Marocco. Parola di Re


Sommario

Vista dall’alto di Chefchaouen. Foto Piergiorgio Pescali.

Viaggio nel paese maghrebino

Dio, nazione, re

Nonostante i progressi e la presenza di un islam relativamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.

Questa mappa non include il Sahara occidentale nel territorio ufficiale del Marocco, come invece fanno molte altre.

Agadir. Appena esco dalla fusoliera dell’aereo della Royal Air Maroc, mi sorprendo nel sentirmi investito da una fresca brezza. «Il Grande Atlante ci protegge dalla calura proveniente dal deserto», mi spiega Kadhem, uno dei tanti venditori di souvenir che affollano il lungomare cittadino: «Appena ti dirigi nell’entroterra le temperature aumentano improvvisamente e allora sì, assaporerai la vera estate marocchina».

Mi godo la frescura serale all’ombra della collina su cui è scritto in arabo Allah, e-Watan, el-Malik (Dio, nazione, re), una triade che mi accompagnerà durante tutto il viaggio.

Posta sulla costa sudoccidentale del Marocco, Agadir non è una bella città: i turisti vi giungono per la sua spiaggia e gli alberghi di lusso, ma oltre a questo offre ben poco. Rappresenta comunque un buon inizio per assaporare lo spirito del Paese.

Nuovi quartieri continuano a espandere la città verso l’interno e i cantieri sorgono come funghi. L’amministrazione locale cerca di offrire nuove occasioni di intrattenimento, ma spesso questa volontà si scontra con una burocrazia bigotta e sclerotica. Me ne accorgo andando a visitare quella che viene spacciata come la medina (termine che indica la parte antica di una città araba, con vicoli e mura, ndr), ma che in realtà non è altro che una sorta di centro commerciale composto da una serie di negozi e ristorantini, costruito nel 1992 imitando regole architettoniche e costruzioni antiche.

Fare fotografie, mi dicono, è vietato e, nonostante abbia un’autorizzazione del ministero della Cultura, vengo informato che occorre un ulteriore consenso da parte dell’ufficio del governatore locale.

Molto più bella e tradizionale è invece Taghazout, un villaggio a una ventina di chilometri a nord di Agadir, le cui case bianche si abbarbicano su una collina che fronteggia una bella spiaggetta.

Il ministero del Turismo ha già adocchiato la zona che oggi, dopo essere stata frequentata da giovani in fuga da Agadir, è meta ambita di surfisti. Nei progetti delle autorità ci sono complessi alberghieri per 300mila turisti all’anno e, lungo la strada che congiunge Taghazout con Agadir, cartelloni pubblicitari di imprese di costruzioni invitano ad accaparrarsi lotti e case che sorgeranno su aree già fornite di corrente elettrica e impianti idraulici (in Marocco, prima delle case si predispongono i servizi). «La bellezza di Taghazout e della sua spiaggia forse verrà preservata, ma l’atmosfera rilassante e un po’ hippy che si respira scomparirà», lamenta Hassane, che fa parte di un gruppo ambientalista locale che si batte contro la costruzione selvaggia sulla costa. Ma Hassane è isolato: la maggior parte dei commercianti e degli albergatori della cittadina accoglie a braccia aperte lo sviluppo turistico. Taghazout è un po’ l’esempio di come stia cambiando il Marocco: in ogni città, da qui a Ouarzazate, da Marrakech a Tangeri, immense superfici di terreno aspettano di essere trasformate in nuovi quartieri residenziali.

La bella piazzetta di el-Hauta a Chefchaouen, nota come «la città azzurra» per la colorazione delle sue case. Foto Piergiorgio Pescali.

Lo sviluppo da oggi al 2035

Il rinnovamento del parco immobiliare è uno dei punti del programma del Nuovo modello di sviluppo che intende riformare l’economia sulla base di una crescita atta a migliorare le condizioni di vita di una popolazione di 38 milioni di persone che, secondo le Nazioni unite, ha raggiunto un Indice di sviluppo umano (Hdi) di medio livello.

Le nuove abitazioni garantiranno non solo migliori condizioni di vita, ma anche un utilizzo più oculato dell’energia e delle fonti naturali, in particolare dell’acqua, elemento sempre più prezioso, soprattutto nei paesi dove l’incremento demografico si accompagna a una concentrazione urbana sempre più problematica.

