L’8 marzo è la «Giornata internazionale dei diritti della donna», conosciuta più semplicemente come «Festa della donna». È una giornata che, al di là del tanto parlarne che se ne fa in questi giorni, richiede una seria riflessione da parte di tutti, uomini e donne, chiamati a compiere assieme un cambiamento di mentalità.
Quanti fatti sono davanti ai nostri occhi: lo stupro usato come arma di guerra in Ucraina, ma non solo; i jihadisti di varie tendenze che, nell’Africa subsahariana, rapiscono donne e bambine per usarle come schiave, emulati in questo dai miliziani che razziano il Nord Est della Rd Congo; la mutilazione genitale femminile, che in diverse regioni a influenza islamica prende la forma estrema di infibulazione; la pratica delle nascite selettive, per cui le bambine vengono soppresse. Aggiungi la tratta di persone che coinvolge soprattutto giovani donne e bambine sia per la prostituzione su strada che per il lavoro schiavo. Senza dimenticare la brutalità della repressione in Iran, dove in nome di Dio (che bestemmia!) giovani donne vengono torturate, abusate, stuprate e uccise proprio da chi si proclama difensore della religione e della famiglia; mentre in Afghanistan le donne sono imprigionate dentro il burqa e private di libertà, di diritti e di educazione, anche qui in nome di Dio (ma quale Dio?).
Se quelle citate sopra possono sembrare (ma non lo sono) vicende lontane, anche guardando più vicino a noi, in Europa, troviamo molto da lavorare: dalla pedopornografia online che domanda efferatezze e violenze sempre più estreme, ai 120 femminicidi avvenuti in Italia nel 2022 più i cinque che hanno già marcato lo scorso gennaio; dalle discriminazioni nelle carriere e nei salari ai licenziamenti o penalizzazione sul lavoro delle donne incinte.
Smetto di elencare, e vengo al punto. Una lettura onesta di questa situazione deve essere per tutti, donne e uomini (in particolare), un pugno nello stomaco che provochi una vera revisione di tutto il nostro modo di essere, di pensare e di agire. E non solo: deve mettere in discussione le idee che abbiamo circa l’identità maschile e quella femminile, la posizione nel mondo che ciascuna delle due ha, e le diverse e specifiche modalità di relazionarsi con l’altro, con la natura e con Dio. A maggior ragione questo deve farlo chi si dice credente, perché proprio nella Parola di Dio trova i criteri per essere uomo e donna in modo nuovo. È nella Scrittura che chi si dice cristiano trova quelle linee guida fondamentali di castità che dovrebbero essere alla base di tutte le relazioni.
Qualcuno si potrebbe domandare: cosa c’entra la castità ora? Mica possiamo vivere tutti come frati o suore? C’entra, perché la castità non è solo astensione dal sesso, è qualcosa di diverso e molto più profondo. Ricordo sempre quando il nostro professore di Bibbia, arrivato al testo di Matteo 5,28: «chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore», lo ha parafrasato dicendo «smettetela di guardare le donne solo come un oggetto». Di fatto essere casti non è semplicemente non fare sesso, ma è vivere in modo nuovo le relazioni mettendo al centro il rispetto, l’amore che non mercifica, la ricerca del vero bene dell’altra/o, e la promozione della sua dignità e libertà.
Castità indica certo un mondo di relazioni dove la sessualità ha il suo ruolo importante per esprimere la donazione totale che due persone si fanno a vicenda, unendosi in un progetto di vita, ma esprime anzitutto un rapporto dove si mette al centro la libertà, la gratuità e il benessere dell’altra/o. La castità è il contrario di ogni atteggiamento padronale, è contestazione di ogni possesso o dominio. Nella castità la relazione è dono, non diritto o imposizione. Questo tipo di relazione non si applica solo tra due persone fidanzate o sposate, ma diventa l’anima del vivere insieme, delle relazioni interpersonali, dei rapporti di lavoro, del modo in cui si guarda la tv, si naviga il web, si vedono le persone attorno a noi.
Di questi tempi la castità non ha molta cittadinanza nella nostra cultura, schiacciata com’è dal fraintendimento di un altro grande dono che abbiamo tutti ricevuto: la libertà. Se la libertà, infatti, è solo «libertà da» ogni costrizione e legame, e «libertà di» fare tutto ciò che si vuole perché ci si percepisce come padroni assoluti della propria vita, la relazione intesa come dono perde la sua attrattiva. Castità invece si coniuga con «libertà per» amare con gratuità e rispetto, diventando così un grande cammino per costruire davvero un’umanità nuova, libera, inclusiva, dove ogni persona possa realizzare la propria vocazione e vivere in pace in un mondo amato, curato e rispettato.
L’8 marzo è la «Giornata internazionale dei diritti della donna», conosciuta più semplicemente come «Festa della donna». È una giornata che, al di là del tanto parlarne che se ne fa in questi giorni, richiede una seria riflessione da parte di tutti, uomini e donne, chiamati a compiere assieme un cambiamento di mentalità.
Quanti fatti sono davanti ai nostri occhi: lo stupro usato come arma di guerra in Ucraina, ma non solo; i jihadisti di varie tendenze che, nell’Africa subsahariana, rapiscono donne e bambine per usarle come schiave […]; la mutilazione genitale femminile [—]; la pratica delle nascite selettive, per cui le bambine vengono soppresse. Aggiungi la tratta di persone [—]. Senza dimenticare la brutalità della repressione in Iran, […] mentre in Afghanistan le donne sono imprigionate dentro il burqa […]
Qualcuno si potrebbe domandare: cosa c’entra la castità ora? Mica possiamo vivere tutti come frati o suore? […]
Castità invece si coniuga con «libertà per» amare con gratuità e rispetto, diventando così un grande cammino per costruire davvero un’umanità nuova, libera, inclusiva, dove ogni persona possa realizzare la propria vocazione e vivere in pace in un mondo amato, curato e rispettato.
Sì, allora castità diventa vera via alla pace.
Mentre in Niger (e nel Sahel) la situazione economica e sociale si deteriora, le forze vive della nazione si organizzano e creano lavoro per sé e i loro coetanei. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo (secondo i parametri delle Nazioni Unite), ma è ben noto a Bruxelles e alle cancellerie occidentali), e inviano truppe, blindati, elicotteri, soldi.
Ma in questo dossier è un’altra la storia che vogliamo raccontare. È quella di giovani africani che, consapevoli di non trovare un impiego nel loro paese, si inventano loro stessi un lavoro. Diventano imprenditori, sovente con un approccio «green» rispettoso dell’ambiente, come solo i giovani sanno fare. Tutti con una grande passione, e un sogno che spinge per realizzarsi. Spesso hanno successo e riescono pure a dare lavoro a loro coetanei. Ci raccontano come sono nate le loro imprese, i primi passi e le difficoltà. E quali sono i loro piani per il futuro. Che sia questa la via per l’Africa?
Reportage dal Rojava, lo «stato» dei curdi siriani / 1
I curdi del Nord Est della Siria sono stati fondamentali per fermare gli estremisti dello Stato islamico (Isis-Daesh). Dimenticato il loro contributo, oggi sono in balia dei vicini, la Siria di Assad e l’ambigua Turchia di Erdogan.
Nel paese andino è uscito di scena un altro presidente: il maestro Pedro Castillo è passato dal palazzo presidenziale al carcere. Dallo scorso dicembre, il Perù è guidato, per la prima volta nella sua storia, da una donna, Dina Boluarte. La situazione è però esplosiva. Le proteste continuano. Anche a causa di un Congresso che (per ora) rifiuta l’anticipo delle elezioni al 2023.
Sonia, Anielle, Margareth, Marina. Il governo del neo presidente Lula pensa ai popoli indigeni e scommette sulle donne.
Indigene e afrodiscendenti, ex faveladas e seringueiras: le donne dei ministeri chiave del nuovo governo del presidente Lula provengono dalle periferie geografiche e simboliche, militano nel movimento indigeno, femminista e ambientalista e avranno il compito di rivoluzionare la politica per costruire un paese veramente plurale. I nomi erano stati annunciati già lo scorso dicembre.
Cinquant’anni che hanno cambiato il modo di servire la collettività
Nel 1972 viene emanata la legge che riconosce l’obiezione di coscienza al servizio militare, ma la sua forma punitiva mostra che la strada da percorrere è ancora lunga. Cinquant’anni di lotte per affermare il diritto di servire il bene comune ripudiando le armi.
«Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Così viene accolta la legge 772 del 15 dicembre 1972 che introduce il servizio civile in Italia da «Azione nonviolenta», il periodico fondato da Aldo Capitini e allora diretto da Pietro Pinna, il primo obiettore al servizio militare in Italia a dare «pubblicità» alla propria scelta. Si tratta di un sentimento diffuso tra obiettori e pacifisti.
È uno dei cammini più conosciuti al mondo. Nel 2019, è stato percorso da 350mila pellegrini. In queste pagine, il racconto della sua nascita, tra fede e storia.
La geografia del mondo religioso, cattolico in particolare, è attraversata da una ragnatela di sentieri che uniscono luoghi significativi dal punto di vista devozionale. Nei culti asiatici, caratterizzati dal ciclo delle rinascite, questi itinerari sono circolari, non hanno inizio né fine e possono essere percorsi all’infinito. Nelle fedi monoteiste, invece, sono linee che si dirigono verso singoli punti, simboli di un cammino di fede personale che ha come obiettivo l’incontro con Dio.
