Uomini e maiali

Le immagini trasmesse dalle televisioni argentine sono state molto impattanti. In questi giorni, diversi canali hanno mostrato scene riprese in una discarica di rifiuti (basural a cielo abierto) a testimonianza della miseria in cui versano vasti strati della popolazione del Paese. I titoli apparsi in sovra impressione sugli schermi erano sconvolgenti: «Shopping nella discarica»; «In cerca di alimenti nella discarica»; «Così si arrangiano quelli che hanno sempre meno»; «Mangiano e si vestono con ciò che trovano tra i rifiuti»; «Una realtà che fa male».

Esagerazioni? Purtroppo, no. Scene di questo tipo le ho viste personalmente in occasione di un rilevamento ambientale, sociale e umano a Pichanal, una località situata a 25 chilometri da Orán, provincia di Salta. Qui, qualche anno fa, comunità indigene locali (Guarani e Wichi) e l’equipe di Pastorale aborigena della diocesi di Orán cercarono di fermare il progetto per trasformare una discarica illegale in una mega discarica e uno stabilimento di trattamento delle acque reflue previsti a poche centinaia di metri dalla zona abitata.

I dati ufficiali del 2023 indicano che oltre il 40 per cento della popolazione argentina vive in povertà. (Foto José Auletta)

Anche in questo caso le fotografie parlano da sole: basta guardarle. In modo particolare ne ricordo una: all’arrivo del camion dei rifiuti, in pochi secondi si produsse un assemramento di uomini, donne (alcune di esse in gravidanza), bambini e… porci, tutti quanti lì per rovistare tra i rifiuti appena sversati. Identicamente, mi fece rimanere a bocca aperta la scritta di propaganda governativa dipinta sulla fiancata del camion: «Curando l’ambiente! (Cuidando el medio ambiente)».

Come postilla finale, una nota di attualità politica. In una delle sue ultime interviste, il presidente uscente, Alberto Fernández (domenica 10 dicembre è entrato alla Casa Rosada Javier Milei, il nuovo presidente eletto, ndr), ha avuto il coraggio di affermare: «In Argentina, l’indice della povertà (40,1% secondo l’istituto di statistica, ndr) è mal calcolato. Se ci fosse una tale quantità di poveri, l’Argentina sarebbe distrutta».

Probabilmente, l’ex presidente non ha mai avuto modo di frequentare le discariche del paese che fino a ieri governava.

José Auletta da Yuto (Jujuy)




Tempi di angoscia e confusione


Caro Gesù Bambino,
come ogni dicembre torno a scriverti nel ricordo della tua venuta, festa di luce e di pace. Quest’anno però sono più confuso che mai, vista la situazione di crisi internazionale che tutti stiamo vivendo. Pensa che, probabilmente, a Betlemme quest’anno non potranno celebrare in sicurezza e libertà la memoria della tua nascita.

È proprio la terribile guerra che è riesplosa nella terra dove tu sei nato che aumenta il mio disagio e la mia confusione. La Palestina non trova pace, oggi come ieri: devastata nei secoli da violenze e stragi da cui anche tu sei stato colpito, quando sei dovuto fuggire con la tua famiglia dalla spietatezza degli sgherri di Erode venuti nel tuo villaggio a uccidere senza pietà tutti i bambini per essere certi di colpire te.

La guerra di oggi mostra la stessa spietatezza: non passa giorno che non ci siano notizie di massacri di bambini, addirittura neonati, senza contare quelli di anziani, donne e persone indifese. Non passa giorno senza la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto. Neanche la guerra in Ucraina, con le sue folli violenze, ci ha abituati a una violenza sui civili tanto indiscriminata e su vasta scala.

Ma quello che fa male è soprattutto il fatto che, invece di spingerci a reagire rinnovando il nostro impegno per la pace e la vita, questa ennesima guerra (ennesima, perché sono almeno 59 quelle in atto nel mondo, con violenze inenarrabili sui civili, nell’indifferenza generale) sta tirando fuori il peggio di noi stessi, facendoci schierare – spesso con intolleranza – per una parte o per l’altra. La logica della violenza ci travolge, modella i nostri comportamenti, ci convince che solo con la distruzione dell’altro, il nemico, la pace sia possibile. E tornano in campo stereotipi che pensavamo superati, il razzismo riprende quota, la caccia al nemico diventa un dovere, l’antisemitismo riemerge. E tutti diventano nemici senza volto per i quali non c’è compassione, ma solo rabbia, rancore, odio o totale indifferenza. Ma non è con «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) che si ritrova la pace.

In questa logica, non vediamo più le persone vere e concrete, ma un’indistinta massa di nemici da colpire.

Proprio tutto il contrario di quanto tu hai provato a insegnarci con la tua vita, e papa Francesco ci ripete oggi senza stancarsi: la guerra è una follia che non risolve i problemi, non migliora la vita, non crea giustizia, non porta alla pace. L’unica risposta vera che costruisce la pace è l’amore, il perdono, la misericordia. «Porgi l’altra guancia», ci hai detto. «Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano».

Rompere, rovesciare la logica della violenza, come hai fatto tu sulla croce, è l’unica via.

Grazie di averci donato una persona come papa Francesco che, come il profeta anonimo di cui parliamo questo mese (vedi pag. 32), continua a ricordarci quello che davvero conta per la vita, per la pace, per l’ambiente: guardare a te che ti sei fatto vicino, che cammini con noi, che non ci molli mai, che sei la luce che scaccia confusione, tenebra, indifferenza, assuefazione e scoraggiamento, che sei parola di verità che decodifica fake news, luoghi comuni e slogan urlati senza contraddittorio.

Grazie anche per tutti coloro che, pur non facendo notizia, siano essi israeliani o arabi, ebrei, musulmani o cristiani, continuano a operare nel silenzio per la pace, pagando di persona per essere vicini a chi soffre, e contestano la logica della guerra con azioni concrete di riconciliazione, di vicinanza alle vittime, di soccorso a chi ha perso tutto.

Grazie per chi, in Palestina o in altre parti del mondo, continua a credere con te che la luce vince le tenebre, l’amore è più forte dell’odio, e che la pace si costruisce col perdono, il dialogo, il rispetto di tutti, specialmente dei più piccoli e dei più poveri.

È urgente imparare da te la misericordia, quella forza originariamente femminile e materna con la quale ti sei immedesimato, che cambia il nostro modo di relazionarci gli uni agli altri e ci fa vedere, pensare e agire in modo nuovo.

Che la luce della tua nascita possa essere per tutti più luminosa dei bagliori dei bombardamenti, del fuoco degli incendi, dell’oscurita dell’odio. Cacci ansia, confusione, indifferenza e riaccenda in ciascuno di noi la voglia di operare per la pace. Che la tua luce ci dia la capacità di guardarci in faccia senza paura e scoprirci fratelli e sorelle.




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

La freccia della pace

Anche a Dar es Salaam (Tanzania), dove opero, i ragazzi vanno a scuola zaino in spalla. Persino i bambini dell’asilo indossano lo zainetto, decorato con paperette e caprette. Pochi bimbi, però, perché la scuola materna è un lusso da queste parti.

A questi zaini e zainetti ho pensato, cari missionari della Consolata, visitando il vostro «Polo culturale» Cam, Cultures and Mission, di Via Cialdini 4, Torino. Già. Iniziando la visita, sono stato «accolto» proprio da uno zaino e da un paio di sandali. Corredo essenziale per chi affronta un viaggio a piedi.

Un viaggio, quello nel Cam, attraverso reperti culturali di valore assoluto, esperienze di missionari e missionarie, danze e musiche coinvolgenti, che mi hanno avvicinato ai Kikuyu del Kenya, ai Wahehe del Tanzania, ai Pigmei del Congo, agli Amara dell’Etiopia. Senza scordare gli Yanomami del Brasile e altre popolazioni dell’America Latina. Realtà affascinanti, documentate da foto dell’«archivio Missioni Consolata». E l’Asia? L’Asia non manca nel «Polo culturale». Così ho attraversato le steppe gelide e sterminate della Mongolia…

Anno 1241, Cracovia (Polonia). Dal campanile della chiesa di Santa Maria un trombettiere lancia l’allarme: «I Mongoli sono alle porte!». Ma un arciere mongolo colpisce a morte quel trombettiere polacco. Ancora oggi, a Cracovia, ogni ora un trombettiere suona quell’allarme del 1241.

E dalla Mongolia il 10 giugno 2018 Paola Giacomini è partita a cavallo con nello zaino una freccia simile a quella dell’arciere mongolo che trafisse il trombettiere polacco. Paola ha cavalcato per 15 mesi, fino al 16 settembre 2019, allorché entrò nella basilica di Santa Maria, a Cracovia, per deporre la freccia della … pace.

Grazie Mongolia, grazie Polonia. Grazie Paola, ambasciatrice di pace.

Francesco Bernardi,
Dar es Salaam, 13/10/2023

In memoria di padre Paolo Tablino

Don Paolo Tablino, prete della diocesi di Alba, è stato missionario fidei donum e poi missionario della Consolata a Marsabit, nord del Kenya, dalla fine degli anni Cinquanta al 2009.

Per ricordare la sua opera e il suo impegno pastorale che negli anni ha favorito l’istruzione, l’accesso alla sanità, l’inculturazione del Vangelo nella valorizzazione della cultura locale, lo scorso 28 ottobre è stato inaugurato ad Alba un monumento, opera del giovane artista albese Samuel Di Blasi.

L’installazione dal titolo «Marsabit», opera d’arte alta più di quattro metri che rappresenta un albero, è stata posta nell’area verde che l’amministrazione comunale aveva già dedicato al missionario, in prossimità della chiesa Cristo Re, tra via Romita e via san Teobaldo.




Cabo Delgado. Curare ferite invisibili


Gli scontri nel nord del Mozambico, iniziati nel 2017, hanno causato una fuga di massa della popolazione. Oggi la situazione si è un po’ stabilizzata e la gente ha ripreso a tornare a casa. Ma i traumi rimangono a lungo e i servizi di recupero psicologico sono pochi. Alcuni testimoni raccontano la loro esperienza.

«Possiamo ballare, possiamo cantare, ma non possiamo dormire, perché restiamo sempre con un occhio aperto», intonano le donne a Incularino, distretto di Palma, teatro dell’attacco di marzo 2021, uno dei più sanguinosi del conflitto scoppiato nel 2017 a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Una guerra che vede coinvolti gruppi armati nazionali e internazionali, tra cui quello islamista, noto come Al-Shabaab, e le forze di sicurezza mozambicane, e che si è intensificata nel tempo causando gravi sofferenze umane e movimenti di popolazione di massa. Si stimano un milione di sfollati su circa due milioni di abitanti della provincia.

Gli scontri sono alimentati da un intreccio di motivazioni politiche, sia interne che esterne, religiose ed economiche. I gruppi armati jihadisti cercano di stabilire il loro controllo in una regione ricca di risorse naturali, tra cui gas, carbone e rubini. La situazione ha attirato l’attenzione internazionale, con l’invio di una forza multinazionale della Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale, ndr) a partire dal luglio del 2021. La Sadc mission in Mozambico (Samim) ha il compito di sostenere il governo nel ripristino dell’ordine e della stabilità.

Dopo la veloce riconquista di alcune città e territori che erano sotto il controllo dei ribelli (gruppi composti da mozambicani radicalizzati e da islamisti di altri paesi africani, vedi MC aprile 2022), il conflitto continua tra imboscate lungo le strade, incendi nei villaggi e attacchi mirati.

Crisi umanitaria

Le continue violenze hanno innescato una crisi umanitaria che si protrae oramai da sei anni.

Oltre ai danni fisici e materiali, il conflitto ha avuto un profondo impatto sulla stabilità delle comunità, sugli equilibri naturali che prima favorivano una condivisione delle risorse.

A tutto ciò si sommano gli effetti del cambiamento climatico sulla regione: alcune aree soffrono tempi di siccità prolungata, altre sono soggette a cicloni tropicali, le coste a erosione.

La popolazione, dunque, affronta una doppia sfida: il conflitto armato che minaccia la sicurezza, e il cambiamento climatico che colpisce le risorse vitali come l’agricoltura e la pesca.

Questi fattori, insieme all’impatto del movimento di popolazione (secondo dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a fine 2022 erano stati registrati 1.028.743 sfollati, di cui il 90% nella provincia di Cabo Delgado), hanno indebolito l’accesso al cibo, ridotto le risorse economiche e aumentato la tensione tra le comunità.

L’incertezza costante, la sensazione di perdita e la sfiducia nelle istituzioni rendono difficile per le persone cercare aiuto e affrontare il proprio dolore.

«Non so dove sia mio fratello, so solo che non abbiamo ancora potuto fargli il funerale», racconta una ragazzina sfollata a Mueda.

Durante gli attacchi sulla costa sono scappati insieme con la madre verso l’interno e, durante il viaggio, a causa della confusione e dello shock, hanno perso di vista il fratello maggiore. Pensano sia stato rapito da uno dei gruppi armati.

La vita ricomincia

Dopo l’intervento della forza internazionale, la vita è lentamente ricominciata: le scuole hanno riaperto, gli ospedali provinciali hanno il personale minimo sufficiente, le banche sono di nuovo attive.

L’attenzione si sposta su questioni di sicurezza, sulla ripresa economica, sulle elezioni politiche, ma ogni individuo deve fare i conti con i propri traumi interiori.

«Ci chiamano “retornados” perché siamo tornati nel luogo da cui venivamo, ma le cose sono cambiate», racconta Maria (nome di fantasia) di Palma, mamma di tre bambini, rientrata nella sua città dopo un anno di sfollamento vissuto nelle tende dei campi di risposta umanitaria. «Da un lato avevo parte della mia famiglia con me, inoltre quelle erano le nostre zone di origine, quindi tornare è stato facile, ma dall’altro viviamo in case vuote, senza cibo».

Molte persone hanno problemi a fare riconoscere la propria identità legale, soprattutto nelle località di rientro degli sfollati. Infatti, durante la fuga, molti hanno smarrito i loro documenti e non riescono a rinnovarli, perché spesso i servizi di anagrafe nelle località di ritorno non sono ancora pienamente operativi. Questo può comportare diversi rischi: tratta di persone, difficoltà di accesso a servizi legali, essere soggetti a multe e detenzioni da parte della polizia.

Nonostante alcune zone siano nuovamente sotto controllo governativo, gli spostamenti sono ancora difficili e pericolosi. «Non c’erano mezzi di trasporto e vivevamo in una zona isolata a ore di cammino da acqua e campi coltivabili», prosegue Maria.

I pochi collegamenti, condizioni accidentate delle strade e pericolo degli assalti rendono ancora più precaria la fruizione di alcuni servizi pubblici. «L’ospedale funziona, ma sappiamo di persone che sono morte per poterci arrivare perché non ci sono trasporti… quindi preferiamo non andarci», raccontano alcune donne di Mueda.

«La cosa più difficile è stata la mancanza di cibo durante lo sfollamento, ma anche, talvolta, non potersi muovere», racconta Aisha (nome di fantasia), 35 anni, di Palma. E non solo fisicamente: la vita è rimasta «immobile» per mesi, per alcuni anche per anni.

In un ambiente di conflitto, dove il pericolo sembra essere onnipresente, le ferite che non si vedono sono difficili da curare e il ciclo del trauma si autoalimenta. Il risultato è una condizione soggettiva di iper vigilanza, nella quale ogni momento di tensione, ogni rumore improvviso, un locale buio, può risvegliare il trauma rendendo difficile la vita quotidiana e tendendo a bloccare la persona.

Servizi sanitari

A Cabo Delgado, la mancanza di accesso ai servizi sanitari, compresi quelli psicologici, ha ostacolato il processo di recupero psicosociale della popolazione.

La perdita di reti di supporto a causa della distruzione delle comunità e degli spostamenti ha lasciato molte persone isolate e prive di un sostegno emotivo adeguato.

Il recupero dal trauma in un contesto di conflitto è un processo complesso e sfidante: ci sono molteplici approcci che possono aiutare gli individui a superare la situazione e riprendersi. I servizi di salute mentale, inclusi la terapia individuale e di gruppo, possono fornire uno spazio sicuro per esplorare ed elaborare le emozioni legate al trauma. La resilienza delle comunità locali può essere rafforzata attraverso programmi di sostegno psicosociale, consentendo alle persone di condividere esperienze comuni e costruire legami di solidarietà, per ridurre lo stigma della richiesta di aiuto e aumentare l’accesso alle cure.