Sanità, scuola e assistenza sociale sono i tre grandi temi oggi rincorsi da un paese che, entro il 2035, vorrebbe raggiungere l’ambizioso obiettivo di avere l’economia più avanzata del continente africano. Per questo punta al raddoppio del Pil in una dozzina d’anni con una crescita annua del 5-6% e al rafforzamento dell’istruzione scientifica al fine di orientare l’80% della forza lavoro verso il comparto della transizione energetica.

Nel febbraio 2020 è stata lanciata la campagna Generazione verde 2020-’30 che ha come linee guida la creazione di un ceto medio agricolo migliorando le condizioni economiche di circa tre milioni di contadini e delle loro famiglie. Al tempo stesso, si cerca di aumentare di un milione di ettari la quantità di terreno destinato a uso agricolo formando 150mila giovani nel settore.

Il piano ha già però subito delle battute d’arresto, sia per la pandemia, che ha contratto l’economia di un 6,3% nel 2020 (compensata da una crescita del 7,4% nel 2021), sia per la prolungata siccità che ha colpito i raccolti riducendoli del 17,3% rispetto all’anno precedente. A questi due aspetti si è aggiunta la guerra in Ucraina con il blocco delle importazioni di grano. Nel 2022, la Banca mondiale ha stimato solo all’1,2% la crescita del Pil marocchino e, secondo la Fao, la crisi ha messo in difficoltà il 28% della popolazione.

Per far fronte al crollo della produzione, Rabat ha stipulato accordi con Francia e Canada, da cui importerà grano e frumento, due dei cereali fondamentali di cui si compone la dieta non solo dei marocchini, ma di gran parte del Maghreb.

La bassa meccanizzazione agricola e l’arretratezza delle infrastrutture costringono il 39% dell’intera forza lavoro marocchina impiegata nei campi a produrre solo il 14% del Pil del Paese.

I giovani, appena possono, cercano di trasferirsi in città, dove in molti vanno a ingrossare le file dei disoccupati (il 22% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non lavora), o cercano di emigrare verso l’Europa.

Per limitare questa emorragia di forza lavoro giovane, si stanno sviluppando nuove iniziative in cui le cooperative hanno un ruolo importante. Luc Fougère, direttore del Riad Angsana di Marrakech, ha creato alcune realtà tra le più vivaci della zona. «Invece di trasferire giovani marocchini nelle coltivazioni europee, abbiamo deciso di trasferire le coltivazioni in Marocco». E così nel suo albergo ristorante vengono serviti piatti che utilizzano ingredienti provenienti da realtà locali cofondate da Fougère stesso: miele, olio, frutta, verdura, anziché essere importati da migliaia di chilometri di distanza, ne percorrono solo pochi dalle campagne attorno alla città.

Nel suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.

Un miliardario come primo ministro

Nell’incertezza economica, che risale a ben prima della pandemia, ma che il coronavirus ha contribuito ad aggravare e le recenti vicende internazionali a far esplodere, la prima a vacillare è stata la classe politica. Le elezioni del 2021, subito dopo le riaperture dal Covid, si sono trasformate in un terremoto che ha causato il tracollo dei partiti tradizionali: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd, Parti de la justice et du développement), che ha guidato tutti i governi del Paese dal 2011 sull’onda delle Primavere arabe, è stato spazzato via dall’elettorato perdendo 112 dei suoi 125 seggi al parlamento.

Conservatore, portatore di un’ideologia islamista moderata, il Pjd era riuscito a convogliare il profondo malcontento popolare emerso nelle proteste del 2010 anche grazie al leader d’allora, Abdelilah Benkirane, un politico che rappresentava sia le istanze di un’identità islamica all’interno della nazione, sia quelle progressiste. Le sue critiche nei confronti del re Mohammed VI, assieme all’incapacità di dare risposte alle richieste di riforme sociali che erano state i cavalli di battaglia con cui aveva sconfitto gli avversari, gli sono costate carriera e governo.

Netta è stata, invece, la vittoria del Raggruppamento nazionale degli indipendenti (Rni, Rassemblement national des indépendants), guidato dal miliardario Aziz Akhannouch. Dal 7 ottobre 2021, l’uomo è anche primo ministro in un governo di coalizione con il Movimento popolare e l’Istiqlal.