Cinghiali (e lupi) alle porte di casa. La fauna selvatica e l’uomo
In Italia, si stima la presenza di 2,3 milioni di cinghiali. I danni che producono sono enormi, ma la caccia libera
non è la soluzione. Nel frattempo, anche sui lupi (pur presenti in poche migliaia ) si è aperta la discussione.
È un fatto che i centri abitati siano diventati molto attraenti per la fauna selvatica. Sempre più spesso, infatti, le nostre città si trovano a ospitare svariate specie di animali selvatici, diventati – per
Lavora, guadagna, spendi – La società-supermercato:
Nelle società attuali, il baratro della povertà è sempre incombente. Per tutti. Una possibile soluzione sarebbe il reddito universale. Tuttavia…
Nella società del supermercato, la possibilità di sprofondare nella povertà è sempre in agguato. Per tutti. Basta una ristrutturazione, una delocalizzazione, una recessione mondiale e tutto vacilla. In particolare vacillano i posti di lavoro che rappresentano la base della sopravvivenza per la maggior parte della popolazione.
Il discorso è vecchio: da quando l’economia è finita sotto il dominio dei mercanti, che hanno assunto anche il ruolo di produttori, è stato fatto ogni sforzo per espropriare le persone di qualsiasi modo di provvedere a se stesse, in modo da costringerle a non avere altra soluzione se non quella di vendere il proprio lavoro in cambio di un salario. Così è stata costruita la società del supermercato che funziona secondo l’imperativo: «lavora, guadagna, spendi».
Nei salmi e nei profeti ricorre molto frequentemente il nome di Giacobbe. È lui, infatti, chiamato anche Israele, a rappresentare l’unità del popolo ebraico: lui, il capostipite dei dodici patriarchi delle tribù d’Israele.
Potremmo immaginare che si tratti di una figura esemplare, magari raccontata in toni agiografici ed esaltati, ma, a leggere il libro della Genesi che in gran parte è dedicato a lui, si scopre una persona pessima, imbrogliona, violenta e pavida, anche se astuta e decisa.
Sotto la superficie, però, scopriamo anche un percorso di crescita umana molto moderno, con un approdo forse sorprendente e di certo profondo.
Da quindici anni in Polonia per l’animazione missionaria e per «guardare a Est», dallo scorso 24 febbraio padre Luca Bovio si trova coinvolto nell’emergenza Ucraina. Prima nell’accoglienza dei profughi, poi in una rete di solidarietà che porta sollievo alla popolazione in guerra e offre una testimonianza di pace.
«È stata come un’ondata. In pochissimi giorni sono arrivate in Polonia prima centinaia, poi migliaia di persone». Padre Luca Bovio, missionario della Consolata milanese, classe 1970, in Polonia dal 2008, ci racconta in collegamento da Varsavia l’inizio del conflitto in Ucraina dal suo punto di osservazione polacco.
«Giorno dopo giorno i numeri crescevano. Il telefono ha preso a squillare non stop.
Il 53° Forum economico mondiale di Davos si è svolto dal 16 al 20 gennaio scorsi. Il titolo di quest’anno, «Cooperazione in un mondo frammentato», suggeriva una maggior attenzione ai temi dello sviluppo e della cooperazione. Ma, al di là di qualche iniziativa isolata e limitata, i risultati non sono incoraggianti, specialmente in un tempo in cui le diseguaglianze aumentano ancora.
Nella sua più recente edizione, il Forum di Davos sembra essere tornato alle origini, quando era un evento per manager concentrato sull’economia e sulla finanza e non un vertice su temi geopolitici a cui partecipavano anche capi di stato e di governo. Lo ha scritto Liz Hoffman, ex cronista del Wall Street Journal che oggi scrive per Semafor, la newsletter di notizie fondata da Ben Smith e Justin Smith, due noti giornalisti statunitensi ed ex direttori rispettivamente del sito Buzzfeed e del gruppo di media Bloomberg.
È arrivato di corsa, affannato. Aveva una domanda che lo agitava: come faccio a non morire? Negli occhi la determinazione di ottenere una risposta e la convinzione di avere a suo vantaggio una vita ineccepibile, fin dalla giovinezza (cfr Mc 10,17-31).
Hai fissato lo sguardo su di lui. Ne hai contemplato la verità. E lo hai amato, cogliendone la miseria. «Una cosa sola ti manca», gli hai detto per indicargli la salvezza annidata proprio lì, nella grazia di avere una falla.
E gli hai offerto una via di uscita da sé: te.
Fiori nei cannoni – Per approfondire il tema dell’obiezione di coscienza
La storiografia italiana sul «no» alle armi è ancora troppo ridotta rispetto al grande lavoro per la pace condotto nel nostro paese da molti attori. Alle panoramiche nazionali si affiancano studi utilissimi su luoghi specifici (come Torino) o personaggi che varrebbe la pena conoscere meglio. Nella storia dell’obiezione di coscienza italiana, il 2022 che ci siamo lasciati da poco alle spalle ha coinciso con il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione della legge 772/72, quella che ha riconosciuto l’obiezione di coscienza al servizio militare e istituito la possibilità di un servizio civile sostitutivo.
eSwatini: Comunicato del vescovo sull’uccisione di Thulani Maseko
La sera del 22 gennaio 2023 «è stato brutalmente ammazzato a colpi di arma da fuoco Thulani Maseko, avvocato per i diritti umani e influente oppositore a eSwatini (ex Swaziland), l’unica monarchia assoluta nel continente africano. […] Maseko è stato anche il fondatore di MSF, una coalizione di partiti di opposizione, associazioni e chiese. Era un importante avvocato ed editorialista per i diritti umani nel regno e aveva in corso una battaglia giudiziaria con il re Mswati III per la decisione del monarca di rinominare il Paese Eswatini.» (Africa exPress).
Qui la dichiarazione che il vescovo di Manzini, mons José Luis Ponce de León ha pubblicato il 23 gennaio.
DIOCESI DI MANZINI – ESWATINI (Swaziland)
Dichiarazione del vescovo cattolico di Manzini
“In mezzo a tutto ciò che sta accadendo nel paese, notiamo che nessuno è al sicuro. La mentalità dell’occhio per occhio sembra aver afferrato la nazione. La violenza ha raggiunto livelli allarmanti”. (Thulani Maseko)
“Una società che accetta questo livello di violenza è condannata a sperimentarne livelli ancora più alti che possono solo generare più morte e sofferenza”. Questo è stato il mio messaggio dopo l’uccisione di due agenti di polizia a Manzini nell’ottobre 2022. Da allora si sono verificati altri omicidi. Purtroppo, sembra che li abbiamo accettati come la “nuova normalità” nel Regno di Eswatini.
Domenica 22 gennaio 2023 ci siamo svegliati con la notizia dell’insensata uccisione di Thulani Maseko. Il numero di dichiarazioni nazionali e internazionali sulla sua uccisione e la copertura mediatica parlano del tipo di persona che era e del suo ruolo nel momento presente del nostro paese.
Era preoccupato per i livelli di violenza che si stanno sperimentando e per l’impatto che hanno nella vita di molti. Credeva che solo un dialogo nazionale che includesse tutti potesse essere una solida base per il futuro del nostro paese.
Ha scritto: “Non c’è dubbio che eSwatini stia sopportando una guerra civile di basso profilo. Siamo preoccupati che senza il dialogo, il prossimo anno sarà più violento. (…) Alla fine di tutto, dobbiamo sederci e plasmare insieme il destino del paese. ”
La sua uccisione punta a coloro che fanno una scelta per la violenza, la morte, la paura e l’esclusione come fondamenta del nostro futuro comune. A loro si applicano le parole di nostro Signore: “Se aveste compreso anche voi, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai vostri occhi”. (Lc 19,41-42)
Rispondere alla sua uccisione con la violenza significherà andare contro ciò che lui ha rappresentato. Mostrerà anche che “ciò che costruisce la pace” è nascosto ai nostri occhi.
Come dice Papa Francesco: “La pace, che è un nostro obbligo, è prima di tutto un dono di Dio”. (22.05.2022) Pertanto, in questo momento critico del nostro Paese, invito ogni persona della diocesi di Manzini a pregare quotidianamente per il dono di Dio della pace, ma anche a a prendere un concreto impegno personale ad essere “operatore di pace” (Mt 5, 9), a rendere possibile la pace senza addurre scuse che il tempo non è giusto o che non è possibile resistere alla tentazione della violenza. Che questo avvenga attraverso le nostre parole e azioni, poiché entrambi, parole e azioni, hanno il potere di costruire e distruggere. Non dovremmo mai sottovalutarle.
Lo Spirito del Signore risorto ci dia la saggezza e il coraggio di trovare le vie per spezzare il ciclo della violenza.
I nostri cuori raggiungono nella preghiera la famiglia di Thulani Maseko, gli amici e tutti coloro che piangono la sua morte. Il Dio di ogni consolazione conceda loro pace e forza. Gesù, il Buon Pastore, lo accolga a casa.
+ José Luis Ponce de León IMC
vescovo di Manzini
23 gennaio 2023
(Citazioni dalla rivista “The Nation”, gennaio 2023)
Perù: quel conflitto antico tra Centro e Periferia
È da otto anni che non metto piede in Perù e spesso preferisco non parlarne perché non vivo quello che accade quotidianamente. Lo guardo e lo seguo da distante.
Oggi però due parole le vorrei spendere, dopo l’autogolpe fallito del presidente contadino Castillo contro il Congresso (parlamento peruviano), la sua incarcerazione e l’ascesa al potere della vicepresidente Dina Boluarte che può annotare nel suo diario personale più morti che giorni di Governo: 47 contro 38 [dati al 14/01/2023].