Quando si lavora con i bambini, si usano spesso metafore per spiegare concetti più complessi. Immaginiamo la nostra mente come un fiore che cresce in un giardino esposto alle intemperie. Queste sono eventi stressanti, traumi, perdite o altre difficoltà che mettono alla prova la nostra resilienza mentale. Mentre il fiore può piegarsi sotto la forza delle tempeste, ha radici profonde che gli consentono di restare ancorato al terreno. In modo analogo la resilienza umana ci aiuta ad affrontare le avversità, mantenendo una certa stabilità anche quando siamo esposti alle intemperie della vita. Tuttavia, anche le piante più forti possono subire danni durante le tempeste più violente, così come noi possiamo lottare con le difficoltà emotive quando le pressioni diventano troppo intense. In questi casi dobbiamo renderci consapevoli che qualcosa si è rotto, per cominciare a ricostruirlo.

Riconoscere i traumi

Il conflitto ha generato ferite invisibili ma profonde nella popolazione locale. Tuttavia, è possibile avviare processi di recupero e mitigarne gli impatti negativi. Tutto questo a condizione che i traumi vengano riconosciuti e si rendano prioritari. Nonostante tutte le difficoltà del contesto, le persone ci dicono: «Siamo tornate a casa e questo era l’importante. Ora, piano piano, si può ricominciare a ricostruire». Per resistere e per «ricostruire», però, bisogna imparare a farlo. Qualcuno avrà bisogno di essere accompagnato o sostenuto all’inizio, qualcun altro avrà bisogno di sentirsi ripetere che non esiste un modo «giusto» di sentire, che «va bene», che «possiamo ricominciare da lì», e ci si può aiutare a creare un luogo dove poter, insieme, prendersi cura delle radici e del futuro.

Josefina, 40 anni e tre figlie, non usciva più di casa dopo aver vissuto quasi un anno prigioniera dalle milizie ribelli ed essere stata trattata come oggetto tra stupri e lavori forzati. Il mercato era uno dei luoghi ai quali aveva più difficoltà ad avvicinarsi. La presenza dei militari, la visione delle armi, i rumori forti e la folla, le creavano disorientamento, paura, disagio.

Sua figlia, adolescente, che l’aveva accompagnata nel periodo di reclusione, aveva vissuto la stessa sorte, ma era riuscita a tornare a scuola ogni giorno quasi con normalità, dopo aver ricevuto le necessarie cure. «Non attraverso la strada e non apro la porta», diceva Josefina. Sentiva crescere dentro di lei un sentimento di inutilità, non riusciva ad affrontare le cose, come invece le altre persone della sua città stavano facendo, e non voleva comportarsi come se avesse dimenticato.

«Uno dei momenti più significativi di questi mesi è stato quando ho deciso di affrontare la mia paura gradualmente – ci racconta Josefina -. Ho iniziato uscendo di casa per brevi periodi di tempo, accompagnata dalla persona che mi stava aiutando. Man mano sentivo più fiducia e facevo qualche passo in più. Ogni piccolo successo è stata una vittoria personale. Anche quando ho avuto delle ricadute e ho sperimentato momenti di panico, ho continuato a lavorarci. Con il tempo, la paura ha iniziato a perdere il suo potere su di me».

Quando riconosciamo le paure e i traumi, quando siamo accompagnati in un processo di guarigione, ogni passo diventa sempre più facile. La parola chiave è «consapevolezza globale», necessaria per superare queste sfide straordinarie e per costruire un futuro più sostenibile per le generazioni future.

Giulia Moro e Paolo Ghisu




Guerra in Tigray. Le braci restano accese


La guerra interna in Etiopia è durata due anni. È intervenuta l’Eritrea e diverse altre potenze estere si sono «posizionate», in particolare fornendo armi. Un anno fa, la firma del cessate il fuoco, ma il conto delle vittime è elevatissimo e il Tigray è da ricostruire.

Due anni di combattimenti intensi. Di avanzate e di ritirate da ambo le parti. Di battaglie tra creste vertiginose e valli aspre. Una guerra fratricida, piena di vendette maturate in anni di tensioni represse. Un conflitto che ha fatto scricchiolare le fondamenta dell’Etiopia. Nel Tigray, tra il 2020 e il 2022, si sono confrontati l’esercito federale, che rispondeva agli ordini del governo di Addis Abeba, e le milizie tigrine, agli ordini del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf). Ma tra gli attori sono comparsi anche le milizie amhara e l’esercito eritreo (che oggi è ancora presente nel territorio etiope). A un anno dalla firma del cessate il fuoco che cosa è rimasto sul terreno? Qual è l’eredità di quei durissimi 24 mesi che hanno segnato la regione settentrionale del Paese?

Le radici

Facciamo un passo indietro. La guerra in Tigray è scoppiata nel 2020, ma le radici del conflitto sono molto più profonde. I tigrini sono stati il nerbo delle forze che hanno destituito, negli anni Ottanta e Novanta, Menghistu Hailè Mariam. Alleate agli eritrei hanno condotto una guerriglia che ha deposto il «negus rosso», ha portato all’indipendenza dell’Eritrea e alla nascita, in Etiopia, di un regime di cui proprio i tigrini sono stati il centro per quasi un trentennio. Decenni duri nei quali dall’alleanza con gli eritrei si è passati a un’aperta contrapposizione tra Addis Abeba e Asmara, culminata nella guerra del 1998. Una guerra, quest’ultima, che, anche quando le armi sono state messe a tacere, ha lasciato un lunghissimo strascico di tensioni tra Etiopia ed Eritrea.

Solo l’avvento al potere del premier Abiy Ahmed (2018) ha portato a una svolta. Il nuovo leader, di etnia oromo, ha siglato una storica pace con l’Eritrea (nello stesso anno) e ha progressivamente messo ai margini il Tplf, che ha perso sempre più potere e si è arroccato nella propria regione di appartenenza. Le continue frizioni tra il governo federale di Addis Abeba e il Tplf hanno portato a un conflitto aperto nel gennaio del 2020. L’esercito federale ha condotto un’offensiva che ha, inizialmente, messo in un angolo le milizie tigrine. Solo nel giugno 2021 lo stato maggiore di Macallè è riuscito a prendere l’iniziativa e a lanciare una controffensiva che ha portato i propri reparti a 200-300 chilometri da Addis Abeba.

Nel frattempo, la disputa ha visto scendere in campo nuovi attori. A fianco del governo federale si sono schierate le milizie amhara, la seconda etnia dell’Etiopia che si contende con i tigrini alcune zone di confine tra le due regioni. Pochi mesi dopo è scesa in campo, a fianco del premier Abiy, anche l’Eritrea che, come abbiamo visto, aveva un antico conto da saldare con la dirigenza tigrina, ma, soprattutto, aveva pretese territoriali su una zona che confina tra Eritrea e Tigray. A supportare i tigrini è invece arrivato l’Esercito di liberazione oromo (Ola), formazione armata della frangia più estremista del popolo oromo (l’etnia più numerosa dell’Etiopia).

Gli scontri sono stati durissimi e a subire le conseguenze più forti è stato il Tigray. Senza corrente elettrica, senza collegamenti al web, senza medicine e con cibo scarso a scontare gli effetti più duri dei combattimenti è stata la popolazione civile. Amnesty International ha anche, a più riprese, denunciato i crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati soprattutto dai soldati eritrei nel nord del Tigray. Accuse rigettate da Asmara, ma che sono state confermate anche dai Medici per i diritti umani e dall’Organizzazione per la giustizia e la responsabilità nel Corno d’Africa che hanno denunciato le continue aggressioni sessuali, durante e dopo il conflitto, perpetrate dagli eritrei a danno delle donne tigrine.

(Photo by Michele Spatari / AFP)

Fine del conflitto

Nel 2022, il Tigray ha iniziato a cedere di fronte all’offensiva dell’esercito federale. Tra agosto e settembre 2022, l’entrata in scena dei velivoli senza pilota forniti ad Addis Abeba da Turchia, Iran ed Emirati arabi uniti ha permesso un’offensiva dell’esercito federale che ha messo in ginocchio i miliziani tigrini. Impossibilitati a sostenere ulteriormente lo scontro, i vertici del Tplf hanno quindi accettato di sedersi al tavolo in colloqui di pace mediati dall’Unione africana.

Il 2 novembre 2022 Addis Abeba e Macallè hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine al conflitto. Il bilancio di due anni di guerra è tragico. Secondo alcune stime sarebbero state circa 500mila le vittime, alle quali si aggiungerebbero due milioni di sfollati interni.

Il Tigray è distrutto, ma anche lo Stato federale avverte forti scricchiolii nel suo assetto istituzionale. «Addis Abeba – riporta una ricerca dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) di Milano – ha sempre sottolineato il carattere di questione interna [del conflitto], rivendicando la propria piena sovranità nazionale e il connesso diritto e dovere, in quanto governo legittimo, di applicare la legge su tutto il territorio nazionale, imponendo quindi l’autorità centrale sulla ribellione “terrorista” del Tigray». Una visione che mette in dubbio la costruzione federale dello Stato a vantaggio di un forte potere centrale. «Il Tplf – continua la ricerca Ispi – ha insistito nel denunciare le violazioni dei diritti umani da parte del governo ritenuto illegittimo per essere rimasto in carica nel 2020 dopo la scadenza del suo mandato, il duro intervento armato con violazioni indiscriminate a danno dei civili e il prolungato isolamento del Tigray che ha causato una gravissima crisi alimentare e umanitaria».

Contadino che ara , sui 3000 mt.

L’internazionale

La guerra in Tigray ha però avuto anche forti ricadute internazionali. L’Europa ha subito preso le distanze da Addis Abeba, e Bruxelles ha imposto un embargo delle armi tanto verso l’Etiopia quanto verso l’Eritrea. Gli Stati Uniti, un tempo fedeli alleati del premier Abiy, si sono dimostrati molto critici nei suoi confronti. Una tensione che ha raggiunto il culmine con la sospensione dell’Etiopia dall’African growth and opportunity act, la legge statunitense che prevede agevolazioni commerciali in favore dei Paesi che rientrano entro certi canoni prefissati. A trarne vantaggio sono state la Cina e la Russia. Pechino ha dimostrato subito un sostegno incondizionato ad Addis Abeba e ha criticato sia le sanzioni sia l’interventismo di Usa e Ue. Anche la Russia ha sostenuto il premier Abiy parlando della guerra come «un affare interno» nel quale non interferire.

Altri due attori «minori» hanno tratto beneficio dal conflitto: la Turchia e l’Iran. Ankara ha riallacciato rapporti, fino ad allora freddi, con Addis Abeba. E ciò le ha garantito fruttuosi contratti nel settore della difesa, che hanno fruttato alle casse dei colossi turchi della sicurezza 51 milioni di dollari nel solo 2021. Non dissimile l’atteggiamento di Teheran che, come sottolinea la ricerca Ispi, «ha visto nelle tensioni tra Stati Uniti e Addis Abeba un’opportunità per mantenere profondità strategica nel Corno d’Africa».

Alba di luna sulle case tra eucalipti

La testimonianza

«L’Etiopia è lo specchio delle emergenze dell’Africa. Il Nord, al confine con il Somaliland, è stato investito da ondate di siccità. Il Sud è stato colpito dalle inondazioni. A Ovest devono fare i conti con 500mila rifugiati sudsudanesi e nella regione di Gambella con 80mila rifugiati sudanesi. E poi il Tigray che è uscito provato da due anni di guerra civile», a parlare è Giovanni Putoto, medico, responsabile della programmazione del Cuamm medici con l’Africa, organizzazione da anni impegnata nell’assistenza medica nel continente. Putoto è reduce da un recente viaggio in Tigray dove la sua organizzazione è stata chiamata a intervenire per supportare il sistema sanitario locale duramente colpito dalla guerra.

La tensione, racconta, non è terminata. I tigrini devono fare i conti con le rivendicazioni dei vicini amhara su territori confinanti. Non solo, ma devono continuare a sopportare la presenza dei reparti eritrei che non hanno abbandonato il territorio etiope. «Nel nostro viaggio – continua – non abbiamo visto militari eritrei. Sappiamo però che ci sono. Ce lo hanno testimoniato numerosi tigrini che abbiamo incontrato. Occupano ampie fasce di territorio al confine tra Etiopia ed Eritrea. Asmara non ha firmato l’accordo di pace e la loro presenza è un dossier che deve ancora essere affrontato e risolto da Addis Abeba».

Gran parte dei morti, spiega Putoto, sono stati civili: uomini, donne, bambini vittime degli scontri e delle privazioni causate dal conflitto. A questi si aggiungono gli sfollati. Sono migliaia, perlopiù concentrati nelle periferie delle città. Solo nel nord ovest del Tigray sono 400mila, la maggior parte all’interno dell’abitato di Shire. Le condizioni della popolazione sono drammatiche. La malnutrizione acuta e grave è elevata, soprattutto nei bambini. Una situazione aggravata dalla sospensione degli aiuti in cibo da parte del Programma alimentare mondiale disposta a seguito dello scandalo della sottrazione di derrate da parte delle autorità etiopi.

I leader tigrini hanno denunciato la morte per inedia di almeno 50mila persone a causa del mancato arrivo degli aiuti alimentari. Cifre che non possono essere verificate, ma che tracciano la situazione drammatica della regione. «Il sistema sanitario è al collasso – osserva Putoto -. In tutto il Tigray un solo ospedale è in grado di fare parti cesarei e trasfusioni di sangue, parametri minimi per stabilire se una struttura sanitaria funziona. Gli altri ospedali sono chiusi o sono stati intenzionalmente distrutti dalle truppe eritree. Solo il 20-30% dei centri sanitari è operativo. Il personale sanitario è deceduto o non lavora perché senza retribuzione. Mancano quindi operatori e farmaci. Le uniche strutture che funzionano sono quelle di proprietà della Chiesa cattolica che hanno fatto un lavoro preziosissimo. Anche le scuole sono chiuse. I ragazzi e le ragazze crescono per strada, lontano dalle aule».

Il Tigray ha di fronte a sé la necessità di ricostruire. «È una sfida enorme – continua Putoto – perché non si tratta solo di riabilitare le infrastrutture distrutte o danneggiate, ma di ricreare i quadri professionali che sappiano guidare questa ricostruzione. C’è tantissimo da fare per restituire ai tigrini un sistema scolastico, sanitario e produttivo funzionante».

Enrico Casale


Scuola Tecnica: Studenti che fanno pratica, p. A. Vismara osserva. Anni settanta.

La storia di un missionario formatore in Etiopia

Una vita in seminario

Padre Antonio Vismara ha dedicato la sua vita all’Etiopia, pur avendo lavorato anche in Kenya e Italia. La sua vocazione è stata quella di fare il formatore di altri missionari. E ha pure avuto la fortuna di avere a fianco un gruppo di appoggio inossidabile.

Padre Antonio Vismara è nato nel 1942 a Ossona, in provincia di Milano. Terzo figlio, dopo un fratello e una sorella. Ottenuto il diploma da disegnatore tecnico scopre la vocazione e intraprende il percorso per diventare missionario. Nel giugno del 1972 è ordinato sacerdote. Alla fine dello stesso anno parte per l’Etiopia e inizia la sua missione a Meki.

Lo incontriamo nella Casa madre dei Missionari della Consolata a Torino, dove vive dal 2021.

«Fin dall’inizio il fondatore (Giuseppe Allamano) ha sognato l’Etiopia, ma noi (missionari in quel paese, ndr) diciamo che questo sogno non si è mai realizzato», ci confida con un sorriso sornione.

Perché? Gli chiediamo. Oggi ci sono diversi missionari etiopici nell’istituto, questo è già un bel risultato. «Il governo non ha mai realmente accettato i missionari, volendo piuttosto progetti di sviluppo sociale. E neppure la Chiesa ortodossa ci ha mai voluti – continua padre Antonio -. Noi eravamo sul posto con dei visti di lavoro, realizzavamo progetti, e a fianco abbiamo fatto chiese, parrocchie, comunità cristiane, che sono molto attive anche oggi». Le difficoltà per ottenere visti e permessi di soggiorno ci sono sempre state, ma negli ultimi anni si sono inasprite. È quasi un dire: «bastiamo noi, non vogliamo più stranieri».

