cop27

I paesi già colpiti

Sherry Rehman – foto da screenshot della Cop27

«Abbiamo lottato per 30 anni su questa strada», ha detto la ministra per il clima del Pakistan, Sherry Rehman, rivolgendosi al presidente della Conferenza, il diplomatico egiziano Sameh Shoukry, nella plenaria conclusiva, «e oggi a Sharm el-Sheikh questo viaggio ha raggiunto il suo primo traguardo positivo. Signor presidente, lei ci ha promesso una Cop di implementazione e ce l’ha data. Per questo mi congratulo con lei e con tutti noi»@.

In molti si aspettavano in realtà una Cop di transizione e il fatto che sia stata presa una decisione come quella sulle compensazioni è in effetti un successo inatteso. La posizione del

Pakistan era quest’anno più dura e significativa, poiché il paese ha subito una delle peggiori catastrofi naturali della sua storia, con alluvioni che hanno sommerso un terzo del territorio, causato oltre 1.100 morti e provocato danni per circa 30 miliardi di dollari. Come presidente di turno della coalizione G77, che riunisce dal 1964 i paesi in via di sviluppo e ha il sostegno della Cina, il Pakistan ha guidato con successo lo sforzo negoziale affermando che riconoscere e risarcire le «perdite e i danni non è beneficenza, ma giustizia climatica»@. Gli scienziati che si occupano di clima e che hanno analizzato gli eventi estremi che hanno colpito il Pakistan si stanno mostrando abbastanza concordi nell’affermare che il riscaldamento globale ha avuto un ruolo non nel determinare il fenomeno – i monsoni, e le piogge abbondanti che questi portano, sono ricorrenti in Pakistan e la loro intensità subisce notevoli variazioni di anno in anno – ma nell’aumentarne la portata, incrementando la quantità di acqua evaporata dall’oceano che si è poi accumulata nell’atmosfera e ha intensificato le precipitazioni. Carbon Brief, un sito web britannico che si occupa di riscaldamento globale e temi connessi, ha una mappa del pianeta interattiva che mostra gli eventi meteorologici estremi legati al cambiamento climatico, quelli che non hanno con questo nessuna connessione e quelli per i quali i dati sono insufficienti per stabilire o escludere un legame@.

Mitigazione, pochi progressi

Al momento, il mondo si trova  su una traiettoria che lo porterà a un riscaldamento fra i 2,1 e i 2,9 gradi celsius entro la fine di questo secolo. Ogni frazione di grado in più rischia di esporre ulteriori milioni di persone a ondate di caldo, scarsità di acqua e inondazioni costiere dagli effetti potenzialmente letali@. Mantenere il riscaldamento del pianeta non oltre 1,5 gradi significa evitare che aumenti la frequenza con cui si presentano i fenomeni più estremi. Mezzo grado può sembrare poco, ma secondo le stime sarebbe sufficiente perché la quota di popolazione mondiale colpita da ondate di caldo estremo almeno una volta ogni cinque anni passi dall’attuale 14% al 37%@.

Per mitigare il cambiamento climatico, cioè prevenirne gli effetti e non solo limitarsi ad adattarsi a essi, il solo modo efficace è ridurre le emissioni. Ma su questo punto la Cop27 non è andata oltre i risultati ottenuti a Glasgow nella conferenza precedente. Anzi, come ha commentato durante la plenaria conclusiva un deluso Frans Timmermans, vicepresidente dell’Unione europea@, durante le negoziazioni ci sono stati troppi tentativi di tornare indietro rispetto alla già poco incisiva Cop26@.

In Egitto, i paesi membri non hanno raggiunto un accordo sulla riduzione dei combustibili fossili appoggiata da un blocco di paesi guidati dall’Unione europea, e il testo finale dell’accordo di Sharm el-Sheikh@ promuove accanto alle rinnovabili anche «fonti di energia a basse emissioni». «Dimmi che stai parlando di gas senza dirmi che parli di gas», commentano con ironia sui loro profili Instagram l’organizzazione ambientalista ZeroCo2 e l’illustratrice e attivista Alessia Iotti@.