Durante il suo breve mandato, l’esercito ha ucciso 47 persone di Juliaca, Puno, Cuzco e altre provincie che stavano chiedendo in piazza elezioni immediate, dopo l’ennesima crisi di governo che vive questo paese.
Ma di chi sono queste 47 vite e quanto valgono?
Sono persone delle regioni più rurali, di quelle periferie dimenticate dal governo centrale di Lima. E la cosa più triste di questo massacro non è il numero ma l’indifferenza di chi governa.
Un mio amico peruviano, e che vive a Lima, ieri mi diceva questo: «La cosa più inquietante è che non riconosco più i miei amici, i miei compagni di scuola, che si accontentano di giustificare queste morti sotto la dicitura: erano dei violenti».
Come se la morte di uno che vive in Puno, nel Sud dimenticato del paese, al confine con la Bolivia, non avesse valore. Come se 47 morti di persone delle province non valessero come 47 morti di persone del centro/Lima e quindi non fossero sufficienti al governo di Dina Boluarte per dimettersi. E di fronte a questo è caricaturale il lutto nazionale dell’11 gennaio che suona un po’ come: «S’ha da fare per evitare una figuraccia internazionale, ma non me ne frega niente».
Non intendo giustificare Castillo, primo presidente che arriva appunto dalle periferie e aveva quindi la grande responsabilità di portare la voce di queste aree del paese ai livelli apicali.
Anzi come si dice in America Latina, ha fatto davvero una mala jugada (un autogol, nda) perché invece di migliorare le condizioni delle zone più rurali e rafforzare il protagonismo politico delle persone indigene ed escluse, con la sua stessa incapacità strategica e politica inficia oggi la possibilità di una persona delle comunità di poter raggiungere alti livelli decisionali.
E questo ha reso quel conflitto antico tra centro e periferia ancora più insanabile. Quando il silenzio internazionale calerà su questa storia, tutto rimarrà uguale. Le periferie si ritroveranno a essere sempre più schiacciate da quel centro elitario, un po’ troppo bianco o un po’ meno indigeno, che azzittisce troppo spesso nel sangue la sua stessa gente, residente solamente un po’ più distante da ciò che si considera il centro.
Simona Carnino
Nota:
Alcune di queste foto, scattate 11 anni fa, sono state realizzate da una bambina a cui ho dato una macchina fotografica compatta, mentre io osservavo un tribunale comunitario che stava giudicando una persona per il reato di abigeato, ai tempi della mia vita peruviana divisa tra Centro e Periferia (2012).
Centoventicinque
Dopo dodici direttori, oltre millequattrocento numeri e 60mila pagine, MC entra nel suo 125° anno di onorato servizio all’evangelizzazione nel nome della Consolata. Periodico fondato dal beato Giuseppe Allamano e da subito affidato alle mani capaci del canonico Giacomo Camisassa, nel gennaio 1899 esce «l’anno 1 – n. 1» de «La Consolata». Nasce dopo che, nel 1898, la città di Torino ha vissuto momenti di intensa religiosità mariana e mentre si prepara, per il 1904, alla «celebrazione dell’ottavo centenario del miracolo del cieco di Brianzone (sic invece di Briançon)» con il ritrovamento del quadro della Consolata. Con il periodico, infatti, l’Allamano vuole offrire ai torinesi e ai fedeli di tutto il Piemonte «studi, notizie e relazioni sulla divozione della Consolata fuori del suo santuario in Torino: in Piemonte specialmente, dove esistono santuari, cappelle, compagnie che dal suo nome si intitolano. Daremo notizie sulla divozione della Consolata nel resto d’Italia, in Francia, nell’Inghilterra e nelle Americhe, dove i nostri migranti portano questo tesoro di pietà e di speranza» (da La Consolata 1/1899).
Sono 32 pagine ogni mese, impreziosite da fotografie di alta qualità, per le quali si fanno produrre le matrici in piombo a Vienna, perché nessuno in Italia è in grado di eseguire un lavoro così bello.
All’inizio del 1901 nelle sue pagine si legge un appello a tutte le famiglie che hanno «congiunti o amici fuori dall’Italia, specialmente in America», affinché mandino gli indirizzi di persone a cui «giungerebbe gradita la lettura del periodico». Fin dai primi anni la rivista vuole raggiungere tutto il mondo, così come l’istituto missionario nato in quello stesso 1901. «La tenerezza, la divozione a Maria sono germi fecondi di eroismo e sacrificio. Non è dunque a far meraviglia se sotto l’egida della Consolata sorse un istituto che ha per altissimo scopo di formare giovani […] all’apostolato […] attraverso i lontani e barbari paesi ove il Signore li chiama ad evangelizzare gl’infedeli. […] L’importanza di tale fondazione sta a dimostrare come il culto della Consolata non sia soltanto contemplativo, ma attivo […] oltre i confini della nostra terra» (La Consolata, 1/1902).
L’annuncio della nascita dell’istituto dei Missionari della Consolata è già stato dato nel novembre del 1900. La data ufficiale di fondazione è il 29 gennaio 1901. Il periodico ne riparla nel luglio del 1901, e, poi, nel settembre 1902 presenta il primo resoconto dell’arrivo dei missionari nell’Africa equatoriale, dedicando a esso tutte le sue 24 pagine con ben quattro foto e una dettagliata cartina su due pagine.
Da questo momento in avanti le notizie dalle missioni cominciano a dominare «La Consolata», a spese di quelle sul santuario. Così, dopo la morte del beato Allamano (1926), nel marzo del 1928, si rende necessaria una separazione, non senza qualche sofferenza, e la versione missionaria de «La Consolata» diventa «Missioni Consolata».
Ancora oggi la testata «Missioni Consolata» rimane, superando la tentazione di un nome più accattivante per i canoni della comunicazione contemporanea. Rimane «Consolata» perché Lei, amata con questo nome nel suo santuario a Torino, è la prima missionaria ed è cittadina del mondo, e perché è stata Lei a spingere l’Allamano a fondare una comunità di uomini e donne che sognano di far conoscere Gesù Cristo a tutti, soprattutto ai più poveri, ai marginali e agli esclusi. Rimane «Missioni» perché i missionari non sono i padroni di quanto raccontano, ma solo dei servitori e inviati: di Dio che li manda; di ogni uomo con il quale condividono il desiderio di un mondo giusto e fraterno; del creato che si sentono chiamati a curare, abbellire e rendere un «paradiso» per tutti.
Sappiamo di correre il rischio di essere ignorati a causa di questo nome che «sa troppo di Chiesa», e quindi puzza di vecchiume o bigottismo, e fa pensare a gente in cerca solo di offerte in denaro.
Sappiamo anche, però, che chi si concede di sfogliare la nostra rivista è felice di scoprire che le «Missioni» che serviamo raccontano realtà estremamente moderne e allo stesso tempo capaci di proporre una critica profonda al nostro mondo. Abbiamo fatto nostro il detto di Terenzio: «Tutto quello che è umano mi interessa». E poi, chi ci legge, scopre che la madre di Gesù, la Consolatrice, si sente «Consolata» ogni volta che viviamo l’amore, la pace, la giustizia, la fraternità e la gioia per cui suo Figlio ha dato la vita.
Anche nel suo 125° anno e negli anni futuri questa rivista sarà testimone del genuino interesse dei Missionari della Consolata per l’uomo e per tutto ciò che lo riguarda. Ispirati e sorretti dal Signore Gesù e da Maria, madre sua e nostra.
Etica e affari, un matrimonio difficile
Ben&Jerry’s, azienda Usa di successo, non vuole più vendere i propri gelati nei territori palestinesi occupati da Israele. Ne è nato un intricato conflitto politico e legale. È possibile tenere insieme ricerca del profitto e principi etici?
Nella storia del capitalismo, di dispute fra imprese se ne sono viste tante, ma che una filiale portasse in tribunale la propria capogruppo, questo no, non era mai capitato. È quanto è successo negli Stati Uniti per una vicenda che riguarda addirittura il conflitto israelo-palestinese. Il dilemma è se vendere o non vendere nei territori occupati da Israele. Non riuscendo a trovare un accordo sul piano politico, le due parti stanno cercando di spuntarla tramite sofisticate battaglie legali. Mentre scriviamo, il contenzioso è ancora in corso, ma qualunque sarà il suo esito vale la pena raccontarlo per i molteplici aspetti che solleva.
Dal vermont al mondo
Le due parti in gioco sono Unilever e Ben&Jerry’s. La prima è una potente multinazionale inserita nel settore dei prodotti igienici, cosmetici e alimentari. La seconda è un’impresa di gelati nota soprattutto al pubblico americano. In effetti, Ben& Jerry’s nacque negli Stati Uniti per iniziativa di due piccoli imprenditori, Bennet Cohen e Jerry Greenfield, che, nel 1978, decisero di aprire una gelateria in una località del Vermont, loro città natale. L’iniziativa ebbe successo e in breve Ben&Jerry’s divenne una catena di gelaterie con punti vendita in tutta la nazione. L’attività andava così bene che attirò l’attenzione dei giganti del settore, tanto che, nell’anno 2000, Unilever se la comprò. L’assorbimento fu totale, ma i vecchi proprietari riuscirono a porre come condizione che l’azienda continuasse a essere gestita da loro secondo i propri principi etici.