L’Rni, il cui originario orientamento socialdemocratico è stato soppiantato da un indirizzo più liberale e più vicino agli ambienti industriali, è stato fondato nel 1978 dall’allora primo ministro Ahmed Osman, cognato di re Hassan II, padre dell’attuale monarca. L’appoggio al partito da parte della Casa reale non è mai venuto a meno anche a causa della partecipazione di membri della famiglia negli affari di Akhannouch, dal 2016, anno in cui il miliardario ha preso le redini dell’Rni. Oggi Akhannouch è amministratore delegato (Ceo) del gruppo Akwa, il principale conglomerato marocchino impegnato in diversi settori, in particolare nel campo energetico (petrolifero e gas). Sue sono le stazioni di servizio Afriquia, la compagnia Maghreb Oxygène, la rete di distribuzione di gas e Gpl Afriquia Gaz e Le Vie Eco, il più diffuso settimanale marocchino.

Questa concentrazione di potere economico e mediatico non sembra causare turbamento nella maggioranza dell’elettorato. Secondo il rapporto 2021 di Reporter senza frontiere (Rsf), il Marocco sarebbe al 136° posto nella classifica della libertà di stampa su 180 paesi presi in esame. Nove dei 36 editori che detengono i media più influenti, appartengono alla famiglia reale, mentre gli altri sono proprietà di pochi uomini d’affari.

Nel suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.

Le riforme di Mohammaed VI

È anche vero che il Marocco, più degli altri paesi del Maghreb, è riuscito a smorzare il malcontento popolare emerso dalle Primavere arabe con un miglioramento delle condizioni sociali e democratiche nella nazione.

Merito anche dell’attuale re Mohammed VI, secondogenito di Hassan II, salito al trono dopo la sua morte nel 1999. L’attuale re, formato nelle scuole europee, dove ha ottenuto una laurea e un PhD in diritto internazionale, ha saputo coniugare il classico bastone con la carota.

Nel primo quinquennio di regno, il monarca ha ammesso che, durante il potere del padre, fossero stati commessi abusi sui diritti umani, che l’ingerenza reale nella politica fosse troppo pronunciata e che le misure economiche costringessero una grossa fetta della popolazione a umilianti sacrifici.

Di fronte alle proteste che hanno sconvolto il Marocco nel 2011, invece di rispondere con il pugno di ferro, come è avvenuto in altri paesi, è apparso alla Tv promettendo «una riforma costituzionale» che «avrebbe allargato le libertà individuali e collettive e rafforzato i diritti umani».

Mohammed VI ha mantenuto gran parte delle sue promesse: ha formalmente equiparato donne e uomini garantendo gli stessi diritti civili e sociali, ha elevato il berbero a lingua ufficiale assieme all’arabo, ha limitato il potere politico del monarca che perde la carica di primo ministro il quale, a sua volta, è una persona scelta tra i deputati del partito vincitore delle elezioni e non più una figura nominata a piacere dal sovrano.

La figura del re desacralizzata, tuttavia rimane inviolabile e continua a non essere passibile di critica e questo limita enormemente il grado di mobilità e indipendenza politica del Paese. Non potendo opporsi al suo volere (il re rimane anche il capo delle forze armate e il massimo leader politico con potere pressoché assoluto), i partiti preferiscono adattare i loro programmi alla linea dettata da Mohammed VI piuttosto che rischiare la ghettizzazione o, peggio, lo scioglimento proponendo azioni radicali. Questo ha ultimamente creato malumori negli ambienti più laici e progressisti del Paese anche perché, nonostante le promesse di consolidamento dei diritti umani, in realtà questi sono sempre più erosi.

Il 13 febbraio 2023, anniversario della Primavera araba in Marocco, migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il carovita che sta falcidiando il potere d’acquisto di intere famiglie. Le proteste sono state organizzate dalla Cdt, la Confederazione democratica del lavoro, l’organizzazione sindacale più potente del Paese.

A queste proteste il governo ha cercato di rispondere siglando una serie di accordi che, oltre a confermare i sussidi alimentari per le fasce più deboli, hanno anche aumentato i salari minimi.