L’Ue ha ottenuto il solo risultato di imporre il mantenimento della soglia di 1,5 gradi come limite accettabile per il riscaldamento globale. «Viviamo già in un mondo con un cambiamento di 1,2 gradi e questo mondo è già invivibile per molti», ha concluso Timmermans, «non possiamo fallire di nuovo nel tentativo di evitare il peggio».

foto da screenshot della Cop27

Il ruolo dell’Egitto

Un dato che rischia di non apparire in tutto il suo peso a chi osserva questi vertici dall’esterno è il ruolo decisivo degli aspetti organizzativi e logistici, a cominciare dal ruolo centrale del paese ospitante, che guida le negoziazioni e determina l’agenda.

Se alla Cop27 si è parlato tanto di perdite e danni, fino a raggiungere un importante accordo, è perché questo tema è molto sentito dai paesi a medio e basso reddito, e l’Egitto e uno di essi. Per questo la presidenza egiziana della Cop27 ha dedicato tempo e sforzi a raggiungere un obiettivo condiviso con altri paesi del Sud del mondo, mentre ha messo in secondo piano la mitigazione e la riduzione dei combustibili fossili.

L’Egitto ha fatto di più che trascurare la mitigazione: ha portato avanti la propria agenda di paese esportatore di gas. «Sotto diversi punti di vista», scriveva Ferdinando Cotugno su Domani il 13 novembre scorso, «la Cop27 per l’Egitto sta andando benissimo: partnership energetiche, affari d’oro e incontri bilaterali di prestigio»@.

La prossima Conferenza delle parti, Cop28, si svolgerà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, uno dei dieci più grandi produttori mondiali di petrolio, e molti stanno già ipotizzando che sarà un’altra conferenza non abbastanza incisiva per la riduzione delle emissioni.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo cinquant’anni fa

Negli anni Settanta la rivista Missioni Consolata aveva una rubrica che si chiamava «Appelli dal fronte», attraverso la quale presentava ai benefattori una realtà in missione e chiedeva il loro sostegno per risolvere un problema.

Cinquant’anni fa, nel gennaio del 1973, «Appelli dal fronte» era dedicata a Materi, villaggio nella centrale regione del Meru, ai piedi del monte Kenya. Padre Maggiorino Botta chiedeva ai suoi benefattori di aiutarlo a comprare una pompa, il motore, le tubature e i serbatoi per pompare l’acqua dal fiume Mutunga visto che nella zona, «arida e torrida», non c’era alcuna sorgente. Costo dell’iniziativa: due milioni di lire.

Oggi Matiri (pronunciato Materi ma scritto Matiri secondo la dizione inglese, ndr), gode ancora della presenza dei Missionari della Consolata. Vi prestano servizio due missionari keniani, i padri Stephen Murungi e Matthew Kirema, che seguono la comunità parrocchiale e trenta comunità periferiche.

Scrive Naomi Mwingi, dell’ufficio progetti dei Consolata fathers a Nairobi: «La maggior parte delle attività missionarie sono tuttora di prima evangelizzazione: le persone di questa zona sono ancora profondamente radicate nelle loro credenze e tradizioni culturali, che includono la stregoneria, le mutilazioni genitali femminili e la poligamia.

Il centro sanitario Matiri è sotto la gestione della diocesi di Meru, mentre la scuola elementare e la scuola tecnica sono gestite dalla parrocchia di Matiri; vi sono inoltre altre scuole private. La siccità, che colpisce buona parte del Kenya (20 contee, soprattutto del Nord, su 47), sta peggiorando la situazione in tutta la contea di Tharaka Nithi dove si trova Matiri: i fiumi si prosciugano e i residenti vanno a dormire a stomaco vuoto.