Nel panorama del mondo degli affari i due imprenditori rappresentavano senz’altro un’eccezione perché erano convinti che obiettivo dell’impresa debba essere non solo il perseguimento del profitto, ma anche il rispetto per l’ambiente, dei lavoratori e delle comunità in cui l’attività è svolta. Un filone di pensiero che più tardi diede origine a particolari imprese denominate «B Corporation» (vedi MC giugno 2022), dove «B» sta per «benefit», a indicare che sono organizzate per portare vantaggio a tutti. Dagli Stati Uniti, l’idea approdò anche in Europa, Italia compresa, dove la B Corporation ha trovato spazio nella legislazione, sotto il nome di «società benefit». Una denominazione che può essere utilizzata da tutte quelle realtà imprenditoriali che oltre ad avere «lo scopo di dividere gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse».
Una forza per il bene?
Nel mondo, le B Corporation sono qualche migliaio, tutte convinte di poter cambiare il mondo, come si legge in un pieghevole del loro movimento: «Insieme stiamo costruendo un movimento di persone che usano il mondo degli affari come una forza per il bene». Che sia un po’ esagerato? I toni da crociata religiosa sono sempre un po’ inquietanti.
Personalmente ritengo che eleggere le imprese a «forza per il bene» sia un tentativo (maldestro) per giustificare il capitalismo fondato su presupposti ideologici che conducono allo sfruttamento del lavoro, all’esaurimento delle risorse, all’accumulo di rifiuti, alle guerre per il controllo delle risorse e l’espansione dei mercati. In una parola a tutte le situazioni di crisi che oggi affliggono l’umanità. Tuttavia, fatta questa precisazione, sicuramente le società benefit rappresentano un passo avanti sulla strada della sostenibilità, della trasparenza, della dignità personale. Un risultato attribuibile a un mix di conversioni personali e di pressione decennale esercitata dalla società civile tramite azioni di investimento etico e di consumo critico.
Nel 2006 nacque anche un sistema di certificazione che dà la patente di società «per il bene» a tutte quelle imprese che dimostrano di rispettare regole stringenti in ambito sociale e ambientale. Certificazione che Ben&Jerry’s ottenne nel 2012 impegnandola a «essere economicamente sostenibile e nello stesso tempo capace di un cambio sociale positivo […] finalizzato a garantire il soddisfacimento dei bisogni umani ed eliminare ogni forma di ingiustizia». Per di più nella sua carta dei valori si legge: «Sosteniamo le vie nonviolente per l’ottenimento della pace e della giustizia. Crediamo che le risorse pubbliche siano utilizzate in maniera più produttiva quando sono messe al servizio dei bisogni umani piuttosto che spese in armamenti».
Nonostante queste precise prese di posizione, Ben&Jerry’s non aveva avuto problemi a catapultarsi in Israele dove approdò nel 1987, concedendo la licenza d’uso del proprio marchio all’impresa israeliana Avi Zinger. Così i gelati a marchio Ben&Jerry’s si vendevano in tutti i territori occupati da Israele, compresi quelli colonizzati dopo il 1967 in aperta violazione con le ripetute risoluzioni Onu secondo le quali «tali occupazioni sono illegali e rappresentano un ostacolo alla realizzazione dell’obiettivo dei due stati, l’unica soluzione che può garantire una pace duratura».
La presenza nei territori occupati non era vissuto da Ben&Jerry’s come un tradimento dei propri valori, ma l’incoerenza non era sfuggita a un gruppo del Vermont che agisce a sostegno del popolo palestinese in collaborazione con il movimento Bds («Boycott, divestment, sanctions», boicottaggio, disinvestimento, sanzioni).
BDS e danno economico
Sorto nel 2005, il Bds è un movimento che intende costringere Israele al rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali attraverso il danno economico. La stessa strategia utilizzata negli anni Ottanta del secolo scorso nei confronti del regime del Sudafrica che fu costretto a capitolare di fronte alla fuga delle imprese straniere e alle sanzioni economiche messe in atto contro il paese. In effetti, il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni si propone l’obiettivo di fare pressione sul governo di Israele tramite l’isolamento economico. Una delle strategie consiste nel prendere di mira le imprese che conducono i propri affari nei territori occupati a vantaggio esclusivo o prevalente dei coloni occupanti.
Alcuni esempi sono Puma (vedi foto), Axa, Hewlett Packard su cui è esercitata ogni forma di pressione per convincerle a ritirarsi da Israele o quanto meno dai territori occupati dopo il 1967.
Nei confronti di Ben&Jerry’s la prima iniziativa di pressione venne assunta nel 2011 tramite una lettera inviata dal gruppo del Vermont che però non ricevette risposta. Per cui vennero assunte iniziative sempre più incisive, fino a dichiarare un vero e proprio boicottaggio nel 2015. Lo scrollone finale si ebbe nel maggio 2021 quando davanti alla sede centrale di Ben&Jerry’s, si presentò una folla concitata che con una sola voce gridava «Vergogna!». Erano lì per commemorare ciò che i palestinesi chiamano «Nakba», ossia l’evacuazione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi avvenuta nel 1948, per fare spazio allo stato di Israele.
Questa volta, Ben&Jerry’s accusò il colpo e, dopo due mesi, il 19 luglio 2021, annunciò di avere deciso di rivedere la propria presenza in Israele, cominciando con il non rinnovare il contratto di licenza stipulato con Avi Zinger in scadenza a fine dicembre 2022.
Gelati antisemiti?
In un primo momento la capogruppo Unilever si era schierata a fianco della propria controllata appellandosi anch’essa a motivazioni etiche. Ma poi la ragione economica ebbe il sopravvento e madre e figlia finirono per vie legali. Il governo israeliano aveva bollato la scelta di Ben&Jerry’s come antisemita e subito le azioni di Unilever avevano cominciato a perdere valore. Sui social israeliani circolavano filmati di ministri nell’atto di gettare nella pattumiera i gelati di Ben&Jerry’s ancora integri. In America, invece, su alcuni quotidiani comparvero annunci a tutta pagina firmati dall’organizzazione ebraica Simon
Wiesenthal Center, che invitavano negozi e supermercati a cessare la vendita dei gelati Ben&Jerry’s colpevoli di antisemitismo. Iniziative che ebbero il loro effetto sul piano finanziario: vari fondi pensione e altri investitori istituzionali annunciarono di voler vendere le quote che avevano in Unilever sostenendo che cedendo alle richieste di Bds la multinazionale aveva violato la legislazione americana. Sul versante opposto si diffuse la notizia che un pacchetto importante di azioni era stato comprato da Nelson Peltz, niente po’ po’ di meno che presidente del Simon Wiesenthal Center. Una scelta compiuta con lo scopo evidente di condizionare Unilever dall’interno.
Etica e affari
Intanto, nel marzo 2022, Zinger, il licenziatario israeliano, si era rivolto alla magistratura statunitense affinché impedisse a
Unilever di sospendere il contratto di licenza, come preannunciato dalla direzione di Ben&Jerry’s. Ma la contesa non venne mai discussa in tribunale perché, nel giugno 2022, Unilever annunciò di essersi accordata con Zinger per venderle la proprietà del marchio Ben&Jerry’s, e questa era valida per tutti i territori controllati da Israele. Una decisione che irritò la direzione di Ben&Jerry’s che reagì denunciando la capogruppo per abuso e violazione contrattuale.
Ora la parola è di nuovo agli avvocati, ma comunque vada a finire, crescono i dubbi che etica e affari possano davvero unirsi in matrimonio come sostiene il movimento delle B Corporation.
Sia lodato Gesù Cristo.
Carissimi fratelli e sorelle
consentitemi, sotto il suono della sirena, che invita a nascondersi nel rifugio anitaereo, di esprimere a voi e alle vostre famiglie la mia più profonda gratitudine e una preghiera di riconoscenza per il vostro cuore aperto, per il vostro sostegno e la vostra solidarietà verso il popolo ucraino, che sta attraversando ore difficili, a causa della guerra e delle manifestazioni di odio umano da parte della federazione russa.
Il giorno 8 novembre 2022 la nostra organizzazione, Caritas Spes di Lutsk (Ucraina), ha ricevuto da parte del padre Luca
Bovio Imc un aiuto materiale della somma di 4mila dollari Usa. Per noi questo aiuto è tanto importante e necessario da rendere impossibile esprimere quanto senza lacrime di gioia. Infatti, la nostra organizzazione si prende cura di diverse categorie della popolazione: rifugiati, indigenti, anziani, ma un’attenzione particolare è riservata ai bambini orfani, bambini con sindrome di Down e invalidi. Con estrema sofferenza, i bambini, che rappresentano il nostro futuro, sono diventati testimoni della guerra, dell’odio e della violenza. La risata infantile si è mutata in pianto, la gioia in dolore, le voci allegre dei bambini nel suono delle sirene e delle bombe. Grazie al vostro sostegno e aiuto, però, la nostra organizzazione ha potuto regalare un momento di gioia e felicità a 150 bambini invalidi della regione di Volyn. Grazie al vostro sostegno abbiamo potuto comperare e distribuire generi alimentari e prodotti igienici per questi bambini.
Con i fondi devolutici abbiamo comperato 150 pacchi di generi alimentari e prodotti igienici, nella fattispecie: zucchero, riso, pasta, grano saraceno, paté, conserve di pesce e di carne, tè verde e nero, olio, farina, shampoo, sapone liquido per la doccia, sapone solido, dentifricio e spazzolino, carta igienica. Tutto ciò è il minimo necessario per una famiglia, ma per questi bambini rappresenta un aiuto straordinario (vedi foto). Queste famiglie, infatti, godono di introiti minimali e non sono sempre in grado di assicurare a se stesse e ai propri figli i prodotti di prima necessità.