Oltre a diversi missionari etiopi e alcuni keniani, come missionari della Consolata oggi sono presenti nel paese padre Edoardo Rasera, padre Marco Martini e fratel Vincenzo Clerici.

Padre Antonio apprezza molto i missionari etiopi: «Sono molto fedeli, perché attingono dalla lunga tradizione dei monaci».

Ma andiamo con ordine. Padre Antonio ha iniziato il suo lavoro a Meki, sede del vicariato nel 1973, poi ha lavorato anche a Modjo, nello stesso vicariato. I suoi incarichi sono stati fin da subito nel campo della formazione dei nuovi missionari, ruolo che ha mantenuto sempre: «Una vita in seminario», ci dice ridendo. Seguiva gli aspiranti missionari con lezioni sulla spiritualità dell’istituto, incontri personali, e con il discernimento. Aveva studiato teologia tra Torino e Washington e aveva fatto anche un corso per formatori.

«Negli anni Ottanta lavoravo con il vescovo Yohannes Woldegiorgis. Quando il vescovo morì (nel 2002, ndr), mi chiesero di sostituirlo. Ma dissi loro, “no, qui ci vuole un etiope”. L’Etiopia è troppo complicata, occorreva un locale per districarsi», dice, quasi a giustificarsi.

Dopo l’Etiopia, ha lavorato per tredici anni al seminario di Bravetta a Roma, e poi otto in Kenya, al seminario di Nairobi.

È nel 2005 che viene richiamato in Etiopia dove è diventato superiore regionale e, successivamente, formatore al seminario di Addis Abeba: «Tenevo lezioni sulla nostra identità come missionari della Consolata, al pomeriggio, dopo i corsi universitari. Poi ero a disposizione per i cosiddetti dialoghi personali, perché la teologia insegnata in classe pone delle domande, ma la scuola soltanto non può rispondere perché sono questioni troppo personali». L’ultimo periodo etiopico il missionario lo ha passato nuovamente a Modjo.

In tutti questi anni padre Antonio è stato accompagnato da un gruppo di amici, il «Gruppo Meki». Costituitosi nel 1973 a Ossona, nella sua parrocchia di provenienza, è composto da volontari, lo ha sempre appoggiato raccogliendo e inviando fondi per i suoi progetti sul campo, e facendo qualche visita. «Il gruppo è ancora attivo, dopo cinquant’anni. Io scrivo loro e vado a trovarli regolarmente. Loro continuano ad appoggiare le missioni a Meki», conclude con soddisfazione.

Marco Bello

Viaggio a Weragu per la consacrazione della nuova Chiesa : con il Vescovo Abraha Destà e P. Antonio Vismara ( sup. reg. ) . Il Ponte sul Fiume Shinchillè , che collega Derolle . P. A. Vismara e il Vescovo Abraha Destà e uno dei meccanici .

 




Bielorussia. Passaggio a Est


Nonostante il periodo turbolento, una famiglia di Moncalieri (Torino) ha visitato alcuni piccoli amici nella campagna bielorussa: ragazzi e ragazze che hanno passato alcuni periodi come ospiti in Italia, nell’ambito di un programma di accoglienza post Cernobyl. Qui scopre una realtà inaspettata.

Vilnius, Lituania, stazione degli autobus, mezzanotte e venticinque. Nonostante sia prevista tra cinque minuti una partenza per Minsk (capitale della Bielorussia), sui tabelloni dei vari stalli non ce n’è traccia. Sarà per la stanchezza accumulata durante la giornata trascorsa nella città lituana, ma il fatto ci crea una certa apprensione. Decidiamo di cercare un improbabile ufficio informazioni aperto nel cuore della notte. Siamo io, mia moglie e una delle nostre due figlie. Inizia così il nostro viaggio di famiglia per raggiungere quello che, nell’animo di ognuno di noi, è un altro pezzo di famiglia. Sono i ragazzi e le ragazze bielorussi che, negli anni, abbiamo ospitato per periodi più o meno lunghi a casa nostra, allo scopo di offrire loro un’esperienza di vita lontana dalle zone contaminate.

Alla stazione di Vilnius, nel frattempo, nel buio della notte, si è materializzato un autobus e dallo spazio circostante, apparentemente deserto, è emerso anche un capannello di viaggiatori che si confortano a vicenda sulla puntualità del servizio a dispetto delle omesse comunicazioni.

La dogana fa paura

Tra di noi scherziamo su come affronteremo la dogana. I racconti di amici che hanno recentemente attraversato la frontiera Lituania-Bielorussia parlano di controlli estremamente severi e il nostro voluminoso carico di coperte, penne, cioccolato e altri regali, temiamo che non passerà inosservato. È pur vero che mia moglie, sempre previdente, ha con se una lettera della fondazione «Aiutiamoli a vivere» (vedi box) che spiega la destinazione di quei beni.

I temuti doganieri, invece, si rivelano non essere un problema, almeno per noi. L’unico disagio sono i tempi d’attesa in fila per lo scanner dei bagagli che allungano il viaggio notturno.

Alle sei in punto del mattino arriviamo finalmente a Minsk. Siamo un po’ stropicciati e stanchi ma la gioia di incontrare Irina e suo marito Dima prende subito il sopravvento e le 5 ore e mezza per coprire meno di 200 km sono già un ricordo.

Minsk, in trasformazione

In attesa che l’hotel ci dia l’accesso al check-in, Irina e Dima ci rifocillano con una abbondante colazione e poi partiamo alla scoperta della capitale. Dima è uno chaperon fantastico e Irina è estremamente paziente nel gestire le nostre curiosità che spaziano dalla cucina al sistema di viabilità. Non è nemmeno da trascurare la grande capacità di creare confusione tipica della nostra famiglia.

Con Dima nei panni di Google maps e Irina in veste di Google translate vediamo una città di circa due milioni di abitanti con un impianto urbanistico di evidente stampo sovietico (è stata quasi totalmente distrutta durante la Seconda guerra mondiale) caratterizzato da ampi viali ed enormi edifici in stile classicista socialista. Minsk è una città che sta vivendo una parziale trasformazione con la nascita di centri commerciali, di nuovi quartieri e l’innesto di costruzioni di nuova concezione come la biblioteca nazionale e i palazzetti per lo sport che paiono proiettarla decisamente nel futuro. L’apparenza è di ordine, pulizia e discreto benessere.

Le proteste del 2020 però, non sono distanti.

Memorie

Minsk, come tutto il mondo ex sovietico, è fortemente legata al passato e soprattutto alla memoria dell’evento che l’ha vista maggiormente protagonista (suo malgrado): la Seconda guerra mondiale.

La città ha subito due assedi ed è stata teatro di scontri militari violentissimi e sanguinosi oltre a essere stata la sede di una delle più numerose comunità ebraiche poi fisicamente cancellata dalla mappa cittadina.

Visitiamo il museo che la città dedicato alla memoria di questa tragedia e, grazie a Irina e Dima, anche il memoriale di Chatyn.

Chatyn è il nome di un villaggio a 50 km da Minsk in cui tutti gli abitanti furono rinchiusi in un magazzino che venne poi dato alle fiamme dai nazisti così come tutte e 27 le altre case. Il memoriale ricorda i 628 villaggi che hanno subito la stessa sorte e lo fa tramite una scenografia che lascia il visitatore senza parole. È uno di quei luoghi che ti mostrano la ferocia umana senza veli, in tutta la sua immensa crudeltà. A Chatyn c’è il rispetto della memoria del singolo e la vastità della tragedia di un’intera nazione. Un dato su tutti: nel periodo 1941-1943 circa un terzo della popolazione bielorussa è deceduto. Al termine del conflitto si sono contati complessivamente oltre due milioni di morti.

Tutta la capitale è coinvolta nel ricordo, attraverso monumenti e musei. E si nota in questo così tanta cura e meticolosità che non può essere interpretata solo come propaganda politica. Altro luogo particolarmente toccante è via Ratomskaja, dove si trova l’avvallamento che ricorda il punto, appena fuori dalle mura del ghetto ebraico, nel quale vennero sepolti circa cinquemila ebrei (alcuni ancora vivi) durante una rappresaglia nazista nel marzo del 1942. L’olocausto costò la vita a 800mila ebrei bielorussi, ovvero il 90% della popolazione bielorussa di religione ebraica.

Incontri

Dopo due giorni dedicati a Minsk, ci spostiamo di 300 km verso nord est, a Vicebsk, base logistica del nostro viaggio.

Siamo qui infatti per incontrare di nuovo i «nostri» ragazzi e visitare le scuole nei giorni di riapertura dopo le vacanze estive, e visitare le strutture che frequentano. Affrontiamo le tre ore di viaggio sul Fiat Ducato bianco del nostro nuovo autista, l’impavido ma prudentissimo Ivan. Appena scesi dal pulmino, ecco Alesia. Credo che stesse presidiando l’albergo dove siamo diretti da almeno un paio d’ore. L’accoglienza con un abbraccio e un sorriso saranno indimenticabili. Passano pochi minuti, nemmeno il tempo di accreditarci al desk dell’hotel, e arriva Valentina, altri abbracci e saluti. Saliamo in camera e ci raggiunge anche Palina. È un tripudio di emozioni, è la meraviglia dell’amicizia che non conosce le dimensioni dello spazio e del tempo.

Il mattino del giorno successivo è dedicato alla scuola di Dobromysli, un villaggio di mille abitanti a 15 km da Liozna e 60 da Vicebsk. Siamo a due passi dal confine con la Russia.

La struttura è un vero gioiellino. Iniziamo a intuire quanto ci sarà sempre più evidente nei pochi giorni che trascorreremo qui: la cura che viene riservata agli alunni e, più genericamente all’infanzia, è veramente grande.

Ci accompagnano il direttore della scuola e la direttrice del plesso scolastico della regione. Colmi di orgoglio, ci raccontano quanto può offrire ai propri studenti la struttura che accoglie i bambini dal nido fino alla nona classe ovvero 14 anni.

Ci sono diversi edifici circondati da un parco con l’accesso diretto alla foresta (in cui è stato ricavato anche un sentiero didattico). Sul retro c’è un percorso «avventura» sospeso tra i rami dei pini. All’interno è tutto molto semplice ma estremamente ordinato e lindo.

Il giorno successivo è quello che noi, ormai drogati di inglesismi, chiamiamo il «Back to school», e abbiamo trasformato nell’ennesima occasione di shopping. Per le scuole bielorusse è invece un momento istituzionale.

Un orto… didattico

Il direttore ci tiene a sottolineare che sono ormai alcuni anni che questa scuola viene premiata nell’ambito del gruppo di istituti a cui appartiene, e ci porta a visitare una serra dove gli alunni si cimentano nella coltivazione di ortaggi e verdure che in parte vengono consumati da loro stessi e in parte venduti per raccogliere fondi per la scuola.

Natalia, una delle insegnanti, che già conosciamo perché è stata in Italia con l’accoglienza dei bambini, ci guida attraverso i corridoi, le classi, la palestra e, per finire, ad una tavola imbandita.

Il pomeriggio è riservato a Samir e alla sua fantastica «nonna». Un momento molto intimo, una vera immersione nella realtà dei villaggi (molto diversa dalla patinata Minsk o anche solo dalla vicina Vicebsk), ma soprattutto l’occasione per riabbracciarsi e giocare a freccette.

Inizia la scuola

La seconda giornata assistiamo alla cerimonia ufficiale di apertura della scuola di Veleshkovichi. È un momento importantissimo e tutti, dai bambini vestiti in modo impeccabile alle maestre affaccendate, fino ai poliziotti, hanno ben chiara la «sacralità» del rito di inizio dell’anno scolastico. Il pensiero corre immediatamente a quanto poca sia l’attenzione che da noi si presta all’istituzione scolastica e al diritto all’istruzione. Li si dà per scontati, mentre non è sempre stato così e il loro valore è inestimabile.

Veleshkovichi è un minuscolo raggruppamento di case sull’unica altura dei dintorni, una collinetta alta forse un centinaio di metri. La scuola non è piccolissima ma non ci sono molti ragazzi, i sintomi dello spopolamento delle campagne si colgono chiaramente. La zona è rurale e non certo tra le più ricche del Paese, tuttavia anche qui, nonostante i pochi mezzi a disposizione, l’attenzione nell’accogliere i ragazzi in un ambiente il più gradevole possibile è percepibile. Qui incrociamo Svetlana, la prima maestra che abbiamo conosciuto in Italia come accompagnatrice dei bambini. Svetlana, in forma smagliante, si sta occupando di una classe del primo anno.

Ci spostiamo a Liozna per visitare il centro Raduga. Un’eccellenza per l’assistenza dei bambini con disabilità o in «transito» in attesa di famiglia affidataria.

Inutile sottolineare l’accoglienza entusiasta di Piotr e Gallia, i direttori del centro. La gioia nel mostrarci quanto fatto e quanto in progetto e la felicità nel rivedere qualcuno dall’Italia. La pandemia e la guerra hanno creato una barriera che pesa tantissimo: siamo i primi, e quasi casuali, membri di un comitato di accoglienza per ragazzi che si rivedono dopo quattro anni.

Arriviamo in concomitanza con una festa organizzata in onore di uno sponsor del centro e, sarà per le bolle di sapone che volteggiano, sarà per i fiori presenti ovunque, ma l’aria che si respira è di serena allegria.

Anche qui restiamo ammirati dall’ordine e attenzione per i dettagli. Siamo in un bel posto (nonostante tutto).

Ci raggiunge la direttrice della gestione dei minori per accompagnarci a visitare la nuovissima casa famiglia realizzata alla periferia di Liozna. Ospiti sei ragazzi in un ambiente molto accogliente. Una vera isola felice e la testimonianza dell’impegno verso chi è in difficoltà.

La cena è il momento dei brindisi. Se ne susseguono parecchi, tutti innaffiati abbondantemente con cognac e wodka.

La mattina successiva è già ora di rientrare a Minsk dove ci attende l’autobus di linea che ci permetterà di ripercorrere la strada fino Vilnius dove arriviamo verso le 2 di notte stanchi ma con il cuore pieno di gioia. per aver rivisto – anche se per poco – i «nostri» ragazzi che studiano, lavorano, si fidanzano. Insomma, vivono la loro vita nella quale, per un po’, ci siamo stati anche noi.

Ezio Cheinasso

Fondazione «Aiutiamoli a vivere»




Niger. Uno strano golpe


In Niger un colpo di stato ha rovesciato il presidente eletto. La giunta militare non è stata riconosciuta a livello internazionale e le sanzioni economiche stanno colpendo la popolazione. Le prossime mosse del nuovo potere sono imprevedibili e il Paese vive una grande incertezza. Ma si inizia a capire chi c’è dientro.

È l’alba del 19 ottobre, quando i nigerini iniziano a interrogarsi su quanto stia succedendo nella capitale, mentre sui social media impazzano le storie più diverse. Un commando avrebbe tentato di far fuggire il presidente Mohamed Bazoum, deposto il 26 luglio scorso da un colpo di stato militare e, da allora, agli arresti nella residenza presidenziale. Ma sarebbero stati scoperti, grazie a elementi fedeli al generale golpista, Abderramane Tchiani (o Tiani), e la fuga sventata. Il risultato concreto sarà l’isolamento totale dell’ex presidente, al quale viene confiscato il telefono (pare strano che non lo abbiano fatto prima), e che viene condotto, sempre in detenzione, ma in un luogo sconosciuto. Allo stesso tempo, c’è un gran movimento di mezzi blindati nel quartiere Tchangareye, dove una villa è circondata e alcune persone arrestate. Sarebbe il covo dei militari secessionisti.

Militari poco uniti

Al di là della cronaca, poco chiara, questo episodio è il primo tentativo di destabilizzazione della giunta dopo il colpo di stato, e ci dice che all’interno delle forze armate nigerine, ci siano delle divisioni.

Un’altra lettura che si fa in questi giorni a Niamey è quella della messa in scena, ovvero del falso rapimento, con il solo scopo di aumentare l’isolamento del presidente. Chi conosce il palazzo presidenziale ci dice che per arrivare alla residenza occorre passare tre livelli di sicurezza, per cui è improbabile che un commando riesca nell’impresa di entrare e uscire con il prigioniero da liberare. Altrettanto difficile è che un elicottero possa entrare nel paese indisturbato per portare via il presidente.

I fatti

Facciamo un passo indietro.

Il 26 luglio scorso, la guardia presidenziale del Niger ha deposto il presidente Moahmed Bazoum. Il generale Abderramane Tchiani, a capo del sedicente Consiglio nazionale per la salvaguardia della patria (Cnsp), si è auto proclamato capo di stato (cfr. sito MC, MC notizie, 2 agosto).