Un’artigiana locale prepara l’olio di argan. Foto Piergiorgio Pescali.

Essere donna in Marocco

Il fermento della società marocchina, favorito anche dalla vicinanza all’Europa e da un islam moderato che ha sempre rifiutato modelli integralisti, ha aiutato anche l’emancipazione femminile. Lungo la strada che conduce a Essaouira, incontro decine di cooperative gestite da donne che producono prodotti derivati dell’argan.

«Contribuendo alla finanza familiare, la donna acquista un ruolo più importante anche nella famiglia», mi dice una delle ragazze della cooperativa Marjana. Come altre sparse per il Marocco, queste cooperative stanno contribuendo a dare il giusto peso alle donne del Paese, anche se sono spesso soggette a critiche da parte degli ambienti femministi più radicali: «All’inizio, la loro nascita ha contribuito ad aiutare le donne a emanciparsi, ma oggi molte cooperative usano questa narrativa per sfruttare le lavoratrici. A fronte di prodotti venduti a prezzi esorbitanti ai turisti, le donne che vi lavorano hanno paghe inferiori anche della metà di quelle che verrebbero date agli uomini», mi dice Khnata, della organizzazione Union de l’action féminine.

Vista dall’alto della conceria Chouara, una delle più famose di Fès. Foto Piergiorgio Pescali.

La questione migratoria e gli accordi con la Spagna

La crisi economica, che si è aggiunta alla voglia dei giovani marocchini di migliorare il proprio status cercando lavoro all’estero, ha fatto confluire le contestazioni anche sulla questione migratoria, a sua volta collegata alle relazioni internazionali tra Rabat e Madrid.

Da parte sua il Marocco, in particolare dal 2000, ha cambiato profondamente la propria politica migratoria, anche perché da paese di migrazione si è trasformato principalmente in paese di transito per migliaia di cittadini dell’Africa subsahariana che cercano di entrare in Europa. Fino al 20 novembre 2003 i regolamenti che gestivano l’immigrazione in Marocco risalivano all’età coloniale. Non si parlava di stati o nazioni indipendenti, ma di colonie, protettorati, zone di influenza. La nuova legge regola le condizioni di accesso al Paese, sancisce punizioni severe non solo verso i trafficanti di esseri umani, ma anche verso le vittime, gli immigrati irregolari o chi tenta di valicare i posti di frontiera di Ceuta e Melilla senza i documenti in regola.

I diritti dei richiedenti non sono tenuti in considerazione. Le organizzazioni non governative che agiscono nell’ambito sociale e nel campo migratorio hanno più volte denunciato la repressione del governo nei confronti di quelle persone che, sfruttando la vicinanza geografica con la Spagna, tentano di entrare nelle enclave di Ceuta e Melilla. L’ultima è avvenuta il 24 giugno 2022, quando circa duemila africani hanno cercato di scavalcare il muro che separa Melilla. Cinquecento sono riusciti ad aprire un varco alla frontiera ed entrare nell’area, territorio spagnolo.

Il primo ministro iberico, il socialista Pedro Sánchez, ha ringraziato il governo marocchino in un’intervista al programma Hoy por hoy, di radio Cadena Sur, aggiungendo che gli incidenti non erano stati causati dalle forze marocchine e spagnole, ma da organizzazioni di trafficanti di esseri umani e da reti malavitose.

Quello tra Rabat e Madrid è uno degli accordi più importanti stipulati dal paese africano. Il patto fa del Marocco un paese filtro per l’emigrazione africana in cambio dell’accoglienza, da parte della Spagna, di decine di migliaia di lavoratori marocchini stagionali (impegnati per lo più nelle raccolte agricole). Madrid ha il diritto di rimpatriare i clandestini maggiorenni lasciando a Rabat la responsabilità di rimandare gli immigrati che non hanno passaporto marocchino nei loro paesi d’origine.

Gli accordi tra le due capitali sono ritenuti così importanti che subito dopo ogni elezione, il primo ministro spagnolo si reca a Rabat per presentarsi alle autorità del Paese.

Se i trattati sulla migrazione favoriscono chiaramente la Spagna (e l’Unione europea), il Marocco li usa come arma per imporre la sua politica a livello internazionale, in particolare sulla spinosa questione, non ancora risolta, del Sahara occidentale (ex spagnolo, ndr).