Cogliendo l’occasione, pertanto, desidero esprimere, a nome mio e a nome di tutti i bambini che hanno ricevuto un aiuto così importante e necessario, parole di gratitudine per il Vostro cuore aperto e il vostro sostegno.
Il Signore ricompensi tutti i benefattori col centuplo e con abbondanti benedizioni! Che Maria, Vergine santissima e Regina della pace, conservi le vostre famiglie nella tranquillità e nell’armonia, affinché sulle vostre case riposi un cielo di pace! Con sentita riconoscenza
Ks. Pawel (Paolo) Chomiak direttore Caritas Spes di Lutsk, Ucraina, 14/11/2022
Da Isiro con amore
Dal Nord del Congo vi giunga il mio saluto e il mio grazie per il vostro cuore missionario!
Grazie per la vostra generosità verso i nostri piccoli e differenti progetti che realizziamo con il vostro sostegno.
La mia salute è abbastanza buona, tolta qualche malarietta che ogni tanto arriva, ma ci si cura e tutto passa.
Sono ora nella parrocchia di Samana, a Isiro, capitale dell’Alto Uélé. La vita, malgrado le diverse difficoltà, è sana e bella e i nostri laici (mamme, papà, giovani, ragazzi) sono molto impegnati. La domenica celebriamo due messe e stiamo pensando d’ingrandire la chiesa perché c’è sempre molta più gente fuori che dentro. Sogniamo anche la costruzione di una scuola, lasciando che le attuali aule diventino sale parrocchiali, visto il crescere di tante attività.
Seguiamo con preoccupazione quello che succede in Ucraina e insieme ai nostri cristiani preghiamo ogni giorno per la pace. Purtroppo, questa guerra ha «offuscato» la situazione tragica del nostro paese.
Sulla frontiera con il Rwanda e l’Uganda i criminali del movimento M23 e altri gruppi (se ne contano una cinquantina) continuano a uccidere, bruciare persone e saccheggiare i villaggi, creando ogni giorno migliaia di profughi. Da trent’anni non c’è pace in Congo: questa terra è troppo ricca in materie forestali, agricole e minerarie che fanno gola a molti paesi in Asia, Europa e America, i quali poi si servono del lungo braccio del Rwanda e altri paesi confinanti per sfruttare la situazione.
Quando potranno i nostri bimbi e giovani giocare, studiare, e preparare il loro futuro? Quando i nostri papà e mamme potranno dormire tranquilli e sognare un Congo nuovo?
Le responsabilità internazionali sono grandi, ma anche i nostri politici e amministratori congolesi hanno le loro responsabilità: corruzione, potere sporco, collaborazionismo con forze esterne, interessi personali, conti all’estero. Purtroppo, si continua così vedendo che solo il Signore non ci abbandona e non ci imbroglia. Con gioia aspettiamo papa Francesco!
Per questo con tutta la Chiesa continuiamo a donare e ricevere speranza e coraggio alle e dalle nostre comunità con la Parola di Dio, i sacramenti, la scuola, pozzi, centri di salute e ospedali, progetti di sviluppo. Quanto bene fa la Chiesa.
Vi giunga il mio augurio per il nuovo anno 2023. Vi assicuro la nostra preghiera, certo della vostra. Un arrivederci quotidiano nella santa messa. Vi voglio bene.
padre Rinaldo Do Isiro, Natale 2022
Un grande amico: padre Franco Bertolo
Il 16 ottobre 2022 è morto, improvvisamente, a Torino, nella Casa Madre dei Missionari della Consolata, padre Franco Bertolo, legato a me da profonda e lunghissima amicizia. Pur nel profondo dolore, voglio ricordarne alcuni momenti.
Anni di formazione 1961-1966
Frequentammo assieme il liceo classico presso il seminario della Consolata di Varallo Sesia (Vc). Franco ed io facevamo l’articolo «il», in quanto lui era basso di statura e io alto. Uno degli aspetti che ci univa era il fatto che entrambi non amavamo giocare al pallone. C’erano i due capitani che sceglievano le due squadre. Io ero sempre l’ultimo ad essere scelto, Franco il penultimo. Ci mettevamo in un angolo del campo a chiacchierare e, quando il pallone si avvicinava, gridavamo e facevamo finta di giocare. Qualche volta, quando c’era la possibilità di scegliere tra «pallone» e «passeggio», cercavamo di gridare forte per ottenere di andare a passeggio. Raramente riuscivamo ad averla vinta.
Dopo l’anno di noviziato che io feci a Bedizzole (Bs), mentre Franco lo fece alla Certosa di
Pesio (Cn), trascorremmo un anno assieme a Rosignano Monferrato (Al) per lo studio della filosofia. Dopo ci separammo. Franco andò a studiare teologia negli Stati Uniti, mentre io andai in Inghilterra. Fummo ordinati sacerdoti lo stesso anno, io il 7/08/1971 e padre Franco il 18/09/1971. Tutti e due fummo destinati al Tanzania.
Missione in Tanzania: 1972-1979
Il periodo in Tanzania fu il più intenso. I superiori chiesero a Franco, a me e a padre Virgilio
Panero (già in paradiso dal 24/04/2020), di formare un team pastorale nella missione di Wasa, per iniziare un modo diverso di fare missione. Io, ufficialmente, ero il parroco, ma Virgilio e Franco non erano viceparroci, bensì membri del team. Mettevamo tutto in comune: offerte, decisioni, azioni, preghiera. La nostra comunicazione era continua e prendevamo insieme tutte le decisioni. Affrontammo molti problemi, ma sempre con una linea di azione comune.
C’era una profonda amicizia tra noi tre. Il fatto che fossimo così bene in armonia fu un’esperienza bellissima, anche se contrasti e problemi con altri non mancavano. Questi contrasti cementarono ancor di più la nostra unione.
Da Roma a Londra: 1979-1987
Lasciai il Tanzania nel 1977 e andai a studiare Bibbia a Roma. Franco mi raggiunse nel 1979 e studiò Teologia Morale. Eravamo entrambi destinati a Londra, per cui pianificavamo il futuro assieme. Io andai nel seminario di Teologia di Totteridge, lui invece nella casa provinciale di Camden Town.
Ogni volta che mi era possibile, ci trovavamo. Franco divenne vicesuperiore del gruppo e io consigliere. Ci consultavamo e aiutavamo in vari modi. Poi le nostre strade si separarono. Franco andò in Casa Madre a Torino e si fermò lì per servire come cappellano all’Ospedale Koelliker e aiutare i confratelli a sbrigare le pratiche per i loro documenti anagrafici, mentre io andai in Israele, in Etiopia e in Kenya.
Torino: 1987-2022
Ci siamo trovati molte volte a Torino, quando io ci andavo per vacanze e/o cure mediche. Franco mi ha sempre accolto con grande gioia. L’anno scorso abbiamo celebrato assieme 50 anni di sacerdozio. Spesso abbiamo camminato assieme fino al Santuario della Consolata. Ora il Signore ha preso Franco con sé.
Il giorno in cui ricevetti la terribile notizia della sua morte, avevo meditato su questo tratto del Vangelo di Luca: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12,35).
Questo brano del Vangelo si applica molto bene a Franco. Quel mattino si stava preparando per andare a servire il Signore celebrando la santa messa per i malati all’ospedale. Il Signore lo ha chiamato a sé improvvisamente. Adesso è il Signore a servire Franco. Mi piace immaginare la scena in cui Gesù gli dice: «Vieni, Franco. Siediti qui nel posto di onore. Ti preparo una pizza che è formidabile. Avrai del salame buonissimo, come quello dei Panero. Beviti un bel bicchiere di Bonarda. Gustati un tiramisù favoloso. Te lo sei meritato!».
Arrivederci, Franco. Arrivederci, Virgilio. Un giorno, presto, staremo tutti assieme.
padre Ottone Cantore Allamano House, Nairobi, 11/11/2022
Brasile. Il tè del padre
Frei Gabriel è un giovane francescano della metropoli paulista. Con i suoi confratelli distribuisce pasti ad affamati e senzatetto che ogni giorno, a centinaia, fanno la fila davanti al suo convento.
San Paolo. «Questa città è estenuante. È più facile rubare che chiedere l’elemosina», dice un senzatetto a un altro, dopo aver ricevuto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di una moneta.
Ci sono quarantamila senza tetto nella città di San Paolo del Brasile, la metropoli più grande d’America. Il suo centro storico è un posto dove nessuno ti raccomanda di andare.
Praça da Sé, il piazzale che si estende di fronte alla cattedrale neogotica, è il luogo di ritrovo di centinaia di senzatetto (população em situação de rua). In gran parte uomini, vivono accampati in tende o piccole baracche, avvolti nelle coperte grigie, tutte uguali, distribuite dal comune, chiedono l’elemosina, vendono oggetti recuperati chissà dove, giacciono stesi senza sensi sotto gli effetti del crack. Cenciosi, a volte, si accalcano attorno a un predicatore che declama versetti della Bibbia e alza la voce quando nomina «il diavolo, il male!».
Tra le tende, si scorgono anche persone che sono arrivate lì da poco, hanno portato con sé un comodino, o una pentola, ricordo di una vita di piccole comodità che hanno perso da poco. Ci sono anziani, migranti venezuelani, persone transessuali. Praça da Sé è il ritrovo di coloro che sono scivolati sotto la linea della povertà in una città che è il motore economico del Brasile, la più ricca d’America Latina. Una ricchezza che però lascia senza nemmeno un pasto al giorno quasi sette milioni di persone solo nello stato di San Paolo, 33 milioni in tutto il paese.