Le prime manifestazioni contro il putsch sono state represse, mentre le successive, favorevoli, ampiamente organizzate e promosse dal nuovo potere di Niamey. I manifestanti inneggianti ai golpisti chiedevano a gran voce il ritiro delle truppe francesi presenti nel Paese per la lotta antiterrorista, mentre comparivano le – oramai frequenti nel Sahel – bandiere della Russia.

A livello internazionale, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), la cui presidenza di turno è assicurata dalla Nigeria, ha condannato il golpe, attivato pesanti sanzioni economiche e minacciato pure un intervento militare per ripristinare l’ordine costituzionale. Ma la stessa Cedeao era divisa al suo interno.

La Francia, ex potenza coloniale, non ha riconosciuto i golpisti, e si è innescato un braccio di ferro diplomatico, che ha infine portato il presidente Emmanuel Macron ad annunciare, il 24 settembre scorso, il ritiro del contingente militare francese (1.500 effettivi).

Restano i militari statunitensi (anch’essi circa 1.500), che si sono tutti trasferiti nella base di Agadez a nord, gli italiani (che da 300 unità sono stati ridotti) e i tedeschi. Gli Usa hanno riconosciuto che c’è stato un golpe solo a ottobre, dopo di che hanno interrotto alcuni finanziamenti.

Nel frattempo, le giunte militari golpiste di Mali e Burkina Faso (cfr. MC maggio 2022) si sono alleate con quella nigerina, fino a firmare, il 16 settembre la «Carta del Liptako-Gourma per una nuova alleanza degli stati del Sahel», un patto di mutuo aiuto militare (cfr. MC notizie, 25 settembre).

E l’Assemblea nazionale (il parlamento) del Burkina ha dato il via libera per l’invio di un contingente militare in Niger, come se i burkinabè non avessero già abbastanza da fare contro i gruppi armati sul loro territorio.

L’impasse

Nel momento in cui scriviamo, a inizio novembre, il Paese vive un’impasse politica e una profonda crisi economica.

«L’opzione di un intervento militare [della Cedeao] si è allontanata – ci dice un nostro interlocutore a Niamey -, ma le sanzioni restano».

Così i beni di prima necessità hanno visto aumentare notevolmente il loro prezzo (un chilo di zucchero è passato da 600 a 900 franchi). «Il Cnsp ha ridotto i dazi doganali su dieci prodotti di base, per tentare di calmierare i prezzi. Di fatto la frontiera con il Benin è chiusa, e Cotonou sarebbe il porto più vicino a Niamey. Così adesso la capitale si rifornisce attraverso il porto di Lomé, in Togo, che ha accettato il corridoio umanitario, ma i camion devono passare anche in Burkina Faso, prima di arrivare nel Paese. Sono convogli scortati da militari».

Il bilancio dello stato, inoltre, si è contratto del 40% a causa del congelamento di aiuti di paesi esteri. A livello generale, l’aumento dei prezzi e l’estrema incertezza per il futuro, hanno prodotto un drastico rallentamento dell’economia. Ancora il nostro interlocutore: «La gente ha meno mezzi, c’è una contrazione delle spese. I consumi si riducono. Anche la situazione incerta induce le persone a risparmiare. Per cui l’economia ristagna. La preoccupazione principale è trovare cosa da mangiare giorno per giorno. Alcune spese non si fanno più. Si punta all’essenziale.

Così gli affari dei commercianti si riducono, mentre alcuni settori, come l’edilizia, sono in crisi, con i cantieri fermi».

Una conseguenza è la precarietà del lavoro: succede che i datori lascino a casa da un giorno all’altro gli impiegati, perché hanno meno introiti. Un circolo vizioso dunque. Questa è la situazione nelle città, mentre nelle campagne, nei villaggi, la gente continua la propria vita, influenzata piuttosto dai capricci della pioggia e della siccità che influiscono sui raccolti. Quest’anno la stagione è stata buona, i granai sono pieni e vacche e greggi sono in carne.

Anticolonialisti o reazionari?

I golpisti, per mobilitare le folle, soprattutto di giovani, hanno fatto leva sul sentimento antifrancese, oramai dilagante in tutta l’area saheliana.

La Francia ha infatti mantenuto una grande influenza geopolitica ed economica in Africa dell’Ovest come in Africa centrale fino dagli anni delle indipendenze (primi anni Sessanta).

Oggi le cose stanno evolvendo, tuttavia chi vede il golpe in Niger solo come espressione del sentimento popolare antifrancese, per liberarsi dell’influenza neocoloniale, ha una visione miope e superficiale.

Il colpo di stato in Niger è strettamente legato alla politica nazionale, come in ogni altro paese, anche se la tendenza è di vedere come causa un generale movimento anticolonialista.

Il sistema messo in piedi dal precedente presidente, Issoufou Mahamadou, durante dieci anni (2011-2021) era oramai arrivato al termine. Non potendosi ricandidare, Issoufou ha mandato avanti il suo leale compagno di partito Mohamed Bazoum (del Pnds-Tarreya, Partito nigerino per la democrazia e il socialismo). L’idea di Issoufou era quella di continuare a controllare dietro le quinte. Per questo motivo ha imposto a Bazoum di mantenere ai loro posti i due generali da lui nominati: Salifou Modi a capo delle forze armate, e Abderramane Tchiani alla guardia presidenziale.

Era inoltre previsto, ci dicono da Niamey, che il figlio di Issoufou, Sani Issoufou Mahamadou, ministro del petrolio fino al golpe, diventasse presidente dopo Bazoum.

Ma Bazoum aveva le sue idee e il suo concetto d’integrità e, ci dicono, «è stato un presidente moderno». Stava cercando di cambiare il sistema di governance, facendola finita con quello clientelare costruito da Issoufou. In carica dall’aprile 2021, ad aprile di quest’anno aveva rimosso il generale Modi e stava per cambiare anche Tchiani. C’erano inoltre stati dissapori con il figlio di Issoufou, che voleva imporre un suo uomo non gradito a Bazoum, alla testa dell’impresa che controllerà l’oleodotto verso il Benin, costruito dai cinesi.

Sperare nel cambiamento

Scrive l’analista Abdoulahi Attayoub, consulente indipendente a Lione: «I nigerini, nella loro maggioranza, potevano sperare in un cambiamento della governance, dato che il sistema messo in piedi da Issoufou Mahamodou aveva raggiunto i suoi limiti e gli eccessi avevano finito per discreditare i membri più integri del Pnds. Issoufou Mahamadou, avendo concentrato l’essenzialità del potere e avendo neutralizzato le opposizioni, non pareva avere limiti nella volontà di installare una vera impresa famigliare chiamata a perennizzarsi al comando del paese. In dieci anni, Issoufou ha accumulato abbastanza risorse per imporre il suo progetto e zittire gli oppositori. Mohamed Bazoum ha tentato una laboriosa rettificazione di questa governance, ostacolato dal clan Issoufou, i calcoli del quale sarebbero all’origine della crisi di oggi».

Il consulente continua affermando che le attuali autorità rischiano di perdere credibilità nei confronti di chi voleva il cambiamento. Focalizzare la crisi politica sulla questione dei rapporti con la Francia è strumentale alla giunta, perché le serve a nascondere le proprie debolezze e difficoltà a uscire dall’impasse. Al punto che «l’attitudine della giunta verso quest’ultimo [Issoufou], sconcerta molti nigerini che si chiedono se davvero ci sia stato un colpo di stato». Ovvero, se prima Issoufou ha tentato di tirare i fili dietro a Bazoum, adesso li vorrebbe tirare dietro a Tchiani e compagnia. Un nostro interlocutore commenta: «Se è possibile che Issoufou sia dentro al golpe, pare adesso che la situazione gli sia scappata di mano».

La transizione in atto è opaca. Sempre secondo Ayoub: «Il Cnsp non avrà alcuna credibilità fintanto che apparirà come l’alleato dell’ala mafiosa del sistema che dichiarano di volere cambiare […]. Il presidente deposto, Bazoum è stato vittima della sua ingenuità e della lealtà verso Issofou».

Da notare che il Pnds, partito storico, al potere dal 2011, è oggi spaccato in due, se non definitivamente defunto, tanto che le due fazioni arrivano a produrre comunicati ufficiali opposti tra loro. Vecchi e nuovi attori internazionalipotranno acquistare margini di collaborazione. La Cina è presente in Niger da tempo e in modo massiccio, mentre Russia, Turchia, India stanno ora facendo capolino. Sono i Brics che in tutto il continente si stanno sostituendo agli antichi paesi coloniali.

Intanto la gente in Niger vive giorno per giorno in una crisi economica sempre più acuta e tra grandi incertezze per il futuro prossimo.

Marco Bello

Uno sguardo dal punto di vista economico

Uranio e petrolio, ma non basta

Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo. Ma è anche tra i primi produttori di uranio. E da qualche anno ha aumentato la produzione di petrolio. Tutti ingredienti della complessa crisi in atto.

Formalmente la Francia ha lasciato l’Africa occidentale e subsahariana nel 1960, ma un totale sganciamento in realtà non c’è mai stato, a cominciare dal fatto che la moneta utilizzata in questi paesi è frutto di un accordo di cooperazione monetaria che, nonostante gli elementi di novità introdotti nel 2019, permette ancora alla Francia di sedere nei consigli di amministrazione delle Banche centrali dei paesi firmatari, di custodire le riserve monetarie di tali paesi, di stampare le loro divise. Ma nelle sue ex colonie, la Francia ha anche conservato il controllo delle attività economiche che considerava strategiche. Prendiamo il Niger come esempio. Analizzando le sue esportazioni si scopre che nel 2021 quattro prodotti hanno determinato l’82% dei ricavi ottenuti dal Niger dalle vendite verso l’estero. Al primo posto ci sono gli idrocarburi (33%), al secondo posto c’è l’uranio (26%), al terzo posto ci sono le cipolle (13%), al quarto posto l’oro (10%). Dei quattro prodotti quello che alla Francia interessa di più è l’uranio, che assorbe in larga parte. Non a caso la Francia figura come primo partner commerciale del Niger tramite l’acquisizione del 21% delle sue esportazioni, quota costituita per la quasi totalità da uranio.

Per Parigi il combustibile atomico è un prodotto fondamentale perché il 70% della sua energia elettrica proviene da 56 centrali nucleari dislocate in tutto il paese. E pur rifornendosi di uranio da una varietà di paesi, fra cui Canada, Kazakhistan e Uzbékistan, il rapporto con il Niger continua a giocare un ruolo determinante.

La società che garantisce la materia prima a Parigi si chiama Orano (ex Areva), ed è posseduta al 90% dallo stato francese. Con un giro d’affari di 4,3 miliardi di euro, Orano è una multinazionale con 17mila dipendenti dislocati in 14 paesi. Anche in Niger è il principale protagonista dell’estrazione di uranio tramite le filiali Somair e Cominak che gestiscono una miniera ciascuno. Ma mentre la prima continuerà le proprie attività fino al 2040, la seconda è in fase di bonifica perché nel 2021 è stata dichiarata esausta. Intanto sono iniziati i lavori per un’enorme miniera nei pressi di Imouraren, la cui apertura è stata però sospesa dalla Francia già nel 2014. Sarebbe una delle più grandi miniere di uranio del mondo.

Purtroppo non esistono informazioni sulle regole fiscali imposte a Orano, né sul rigore con il quale i funzionari pubblici effettuano i propri controlli, per cui è impossibile stabilire se lo stato del Niger ottenga qualche beneficio economico dall’estrazione di uranio o se sia intascato interamente da Orano. Considerato che, secondo una ricerca condotta dal Fondo monetario internazionale, i paesi africani perdono ogni anno dai 470 ai 730 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale attuata da parte delle multinazionali minerarie, non c’è da stare troppo tranquilli. In ogni caso è certo che le miniere del prezioso combustibile creano gravi problemi ambientali sia per quanto riguarda l’accumulo di detriti radioattivi che per quanto riguarda il consumo e la contaminazione dell’acqua.

Dal 2011 nella regione di Diffa si è cominciato a estrarre petrolio (che viene anche raffinato nei pressi di Zinder, ndr) e se inizialmente sembrava una produzione marginale, nel tempo è cresciuta, fino a superare in valore le esportazioni di uranio.

La società estrattrice la China national petroleum corporation (Cnpc), un’azienda di stato, ha anche avviato la costruzione di un oleodotto per fare arrivare il petrolio nigerino al mare attraversando il Benin.

Il tempo ci dirà se l’unico obiettivo dei militari è la conquista del potere lasciando tutto com’è, o se c’è anche la volontà di sganciarsi da potenze consolidate come Usa, Francia, Europa, per spostarsi verso nuove potenze emergenti. La sola cosa che si può dire, senza rischi di essere smentiti, è che al centro della loro attenzione non ci sono i 10 milioni di poveri che in Niger rappresentano il 48% della popolazione. Non è stato così fino ad ora, in un paese che spende il 20% delle entrate pubbliche per l’esercito, e non lo sarà in futuro. I poveri purtroppo non interessano a nessuno, meno che mai a chi è abituato a ragionare solo secondo logiche di potere.

Francesco Gesualdi




Migranti. Accogliere non è peccato


La politica e le leggi attuali non aiutano, ma anche in Italia è possibile dare accoglienza ai migranti con umanità ed efficienza. L’accoglienza diffusa sarebbe una buona pratica, ma è contrastata dal sistema attuale, fondato sull’emergenza.

Di fronte alla stazione di Salbertrand, un paese di circa 600 anime tra bassa e alta Val di Susa, si trova una delle comunità per minori stranieri non accompagnati che compongono il sistema di accoglienza della Città metropolitana di Torino.

Superato l’ingresso, nella stanza subito a sinistra, alcuni anziani ci scrutano da dietro una vetrata – il secondo piano è adibito a casa di riposo -, mentre sulla destra c’è una sala letture dove incontriamo un giovane originario del Gambia, appena arrivato dal polo logistico della Croce Rossa di Bussoleno1.

Alle pareti, la locandina sbiadita con gli eventi culturali di una passata stagione turistica estiva e un poster della ricca fauna alpina della zona: camosci, caprioli, cervi e marmotte.

Anziani e giovani ospiti si ritrovano in questo spazio-tempo sospeso a condividere pezzi delle loro esistenze che si sfiorano, senza riuscire a comunicare. Come i protagonisti dei quadri di Hopper (Edward Hopper 1882-1967, ndr), sembrano in un limbo, a metà tra mondo esterno e interno, in attesa che succeda qualcosa che però non accade mai.

Un sistema emergenziale

Fare buona accoglienza è una sfida complessa anche per quegli enti pubblici e del terzo settore che accettano di raccoglierla mettendo in campo progetti di inclusione coraggiosi ma dagli esiti incerti.

La complessità deriva anche dal fatto che parliamo di un sistema italiano di accoglienza che, forse, a ventuno anni dalla sua nascita, ancora non c’è2.

Convivono piuttosto due sistemi, totalmente difformi tra loro, come le logiche che li sottendono.

Da una parte, quella emergenziale, che alimenta da circa due decenni il discorso politico mediatico. Questo approccio concepisce i flussi migratori come qualcosa di transitorio che, prima o poi, si esaurirà e l’accoglienza solo in termini di contenimento in centri di grandi dimensioni per i quali, in un inesauribile esercizio di fantasia, vengono coniati via via nuovi acronimi dietro cui si celano misure sempre più restrittive dei diritti e delle libertà delle persone migranti3.

Dall’altra parte, invece, c’è la spinta inclusiva incarnata dalla società civile organizzata che prova a sperimentare dal basso, in alleanza con le istituzioni locali (i comuni, singolarmente o in forma associata, in testa) pratiche di convivenza innovative basate su un modello di accoglienza che si nutre di pochi, essenziali, ingredienti: la micro-ospitalità diffusa e il forte coinvolgimento del tessuto socioculturale e produttivo del territorio.

Purtroppo, questo modello virtuoso si è affermato negli anni in maniera lenta e disomogenea4, cedendo così il passo al sistema dell’accoglienza straordinaria che, nato per avere funzione accessoria e transitoria, è diventato di fatto predominante5.