Nell’aprile 2021 Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario (organizzazione per l’autodeterminazione del Sahara occidentale, ndr), è stato ricoverato a Saragozza per essere curato dal Covid. Per ritorsione, nello stesso periodo, il Marocco ha accolto il politico indipendentista catalano Carles Puigdemont sospendendo al tempo stesso i controlli alla frontiera di Ceuta per 48 ore e consentendo il passaggio di 8mila migranti. Il governo spagnolo si è così trovato ad affrontare la peggiore crisi migratoria dal 2005, quando il tentativo di diversi migranti di forzare il blocco di Ceuta costò la vita a 18 di loro. A farne le spese sono state soprattutto le isole Canarie, una delle porte d’entrata in Europa, dove sono stati allestiti in fretta e furia nuovi campi di accoglienza. Qui sono state registrate violazioni dei diritti umani, con migranti trattenuti nei porti per diverse settimane.

I rapporti tra i due paesi si sono ristabiliti quando Pedro Sánchez ha licenziato la sua ministra degli Esteri Arancha Gonzalez Laya, che aveva garantito l’accesso in Spagna di Brahim Ghali.

La spiaggia e la cittadella fortificata (Kasbah des Oudaias) a Rabat. Foto Piergiorgio Pescali.

Israele tra Algeria e Marocco

Molto complicati sono i rapporti con la vicina Algeria, paese che ospita cinque campi di indipendentisti del Sahara occidentale, territorio che il Marocco considera proprio (articolo a pagina 46). In tutto sono circa 174mila i rifugiati saharawi. Il conflitto è, per il momento, a bassa intensità, ma l’Algeria potrebbe sfruttare l’impasse rifornendo di armi il Polisario per indebolire Rabat, specialmente dopo il caso Pegasus che ha fatto perdere le staffe al governo di Algeri.

Pegasus è un software prodotto dall’israeliana Nso che sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti marocchini per spiare, oltre a giornalisti, attivisti nel campo dei diritti umani e organizzazioni marocchine considerate troppo eversive, anche 6mila politici, uomini d’affari, giornalisti, militari, funzionari e diplomatici algerini.

L’Algeria, che con il Marocco ha già diversi contenziosi aperti, non ha digerito il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Rabat e Tel Aviv avvenuto il 10 dicembre 2020, lo stesso giorno in cui gli Usa hanno riconosciuto al Marocco il diritto di sovranità sul Sahara occidentale (strana coincidenza, visto che Rabat si ostina a dire che i due eventi non sono in alcun modo correlati).

La riapertura delle sedi diplomatiche nei rispettivi paesi ha inasprito i rapporti con l’Algeria che, il 24 agosto 2021, ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con Rabat.

Del resto, i rapporti tra i due paesi non sono mai stati idilliaci in quanto entrambi vogliono diventare la nazione guida del riscatto africano e del

Maghreb. Per perseguire questo obiettivo di leadership, nel 2017 il Marocco è rientrato nell’Unione africana (Ua) dopo esserne uscito nel 1984 perché essa aveva accettato come membro la Repubblica democratica araba Saharawi (autoproclamata dal Fronte Polisario per il Sahara occidentale, ndr).

Le due capitali si imputano a vicenda la responsabilità di alimentare l’estremismo sui propri territori. Le forze di polizia e di controterrorismo marocchine hanno 50mila agenti ausiliari che controllano il territorio impedendo la nascita e il proliferare di movimenti terroristici. Tra il 2002 e

il 2017, secondo fonti ufficiali marocchine, sarebbero stati sventati 352 attacchi e scoperte e smantellate 172 cellule terroristiche.

L’Algeria, da parte sua, accusa il Marocco di appoggiare il movimento estremista islamico Rachad e il Mak (Movimento per l’autodeterminazione della Cabilia, regione algerina). A inasprire le divergenze tra Rabat e Algeri hanno contribuito diversi fattori, tra cui l’aperto appoggio dato da Omar Hilale, rappresentante permanente del Marocco presso le Nazioni unite, al «popolo cabilo [che] merita di godere il diritto all’autodeterminazione», ma soprattutto la normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, definito da Algeri «entità sionista» che avrebbe compiuto «incessanti atti ostili» contro il Paese.