Per questo, la Chiesa cattolica di Matiri ha un programma di emergenza alimentare per sostenere le famiglie più colpite dalla siccità.

L’orto esiste ancora, ma data l’aridità della zona richiede costantemente acqua, che arriva ancora oggi alla missione e alla comunità circostante dal fiume Mutunga, oltre un centinaio di metri più in basso. Non ci sono pozzi d’acqua nella missione che è riuscita ultimamente a sostituire la vecchia pompa a motore con una a energia solare, ma questa pompa ha avuto qualche problema, che ora i missionari stanno cercando di risolvere».

Chi.Gio.

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2023, anno del miglio

Su proposta del governo dell’India, le Nazioni Unite hanno proclamato il 2023 anno internazionale del miglio. Anzi, dei vari tipi di miglio: caratterizzati da un alto valore nutritivo, si legge sul sito delle notizie delle Nazioni Unite. Essi sono un gruppo di graminacee a seme piccolo coltivate principalmente nelle zone aride dell’Asia e dell’Africa. Includono sorgo, miglio perlato, miglio indiano, fonio, panìco, teff e altre varietà più piccole.

L’Onu porta quest’anno il miglio al centro dell’attenzione per il ruolo che potrebbe giocare nell’attuale crisi climatica: si tratta infatti di un cereale che, rispetto ai più noti frumento, riso o mais, è in grado di crescere in condizioni più difficili, di siccità e di precipitazioni molto scarse, e ha una bassa impronta idrica.

Può, inoltre, contribuire a soddisfare i bisogni nutrizionali di un pianeta che, nel 2030, avrà 8,5 miliardi di abitanti e 9,7 miliardi nel 2050: è infatti ricco di vitamine e minerali, tra cui ferro e calcio, di proteine, di fibre, di amido resistente e ha un basso indice glicemico, che può aiutare a prevenire o gestire il diabete@.

Chi.Gio.

Spighe di teff in Etiopia – AfMC/Brusa Domenico

 




Cristiani e musulmani: una parola comune


A partire dal documento firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, un libro che segue le recenti tappe del dialogo tra le due più diffuse religioni al mondo, ricco di sfide difficili, ma belle.

Anche nel nostro tempo segnato da secolarizzazione e pluralismo, le religioni hanno un ruolo importante per la costruzione di un rapporto pacifico tra le culture.

Un segno di questo è la rilevanza assunta dal Documento di Abu Dhabi, poche pagine firmate da papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb, grande imam di Al-Azhar, il 4 febbraio 2019, nell’ottavo centenario dell’incontro di san Francesco d’Assisi con il sultano d’Egitto.

Ne parlano nel loro volume: Per una fratellanza umana. Cristiani e musulmani uniti nella diversità, edito da Paoline nel 2021, Paolo Branca, docente di lingua e letteratura araba, e Antonio Cuciniello, assegnista di ricerca in studi islamici, entrambi presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.

I due autori rileggono quel documento sotto il profilo dei rapporti tra la Chiesa cattolica e i musulmani, e lo inquadrano nel percorso compiuto negli ultimi decenni, indicandone gli orientamenti di fondo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità, la sincerità delle intenzioni (papa Francesco); il «proclamare con chiarezza ciò che abbiamo in comune» (Benedetto XVI); infine i quattro livelli della solidarietà spirituale enucleati da padre Maurice Borrmans, islamista francese e missionario dei Padri Bianchi: il dialogo dei cuori; il dialogo della vita; il dialogo audace su Dio e sull’uomo; il coraggioso dialogo del silenzio, in cui Dio parla al cuore di ciascuno.

Gli autori Barca e Cuciniello ripercorrono, quindi, alcune delle tappe del dialogo islamocristiano che hanno fatto maturare il Documento di Abu Dhabi.