Centinaia in fila per un pasto
A duecento metri dall’accampamento di Praça da Sé, si creano lunghe file di senzatetto. Si mettono in coda per ricevere i tre pasti al giorno che distribuisce il convento francescano di Largo São Francisco.
«Ma non è solo un pasto caldo. Offriamo assistenza sociale, giuridica e psicologica. E anche attività culturali, laboratori di musica e pittura. Questo è il “Tè del padre” (Chá do padre), un’attività che esiste dal 1640», spiega Frei Gabriel, 25 anni, frate del convento di Largo São Francisco, «un sostegno integrale, parte del progetto Sefras – Ação social franciscana, alle persone che vivono in strada, a tutti coloro che chiedono aiuto». Vengono distribuiti circa duemila pasti al giorno, spiega Frei Grabriel. Molti di coloro che vanno al Tè del padre, sono persone con dipendenze da sostanze chimiche, soprattutto crack.
«Il nostro lavoro non è solo allontanarle dalla droga, ma capire perché la cercano. Quasi sempre c’è un dolore, un divorzio, un figlio che abbandona il padre. Nel momento del pasto, parliamo. Una persona mi ha fatto un ritratto, un’altra mi ha dedicato una poesia. Certo, è un lavoro difficile perché è un accompagnamento personale. Sono tanti e non riusciamo a seguire tutti. Quando vado in giro per la città senza il saio, qualcuno di loro mi riconosce, “pace e bene” mi gridano e mi salutano con la mano. San Francesco diceva: “Prega sempre il Vangelo. E, se necessario, usa le parole”. Vuol dire che si può pregare ascoltando l’altro, è quello che cerchiamo di fare», racconta Frei Gabriel.
Conciliare studio e vocazione
Statura piuttosto bassa, i capelli ricci neri, la barba e un paio d’occhiali con la montatura rotonda, Frei Gabriel ha uno sguardo sereno e curioso. È il più giovane del convento, parla con molta calma, sceglie con attenzione le sue parole per spiegare perché un ragazzo della periferia di San Paolo ha deciso di essere frate francescano nel Brasile del 2022.
«Da bambino sognavo di fare l’insegnante, non immaginavo di diventare un frate. Sono sempre stato curioso verso i libri. A casa mia c’erano quelli che usava mio padre per studiare, ha completato la scuola da adulto, quando io ero già nato. E mi ricordo un suo libro di geografia, lui studiava le mappe e io già conoscevo tutte le capitali. A scuola ero il secchione. Alle superiori, ho fatto un istituto tecnico, una specializzazione in chimica, pensavo di studiare ingegneria chimica, o qualcosa di simile. Finché un giorno, la mia insegnante di portoghese mi disse “ma sei matto? Tu devi studiare materie umanistiche”. Così decisi di studiare psicologia, ma non mi vedevo a fare terapia, volevo fare ricerca. Poi ho conosciuto i frati francescani. Per circa un anno ho partecipato ai loro incontri qui a San Paolo e ho capito che potevo conciliare il desiderio di studiare con la vocazione religiosa».
«Sono entrato nel seminario di Santa Catarina, nel Sud del Brasile, ho girato alcune case francescane e da aprile 2021 vivo qui nella casa di Largo São Francisco. A fine 2022 andrò in un’altra casa, a Petropolis, a Rio de Janeiro, per studiare teologia. Ma ho deciso: non voglio essere prete. Voglio seguire il cammino religioso, ma desidero studiare anche altre cose, psicologia, scienze sociali e filosofia. Ho anche una tesi in mente», si entusiasma Frei Gabriel.
Meglio evitare le «letture binarie»
«Voglio studiare l’opera di un critico letterario francese in relazione con gli studi di Focault sulla follia, sulla saggezza dei matti. Nel medioevo i matti erano coloro che rivelavano il divino, mentre con l’uomo moderno si abbandona questa visione. I miei studi filosofici, le letture di Nietzsche, mi hanno insegnato che bisogna superare le letture binarie “male-bene, nero-bianco”, così si può avere una visione più positiva dell’uomo, come un essere complesso».
«Come si relaziona lo studio con la tua vita religiosa?», gli chiedo. «I miei studi mi hanno generato crisi esistenziali, non crisi vocazionali. Anzi, spesso mi chiedevo cosa ci stessi a fare al mondo, quale fosse la mia missione. Alcuni pensano che la filosofia vada contromano rispetto alla religione, ma per me è stato il contrario: lo studio della filosofia abbraccia il mio io religioso:
il Gabriel con il saio è lo stesso Gabriel che è nato nella periferia di San Paolo. In quella periferia, ho perso molti amici, quelli della scuola sono morti o sono in carcere. È triste, ma è quello che sarebbe potuto succedere anche a me se avessi preso un altro cammino. Siamo cresciuti nello stesso posto, frequentavamo le stesse persone. Ringrazio Dio e i miei genitori che mi hanno aiutato a scegliere, anche se forse in modo non cosciente».
Cosa significa essere francescano
Chiedo a Frei Gabriel perché abbia scelto l’ordine dei Francescani. «Innanzitutto, per la fratellanza. La vita fraterna significa che tutto è comune: il cibo, la cassa, il lavoro. Se io lavoro come insegnante, metto il salario nella cassa comune. Il ciabattino, che guadagna anche solo un centesimo, lo mette nella cassa comune. Tutti contribuiscono e tutti prendono solo quello di cui hanno bisogno».
«E poi, perché i Francescani sono l’ordine dei minimi: non sono il detentore della verità, non faccio qualcosa per gli altri, ma insieme agli altri. Per esempio, noi non abbiamo capi. Siamo tutti fratelli. Al massimo, c’è il primo tra i fratelli, il più anziano, il più istruito, ma non abbiamo leader. Qui, in questa casa, non c’è un superiore, c’è un fratello che coordina, che decide di ridipingere la parete», dice indicando la parete bianca del refettorio dove ci troviamo per l’intervista. «Le decisioni le prendiamo in assemblea, nel capitolo della casa, e quel che decide il capitolo è ciò che conta».
«Sono i valori che abbiamo ereditato dalla tradizione di San Francesco, che era un cavaliere medievale. La nostra cultura della semplicità viene dal cameratismo dei cavalieri, dall’uno per tutti, tutti per uno. E oggi riproduciamo e attualizziamo quei valori», afferma Frei Gabriel.
Chiedo se, a parte la crisi dei fedeli, ci sia anche una crisi vocazionale nel clero in Brasile. «Sì – risponde -, e per tanti motivi. Uno è storico: anticamente i religiosi erano gli unici che potevano accedere allo studio, avere opportunità di vita indipendentemente dal contesto sociale di nascita. Oggi non è così, ci sono più opzioni. Ma ci sono anche altri cambiamenti, nel modo di intendere la vita religiosa».
«Ma questo Non è peccato»
«Per noi francescani, è cambiato anche il concetto di Chiesa. Con il Concilio Vaticano II, gli ordini sono tornati al carisma originale dei padri fondatori. Abbiamo ripreso a leggere i testi di San Francesco e di coloro che l’hanno conosciuto».
«Ti faccio un esempio – continua Frei Gabriel -. Il nostro convento è un punto di riferimento per le confessioni, le persone vengono qui da quartieri lontani. Ma perché vengono fin qui, se hanno una chiesa più vicina a casa? Perché, credo, noi francescani siamo “carne e ossa”, siamo comprensivi. A volte, ti capita un tipo molto rigido, puritano, che vuole confessarsi: “Perché non ho pregato la quaresima di San Michele all’alba”, dice, “ma se lavori tutto il giorno, non è peccato”, lo rincuoriamo noi. Mentre, magari, un altro confessore gli direbbe di fare qualche preghiera per recuperare, rafforzando così l’idea del peccato. Quando qualcuno ci dice che è posseduto dal diavolo, noi ci concentriamo innanzitutto sui problemi psicologici, prima che su quelli spirituali», conclude Frei Gabriel.
Federico Nastasi
Gli autori
Federico Nastasi, ricercatore e giornalista freelance, vive in America Latina, collaborando con media e centri studi, in italiano
(Il Manifesto, Espresso) e spagnolo (El País, Brecha semanario). È coautore di Macondo, un podcast sull’America Latina prodotto da Treccani.
Mauricio Zina (Montevideo, 1987), fotogiornalista, lavora per vari media uruguayani e internazionali su temi di carattere politico e sociale. Il suo sito: www.mauriciozina.com
Chiesa cattolica e le nuove Chiese evangeliche
La sfida
In Brasile, il paese con più cattolici al mondo, da decenni vive un cambio religioso importante. Negli anni Settanta, i cattolici erano il 92%, oggi sono il 45%. Nello stesso periodo di tempo, gli evangelici sono passati dal 5% al 30%. Nel prossimo decennio, dicono le statistiche, saranno il primo gruppo religioso del paese. Il cambio avviene soprattutto attraverso le conversioni: si nasce cattolici, ci si converte al culto evangelico.
«In Brasile, come in tutta l’America Latina, chi crede diversamente, l’altro religioso, è uno di noi», scrive Gustavo Morelo, sociologo delle religioni. «Non è uno straniero che viene da un altro paese e che trasforma la nostra identità religiosa, come magari avviene in Europa. È un nostro prossimo, è mia sorella, mio fratello, un mio parente che si converte».
E generalmente, le conversioni avvengono in giovane età, prima dei 25 anni.
Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 54% dei protestanti in Brasile afferma di essere stato battezzato cattolico. Ma perché si convertono? Secondo il sondaggio, la spiegazione più comune è che cercano una connessione più intima con Dio, un culto diverso, una chiesa più utile ai suoi membri.