L’eredità di Riace

Quando si parla di «accoglienza diffusa», è immediato il collegamento con l’esperienza di Riace, su cui molto è stato scritto da quando l’esperimento di ripopolare con migranti il piccolo borgo calabrese, sino ad allora conosciuto solo per i Bronzi, prese avvio e divenne un modello riconosciuto internazionalmente, per poi cadere in disgrazia, fino alla recente riabilitazione del suo fautore6.

In realtà, negli anni si sono moltiplicate le esperienze volte a conciliare la necessità di inserimento socioeconomico delle persone migranti con quella di rivitalizzare comunità a rischio di impoverimento demografico, economico e culturale.

Era il 2017, quando, contemporaneamente al Memorandum con la Libia, l’allora ministro Marco Minniti firmava un protocollo per avviare la sperimentazione di un progetto «innovativo» in Campania: l’inserimento di migranti in attività di pubblica utilità nei luoghi simbolo della Regione, tra cui ovviamente gli scavi di Pompei e la Reggia di Caserta.

Il progetto non è mai partito, ma alcuni comuni hanno puntato comunque sull’accoglienza per riappropriarsi simbolicamente di un territorio, un tempo cuore della Campania felix, ricco di beni archeologici e architettonici abbandonati all’incuria e soffocati dal cemento, che ha trasformato proprio l’area tra Caserta e Capua in un immenso centro commerciale all’aria aperta. E così grazie all’associazione di Caserta «Solidarci», ente gestore di alcuni progetti Sai (Sistema accoglienza integrazione, vedi pagina 30), un giovane subsahariano è stato assunto presso il Real sito di Carditello, sottratto recentemente alla camorra, dove si prende cura dei pregiati cavalli introdotti dai Borbone, mentre un altro lavora per la ditta che si occupa della manutenzione del Parco reale della Reggia. Un terzo fa il pizzaiolo nel complesso dell’anfiteatro campano di Santa Maria Capua Vetere (l’antica Capua), dove Spartaco, lo schiavo gladiatore, guidò la rivolta e poi la fuga verso la libertà.

In montagna, da «Barba Gust»

Sulle orme dei tanti migranti diretti oltre confine, torniamo in Alta Val di Susa, questa volta nel borgo di San Sicario, dove i residenti sono una cinquantina. La titolare di un’impresa familiare, Elena Bermond, nata e cresciuta tra queste montagne, stimolata da un progetto di agricoltura sociale, decide di ospitare tre minori stranieri non accompagnati per uno stage all’agriturismo «Barba Gust» (dal piemontese «barba», zio e «Gust», diminutivo di Augusto, il nome di suo padre). Soddisfatta dell’esperienza, la consiglia ad altre realtà della zona: albergatori, ristoratori e piccoli artigiani che, come lei, accettano di mettersi in gioco malgrado le barriere linguistiche e culturali.

Sono centinaia i comuni montani in cui l’accoglienza diffusa è una buona prassi già da tempo, che si rafforza tanto quanto più le persone accolte si inseriscono gradualmente nel contesto produttivo locale.

«Gli immigrati stanno contribuendo, per quanto spesso loro malgrado, a rimettere al centro le “terre alte” del Paese. Termini come “accoglienza” o “resilienza” negli ultimi anni sono associati a questi territori, in passato visti dalla città come “chiusi” o addirittura “ostili” verso l’esterno, anche grazie alla presenza straniera, percepita ora come stimolo per riconquistare le posizioni perdute in decenni di marginalizzazione culturale prima ancora che socioeconomica»7.

Il modello dell’accoglienza diffusa, dalle Alpi all’estremo sud della nostra penisola, modifica il paesaggio nutrendosi di storie di riscatto in cui i destini delle persone migranti si intrecciano con quelli delle comunità locali.

Silvia Zaccaria


Note al testo

(1) Il Polo accoglie persone migranti, anche minori, arrivate a Lampedusa e respinte al confine francese. Grazie al progetto PrIns del Consorzio intercomunale socio assistenziale della Valle di Susa e Val Sangone, ConIsa, i minori sono poi trasferiti nelle strutture di seconda accoglienza della valle.

(2) Medici del mondo Italia, Il sistema che ancora non c’è. Le riflessioni e le proposte dal tavolo asilo e immigrazione a vent’anni dalla nascita dello Sprar.

(3) Il DL n. 124 del 19 settembre 2023 prevede la realizzazione di Cpr su tutto il territorio nazionale per cittadini di paesi terzi non richiedenti asilo destinatari di un provvedimento di espulsione o di respingimento e per richiedenti asilo che costituiscano un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, con tempi di trattenimento sino a 1 anno e 6 mesi. Secondo il decreto, i richiedenti asilo provenienti dai cosiddetti «paesi sicuri» possono evitare il trattenimento versando una cauzione pari a 4.938 euro.

(4) L’adesione da parte dei Comuni alla rete di secondo livello Sai – Sistema accoglienza e integrazione – è su base volontaria.

(5) Sito: www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it. A metà ottobre, erano 34.367 le persone migranti inserite in progetti Sai in 1.800 comuni su 7.900. Se consideriamo il totale di 141.106 persone accolte, il 75% è ospitato in Centri di accoglienza straordinaria.

(6) Nel 2018 è aperta l’inchiesta Xenia contro Mimmo Lucano. È la fine del progetto di accoglienza che, in pochi anni, aveva portato il paese calabrese da 900 a 2.000 abitanti. Il 12 ottobre scorso si è celebrato il processo d’appello conclusosi con l’assoluzione di Lucano dalle accuse più pesanti, che andavano dall’associazione a delinquere al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

(7) Cfr. «Chi ha bisogno della montagna italiana?» di Bergamasco, Membretti, Molinari, in Scienze del territorio, vol.9, 2020.

 


Il sistema di accoglienza italiano

Di decreto in decreto, di sigla in sigla

Il sistema italiano di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) nasce nel 2002 con la Bossi-Fini dopo una sperimentazione in alcuni comuni attraverso il Programma nazionale asilo.

Quando nel 2005 l’Italia si trovò a scegliere quale sistema intendeva darsi, optò per il «modello binario»: parallelamente all’accoglienza ordinaria, vennero create le strutture di prima accoglienza come i Cpsa (Centri di primo soccorso e accoglienza) e i Cara (Centri per richiedenti asilo), da cui, trascorso lo stretto tempo necessario alle procedure di identificazione e richiesta asilo, la persona migrante sarebbe dovuta passare al secondo livello, quello dello Sprar appunto.

Negli anni queste strutture si sono moltiplicate: nel 2011 sono stati introdotti i Cas – Centri accoglienza straordinaria – e, nel 2015, gli hotspot. I migranti provenienti dai cosiddetti «paesi terzi sicuri» vengono invece inviati ai Centri per il rimpatrio (Cpr, ex Cie e prima Cpt).

Arriviamo al 2018 quando il Decreto sicurezza ha trasformato lo Sprar in Siproimi (Sistema protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati). Infine, nel 2020 il Decreto Lamorgese rinomina il Siproimi in Sai (Sistema di accoglienza e integrazione), riammettendo i richiedenti asilo.

Per quanto riguarda i minori ad oggi sono solo 6.574 quelli in seconda accoglienza, pari a circa il 31% del totale, mentre il 40% si trova nei Centri di accoglienza straordinaria.

Si.Za.


Sul sito MC

Sull’argomento rimandiamo ai reportage di Simona Carnino – autrice anche delle foto di questo articolo – pubblicati nella sezione «MC Notizie» del nostro sito: www.rivistamissioniconsolata.it.




Comunità di Famiglie


Sommario


La comunità di Bethesda a Padova
Essere insieme è salvifico

Quattro coppie, sedici figli, uniti attorno a un sogno che si realizza da cinque anni in un antico casolare, nell’ordinarietà di una vita quotidiana vocata all’accoglienza. Un’esperienza di Chiesa domestica che annuncia il Vangelo con la semplicità della vita di famiglie che sanno di non bastare a se stesse.

Via Adige, nella periferia nord di Padova, attraversa uno spicchio di campagna incuneato nel quartiere Sacro Cuore. Siamo in città, a 20 minuti di mezzi pubblici dalla basilica del Santo, ma attorno a noi c’è molto verde e campi coltivati.

Al civico 35 troviamo un cancello aperto che invita a percorrere il viale alberato fino all’antico casolare in fondo. Entriamo: il colpo d’occhio è molto bello e ci indica qual è uno dei motivi per cui questo posto è tanto apprezzato dalla Chiesa locale e dalla città. Il portico del corpo centrale della cascina è sostenuto da pilastri che formano cinque archi. Lì un tempo c’era la stalla sormontata dal fienile. Ai due lati, la struttura ospita gli appartamenti delle quattro coppie che, con i loro sedici figli, abitano qui. Siamo arrivati alla comunità di Bethesda che il 15 ottobre scorso ha celebrato i suoi primi cinque anni. Alla messa nel giardino, presieduta da monsignor Paolo Bizzeti, Vicario apostolico di Anatolia (Turchia) e amico delle quattro famiglie, erano presenti diversi sacerdoti e molti amici padovani. La comunità, infatti, nonostante la sua storia breve, intervallata anche dagli anni del Covid, è molto conosciuta a Padova. Tutti i fine settimana qui sono accolti gruppi, associazioni, singoli.

Ordinarietà accogliente

È lunedì sera. Andremo via domattina: vivremo un pezzo della vita ordinaria di questo piccolo villaggio dove, oltre alle quattro famiglie, ce n’è una quinta «accolta» che vive da quasi tre anni nel piccolo alloggio ricavato nella struttura allo scopo di offrire una sistemazione temporanea a qualcuno che ne abbia bisogno.

Quando abbiamo sentito Mauro Marangoni, 44 anni, per darci appuntamento, ci ha invitati a cena con l’idea di dedicarci con calma all’intervista dopo il rosario della sera.

Arriviamo nel pieno dell’andirivieni che precede il pasto serale. Bambini che tornano da una gita, altri dallo sport, gli adulti dal lavoro.

Barbara e Luana ci accolgono con un succo di frutta, poi ci mostrano il soppalco ricavato nel salone comune, l’ex fienile, dove dormiremo, e corrono a preparare la cena.

Mentre ci sistemiamo, sentiamo arrivare e andare auto e bici.

Poco dopo compare Mauro per portarci nel suo alloggio dove vive con la moglie Chiara Bolzonella, 43 anni, e i cinque figli: Giosuè, 15 anni, Pietro, 14, Teresa, 12, Martino, 9 e Lorenzo di 2.

Dal 2011 al 2013 Mauro e Chiara sono stati in Kenya come laici missionari fidei donum per la diocesi di Padova. A Nyahururu, 2.400 metri di altitudine, quasi 200 km a nord di Nairobi.

«Quando siamo tornati sentivamo il bisogno di continuare a vivere in comunità – racconta Chiara -. Lì eravamo insieme a sette sacerdoti. È stato bello, ma ci mancava il confronto con altre famiglie. Una famiglia da sola non basta a se stessa».

La cena è allegra. Tra il racconto della gita di un figlio, quello di un lavoretto fatto a scuola di un altro, battute e aneddoti, arriva presto l’ora del rosario nel porticato.

Oltre ai membri della comunità, ci sono anche alcuni amici. Le Ave Maria sono recitate dai bambini che un paio di volte si confondono saltando un verso. Gli adulti sorridono benevoli. Il clima della preghiera è semplice. Molto caldo.

Finito il rosario, Mauro ci invita a salire nel salone per l’intervista insieme a Damiano. Sono già le ventuno e l’indomani ci si alza presto per il lavoro. Salutiamo tutti gli altri che, dopo aver messo via le panche, vanno a prepararsi per la notte.

Nella grande sala si tengono gli incontri quando fuori non si può stare. Può ospitare un centinaio di persone. Diversi gruppi scout vi hanno già pernottato per le loro uscite.

A un’estremità, sotto il soppalco, c’è un bagno. All’altra estremità una piccola cappella, bella e accogliente. In un angolo c’è una cucina attrezzata.

Desiderio di comunità

Mentre Damiano ci prepara una tisana, Mauro inizia a raccontare: «La comunità è composta da quattro famiglie. Luana e Alberto di 36 e 38 anni, con Giovanni di 10 anni, Giacomo di 4 e Tommaso di 1, sono i più giovani. Lei è insegnante alla primaria, lui è ingegnere e lavora nella ricerca.

Roberto e Barbara, 46 e 45 anni, lui ausiliario del traffico in autostrada, lei erborista, hanno cinque figli: Maria di 19 anni, Matilde di 17, Tobia di 12, Agnese di 10 e Gioele di 7.

Elena e Damiano hanno 43 e 44 anni, lei è ostetrica e lui lavora nella disabilità. I loro figli sono Giosuè di 13 anni, Tobia di 12, Giorgio di 8.

E poi ci siamo noi. Io lavoro in azienda come responsabile di amministrazione e controllo, Chiara è insegnante di religione alle superiori. Come vedi, 12 figli su 16 sono maschi».

La storia della comunità di Bethesda potremmo farla iniziare con il rientro di Mauro e Chiara dal Kenya e con la contemporanea ricerca di un’esperienza di comunità da parte di Roberto e Barbara. «Noi nel 2013 tornavamo da tre anni di missione – racconta Mauro -. Roberto e Barbara, che conoscevamo da tempo, in quel periodo vivevano il fallimento di un progetto di una casa di accoglienza con alcune suore.

Loro frequentavano il centro Antonianum di Padova, gestito dai gesuiti, dove il direttore ai tempi era padre Paolo Bizzeti, che sarebbe poi stato nominato Vicario apostolico dell’Anatolia nel 2015.

Padre Paolo ha una ricca storia di comunità di famiglie: ha contribuito a fondarne due a Bologna, una in Toscana. Insomma, sentendo il nostro desiderio ha “annusato l’affare”, e abbiamo organizzato una serie di serate per chiunque fosse interessato a un’esperienza di comunità tra famiglie.

La prima sera sono venute ventiquattro coppie: alcune convinte, altre meno, con diverse motivazioni e idee di comunità. Da lì è iniziato un percorso di “scrematura” che in tre serate le ha portate a dodici.

C’erano poche linee guida, ma molto chiare: che fosse un’esperienza dentro la Chiesa cattolica, che fosse prevista una convivenza e un progetto di accoglienza, che ci fosse una guida spirituale».

Attorno a un sogno

Dopo i primi incontri, le dodici famiglie hanno iniziato a trovarsi una volta al mese. Nel giro di sei mesi, sono diventate quattro. Era dicembre 2014. «È stato un ritrovarsi e un discernere sul desiderio comune. Sin dall’inizio era chiaro che non era un progetto in nome di un’amicizia, ma di un sogno da realizzare», chiarisce Mauro.

Damiano ci mostra una tavoletta di legno appesa sopra la cucina. Sopra sono incisi il nome della comunità e il logo. Questo raffigura in forma stilizzata i cinque archi del porticato.

«I cinque archi rappresentano i pilastri su cui si fonda “il sogno” di Bethesda – ci dice -: fraternità tra famiglie, Parola di Dio, servizio alla Chiesa, accoglienza di bisognosi e misericordia. Quest’ultima è un po’ il collettore di tutto il resto».

«L’idea è che lo stare insieme passa attraverso l’esercizio della misericordia», aggiunge Mauro. E prosegue: «Quando noi quattro famiglie abbiamo deciso di partire, abbiamo iniziato a trovarci tutte le settimane per pregare, ragionare e sognare insieme. È nata l’idea di cercare un nome simbolico. Era il 2015, l’anno del giubileo della Misericordia, e Bethesda, versione inglese di Betzaetà, significa “Casa della misericordia”. È il nome della piscina di cui racconta il Vangelo di Giovanni al capitolo 5 che aveva cinque portici, come i cinque archi di questo cascinale. Gesù entra a Gerusalemme dalla Porta delle pecore, vede il paralitico e gli chiede: vuoi guarire? La cosa per noi interessante è la risposta del paralitico: sì, ma non ho nessuno che, quando passa l’angelo, mi butta nell’acqua. Siccome l’idea della comunità di famiglie è quella di prendersi cura l’uno dell’altro, ci piaceva l’immagine di essere gli uni per gli altri quelli che, quando hai bisogno, ti prendono e ti buttano dentro la piscina. Crediamo fermamente – prosegue Mauro – che una delle grandi fatiche delle famiglie in questo tempo è la solitudine. Essere insieme non è facile, perché ti pesti i piedi, ti arrabbi, l’altro ti mette di fronte ai tuoi limiti, ma è salvifico».