Scrivono della Lettera aperta a sua santità papa Benedetto XVI inviatagli da trentotto sapienti musulmani nel 2006 dopo il suo famoso discorso di Ratisbona (per il quale il trascendentalismo islamico separava fede e ragione). In essa ribadivano che «l’unità di Dio, la necessità di amarlo e la necessità di amare il prossimo sono il terreno comune tra islam e cristianesimo», ricordando che Corano 16,125 invita i musulmani al dialogo con ebrei e cristiani.

I due studiosi della Cattolica ricordano poi la lettera indirizzata nel 2007 da 138 esponenti musulmani a capi religiosi cristiani, intitolata Una parola comune tra noi e voi, citazione del Corano 3,64: «Veniamo a una parola comune tra noi e voi». In essa si sostiene che le differenze tra le religioni non devono provocare odio e conflitto, ma il «gareggiare nelle opere buone» (Corano 5,48).

Nel 2016, trecento personalità musulmane da centoventi paesi, nella Dichiarazione di Marrakech sui diritti delle minoranze religiose nei paesi a maggioranza musulmana, auspicavano una «giurisprudenza della cittadinanza» come base comune per superare le discriminazioni religiose.

Infine, nel Documento di Abu Dhabi, breve e semplice, cristiani e musulmani hanno indicato insieme i valori che li accomunano e che appartengono anche all’etica laica delle dichiarazioni moderne dei diritti.

La fratellanza umana, in tutte le spiritualità, sostiene la dignità di poveri, deboli, vittime.

«In nome di Dio», musulmani e cristiani riconoscono questa fraternità e la cultura del dialogo.

Il pluralismo religioso è parte della volontà di Dio. I linguaggi religiosi orientano, più che definire. Il concetto occidentale di laicità è espresso col termine arabo che significa «civile», né militare, né confessionale.

In particolare, «Dio ha proibito di uccidere, perché chiunque uccide una persona è come se uccidesse tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se salvasse l’umanità intera», detto ebraico, poi islamico, ora anche cristiano, che suggerisce oggi l’illiceità di ogni guerra, incapace di realizzare giustizia.

Nel Documento sono affermati anche i diritti della donna.

Nasce un islam europeo che non è più solo importato. In Italia sono 2,7 milioni i musulmani residenti, tra cittadini italiani e stranieri.

Le giovani donne musulmane a scuola studiano più degli uomini, rispettano i genitori, ma non si riconoscono nel modello materno: cercano un compagno di vita da pari a pari. Se mettono il velo, lo fanno per scelta.

Nello stesso 2019, la dichiarazione, Una fratellanza per la conoscenza e la cooperazione, delle maggiori rappresentanze musulmane di Italia e Francia, ha aderito al Documento di Abu Dhabi e ha istituito, in scuole e università, consigli culturali per un patto educativo globale interreligioso.

Enrico Peyretti

Per approfondire

 

 

 

 

 

 

 

  • Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Guida alla lettura di Giacomo Costa, Elledici 2021.
  • Teologia del pluralismo religioso, Pazzini Editore 2013.
  • Il Corano. A cura di Layla Mustapha Ammar. Introduzione, traduzione e commento di Alessandro Bausani, BUR, 2006.
  • Cristianesimo e Islam in dialogo, Claudiana 2004.
  • Islam italiano. Viaggio nella seconda religione del paese, Einaudi 2003.
  • Storie italiane di buona convivenza, EDB 2004.
  • Vite e detti di santi musulmani, TEA 1988.
  • Detti e fatti del profeta dell’Islām, Utet 2009.
  • Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 2004.
  • Per un consenso etico tra culture, Marietti 1995.

 

 

 

 

 

 

 


Librarsi per la pace

Inizia con questo numero una nuova collaborazione tra Missioni Consolata e il Centro studi Sereno Regis. In un tempo di generale «chiamata alle armi», sentiamo il bisogno di tutti i contributi possibili per far crescere la cultura della pace.

I l Centro studi Sereno Regis (Cssr) è uno spazio culturale nato a Torino nel 1982 dall’iniziativa di alcune persone impegnate nei campi della pace, nonviolenza, obiezione di coscienza, disarmo, ma anche dell’ambiente, educazione e partecipazione dal basso (ad esempio con il sostegno al sorgere dei comitati di quartiere).