«Quello pentecostale è un successo sociologico, non teologico», scrive Clara Mafra, antropologa, che ha studiato l’ascesa dei pentecostali in Brasile. La trasformazione religiosa del paese è conseguenza della trasformazione urbanistica: la crescita delle città e il contemporaneo abbandono delle campagne. A San Paolo vivono venti milioni di persone, sette a Rio de Janeiro. Le metropoli sono diventate immense, attorniate da gigantesche zone periferiche, dimenticate dallo stato e, a volte, anche dalla Chiesa cattolica. La segregazione sociale e urbana, non la povertà, è una chiave del successo pentecostale. E le chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da «terre di nessuno, in un luogo almeno abitabile», scrive Mafra.
Le persone che aderiscono alle chiese entrano in una comunità e si sentono valorizzate. A Vila Misionaria, periferia Sud di San Paolo, ho chiesto a una fedele neopentecostale cosa le piacesse del culto evangelico: «Mi piacciono le feste, i canti, gli incontri che altrove non potrei fare. Se non ci fosse la Chiesa, resterei da sola a casa a guardare la tv», mi ha detto. Il pastore che apre la chiesa in un garage o anche nel suo salotto di casa viene dal quartiere, ha dei figli che frequentano la (pessima) scuola pubblica della zona e nessun parco dove andare a giocare, una moglie che ha avuto a che fare con la sanità pubblica, e ogni giorno fa tre ore di viaggio su mezzi pubblici.
In Brasile, come nel resto dell’America Latina, quella evangelica è un’importante trasformazione religiosa e sociale. E una grande sfida per la Chiesa cattolica.
Fe.Na.
Dieci anni di sogni e sognatori
È un giovane vicariato posto in una regione amazzonica tanto affascinante quanto difficile. In queste pagine, mons. Joaquín Humberto Pinzón Güiza, il vescovo che lo guida, ne ricorda il decennale (2013-2023) della nascita.
Puerto Leguízamo. Ricordare è qualcosa di essenziale nella vita umana. La memoria è alla base della nostra identità e del rapporto con il mondo in cui viviamo. È la mappa dei nostri ricordi che ci dice chi siamo e dove siamo. Basta, infatti, un blackout della memoria per perdere la nozione di noi stessi, del mondo e del nostro posto in esso, come succede a volte alle persone anziane.
Questo febbraio celebriamo i dieci anni (febbraio 2013 – febbraio 2023) di vita e storia del vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. E, quando parliamo di celebrare, ci riferiamo a quel «ri-cordare» che, etimologicamente, significa riportare al cuore il sognato, il vissuto, ciò che abbiamo raccolto («cor-cordis», cuore, il muscolo che dagli antichi era ritenuto sede della memoria). Anche se pare ridondante ripassare attraverso il cuore ciò che dal cuore è uscito e ciò che è stato fatto mettendoci il cuore, è così che possiamo contemplare ciò che abbiamo vissuto in questi dieci anni di storia, sfide e opportunità.
Un buon punto di partenza per la commemorazione del nostro vicariato è il ricordo delle persone che hanno sognato questa Chiesa particolare: da chi non è più tra noi, come mons. Luis Augusto Castro e padre Bruno del Piero, fino a mons. Francisco Javier Múnera e padre Gaetano Mazzoleni, e a tutti i missionari della Consolata che, assumendo lo «ius comissionis», hanno generosamente sostenuto e continuano a sostenere questo progetto.
Partendo dai nostri fiumi
Questa commemorazione ci spinge, anzitutto, a ripercorrere attraverso la memoria il cammino fatto, guardando all’esperienza fondante, alle nostre origini, allo scopo di dare slancio al cammino futuro, rivitalizzando ciò che rischia di perdere il suo significato. È un’altra cosa da imparare dalle dinamiche dei nostri fiumi: nelle origini c’è sempre la freschezza dell’acqua: più si sale verso la sorgente, più se ne percepisce la purezza.
La storia ci porta al 2013, anno in cui il contesto sociale del territorio era carico di grandi aspettative per i negoziati di pace tra il governo centrale e le Farc-Ep. Tutti sognavamo tempi migliori per i nostri popoli. Tre anni dopo, nel 2016, abbiamo apprezzato l’armonia dell’accordo e le nuove dinamiche sociali che il post accordo ha generato, ma abbiamo anche assistito all’emergere di altri attori armati che, ancora una volta, hanno messo in ombra quella pace che tutti aspettavamo.
Un altro ingrediente che ha generato dinamiche di vita e morte è stata l’attività mineraria che ha letteralmente ferito e dissanguato i nostri fiumi, con l’illusione di migliori condizioni per le persone e le comunità. Senza dimenticare la pandemia di Covid 19 e le sue conseguenze.
Il contesto ecclesiale ispirava molta speranza. La proposta di papa Francesco per una Chiesa in uscita, una Chiesa in cammino missionario, è sorta come un flusso di vita. Nella gioia del Vangelo ci ha proposto:
«[…] Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” […]» (Eg 24).
È in questo contesto che abbiamo intrapreso l’avventura: tre laici, sette religiose (due suore domenicane della Presentazione e cinque Missionarie della Consolata), un sacerdote diocesano (padre José María Córdoba Rip, mandato da mons. Francisco Múnera, vescovo dell’allora vicariato di San Vicente Puerto
Leguízamo poi diviso per costituire questo secondo vicariato), otto missionari della Consolata, un missionario di San Juan Eudes e il vescovo di questa nuova giurisdizione.
Con tanti sogni nello zaino, ci siamo dati il compito di assumere il progetto, di lanciare la nuova giurisdizione, e semplicemente sognare la strada, con la ferma convinzione di camminare e costruire insieme. Per fare questo, il 7 ottobre di quello stesso 2013 ci incontrammo per vivere la prima Assemblea pastorale che aveva come obiettivo: «Avvicinarsi al progetto del nuovo Vicariato», e lo abbiamo fatto con un sentimento di novità. Da quell’assemblea sono nati tanti sogni, accompagnati da creatività e impegno missionario. Da allora, altri evangelizzatori si sono uniti, mettendo il cuore nel dare il meglio di sé a questo progetto.
Dalla Laudato Si’ al Sinodo amazzonico
Quasi non bastasse la sfida di una Chiesa in uscita, il pontefice ci ha rallegrati con un altro grande dono per noi come giovane Chiesa in Amazzonia: l’enciclica Laudato si’, con l’invito a una conversione integrale, che ci rende responsabili della cura della «casa comune». Per noi che, proprio in quel momento (era il novembre del 2017), stavamo preparando la prima Minga amazonica y fronteriza (incontro tra popolazioni dell’Amazzonia e della frontiera), è stato un balsamo che non solo ci ha fatto sentire di navigare nella giusta direzione con una causa risolutamente assunta dalla Chiesa, ma ci ha anche spinti a rispondere fedelmente all’impegno con il nostro contesto amazzonico.
La sintonia e l’impegno si sono ulteriormente rafforzati con la convocazione nell’ottobre 2017 del Sinodo sull’Amazzonia, con il quale Francesco ha inteso: «Metterci alla ricerca di nuovi cammini per la Chiesa in Amazzonia e per un’ecologia integrale». Negli anni, abbiamo camminato in questo flusso di ricerca, discernimento e costruzione collettiva.
In mezzo a tante sfide sociali e all’abbondante ricchezza ecclesiale, è nato il nostro primo progetto pastorale, ispirato dal Vangelo del buon Samaritano (Lc 10, 25-37). È lì che abbiamo sognato una Chiesa dal volto, dal pensiero e dal cuore amazzonici. Come, in seguito, verrà affermato nell’esortazione apostolica Querida Amazonía del sinodo per l’Amazzonia: «È la Chiesa dei seguaci di Gesù» che s’incarna in questo contesto e acquista un volto con le seguenti caratteristiche: è difensore della Casa comune; è senza confini; è fraterno, perché l’altro che cammina con me è mio fratello; è arricchito dalle spiritualità dei popoli che la abitano; è servo al servizio della comunità; è celebrante la vita e il cammino delle persone e delle comunità; è aperto all’universalità, in comunione con tutta la Chiesa.
Anche la riflessione ecclesiale e l’animazione vocazionale fanno parte dei raccolti ottenuti lungo il cammino. Tra i più recenti frutti raccolti in questo percorso, c’è senza dubbio la riflessione che si è sviluppata a partire dalle quattro opzioni missionarie (indigena, contadina, urbana e afrodiscendente) che oggi ci permette di fare chiarezza sul modo in cui dovremmo camminare con ognuno di quei quattro gruppi umani. Poi, come espressione di partecipazione al processo sinodale, abbiamo formato un’équipe interecclesiale in comunione con il fratello Vicariato di San José del Amazonas (Perù), per navigare sognando tra le due sponde. E ancora: l’équipe intercongregazionale, il gemellaggio missionario con la provincia ecclesiastica di Bucaramanga, la creazione delle nuove parrocchie (Nuestra Señora la Consolata, San Francisco de Asís e Nuestra Señora de la Asunción), per essere più vicini a paesi e comunità, e il «Centro amazzonico per il pensiero interculturale», che sta nascendo e si sta rafforzando.
Tutto questo raccolto è stato possibile grazie allo spirito di famiglia che abbiamo creato fin dall’inizio; una famiglia che si rafforza e cresce e che accoglie tutti coloro che entrano a far parte del progetto.