Una cascina in città

Una volta radunate attorno a un progetto, ora le famiglie dovevano trovare un luogo nel quale realizzarlo. Inizialmente avevano pensato a una struttura della diocesi, nella quale andare in comodato d’uso o con altre formule, in modo che l’impronta ecclesiale della comunità fosse esplicita fin dalle mura. Ma quella ricerca non ha dato frutti e, quando si è orientata verso l’acquisto di una casa, è spuntato il vecchio cascinale di via Adige, abbandonato oramai da anni.

Mauro ci mostra un album fotografico. Nelle foto della messa di apertura del cantiere dell’8 maggio 2017, sullo sfondo, si vedono muri scrostati, scritte, erbacce. Il luogo era noto nel quartiere per essere frequentato da spacciatori e vandali.

Un po’ di pagine dopo, le foto del 14 ottobre 2018 mostrano il cascinale ristrutturato con una folla di mille persone, 24 sacerdoti e un vescovo (padre Paolo) radunati nel prato di fronte al porticato per la messa d’inaugurazione della comunità.

«La cosa bella è che la Chiesa locale ci riconosce tantissimo – racconta Mauro -. Tutte e quattro le nostre famiglie hanno un’importante storia ecclesiale, e tutti abbiamo da subito raccontato a molti il nostro sogno. E quando racconti un sogno, la gente se ne prende cura.

Anche grazie alla “pubblicità” che ci ha fatto padre Paolo, abbiamo avuto aiuti da ogni parte per realizzare questa cosa che altrimenti sarebbe stata al di là delle nostre capacità. I nostri quattro alloggi, infatti, li abbiamo acquistati e ristrutturati con i nostri soldi, ma le parti comuni come questo salone, la cappella, l’alloggio per l’ospitalità, gli spazi esterni, che sono proprietà dell’associazione costituita ad hoc, non saremmo mai riusciti a comprarli e sistemarli senza il contributo economico, e poi anche fisico, di molti che hanno creduto nel nostro progetto.

È stata l’esperienza di Provvidenza più concreta della mia vita – chiosa Mauro -. La cosa bella della comunità è che è qualcosa di più della somma dei singoli. Qualsiasi cosa qua dentro nessuno di noi sarebbe stato in grado di farla da solo».

Accoglienza

Nella cascina, da tre anni, vive anche una famiglia accolta. Damiano racconta: «Dopo otto mesi che eravamo qua, abbiamo iniziato l’accoglienza con un ragazzo spagnolo venuto a Padova per lavorare qualche mese. Poi ci siamo rivolti alla Caritas, ed è arrivata questa famiglia che ora è in grado di fare un passo verso l’autonomia. Oggi abbiamo la possibilità di costruire nuovi spazi per l’accoglienza. Abbiamo infatti ricevuto molte richieste, le più varie, e quindi ci stiamo interrogando su come fare». «Ad esempio – aggiunge Mauro -, quest’anno abbiamo avuto tre richieste per padri separati che non sanno dove andare. Poi ci sono persone che vorrebbero venire nei fine settimana. Un sacerdote che voleva stare qua un mese. C’è tanta gente che ci chiede. E queste richieste ci interrogano».

Più relazioni che programmi

Gli appuntamenti annuali proposti dalla comunità di Bethesda non sono molti, eppure tutte le settimane c’è gente che va e viene per il viale alberato. Lo stile delle quattro famiglie è più improntato all’accoglienza e alle relazioni che ai programmi.

Anzitutto le «relazioni interne»: «Abbiamo degli appuntamenti fissi – elenca Mauro -. Il lunedì mattina le lodi. Il giovedì sera una preghiera più lunga per noi adulti. Il venerdì sera una preghiera con i figli. Il martedì abbiamo la riunione tecnica, dove decidiamo i compiti dei giorni successivi. La domenica è la giornata in cui invitiamo le persone a venirci a trovare e stiamo tutti insieme. Normalmente siamo da quaranta in su».

«Spesso vengono alcuni frati che sono a Padova per studiare. Provengono dall’America Latina e dall’Europa – aggiunge Damiano -. Vengono perché si sentono a casa, respirano un clima di famiglia».

«Poi ci sono coppie amiche – continua Mauro -, e compagni di scuola dei nostri figli, magari figli unici, che stanno qui dal venerdì alla domenica».

Per quanto riguarda gli appuntamenti con «esterni», «oltre al fine settimana di esercizi spirituali che organizziamo per famiglie una volta all’anno e due pellegrinaggi a Natale e Pasqua – ci dice Mauro -, quello che facciamo è principalmente accogliere. Ci chiedono di venire quasi tutte le settimane gruppi di diverso tipo: scout, coppie, associazioni.

Il nostro servizio poi lo offriamo in parrocchia: il coro, il catechismo, l’oratorio, il catecumenato.

Il bello della comunità è che siamo tanti e possiamo dividerci i compiti. Detto questo, però, bisogna fare un po’ di attenzione alla bulimia di attività: anche stare un po’ a casa è importante».

Il nucleo è la famiglia

A proposito di stare un po’ a casa e in famiglia, chiediamo come i figli vivono questa esperienza.

«Loro fanno molta più comunità di noi – risponde Mauro -. Noi facciamo riunioni infinite, facciamo attenzione agli equilibri, una volta al mese ci troviamo con una psicoterapeuta che ci aiuta nella gestione dei conflitti. I nostri figli, invece, sono liberi di mandarti a quel paese, di vivere la comunità dall’inizio alla fine. Chi è nato qui è proprio parte dei muri. Non starebbe altrove».

Domandiamo qual è il vantaggio, se c’è, di essere un ragazzino che cresce in un contesto come questo: «C’è un fortissimo senso dell’altro – dice Mauro -. Qui vedo crescere bambini che non si concepiscono da soli. A volte dicono: ma non posso avere una volta un gioco solo mio? Per le biciclette abbiamo messo i cartelli: questa è tua e guai a chi te la tocca; però vedo un bell’equilibrio relazionale dei nostri ragazzi».

Mauro prosegue: «Comunque la famiglia rimane il nucleo della comunità. La comunità deve essere al servizio della famiglia, se fosse il contrario non avremmo capito niente. Questo perché non siamo famiglie strane o speciali, siamo normali. La nostra non è una scelta assurda, nella quale devi buttare via tutto. L’unica cosa da buttare via è l’idea di non avere bisogno degli altri».

«La normalità – aggiunge Damiano – per noi riguarda la questione delle case che si fanno chiesa, della Chiesa domestica. La Porta delle pecore da cui entra Gesù a Gerusalemme è la porta da cui entrano le persone che vanno al tempio. Una specie di porta di servizio. Per noi è importante che questo posto, che è molto bello e speciale, sia anche molto normale, perché possa essere quella porta di servizio per la Chiesa, per quelli che, per mille motivi, dalla porta principale nella Chiesa non ci entrano».

Si è fatto tardi. Damiano e Mauro si congedano e ci augurano un buon riposo.

Il mattino successivo, dopo la colazione a casa di Mauro e Chiara tra zaini da finire di preparare e occhi assonnati, ci sediamo sotto il porticato prima di essere accompagnati in centro da Damiano. D’un tratto, il silenzio del mattino viene interrotto dalle voci allegre dei ragazzi che escono tutti simultaneamente dalle loro case con gli zaini in spalla. Si salutano, vanno al piccolo capanno delle biciclette, ci montano sopra, si aspettano finché non sono tutti pronti, e partono.

Li vediamo sciamare per il vialetto, oltre al cancello sempre aperto.

Luca Lorusso


Sichem, Efraim e Pachamama a Olgiate Olona (Varese)
Accogliersi per accogliere

Nel 1999 nasce Sichem, comunità formata oggi da nove famiglie che ne accolgono altre quattro in difficoltà. Da Sichem, nel 2011, nasce Efraim: giovani che sperimentano la vita assieme per tre anni. Infine, nel 2018, nasce Pachamama, sei famiglie, tra cui alcuni figli di Sichem. Un’esperienza generativa unica, ma non irripetibile. «Gentili corrieri e postini, siamo famiglie che vivono in comunità. Se non trovate qualcuno in casa, suonate per favore a qualche vicino, che ritirerà volentieri il plico. Grazie!».

Il pannello di legno che ci accoglie al portone della Comunità Sichem a Olgiate Olona (Varese) non lascia spazio a dubbi: stiamo per entrare in un luogo speciale. Abitato da persone del tutto normali che hanno scelto di fondare la propria vita quotidiana sulla condivisione, l’accoglienza e l’alleanza tra famiglie.

Al momento della nostra visita, in un assolato giorno di fine settembre, gli abitanti della comunità sono 76, di ogni età. Ogni nucleo con la propria abitazione e diversi spazi condivisi. Tra questi 76, le quattro coppie con i rispettivi figli, quindici in tutto, che nel settembre 1999 hanno varcato quel portone con ideali condivisi ma nessuna sfera di cristallo: non sapevano che un quarto di secolo dopo sarebbero state considerate un modello unico del suo genere in Italia e, forse, nel mondo.

Perché? «Perché dove prima c’era una comunità, ora ce ne sono tre», indica Alberto, 65 anni, sposato con Tiziana, cofondatore di Sichem.

Tre comunità, proprio così, tutte in un’unica area che comprende più strutture abitative e abbondanti aree verdi.

Sichem è quella originaria che conta oggi nove famiglie residenti e quattro nuclei in accoglienza temporanea impegnati in percorsi di autonomia.

Efraim è la seconda, nata nel 2011 dall’idea di alcuni figli delle prime famiglie: un luogo in cui giovani di diverse provenienze si sperimentano per tre anni nel «servizio» agli altri.

La terza, Pachamama, è nata nel 2018 da persone uscite dal percorso di Efraim che hanno a loro volta dato vita a nuove famiglie, sei in tutto.

Il risultato è un micromondo che ha bisogno di essere descritto un passo alla volta, partendo dalla sua genesi. E da una canzone – l’inno di Sichem – che inizia così: «Il cuore è piccolo come un pugno, ma basta poco e se vuoi ci sta dentro tutta quanta la gente del mondo, e rimane ancora posto».

Mettersi in cammino con altri

Una comunità di famiglie non nasce dall’oggi al domani, anzi: tre delle famiglie che hanno dato vita a Sichem avevano cercato il luogo giusto per ben quattordici anni, percorrendo in lungo e in largo la Lombardia, incontrando privati, associazioni, parrocchie, amministratori comunali.

L’occasione è arrivata negli ultimi mesi del XX secolo, grazie a un agronomo ex compagno di classe di Franco (membro di una delle famiglie): è lui che li ha messi in contatto con Piero Balossi Restelli, imprenditore proprietario di un ampio terreno con alcuni cascinali, una storica dimora signorile e un bosco a ridosso di una conca del fiume Olona, non lontano dal centro cittadino di Olgiate.

In poco tempo è stata presa una decisione: Balossi – persona attenta e visionaria fino alla fine dei suoi giorni, avvenuta nel 2021 – avrebbe reso abitabile la cascina principale per le famiglie in cambio di un affitto a lungo termine, in piena condivisione dei valori fondanti delle quattro famiglie: condivisione, accoglienza e alleanza, appunto.

«La prima notte, il primo settembre 1999, l’abbiamo passata al buio, senza gas e luce, ma era talmente forte la voglia di iniziare a vivere assieme…», ricorda Alberto mentre passiamo sotto l’arco che dal parcheggio porta nella corte in cui ci sono le case delle famiglie di Sichem, dove incontriamo anche sua moglie Tiziana.

«Piano piano abbiamo messo a posto la struttura, poi la zona verde tutt’attorno» che ora è un immenso prato con alberi, un orto biodinamico, giochi per bambini e, nel bel mezzo, un forno per panificare. «Il forno? È l’esempio di come funzionano le cose qui», aggiunge Alberto. «L’abbiamo costruito per renderlo disponibile a tutti: a chi vive dentro le nostre case, ma anche a chi viene da fuori. Quando facciamo le feste, lasciamo acceso il forno tutto il giorno: la popolazione lo sa e viene a cuocere pane, pizza e altro».

Anche l’orto segue un modello comunitario: lo gestisce una persona, ma chi ne vuole usufruire paga una quota annuale e ha diritto a una cassetta settimanale di ortaggi. Le case hanno metrature simili tra loro, ma ovviamente ognuno l’ha personalizzata nel tempo, mentre gli spazi comuni – ad esempio la sala Beniamina e la Limonaia in cui si fanno riunioni, eventi e pranzi condivisi, la cappellina in cui ogni venerdì sera le famiglie pregano, la zona del deposito delle biciclette – sono stati pensati assieme a seconda delle esigenze.

È stato importante, per le famiglie fondatrici, conoscersi un po’ alla volta: «Non eravamo già amici quando siamo arrivati qui. Alcuni erano colleghi, altri conoscenti. Ci siamo uniti grazie all’idea», specifica Franco, 64 anni, quando ci raggiunge.

Lui e Bruna, genitori di quattro figli più tre adottati, già agli albori avevano orientato la propria unione al «servizio»: «Aprirsi agli altri, vivere assieme ad altre famiglie è per noi alla radice di tutto». Incalza Alberto: «Il matrimonio è già una comunità, anche a due, ma poi se ti metti in cammino con altri fai cose che non riesci a fare da solo. Dal forno comune fino all’accoglienza di persone in difficoltà».

Cinquantacinque nomi

Prima ancora che la comunità originaria si allargasse alle altre due, il cuore pulsante del «servizio» di cui parla Franco è stato fin da subito l’accoglienza di chi avesse bisogno di un luogo per uscire da situazioni di vita delicate. Oggi ci sono quattro appartamenti per questo.

Nella cappellina, quando più tardi la visiteremo, troveremo scritti i nomi delle cinquantacinque persone che in questi anni sono state accolte da Sichem, chi per alcuni mesi, chi per diversi anni.

«Attualmente stiamo accogliendo nove persone, un uomo italiano, una famiglia dello Sri Lanka e due originarie dell’Africa», spiega Franco. Fin dalle prime accoglienze «percepivamo all’esterno della comunità un pregiudizio sugli stranieri», poi la quotidianità con la sua normalità ha avuto il sopravvento. «Devi vedere con che energia alcuni di noi si dedicano alle accoglienze, dalle relazioni con le persone alla pulizia degli appartamenti, alla ricerca dei mobili», sottolinea Marco, che, con la moglie Rosaria, è arrivato a Sichem nel 2008.

«Io non mi occupo in modo diretto di accogliere perché mi ritengo poco paziente, ma vedendo gli altri ho imparato modi di fare che non avrei mai appreso altrove», aggiunge con un sorriso.

Oggi il metodo con cui si accoglie è rodato – a volte è il servizio sociale che invia le persone, altre volte associazioni che contribuiscono alle spese, almeno in una fase iniziale, in attesa che chi è accolto inizi a pagare l’affitto calmierato -, ma all’inizio non è stato tutto rose e fiori. Anzi: «La prima accoglienza è stata un disastro», ricorda Flavia, a Sichem con il marito Guido fin dall’inizio. «Non sapevamo come fare a gestire le emergenze, chi chiamare quando c’erano problemi. Ma dopo lo sbandamento iniziale ci siamo strutturati e sono emersi anche i valori individuali di ciascuno di noi: c’è chi ha un approccio più “educativo”, chi più “pratico”, entrambi molto utili».

Il pregiudizio positivo

A Sichem, ogni famiglia è titolare del proprio appartamento, ha i propri spazi e tempi di vita, ma le porte di casa rimangono aperte mettendo in comune una parte non secondaria delle vite di ciascuno, secondo lo stile della lettera ai Romani: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda. Siate forti nella tribolazione. Solleciti per le necessità dei fratelli. Premurosi nell’ospitalità».

È questo un pilastro centrale della comunità: la stima, il pregiudizio positivo sugli altri.

Il nome stesso della comunità, del resto, ricorda il rinnovamento dell’alleanza tra le tribù d’Israele una volta arrivate nella Terra promessa, a Sichem, descritto nel libro di Giosuè.

Anche il metodo decisionale scelto dalla comunità è ispirato dallo stesso stile: «Va nella direzione del consenso, dell’avere l’accordo di tutti, quindi non a maggioranza», riprende Flavia. «Abbiamo discussioni infinite e complicate, ma poi provvidenzialmente si arriva a una decisione condivisa».