È oggi uno dei più importanti e riconosciuti centri italiani di documentazione e promozione della cultura della nonviolenza e della trasformazione nonviolenta dei conflitti con un patrimonio archivistico unico nel suo genere.

La «mission»

La mission del Cssr si declina in tre ambiti trasversali: ricerca, formazione e azione, e prevede un forte investimento nella condivisione del suo patrimonio archivistico e dei suoi studi, attraverso un programma di attività mirate a intensificare la relazione con il territorio e al coinvolgimento di ampi settori della società con un approccio libero, inclusivo e cooperativo.

La programmazione culturale, che si fonda sull’utilizzo di discipline diverse in dialogo tra loro (tra cui, ad esempio, le arti e il cinema, oltre alle iniziative educative, alle analisi offerte in convegni, e così via), è indirizzata all’approfondimento, alla discussione, al confronto sui temi cardine dell’ambiente, della pace, del dialogo, della partecipazione democratica.

Domenico Sereno Regis

Il Centro studi prende il nome da uno dei suoi fondatori, scomparso prematuramente nel 1984, Domenico Sereno Regis, partigiano nonviolento e, tra le altre cose, instancabile animatore dei primi comitati di quartiere nella Torino del dopoguerra. Il tema della partecipazione consapevole e diffusa, infatti, è da sempre una cifra della vita associativa del Centro. Facilitare i processi partecipativi, dare voce a chi non ne ha, accompagnare lo sviluppo di associazioni e movimenti verso il raggiungimento dei loro obiettivi, fa parte delle competenze che negli anni l’associazione ha sviluppato insieme all’approfondimento delle «tecnologie sociali» che permettono a questi processi di raggiungere i propri obiettivi con inclusività ed equità.

Nonviolenza e riconciliazione

Le figure di Domenico Sereno Regis (1921-1984) e di Nanni Salio (1943-2016), quest’ultimo presidente del Centro studi fino alla sua scomparsa, hanno dato le radici culturali e impersonato le motivazioni politiche e filosofiche dell’associazione.

L’ambito socioculturale di riferimento nel quale il Centro studi si riconosce è quello più ampio e complessivo del Movimento internazionale della riconciliazione (Mir) e del Movimento nonviolento (Mn), a livello internazionale rappresentato dall’Ifor (International fellowship of reconciliation, sei premi Nobel per la pace), di cui il Mir è la sezione italiana, e dalla War resisters’ international, di cui è sezione italiana il Movimento nonviolento.

Luca Lorusso e Cssr

MIR E MN

Il Mir (Movimento internazionale della riconciliazione) opera congiuntamente al Mn (Movimento nonviolento).
Sulla base dell’insegnamento dei maestri della nonviolenza (Gandhi, M. L. King e Aldo Capitini) il Mir è impegnato nella contestazione radicale della guerra e della dottrina militare, di un modello di sviluppo piramidale basato sulla rapina di risorse umane e naturali, di una democrazia formale che sancisce di fatto il sopruso del forte sul debole.

Persegue il fine di una società pacificata più che pacifica, dove cioè il conflitto venga risolto in modo nonviolento, ma non negato o rimosso. Per questo è attento alle dinamiche sociali, ai fatti politici locali e internazionali, a quanto si muove dal basso nella direzione di una crescita del «potere di tutti».
Gli strumenti del suo agire, in base al principio gandhiano della connessione tra mezzi e fini, rispondono integralmente ai criteri di verità, gradualità, lealtà verso l’avversario.
Il Mir, pur essendo di matrice religiosa, rispetta e valorizza la tradizione laica. Il Mn, pur essendo di matrice laica, rispetta e valorizza ogni fede religiosa.

Cssr

https://serenoregis.org
https://www.ifor.org
https://www.wri-irg.org




Allamano. Quattro anni con don Bosco


Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano,  il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.

creazione digitale

Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.