Nel 2021 l’Algeria ha chiuso le valvole del gasdotto Maghreb-Europe e ha iniziato a far passare il gas verso la Spagna attraverso il gasdotto Medgaz, che collega direttamente l’Algeria alla nazione iberica, evitando di attraversare il territorio marocchino. Israele è anche presente, in collaborazione con la Russia, nell’accordo siglato il 12 ottobre 2022 per lo sviluppo del settore nucleare tramite la collaborazione in 14 aree di interesse. Oltre che impianti per la produzione di energia da fissione, saranno costruiti impianti di desalinizzazione, acceleratori di particelle, depositi di scorie nucleari e verranno effettuate ricerche minerarie per sfruttare l’uranio presente nel sottosuolo. Questi progetti andranno ad aggiungersi al reattore di ricerca di Maamora, oggi in funzione per la produzione di isotopi a scopo medico.

La rete (avvolgente) della Cina

In tutte queste iniziative di sviluppo, si sta inserendo prepotentemente la Cina, la quale ha sempre elogiato la stabilità politica del Marocco. Le Primavere arabe qui non hanno avuto gli effetti destabilizzanti che hanno avuto in altre nazioni e il rientro di Rabat nell’Unione africana, ha indotto Pechino ad approfondire i legami per poter sfruttare la diplomazia marocchina come grimaldello per entrare nel continente.

Sebbene il Marocco non abbia mai avuto stretti rapporti con il paese asiatico, nel gennaio 2022 è stato firmato un accordo – il primo nell’area nordafricana – riguardante il progetto Belt and Road (la moderna via della seta, ndr). L’alleanza economica prevede 80 progetti cinesi in campo scientifico, agricolo, scolastico e della finanza, tecnologia, sicurezza, industria, salute, ricerca e sviluppo e trasporti. La costruzione del ponte Re Mohammed VI che, con i suoi 952 metri sarà il ponte a campata unica più lungo d’Africa e la realizzazione di una ferrovia ad alta velocità che collegherà Marrakech con Agadir, la quale si affiancherà al treno ad alta velocità che dal 2018 collega Casablanca a Tangeri (350 km), sono alcuni dei programmi più ambiziosi della collaborazione sino-marocchina.

Nel campo degli scambi culturali è in programma anche l’apertura nel Paese di tre uffici dell’Istituto Confucio.

A differenza di altre nazioni africane dove la Cina è già presente, la moderna struttura industriale e logistica marocchina ha permesso a Pechino di concludere accordi per agganciarsi alle strutture già esistenti e integrarli senza prevedere la costruzione da zero di nuovi impianti e progetti. Questo permetterà al Marocco di mantenere una posizione di controllo sugli investimenti e di direzione degli stessi formando delle partnership privilegiate con i cinesi.

Gli spazi di intervento sono ampi: gli investimenti cinesi in Marocco ammontano oggi a 1,26 miliardi di dollari, mentre il commercio bilaterale nel 2020 è arrivato a registrare scambi per 4,76 miliardi.

Un’inezia, se si confrontano a quelli di paesi come la Francia e gli Emirati arabi uniti, che assieme raggiungono i tre quarti degli investimenti totali stranieri in Marocco, ma Rabat vede nella Cina un’opportunità per diversificare i propri legami con l’estero e sganciarsi dall’orbita europea, francese in particolare.

Eppure, è proprio questa caratteristica, la forte presenza francese nel tessuto economico marocchino, che ha trasformato il Paese in un mercato assai appetibile per le compagnie cinesi. Queste vedono nella mediazione marocchina un modo indiretto per entrare nel mercato europeo evitando eventuali contrasti e tensioni politiche con Parigi e Bruxelles mettendo al sicuro quelle aziende cinesi che hanno integrato la loro produzione con industrie francesi fuori dall’Unione europea.

Un esempio di questa cooperazione è la Nanjing Xiezhong, che ha concluso un accordo con la Renault per fornire l’impianto di aria condizionata agli automezzi prodotti nel suo stabilimento da 15 milioni di dollari di Kenitra, mentre, sempre nella città marocchina sull’Atlantico, la Citic Dicastal fornirà, ancora alla Renault, componenti di alluminio per le sue auto.