«All’inizio – ricorda sorridente Franco – condividevamo le vacanze. Era utile per mettere in ordine le idee, trovare l’identità collettiva. Una volta siamo andati in Svizzera per fare una sorta di concilio. Lì abbiamo deciso molte cose, dal regolare la vita dei bambini nelle strutture fino all’accoglienza».

«L’apertura al cambiamento è il tema portante di tutti questi anni assieme», riprende Alberto mentre ci accompagna tra gli edifici delle comunità.

Giovani in comunità

Nel cortile si sente il suono di un pianoforte. È Andrea che diffonde le note all’imbrunire.

Arriviamo alla villa signorile poco distante, la dimora ottocentesca che Restelli ha ristrutturato e assegnato, anche in questo caso in affitto, alla comunità Efraim, nata nel 2011 da alcuni dei figli di Sichem alla ricerca di un luogo in cui vivere anch’essi in condivisione ma fuori dalle case dei genitori. Qui abita, tra gli altri, Roberto, classe 1997: «In Efraim vivono sei giovani alla volta. Tre ragazze e tre ragazzi che gestiscono la struttura fondata sulle porte aperte ai bisognosi e sulle attività culturali per il territorio».

Mentre parliamo arriva la coetanea Silvia. I due decidono cosa preparare per cena e per quante persone, poi si raccontano la giornata e gli appuntamenti in programma.

Di passaggio ci sono un prete di Pisa e due suore congolesi che vivono in Toscana.

«Nei giorni scorsi – riprende Roberto, vedendo il nostro sguardo curioso su palloni e manifesti posti in un angolo dell’ingresso – abbiamo organizzato un torneo di pallacanestro in memoria di un ragazzo del paese che ha perso la vita non molto tempo fa»: il dinamismo della Villa si nota al primo sguardo. Tra i ragazzi che ci vivono oggi, dai 23 ai 26 anni, c’è chi studia, chi fa servizio civile, chi lavora: la dimensione comunitaria è una forte motivazione in più a riempire di senso le loro vite.

La terza nata

Nel 2018, i primi giovani di Efraim, tra cui alcuni figli di famiglie di Sichem, hanno fatto un passo ulteriore, aprendo la propria comunità: Pachamama, indipendente seppure legata alle altre, è posta a poche decine di metri dalla Villa.

Incontriamo Giovanni ed Enrica, figli di due delle famiglie fondatrici di Sichem. Sono sposati e hanno due figli maschi piccoli – che ci gironzolano attorno con bici senza pedali nel giardino – e un terzogenito in arrivo: «La prima femmina da generazioni», sottolinea Giovanni.

Pachamama, che oggi conta sei famiglie, fa parte della rete delle «comunità Laudato si’», nate dall’invito di papa Francesco a mettersi in gioco in favore della Terra come bene comune. «Ci dedichiamo soprattutto all’alta formazione ambientale, in particolare ogni anno a giugno promuoviamo il Web-weekend di bellezza», un’iniziativa che richiama anche decine di persone in presenza.

Un altro appuntamento oramai consolidato, organizzato da tutte e tre le comunità assieme, è la Tavola dei popoli. Un evento che riunisce centinaia di persone residenti nei dintorni ma che hanno origini da diverse parti del mondo.

Si può fare

«Ci siamo resi conto – ragiona Alberto mentre concludiamo il giro – che il messaggio di questo luogo è generativo: da Sichem è nata Efraim e poi Pachamama, la vita comunitaria si rinnova grazie alla passione di chi subentra». In effetti, questa sorta di rigenerazione continua della comunità originaria è qualcosa di tanto inedito quanto affascinante. Replicabile? «Direi proprio di sì – risponde Alberto -. Bisogna provarci, ognuno come può. Il mondo può essere brutto ma con coraggio si può dare il proprio contributo per migliorarlo».

Anche Bruna e Franco lanciano un messaggio: «In fondo la nostra è una scelta in parte egoista, quella di vivere in comunità, perché per primi fa stare bene noi: a casa sei sicuro di trovare un contesto di amici e relazioni che ti aiutano anche nei momenti difficili. Detto questo, la vita è nettamente più facile se la si “fa” insieme».

Daniele Biella


La neonata esperienza di Marene (Cuneo)
Segno di una vita possibile

È nata un anno fa con l’intento di formare una «famiglia di famiglie». L’esperienza di Marene riunisce quattro nuclei che si sostengono a vicenda nella quotidianità e nella fede, e mettono al centro le relazioni nel desiderio di essere un piccolo seme di Chiesa tra le case.

Arriviamo a Marene, piccolo centro del cuneese di 3.300 anime, alle 9 di un mercoledì mattina. Ai due lati di via Roma ci sono piccoli condomini, ville, cascine storiche, capannoni. Poco più in là, la campagna.

Matteo ha preso mezza giornata di ferie per accompagnare Elia al nido per l’inserimento. Approfittiamo di questo «incastro» per conoscere la fraternità di famiglie nata a fine 2022: otto adulti tra i 39 e i 50 anni, sedici figli tra i 18 mesi e i 19 anni.

Sopra il citofono della piccola palazzina di due piani una targhetta dice: «Condominio vicino».

Nonostante sia autunno, Matteo ci accoglie nel suo alloggio in jeans, maglietta e infradito. Accanto a lui ci sorridono Chiara e Daniela rappresentanti di due delle altre tre famiglie. «Ho lasciato Elia che piangeva», dice, mentre ci fa sedere al tavolo della cucina nel luminoso ambiente che fa anche da soggiorno e ci prepara un caffè.

Su una parete campeggia un batik che rappresenta la quotidianità di un villaggio africano.

Sentirsi a casa

«Siamo quattro famiglie – inizia a raccontare Matteo mettendoci di fronte un vassoio con diversi croissant -. Due abitano qui: io ed Eleonora al primo piano con i nostri tre figli; Daniela e Stefano al secondo con i loro quattro. Una abita nella casa accanto, Paolo e Ilaria, con i loro cinque figli. La quarta famiglia vive invece a Savigliano: sono Chiara e Matteo, con i loro quattro figli».

«Questa comunità nasce dal fatto che ciascuno di noi ha vissuto l’esperienza che una famiglia non basta a se stessa – spiega Chiara -. Benché noi abitiamo a 5 km di distanza, ci sentiamo comunità con le altre famiglie, ad esempio quando accogliamo i loro figli adolescenti che a Savigliano hanno la scuola e molte amicizie. Hanno le chiavi. Vengono per fare pranzo o una doccia, sanno che quella è anche casa loro».

«Io aggiungerei questo – riprende Matteo -: in un mondo in cui tutti più o meno si fanno i fatti propri, volevamo essere un piccolo segno, minuscolo, di una vita possibile un po’ diversa».

Il primo nucleo

Ogni comunità ha una storia a sé. Tutte iniziano ben prima del giorno del trasloco, nelle vicende delle singole famiglie che a un certo punto s’incontrano attorno al desiderio di condivisione.

«Io e Stefano – racconta Daniela – siamo dell’82. Sposati nel 2005, siamo quasi subito partiti per stare un anno in una comunità del movimento dei Focolari a due ore a nord di New York.

Ci animava il desiderio di metterci a disposizione. Immaginavamo l’Africa, le Filippine. Invece ci hanno accolti negli Usa: venticinque persone con un’età media di 60 anni, tutti consacrati o persone singole che desideravano avere con sé anche una coppia giovane. Gente che cercava di volersi bene e vivere il vangelo in modo semplice.

È stata per noi un’esperienza fondante, tanto che quando siamo tornati ci chiedevamo come avremmo potuto rivivere anche qua una simile dimensione di cristianità e di comunità.

Abbiamo affittato un alloggio a Savigliano in una palazzina dove poi, pochi anni dopo, sono arrivati Chiara e Matteo. Chiara è mia cognata, sorella di Stefano. Quello è stato il primo bozzetto di comunità vissuto per dieci anni in un condominio normalissimo, dove la gente non si parlava più di tanto, ma dove, un po’ per volta, abbiamo iniziato a trovarci in giardino, costituire un Gruppo di acquisto solidale, fare pranzi condominiali».

Stefano è un libero professionista che si occupa di pubblicità, grafica e web, e ha uno studio a Fossano. Daniela nel giugno scorso ha lasciato il lavoro «perché ci siamo resi conto che la famiglia aveva bisogno della mia presenza a casa». Fino ad allora aveva lavorato nel settore commerciale dell’azienda di Paolo, gestita secondo i principi dell’economia di comunione ideata da Chiara Lubich, fondatrice dei Focolari.

Anche Chiara e Matteo, lei del ‘79, lui del ‘73, sposati da 23 anni, fanno parte del movimento dei Focolari. «Mio marito lavora con Paolo e Ilaria – dice Chiara -, fa l’informatico e segue la logistica. Io dall’estate scorsa mi prendo cura dei miei genitori. Prima facevo un lavoro di segreteria per progetti educativi del movimento a livello mondiale».

L’intreccio di storie

Matteo ed Eleonora, entrambi del 1984, con i loro tre piccoli tra i 18 mesi e gli 8 anni, sono i più giovani. Matteo, prima di parlare di sé, racconta della quarta coppia, Paolo e Ilaria. «Anche loro partecipano al movimento dei Focolari. Tredici anni fa hanno vissuto sei mesi con altre famiglie di tutto il mondo a Loppiano, la cittadella del movimento, vicino a Firenze. Tornati arricchiti si domandavano: come fare qualcosa di simile qua?».

«Siamo amici di Paolo e Ilaria da tanto – aggiunge Daniela -. Guardando alla nostra esperienza di Savigliano dicevano, che bello sarebbe vivere vicini».

«Poi – riprende Matteo – nel 2019 hanno avuto a disposizione questi immobili. E poco dopo siamo arrivati noi che venivamo da due tentativi di aggregazione con altre famiglie che non si erano realizzati. Un giorno mio padre mi ha detto: “Guarda che Paolo Bertola a Marene vuole fare una roba come la vuoi fare tu. Chiamalo!”. E da lì è decollato tutto. Abbiamo conosciuto anche le altre due famiglie. Paolo e Ilaria intanto hanno completato l’acquisto degli immobili e insieme abbiamo pensato le ristrutturazioni: alloggi indipendenti, ma con alcuni spazi comuni. Ora noi e Daniela e Ste abitiamo qui con un contratto di affitto».

Matteo aggiunge qualcosa anche sulla sua famiglia: «Io ed Eleonora siamo sposati da undici anni. Ele arriva dallo scoutismo, io da un bel cammino parrocchiale. Facevamo l’università insieme: relazioni internazionali. Poi siamo stati per quattro anni in Guinea Bissau, ciascuno per una diversa Ong. Nel frattempo, ci siamo sposati. Si viveva il classico “con la porta aperta”, il vicinato, gente che andava e veniva. Quando siamo tornati, sentivamo che ci mancava qualcosa e abbiamo iniziato la ricerca di un’esperienza insieme ad altri».

Matteo oggi continua a lavorare nella cooperazione internazionale con Casa do Menor, Ong che lavora con i ragazzi di strada in Brasile, fondata da padre Renato Chiera, fidei donum di Mondovì a Rio de Janeiro da 45 anni. Eleonora lavora per Slow food.

Un buon impasto

La vita della comunità si sviluppa in un’ordinarietà senza grandi pretese. Anzi, con l’unica «pretesa» di volersi bene e trasformare la condivisione tra le quattro famiglie in un seme di condivisione che vada oltre le mura delle loro case.

Si danno uno o due appuntamenti alla settimana: un tempo di preghiera o una riunione organizzativa, o un momento conviviale.

Un esperimento recente è quello che Daniela chiama «la giornata ristorante»: un giorno della settimana, una delle tre famiglie residenti a Marene ospita per il pranzo e poi per i compiti e lo studio tutti i figli delle altre famiglie.

Di impegni esterni al momento non ce ne sono. Racconta Daniela: «Siamo aperti alla possibilità di un servizio ma non vediamo questo come l’obiettivo principale da cui partire. Restiamo in ascolto di quello che il buon Dio ci indicherà attraverso gli incontri che faremo durante il cammino, valutando di volta in volta le nostre forze e possibilità di famiglie con figli», e aggiunge: «Al centro c’è il desiderio di sostenerci nella fede e nella vita quotidiana, e questo parla già di per sé agli altri».

Nei mesi prima dell’inizio ufficiale della comunità, le quattro famiglie hanno messo per iscritto il loro sogno. L’hanno chiamato «Carta Marene»: «Ogni volta che la leggiamo – dice Chiara – ci colpisce la chiarezza dell’obiettivo che ci siamo dati: “Non vediamo la fraternità come un fine ma come uno strumento per aiutarsi a crescere e ad essere ciascuno più e meglio famiglia al proprio interno, come sposi e come genitori”. Questo passa attraverso l’esperienza di famiglie che vivono vicine, con le “porte aperte” e spazi in comune e con la voglia di “impastarsi”: ci si aiuta, si parte insieme al mattino, si recuperano i figli insieme, ci si incontra davanti a una birra o un caffè per raccontarsi le proprie giornate».

Una bella cosa

In un’esperienza come questa, i rapporti tra i figli e gli adulti sono centrali. «Vediamo la vita comunitaria come una grande risorsa educativa per i nostri figli – spiega Daniela -. Non per tutti i nostri figli questa scelta è stata semplice. Per alcuni di loro ha comportato cambiare paese e abitudini. Quello che ci ha colpito in questi primi mesi è che tutti loro si sentono parte di questa esperienza e hanno uno sguardo profondo su quello che stiamo cercando di costruire insieme».

Mentre ci alziamo dal tavolo per vedere l’alloggio, composto dalla sala e da tre stanze, e gli spazi comuni, Chiara sottolinea: «I nostri figli ci dicono di essere grati per questa esperienza. Vedono che i loro amici non hanno famiglie vicine.

Un giorno una mia figlia mi ha detto: “Sono fortunata perché ho due genitori con cui parlare, però ho anche altri adulti di cui mi fido”».

«Una volta, durante una cena, c’era padre Renato – aggiunge Matteo preparandosi per uscire a recuperare Elia al nido -. A un certo punto ha domandato ai ragazzi: “Voi cosa ne pensate di questa cosa che i vostri genitori hanno fatto?”. E uno di loro ha esclamato: “Abbiamo fatto una cosa bella!”».

Luca Lorusso


Fraternità di famiglie: scuole e case di comunione
Una forma di vita ecclesiale

Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

La Chiesa annuncia e testimonia il Risorto attraverso la varietà di carismi e ministeri che formano il popolo di Dio. Ogni vocazione è incontro tra due desideri – quello di Dio e quello della singola persona -, ma l’alleanza stabilita tra il Signore, amante della vita (Sap 11,26), e le sue creature va sempre oltre la realizzazione personale: non c’è chiamata la cui bellezza e fecondità non coinvolga la Chiesa e il mondo, non contribuisca a realizzare il Regno.

In questa prospettiva, il ministero di presbiteri e diaconi – che non esaurisce tutte le forme di ministerialità – si integra con i carismi religiosi e laicali. Anzi, fa parte del compito dei ministri ordinati riconoscere e valorizzare i doni di ciascuno, tessere rapporti di stima e amicizia tra le diverse vocazioni, per realizzare insieme la grande sfida di «fare della Chiesa la scuola e la casa della comunione» (Nmi 43).

La vocazione matrimoniale, in forza del legame coniugale e del sacramento, manifesta in modo particolare questo aspetto decisivo dell’esperienza cristiana e della missione ecclesiale.

Le famiglie sollecitano tutta la Chiesa a essere «domestica» – ricordando l’espressione con cui il Concilio Vaticano II definisce la famiglia in Lumen Gentium n. 11 -: spazio intimo e inclusivo, concretamente «casa» in cui sperimentare la familiarità di Dio che ci rende fratelli e sorelle in Cristo.

Fraternità tra famiglie

Sebbene ordinariamente ogni battezzato sia chiamato a manifestare la misericordia di Dio e l’affidabilità del Vangelo prima di tutto nel contesto quotidiano delle relazioni e della cittadinanza, della scuola e del lavoro, alcune famiglie vivono forme di annuncio e di servizio più esplicito in contesti di missione ad extra o nelle nostre stesse diocesi, vivendo talvolta in canonica o in altri spazi religiosi, svolgendo ministeri che variano di caso in caso, ma soprattutto attraverso uno stile che fa dell’«essere famiglia» la forma della loro testimonianza.