Questi tre aspetti sono diventati, a mio parere, parte irrinunciabile del bagaglio personale dell’Allamano, tanto da essere poi da lui utilizzati sia con i sacerdoti del Convitto che con i membri dei suoi due istituti missionari. Egli esortava i suoi giovani missionari non solo allo studio serio ma anche all’esercizio del lavoro manuale. Scriveva a quelli che già lavoravano in territori di missione: «Nelle località in cui sia possibile iniziare a promuovere colture di prodotti necessari od utili al proprio sostentamento, i missionari si adoperino a darvi sviluppo. Il che sarà pure una buona scuola per far apprezzare agli indigeni i benefici di una vita laboriosa e stabile».

Il beato Allamano visse tutta la sua vita nell’impegno senza riserve per diventare santo e ai suoi missionari amava ripetere sovente: «Prima santi poi missionari». Ciò che lui viveva lo volle instillare nei suoi figli e figlie. Diceva loro: «Condizione assolutamente necessaria per tutti e in ogni tempo, è il desiderio, la volontà di santificarsi. Si fa santo colui che lo vuole. Questo si richiede: avere fame e sete della santità».

Ciò che tutti hanno sempre ammirato nell’Allamano era, infine, la sua dolcezza e amorevolezza. Se egli era fermo nei principi, era umanissimo nell’applicarli agli altri. Il forte senso di
paternità ne era il segreto. Il prossimo, prima di essere considerato un individuo da istruire o correggere, doveva essere amato. Verso tutti, soprattutto i giovani, si sentiva veramente un «padre».

padre Piero Trabucco

Missionari presenti all’incontro di Murang’a nel 1905 – AfMC/Filippo Perlo


Murang’a 2

Dal 13 al 16 giugno 2022 si è svolto online il Convegno internazionale della famiglia Consolata «Murang’a 2», un evento per fare memoria della «Conferenza di Murang’a»: la missione del Kenya dove dal primo al tre marzo 1904, i primi missionari della Consolata, pieni di problemi all’inizio della loro esperienza in una terra sconosciuta, avevano deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro (vedi il dossier «Il sogno concreto» in MC 10/2022).

Un sogno realizzato

La Conferenza di Murang’a rappresenta una pietra miliare nella storia degli istituti dei missionari e missionarie della Consolata, in quanto ha elaborato una metodologia che costituisce le basi dello «stile consolatino» fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione, caratterizzato dalla formazione ed educazione tramite le scuole, il catechismo, i catechisti; sulla cura delle persone con i dispensari e gli ambulatori; sull’incontro interpersonale con la visita ai villaggi, lo studio delle lingue locali, la vicinanza ai popoli e alle persone, la formazione all’ambiente.

Murang’a 2 ha visto la partecipazione di 656 persone tra missionari, missionarie e laici della Consolata, e si è svolto nello spazio di quattro giornate imperniate ciascuna su una parola chiave: comunione, carisma, missione e sogno.

Come superiore generale, nel tirare le conclusioni di quel convegno, ne ho parlato come di «un sogno realizzato» che ci aiuta a riscoprire, quasi a reinventare, il carisma della vita consacrata rispondendo più direttamente ai bisogni e alle aspirazioni del nostro tempo pur restando fedeli al carisma del padre Fondatore.

Alla scuola di Allamano

I primi allievi e allieve, discepoli e discepole di Giuseppe Allamano videro sempre risplendere «un alone di santità» o di straordinarietà attorno alla sua figura e ai suoi gesti, anche minimi. Sentendosi amati e amate, «coccolati e coccolate» da lui, si diedero da fare per conservare tutto di lui (anche i capelli e i bottoni della sua veste), soprattutto il suo insegnamento, le sue calde raccomandazioni, lettere o bigliettini che volentieri scriveva a molti e a molte di loro.