Tra i progetti più corposi vi sono quelli della casa automobilistica Byd (Built your dreams), che ha in programma la costruzione di uno stabilimento per macchine elettriche, mentre nel 2019 la China communications construction company ha firmato un contratto da 10 miliardi di dollari per edificare la Mohammed VI Tanger tech city, un hub tecnologico che ospiterà 200 aziende cinesi e sarà abitata 300mila persone al fine di sfruttare manodopera a basso costo abbinata alla vicinanza geografica con l’Europa.

L’alleanza tra Pechino e Rabat permetterà al Marocco di diventare la nuova economia trainante nordafricana, ma rischia anche di aumentare i contrasti con i paesi del Maghreb, in particolare dopo il ristabilimento dei rapporti diplomatici con Israele. L’attuale governo marocchino e quelli che gli succederanno dovranno, quindi, giocare una partita molto delicata per non esporsi al rischio di emarginazione da un consesso regionale e internazionale sempre più fluido.

Piergiorgio Pescali

Papa Francesco e re Mohammed VI alla cerimonia della firma nel palazzo reale di Rabat il 30 marzo del 2019. Foto Vatican Media – AFP.

La moschea di Casablanca. Foto Matteo Imperiali – Pixabay.

Umma calcistica

Bandiere rosse sventolate da donne, uomini e bambini, tutti con un enorme sorriso stampato sul viso. Era dicembre quando gli emigrati marocchini di tutta Europa – in tutto sono oltre quattro milioni di persone – sono scesi nelle strade e nelle piazze per festeggiare la propria nazionale di calcio, prima squadra africana e araba a raggiungere una semifinale ai mondiali. Un evento a suo modo storico che ha riempito d’orgoglio un paese e un popolo spesso umiliati. Una festa durata però lo spazio di qualche giorno. Poi, la realtà è tornata a dettare l’agenda.

Negli stessi giorni delle finali dei mondiali del Qatar sono, infatti, esplosi gli scandali noti come «Qatar gate» e «Marocco gate»: mazzette date a vari rappresentanti del Parlamento europeo per influenzare le decisioni riguardanti i due paesi. Sui servizi di intelligence del Marocco è anche caduta l’accusa di aver utilizzato

Pegasus, il software di spionaggio sviluppato dall’azienda israeliana Nso Group, per spiare uomini politici (forse anche il presidente francese Macron), giornalisti, oppositori sgraditi.

Se confermata, si tratterebbe di una notizia nella notizia. Marocco e Israele, infatti, non avevano rapporti ufficiali fino ai cosiddetti «accordi di Abramo», sottoscritti (sotto la spinta di Washington) il 10 dicembre del 2020.

I numeri sono da plebiscito russo o cinese. Secondo le statistiche ufficiali, in Marocco, su una popolazione totale di 38 milioni, il 99 per cento è di fede islamica. Si tratta di un islam sunnita aderente alla scuola malikita (corrente che allarga le fonti del diritto islamico). Quello marocchino è un islam moderato. Ciò non significa che l’estremismo sia completamente assente dal paese. La storia racconta di un attentato a Casablanca nel 2003 (con 45 morti) e di uno a Marrakech nel 2011 (18 morti).

La popolazione cristiana è stimata in circa 40mila persone (30mila cattolici).

Papa Francesco ha visitato il paese maghrebino nel marzo 2019, accolto dal sovrano marocchino, re Muhammad VI, sul trono dal luglio 1999. Dal novembre 2020, i Missionari della Consolata operano a Oujda, città nell’estremo orientale del paese, a circa 15 chilometri dal confine con l’Algeria e circa 60 a sud del Mediterraneo.

I primi marocchini arrivarono in Italia negli anni Settanta, epoca che segna l’inizio dell’immigrazione dai paesi non europei. Oggi, quelli in regola sono circa 400mila, costituendo la prima comunità di stranieri extra Unione europea. Su quasi 3,3 milioni di stranieri non comunitari presenti in Italia, l’11,8% proviene dal Marocco. La metà di loro è residente in tre regioni del Nord: Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte (infografica a lato).

Nel rapporto La comunità marocchina in Italia (2021) del ministero del Lavoro, si legge: «Il radicamento della comunità marocchina nel tessuto sociale italiano è reso evidente anche dall’ampio coinvolgimento nei matrimoni misti, per i quali la comunità in esame risulta prima, tra le principali non comunitarie».