In questo quadro, le esperienze di famiglie che vivono la dimensione missionaria attraverso forme di vita fraterna con altre famiglie, riconoscendo una «chiamata nella chiamata», sono particolarmente interessanti. Esse non rappresentano una testimonianza o un servizio che si aggiunge o giustappone alla vocazione matrimoniale, ma un’esperienza che, esprimendo l’autenticità della vita familiare, manifesta la chiamata della Chiesa a essere «famiglia di famiglie», spazio relazionale aperto per ciascuno e ciascuna.

Le esperienze esistenti di fraternità di famiglie hanno origini, sviluppi ed esiti diversi. Esse, infatti, prendono forma a partire da vissuti e appelli precisi che sono legati al modo in cui ogni famiglia incarna l’amore in dinamiche e realizzazioni storiche molto concrete, perché l’amore è sempre concreto. Allo stesso tempo è possibile riconoscere alcuni elementi comuni nel cammino di queste fraternità: il primo è una vita credente delle singole coppie, spesso maturata attraverso esperienze significative nell’ambito della comunità cristiana (volontariato, animazione, viaggi missionari, appartenenza a movimenti e associazioni); secondo, un tempo prolungato di discernimento attraverso l’ascolto della Parola e in compagnia della Chiesa (nella storia di ciascuna coppia che decide per un cammino di fraternità con altre c’è normalmente la presenza di una guida, sacerdote, diacono, religioso, religiosa o coppia sposata); terzo, l’attenzione a custodire la ricchezza coniugale e il compito educativo verso i figli, senza scadere in forme snaturanti di attivismo o clericalizzazione; quarto, l’individuazione di una casa (o di un gruppo di case) che concretamente consenta una vita «sana» ed equilibrata a ogni singola famiglia e, contemporaneamente, l’incontro e la fraternità con le altre tramite degli spazi comuni; quinto, la strutturazione di un progetto che non chiuda le famiglie in una forma di intimismo autoreferenziale ma espliciti la dimensione ospitale della comunità cristiana; sesto, la disponibilità cordiale a lasciarsi coinvolgere dalle storie delle comunità parrocchiali e dei territori in cui sono inserite, costruendo relazioni buone con i sacerdoti e le realtà locali; settimo, la prossimità della soglia, vissuta tessendo rapporti con famiglie e persone credenti e non credenti; infine, la formazione e la preghiera, l’ascolto della Parola e il discernimento che custodisca il bene della famiglia e uno stile di vita evangelico.

In un cambiamento d’epoca

È interessante poi che molte di queste esperienze partano dal basso, dalla ricerca delle singole famiglie, e si realizzino in spazi non religiosi che sono ecclesiali di fatto, perché espressione di battezzati che agiscono in forza della propria appartenenza a Cristo e alla Chiesa.

Va detto che i criteri elencati sopra sono alla base anche di quelle esperienze che vedono una singola famiglia (piuttosto che una fraternità di famiglie) disponibile a vivere la propria testimonianza all’interno di una parrocchia, talvolta ricevendo un mandato esplicito dal parroco o dal vescovo, magari vivendo in una comunità (e in una casa parrocchiale) nella quale il sacerdote, per quanto suo responsabile, non sia più residente. Le nostre Chiese, oggi, sono chiamate a fronteggiare un cambiamento d’epoca. L’esistenza di queste realtà che nascono dalla concretezza della vita invece che da una previa progettualità a tavolino sollecita approfondimenti teologici e pastorali che offrano strumenti di comprensione e aiutino le comunità cristiane, le parrocchie, i ministri ordinati a riconoscerle e valorizzarle. Nelle esperienze di fraternità di famiglie si rivela la creatività dello Spirito e si incontra una manifestazione significativa del volto della Chiesa.

Per questo vale la pena raccontarle.

Mario Aversano


Quante sono?

La comunità Sichem, prima del Covid, aveva tentato di costruire una rete con altre fraternità di famiglie. Abbiamo chiesto a Franco Taverna, uno dei fondatori di Sichem, se esista una sorta di censimento delle esperienze in Italia: «Abbiamo raccolto il maggior numero di nomi di comunità che siamo riusciti a recuperare tramite i nostri contatti. Siamo arrivati a circa quaranta, molte del Nord. Esiste poi una grande esperienza di coordinamento di comunità di famiglie che si chiama Mcf (Mondo di comunità e famiglia), nata da quella che forse può essere considerata la prima e il prototipo di molte altre: Villapizzone di Milano, storica esperienza di un gruppo di famiglie insieme ad alcuni gesuiti sorta nella seconda metà degli anni ’70. Attualmente solo la rete di Mcf conta poco meno di quaranta comunità. Anche queste massimamente concentrate al Nord.

Da quando noi abbiamo cominciato con la nostra Sichem sono nate tante altre espressioni del “vivere insieme”: gruppi che vivono intensamente il contatto con la natura, comunità di servizio (ad esempio per assistere disabili), famiglie che vivono insieme all’interno di un movimento più grande (Comunione e liberazione, Focolarini, Giovanni XXIII, ecc).

Non è per nulla facile tracciare una linea di separazione tra questi (e altri) mondi che sono accomunati dal desiderio di vivere una vita comune.

Ogni comunità si configura a modo suo. Con propri ritmi, priorità, storie.

È come se ogni comunità fosse un nuovo figlio e, come ben sappiamo, ogni figlio, pur essendo della stessa famiglia, sviluppa propri caratteri specifici».

Luca Lorusso

Hanno firmato il dossier

  • Daniele Biella
    Giornalista e ricercatore, si occupa di temi sociali. Ha pubblicato i libri Nawal, L’isola dei giusti e Con altri occhi.
  • Don Mario Aversano
    Vicario episcopale per la Pastorale sul territorio della diocesi di Torino. Lavora da sempre nella pastorale famigliare, cosa che gli ha permesso di conoscere da vicino alcune esperienze di fraternità di famiglie.
  • Luca Lorusso
    Giornalista, redattore di MC.




Sostituzione etnica o necessità?


Per controllare l’immigrazione clandestina, c’è (anche) «Frontex», l’agenzia europea per le frontiere e le coste. La sua azione è antitetica a quella delle Ong le cui operazioni di salvataggio sono spesso ostacolate. Se non si vuole ragionare in termini di umanità e solidarietà, il dilemma pratico è tra chi vede i migranti come un pericolo e chi li considera una necessità.

Il 10 giugno 2016, sulla frontiera fra Bulgaria e Turchia, si svolse la cerimonia di inaugurazione della «Agenzia di controllo della frontiera europea», meglio nota come Frontex. Istituita nominalmente già nel 2004, inizialmente aveva funzione di consulenza. Con l’intensificarsi del problema migratorio venne trasformata in un corpo operativo dotato di uomini e mezzi per rafforzare le attività di controllo alle frontiere già svolto dalle singole polizie nazionali.

Il controllo dell’immigrazione clandestina e il rimpatrio dei migranti irregolari sono fra le sue funzioni principali. Funzioni che, ad oggi, svolge con la disponibilità di 750 milioni di euro annui, 2.500 uomini, venticinque imbarcazioni, otto velivoli e un’ampia strumentazione di vigilanza elettronica posta lungo i tratti di frontiera più battuti dai migranti. Da qui al 2027, il progetto è di raddoppiare il bilancio di Frontex e portare il numero di addetti a 10mila unità. Con grande gioia soprattutto delle imprese di armi e strumentazione elettronica che, con Frontex, fanno molti affari. Tra esse le multinazionali Airbus (Olanda), Leonardo (Italia), Thales (Francia) che offrono elicotteri, droni, sistemi di sorveglianza, ma anche imprese minori come Glock (Austria) e Mildat (Polonia) per il rifornimento di munizioni e armi leggere. Secondo l’organizzazione Corporate europe observer, tra il 2017 e il 2019, Frontex si è incontrata con 108 imprese per discutere l’acquisto di fucili, munizioni, dispositivi aerei e marittimi di sorveglianza, rilevatori di esseri umani.

Il «curriculum» di Frontex

Fra il 2020 e il 2022, Frontex è stata oggetto di numerose inchieste da parte di organi dell’Unione europea, perché accusata da prestigiose organizzazioni umanitarie e testate giornalistiche di respingimenti illegali e violazione dei diritti umani.

Ad esempio, secondo le ricostruzioni dell’agenzia giornalistica Lighthouse reports, fra il marzo 2020 e il settembre 2021, si sono verificati ventidue casi in cui Frontex ha collaborato con la polizia greca per rimettere gli immigrati in imbarcazioni di fortuna e respingerli in Turchia. Su un altro fronte, quello del Mediterraneo sud, le organizzazioni Human rights watch e Border forensics hanno documentato che, nel 2021, Frontex ha utilizzato la sua capacità di sorveglianza aerea per intercettare le imbarcazioni che trasportavano migranti e segnalare la loro posizione alla Guardia costiera libica affinché le respingessero in Libia.

Secondo l’Oim, l’Organizzazione  internazionale per le migrazioni, nel 2021 ben 32.425 migranti sono stati respinti sulle coste libiche in aperta violazione con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, secondo la quale «Nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».

Un rapporto del 13 luglio 2023 delle Nazioni Unite conferma che in Libia «si registrano rapimenti, arresti arbitrari e sparizioni di cittadini e personaggi pubblici per mano di vari attori addetti alla sicurezza».

Onde e Ong

Un’altra strategia, ancora più subdola, utilizzata dall’Italia per ridurre gli sbarchi, è quella di lasciare i migranti in balia delle onde, ossia senza un sistema di protezione in caso di naufragio. Nel 2013 tale attività era svolta da Mare nostrum, ma con la sua chiusura non era più chiaro chi l’avrebbe svolta. Perciò il vuoto venne colmato da alcune organizzazioni umanitarie, fra cui Medici senza frontiere, Save the children, Sea eye, che si dotarono di imbarcazioni e velivoli per individuare le barche di migranti in difficoltà e trarli in salvo. Ma la scelta non piacque ai vari governi che si susseguirono, accusando le organizzazioni umanitarie di complicità con i trafficanti di esseri umani, fecero di tutto per sabotare la loro attività di salvataggio.

Il primo giro di vite si ebbe nel 2017 per mano di Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni e proseguì nel 2019 per mano di Matteo Salvini (oggi vicepresidente del consiglio dei ministri, ndr) che fece introdurre multe fino a un milione di euro per quelle navi che fossero entrate nelle acque territoriali italiane senza averne ottenuto il permesso. In seguito, le sanzioni vennero ammorbidite, ma l’attività di salvataggio delle Ong rimane ancora oggi fortemente osteggiata, come mostra il divieto dei salvataggi multipli introdotto dall’attuale governo Meloni, o l’abitudine di assegnare porti di sbarco molto lontani dai luoghi d’intervento.

Clandestini

Mettere piede nel territorio di un paese ricco è la prima sfida di ogni migrante che viaggia come fuggitivo. Ma subito dopo si pone il problema di rimanerci. In Italia, ad esempio, può rimanerci solo chi riceve una qualche forma di risposta positiva alla domanda di asilo (qui sopra una riproduzione del modulo, ndr) avanzata per motivi politici, sociali, razziali, sessuali.

Nel 2022 in Italia si sono registrati 120mila arrivi irregolari per l’88% via mare e il 12% via terra. Nello stesso anno sono state presentate 84mila richieste di asilo, ma quelle accolte sono state meno della metà (48%). In altre parole, due terzi degli arrivati nel 2022 non sono stati autorizzati a rimanere in Italia. E mentre alcuni sono rimpatriati con la forza, i più restano nel nostro paese come irregolari senza alcun tipo di permesso. Senza documenti, senza residenza, senza assistenza sanitaria, senza possibilità di svolgere un lavoro alla luce del sole, sono costretti a vivere come clandestini. Il loro numero in Italia è stimato in mezzo milione e sono una vera manna per caporali, imprese criminali e imprese sommerse, alla ricerca di mano d’opera che, non potendo vantare alcuna tutela legale, può essere sfruttata e tartassata in ogni modo possibile.

Intanto, in Inghilterra, il governo ne aveva studiata un’altra per sbarazzarsi alla radice dei richiedenti asilo. Aveva annunciato di avere stipulato un accordo con il Rwanda che, in cambio di denaro e altri benefici, sarebbe stato disposto a prendersi un certo numero di richiedenti asilo inviati dall’Inghilterra. Ancora una volta i migranti sarebbero stati trattati come pacchi da spedire da una parte all’altra del globo (come vorrebbe fare anche il governo Meloni con i trasferimenti in Albania, ndr). Fortunatamente, nel giugno 2023 la Corte d’appello britannica ha dichiarato il Rwanda un paese non sicuro e ha annullato la decisione del governo. Ma questo ultimo è intenzionato a rivolergersi alla Corte suprema, per cui non è ancora detta l’ultima parola.

Costruire la paura

Nel 2021, mentre in tutta Europa continuava la campagna di terrorismo per convincerci che eravamo sotto la minaccia di un’invasione migratoria che ci avrebbe sommerso, cambiando totalmente narrativa ci veniva chiesto di spalancare le nostre porte a chi fuggiva dall’Ucraina. Una disponibilità che dovevamo avere senza se e senza ma, non importa quanti ne sarebbero arrivati. Allora capimmo che non è una questione di numeri, ma di colore della pelle.

Sensazione confermata anche da altre dichiarazioni successive, come quella del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida il quale, nel corso di una conferenza sulla denatalità, affermò che «non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica».

L’esperienza con gli ucraini dimostra che, se si vuole, l’accoglienza si può fare e anche bene. Al contrario, se non si vuole, l’accoglienza non si fa e quella poca realizzata è fatta male. In Italia, di partiti che hanno incluso l’accoglienza dei migranti nel proprio programma di governo non ce ne sono, mentre ce ne sono di quelli che hanno basato la propria campagna elettorale sulla costruzione della paura verso i migranti della rotta balcanica e mediterranea. E dopo averli dipinti come dei barbari che vogliono prendersi ciò che è nostro, hanno promesso muri, blocchi navali, respingimenti. Oggi quelle forze politiche le abbiamo al governo e non potendo fermare i flussi, cercano di fare la faccia cattiva ostacolando i salvataggi e rendendo più difficile la permanenza di chi arriva (articolo a pagina 27, ndr).

Non garantiscono sufficienti strutture di prima accoglienza e organizzano quelle esistenti sempre più sotto forma di carceri; riducono e depotenziano i centri di accoglienza per richiedenti asilo; demoliscono le esperienze di accoglienza di tipo inclusivo; sguarniscono gli uffici che devono rilasciare i permessi di soggiorno. E dopo avere organizzato la disorganizzazione, gridano al caos emergenziale per alimentare nella popolazione l’avversione verso i migranti.

Anziani e forza lavoro

Una situazione non solo cinica e disumana, ma anche assurda perché il Documento di economia e finanza del 2023, redatto dal governo Meloni, afferma che  di immigrazione l’Italia ne ha bisogno come il pane, addirittura per ridurre il peso del debito pubblico.

Atteso che la popolazione anziana crescerà portandosi dietro un aumento spese, e che le nascite diminuiranno restringendo la forza lavoro, il solo modo per ridurre l’impatto del debito pubblico è tramite il lavoro degli immigrati, i soli capaci di fare aumentare Pil, contributi sociali e gettito fiscale.

Cosa va detto alla gente

Quello che dunque va fatto rispetto alla questione migratoria è un’operazione verità. Alla gente va detto che, senza migranti, la vecchia e infertile Europa è destinata al declino. Va detto che l’unico modo per salvarla è attraverso i migranti che, secondo il citato Documento di economia e finanza 2023, solo per l’Italia, dovrebbe essere nell’ordine di 280mila nuovi arrivi all’anno di qui al 2070.

Chiarito che abbiamo bisogno degli immigrati, dobbiamo fare anche scattare l’umanità che è in noi e il dovere di solidarietà a cui ci richiama la Costituzione. Per cui dovremmo organizzarci per accogliere chi fugge, per favorire una coesistenza sociale e culturale che potrebbe arricchire tutti; dovremmo creare corridoi umanitari che mettano fine alle traversate della morte; dovremmo attivare la collaborazione internazionale per mettere in salvo i migranti che si trovano intrappolati in situazioni violente come succede in Libia.

In una parola, dovremmo togliere la questione migratoria dalle grinfie dei trafficanti di esseri umani e dei trafficanti della politica. Dovremmo riportare il fenomeno nelle nostre mani per gestirlo con spirito di umanità, solidarietà e lungimiranza.

Francesco Gesualdi
(seconda parte – fine)