Più passa il tempo, più Allamano cresce. Più si scava in profondità, più lo si ritrova ingigantito e presente. Questo prete, defunto da quasi un secolo, affascina e stimola ancora. Per noi, missionari e missionarie della Consolata «fa ancora notizia», non commemorazione, non rievocazione: fa ancora scuola. È lui, anche oggi, la novità, la spiegazione, l’attrattiva. Si va da lui non per visitare un monumento, ma per frequentare una persona viva, per ascoltare «un silenzioso che ha qualcosa da dire» (come lo ha definito suor Gian Paola Mina). Per riscoprire, ogni volta che ne sentiamo il bisogno, qual è la nostra vocazione, il nostro posto nella Chiesa, la nostra presenza nel mondo.

Tre perle

Desidero mettere in evidenza tre perle, tra le tante, dell’insegnamento di Allamano che possono orientare ancora:

  1. «Fare bene il bene»: ossia, ricerca della qualità della vita. La qualità della vita viene indicata da Allamano, come «principio ispiratore» della nostra vita e missione. È soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
  2. «Nella discrezione e semplicità»: la vita più che le parole del beato Fondatore ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare centro d’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo di protagonista, che è semplice, accogliente dell’altro, aperta alla dimensione comunitaria.
    Esprime questo stile allamaniano il missionario, la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretese, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità. Basta ricordare quanto di lui disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
  1. «L’amore alla gente»: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”» (don Dario Berruto, rettore del santuario della Consolata).

Ispirati a Murang’a

Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.

Il nostro metodo missionario è caratterizzato da vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. La missione con i poveri aiuta a superare i rischi dell’autoreferenzialità, senza mai dimenticare che la missione nasce dall’incontro con Cristo. Il missionario, la missionaria, prima di tutto deve essere audace e creativo, al punto da ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi della missione, perché è necessario ripensare tutto alla luce di ciò che esige lo Spirito.

In questo sforzo per rispondere al Signore, contempliamo Maria, missionaria dei cammini di Dio nella storia, «Vergine magnanima del Magnificat», stella dell’evangelizzazione rinnovata. Ella è per noi modello di autentica missione.

padre Stefano Camerlengo

Gruppo di missionari e missionarie dopo la celebrazione della messa presieduta da padre Stefano Camerlengo nella festa della Consolata 2022 – AfMC/Gigi Anataloni

 


La carità nella verità

La vita e il genio di Giuseppe Allamano si esprimono in uno zelo ardente per vivere la verità di Cristo e promuoverne la presenza nelle persone, nelle culture, nella società e in ogni aspetto della vita quotidiana.

 Nella vita della Chiesa occupa un posto di rilievo la storia delle varie spiritualità che sono come dei «tesori viventi» lasciati da individui arricchiti da Dio con un dono sacro e speciale di intuizione e di convinzione.

Papa Benedetto XVI, nell’enciclica «Caritas in veritate», ha affermato che verità e carità in Gesù «si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una non può stare senza l’altra». Anche Allamano si era già avventurato in un’appassionata ricerca per penetrare il significato di questa relazione in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Un profondo e incondizionato amore per la verità è divenuto come l’ancora o il fondamento della sua spiritualità. Ne sono prova le sue parole ai missionari quando ha consegnato loro le prime Costituzioni dell’istituto nel 1923: «Ricevetele, o carissimi, non come dalla mia mano, ma dalla mano del Signore e della SS. Consolata che a questo istituto vi chiamarono, con vivo spirito di fede. Questo vi posso assicurare, che ogni singola regola, e non dubito di dire ogni singola parola, fu oggetto di serio studio, di lunghe considerazioni, specialmente di molte preghiere».

Vivere la carità nella verità è saggezza

La spiritualità allamaniana è l’antitesi della mentalità del «ghetto»: essa è fatta di sorgenti e ponti, non di muri e steccati. Allamano si deliziava a invogliare i suoi missionari a contemplare il vero, a dialogare con la gente, a capire la realtà locale con le sue culture. Uno dei suoi slogan era: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Sicuramente intendeva un fuoco nel dialogo con l’altro, che non sia un semplice scambio di vedute, ma una ricerca appassionata della verità.