Alcuni partono e altri arrivano: le suore Serve dello Spirito Santo, le Missionarie della Speranza, l’Arcidiocesi di Bucaramanga, la Diocesi di Málaga-Soata, le
Carmelitane missionarie, le suore della Compagnia di Maria, le suore Missionarie dell’Immacolata Concezione, le suore Domenicane di Santa Caterina da Siena, le suore Missionarie del Buon Pastore, alcuni missionari laici, la diocesi di Ismina Tadó, i paesi, le comunità e le persone con cui camminiamo e, naturalmente, i benefattori.
In attesa della seconda «Minga amazonica»
L’assemblea pastorale, svoltasi a Puerto Leguízamo dal 7 all’11 novembre dello scorso anno, ha fatto da cornice all’inizio dei festeggiamenti. Sotto il motto: «Dieci anni di cammino insieme perché in Cristo abbiamo la vita». Viviamo questa celebrazione nel contesto in un altro momento ecclesiale molto importante, un’altra proposta di papa Francesco, il sinodo della sinodalità, dove ci viene chiesto di tornare su tre aspetti importanti ed essenziali della Chiesa: comunione, partecipazione e missione. Indubbiamente, questo quadro o meglio questa spiritualità ci permetterà di leggere i primi dieci anni di storia e continuare il cammino.
Questo 2023 chiuderà i festeggiamenti per il decennale del Vicariato con l’esperienza della seconda «Minga amazonica», che avrà il titolo di: «Un modello di vita dal e per il contesto». Partendo dall’«ecologia della speranza», uno sguardo interdisciplinare e interistituzionale per sognare insieme un nuovo modello di vita.
Per una storia plurale
La celebrazione dei nostri primi dieci anni ci ha permesso di avere una visione retrospettiva del cammino fatto e una proiezione verso il futuro, verso nuovi tempi e nuove mete, avendo come obiettivo una buona vita per una buona convivenza. Tutti siamo incoraggiati a continuare a forgiare percorsi per i nuovi tempi, armonizzando metodi e strategie. In altre parole, la storia che sta scrivendo il Vicariato Apostolico di Puerto Leguízamo-Solano è una storia plurale, costruita a più mani, contemplando un ampio orizzonte, camminando insieme affinché i popoli e la gente di questo territorio abbiano la vita in Cristo.
Joaquín H. Pinzón Güiza
Il Vicariato e l’opzione indigena
Il «rostro indigeno»
Il Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano si trova in un territorio amazzonico bagnato dai fiumi Caquetá e Putumayo. Territorio e fiumi nascondono diversità di specie che, intrecciate, proteggono l’ecosistema e danno speranza al mondo. Questa zona racchiude una varietà di volti tra i quali molti popoli indigeni: Murui, Koreguaje, Inga, Kichwa, Siona, Kofane, Nasa.
Sono popoli originari che alla Chiesa chiedono un’evangelizzazione differenziata che, attraverso il dialogo interreligioso, rispetti le loro conoscenze ancestrali e la loro visione del mondo. Sono indigeni che chiedono l’accompagnamento della Chiesa per affrontare le nuove sfide dell’epoca attuale, segnata dall’ondata di violenza, dalla difesa dei propri territori e dal continuo esodo migratorio verso le aree urbane.
Eduardo Reye Prada (Imc)
Il Vicariato e l’opzione contadina
Il «rostro campesino»
In questa immensa, bella e sorprendente Amazzonia troviamo anche il volto contadino. La stragrande maggioranza proviene da altri luoghi della Colombia spinta da ragioni diverse: per occupare terre abbandonate, per cercare guadagno, per fuggire alla violenza che purtroppo affligge il nostro paese. Sono venuti qui con la loro cultura e le loro tradizioni cercando di ricostruire la loro vita.
La Chiesa rende visibili i bambini contadini, i giovani e gli anziani prematuramente invecchiati a causa delle difficili condizioni di vita. Hanno vissuto e vivono realtà molto dure: come possiamo aiutarli? Tra le difficoltà che incontriamo ci sono l’isolamento, la mancanza di opportunità in materia di istruzione, sanità, comunicazione, strade di accesso, pagamento equo per i loro prodotti, abusi da parte di diversi gruppi armati.
Le comunità campesine rivendicano e apprezzano la presenza della Chiesa. Noi rispondiamo con una pastorale di presenza incarnata nelle popolazioni rurali, con un essere con loro. Questo ci ha richiesto lo sforzo di conoscere la storia del mondo contadino, d’incarnarci come Gesù, di scendere nel profondo, ascoltarli, cercare di vedere il mondo, la realtà dal loro punto di vista, uscire, camminare con e verso di loro, cercandoli.
Consapevoli che la pastorale contadina deve abbracciare l’ecologia integrale mettendo in relazione tra loro Dio, i fratelli, il creato; consapevoli che Gesù ha parlato ai contadini della terra, del seme, del frutto, del raccolto, del- la zizzania; consapevoli che il cristianesimo è nato in ambiente contadino, nel nostro essere missionario noi coltiviamo una disposizione umile, semplice e vicina; una vita sobria, vivendo la spiritualità del presepe, del lievito, del piccolo. Impariamo da loro riconoscendo e rafforzando i loro valori: lavoro, pazienza, perseveranza, rispetto dei processi, accettazione, spirito di sacrificio, tenacia, capacità di ricominciare.
Nella nostra visita permanente alle famiglie e alle scuole contadine, promuoviamo iniziative che migliorino la loro qualità di vita (come la coltivazione di prodotti regionali) e contribuiamo a sensibilizzare alla cura della Casa comune. E, soprattutto, aiutiamo tutti a riscoprire valori, come la Parola di Dio, la preghiera, la celebrazione dei sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e maturazione nella fede. Cerchiamo leader e collaboriamo alla formazione dei nostri agenti di evangelizzazione al fine di fornire un catechista a ogni comunità contadina, perché in Cristo tutti abbiamo la vita.
Maria del Carmen López (Cm)
Il Vicariato e l’opzione afro
Il «rostro afroamazonico»
Il popolo afroamazzonico apprezza la vicinanza e il sostegno che, in questi dieci anni, ha trovato nel Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. Vicinanza e sostegno nella ricerca per rafforzare la propria identità e soprattutto per cercare uno spazio in questa Amazzonia, dove gli afrodiscendenti sono arrivati in momenti diversi della storia recente e per circostanze diverse. Gli afrodiscendenti sono consepevoli che stanno crescendo in questo territorio di pari passo con la Chiesa e sono disposti a continuare a partecipare alle dinamiche pastorali che si stanno portando avanti.
Essi chiedono al Vicariato di continuare ad accompagnare i loro processi. Vogliono sentirsi parte delle dinamiche ecclesiali. Chiedono sostegno per poter acquisire uno spazio dove costruire la loro casa ancestrale: è essenziale avere uno spazio per rafforzare la cultura e la spiritualità. Vogliono continuare a partecipare e ad animare le celebrazioni della fede cattolica che li identificano come comunità afro: la festa di Nuestras Señora de la Candelaria (2 febbraio) e la festa di San Francesco d’Assisi («San Pacho», 4 ottobre).
Come Chiesa del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano dal volto amazzonico, noi ci sentiamo felici di avere la ricchezza (anche) del volto afro e vogliamo diventare partecipi delle loro ricerche e dei loro processi affinché insieme possiamo avere la vita in Cristo.
Lelia Yaneth Márquez (Op)
Il Vicariato e l’opzione urbana
Il «rostro urbano»
Nel contesto urbano, il Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano ha potuto conoscere una serie di realtà che, essendo particolarmente diverse, richiedono uno speciale programma di evangelizzazione.
Inizialmente, al loro arrivo in questa regione, i primi missionari e missionarie avevano una visione generica del modo di vivere degli abitanti nel settore urbano.
La realtà in cui vivono le famiglie in questo «giardino esotico» che è l’Amazzonia, si riassume sostanzialmente nelle poche opportunità di lavoro per la loro sussistenza. Si può osservare che vivono a malapena di pesca e di lavoro nei campi da cui ricavano prodotti come manioca, piantaggine, papaya, mais, tra gli altri frutti che questa buona terra permette loro di raccogliere.
Come Vicariato ci troviamo in contatto anche con il mondo giovanile, che diventa una grande sfida per svolgere la nostra opera di evangelizzazione. Ai giovani mancano le opportunità per realizzare il loro progetto di vita. E questo causa problemi come droga, alcolismo, prostituzione e alcuni stili di vita che possono addirittura spingere molti giovani a entrare nelle fila dei gruppi armati clandestini che fanno parte del tessuto sociale di questa regione.
La popolazione fluttuante, invece, include tutti quegli abitanti giunti sul territorio in cerca di nuove opportunità, di una nuova strada, e che, nella maggior parte dei casi, fuggono dalle incertezze del passato. È proprio qui, nella ricerca di una direzione inedita, che con il nostro lavoro essi possono trovare un modello per cristianizzare la loro vita, evitando con ciò che le realtà negative della loro nuova casa diventino troppo gravose.
In conclusione, guardare al settore urbano richiede una visione ampia attraverso un servizio vocazionale e di evangelizzazione per andare alla ricerca di uno sviluppo per ogni volto che questo contesto amazzonico ospita. Ci riferiamo ai volti urbano, afro, contadino e indigeno che compongono questo paradiso multiculturale.
Fernando Ramirez e Ricardo Bocanegra (Imc)
Archivio MC
Paolo Moiola, È l’Amazzonia, dossier, marzo 2018.
È il reportage sulla prima «Minga amazonica y fronteriza» del Vicariato apostolico di Puerto Leguízamo-Solano. La seconda edizione si svolgerà quest’anno.