In più Allamano era convinto che la ricerca intelligente della verità, quando non è fine a se stessa o sterile soddisfazione intellettuale, si orienta necessariamente alla missione, che ha come parte integrante la formazione e promozione umana degli individui e, di conseguenza, l’autentico progresso della società.

La spiritualità nella «pubblica piazza»

Per evangelizzare le persone nella «pubblica piazza», cioè nella società, ci vuole il vero fuoco missionario, non tiepidezze o mezze verità. Oggi, il secolarismo pervade la maggior parte delle società. Esso respinge la scuola di Dio, pone il Creatore fuori gioco, mettendo al centro la creatura.

Conoscendo lo spirito di Allamano, ecco quale sarebbe la sua denuncia al riguardo: distaccata dalla verità di Cristo, la persona afferra solo mezze verità, opinioni parziali e pregiudizi travestiti da dichiarazioni importanti e imperativi categorici. Così la sua condotta scivola nel compromesso permanente, che ottunde lo spirito. Gradualmente l’autentica libertà umana, che deriva dall’amore alla verità, si riduce a «scelte» parziali compiute in modo indiscriminato, quasi obbligatorie perché in voga, subito sostituite da altre nell’insaziabile ricerca di novità.

In questa mentalità secolarizzata Allamano ci invita ad aderire con tutte le nostre forze a ciò che è vero e buono. «Tutto faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23), e Allamano aggiungeva: «Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò». E continuava: «Non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime… Ah, non sarà mai missionario chi non arde di questo fuoco divino!».

Fare il bene bene

Come possiamo realizzare la verità unita all’amore, che si rivela essere il fondamento indispensabile per il bene di ogni famiglia e di ogni comunità? Come ridare speranza alla società perché raggiunga il suo fine?

Allamano ci può aiutare anche in questo. La sua robusta spiritualità lo ha aiutato a dare risposte a queste domande. Egli ha cercato per prima cosa la coerenza e l’integrità della propria persona attraverso ciò che definisce «la necessità della scienza», intesa come continua ricerca della verità su Dio e sull’uomo. Ha così raggiunto una grande maturità, che lo ha reso idoneo a diventare l’uomo dell’amore verso gli altri, cioè l’uomo dell’aiuto e del consiglio.

Allamano ha proposto lo stesso suo percorso anche ai suoi figli: «Essendo voi missionari, la vostra scienza è molto più ampia: dovete attendere principalmente agli studi sacri e secondariamente allo studio ed esercizio dei lavori manuali, e poi del catechismo, delle lingue e di quelle nozioni che possono aiutarvi a fare in missione maggior bene».

Quando parlava di studio, Allamano non intendeva solo un’attività intellettuale, ma un impegno di ricerca e quindi di formazione progressiva e continua, che non fosse fine a se stessa, ma in funzione del servizio del prossimo.

La vera scienza porta a Dio e all’uomo in armonia con la natura. In questa prospettiva si comprende l’importanza che l’Allamano dava anche al lavoro manuale. Educarsi alla comprensione di ciò che costituisce il vero essere spirituale e morale di ognuno entra in quell’impegno che Allamano spiegava con l’espressione «fare il bene bene», in base al quale, mentre si conosce il valore immutabile di ogni persona, la si ama in modo concreto.

Questa intuizione è di grande attualità. Infatti, oggi la questione della verità della persona umana, della sua natura e dignità, si è come eclissata; diverse espressioni dell’amore umano appaiono banali e persino distorte. Al contrario Allamano insegna che l’amore, se si illumina con la fede e la verità, conduce l’uomo a un fine «alto», che garantisce una felicità duratura e indirizza alla società, che nella sua espressione più elevata diventa missione «ad gentes».

Thomas Ishengoma