Eppure, nonostante i numeri, la storia e una fede islamica più tollerante, nei loro confronti non sono scomparsi sentimenti di razzismo, più o meno palesi. Ne Il razzismo spiegato a mia figlia Tahar Ben Jelloun, forse il più celebre tra gli scrittori marocchini, dà una definizione tanto sintetica quanto incontrovertibile: «Il razzismo è ciò che trasforma le differenze in disuguaglianze». Le differenze sono tante, ma arricchenti. «Spesso – ha scritto il professor Mohammed Hashas – è difficile per un marocchino definirsi perché ci tiene a mantenere quella molteplicità di ricchezze che lo contraddistingue, una liasion tra la cultura e l’identità amazigh (berbera, ndr), araba, africana, mediterranea e internazionale».

Paolo Moiola

Una tifosa di Casablanca durante una partita della nazionale marocchina ai mondiali di calcio del Qatar (14 dicembre 2022). Foto Thomas Coex – AFP.

Noor e i parchi solari

La ricerca di fonti energetiche a basso impatto ambientale è stata inserita nel Nuovo modello di sviluppo del Marocco tanto che, secondo i piani, entro il 2030 la metà dell’elettricità generata nel Paese proverrà da fonti rinnovabili. E qui entra in gioco il Sahara occidentale, ricco di sole e vento.

Gli impianti solari in costruzione nella regione sud sahariana forniranno il 30% dell’energia prevista dal piano marocchino.

A oggi esistono cinque parchi solari, di cui quattro appartenenti alla Nareva, la compagnia energetica proprietà al 100% della Sni (Société nationale d’investissement), una holding di proprietà della famiglia reale che opera nel campo finanziario, bancario, alimentare, delle telecomunicazioni e dell’energia rinnovabile.

Nel Sahara hanno investito anche compagnie straniere, tra cui la Siemens gamesa renewable energy, spin-off della Siemens tedesca che fornisce turbine agli impianti eolici marocchini nell’ex colonia spagnola.

La volontà di avviare con decisione la transizione energetica è testimoniata dal Noor («luce» in arabo), il più grande impianto solare termodinamico (Concentrated solar power, Csp) al mondo che ha richiesto un investimento di 9 miliardi di dollari parzialmente finanziati per 435 milioni dal Climate investment funds, 700 milioni dall’Afdb (African development bank) e 3 miliardi dalla Banca mondiale. Situato a Ghessat, nella provincia di Ouarzazate, copre un’area di 2.500 ettari che gode di una quantità di irraggiamento solare tra le più intense al mondo, 2.635 kwh/m2/anno.

Una volta completato, il Noor consentirà di ridurre le emissioni di carbonio di 770mila tonnellate all’anno (240mila tonnellate risparmiate dall’impianto Noor I Csp e 533mila tonnellate risparmiate dal Noor II e Noor III) e si svilupperà su quattro complessi solari con una capacità combinata di 2 Gw: il Noor I Csp, che ha batterie di stoccaggio a sali fusi con capacità di accumulo di tre ore; il Noor II Csp e Noor III Csp, con batterie di stoccaggio di sette ore e l’impianto fotovoltaico Noor IV. Il tutto verrà gestito dalla Nomac, sussidiaria della Acwa e della Masen (Moroccan agency for solar energy).

Pi.Pes.

Il conflitto per il Sahara occidentale

Una famiglia del Sahara occidentale fotografata da uomini della Minurso. Foto Martine Perret – UN Photo.

Sabbia negli occhi

Già protettorato spagnolo, dal 1976 Rabat considera la regione un proprio territorio. Al momento, l’indipendenza del popolo dei Saharawi, reclamata dal Fronte Polisario di Brahim Ghali, pare una chimera.

Nel Sahara occidentale, il Marocco ha messo a segno il suo principale successo internazionale, avendo inglobato la parte controllata dalle sue truppe (l’80 per cento dell’intero territorio) con il nome di Province meridionali per un totale di circa 190mila km2 su cui vive una popolazione di 500mila abitanti. Sempre più istituzioni internazionali mostrano cartine del Marocco con la regione meridionale già inclusa (tra queste il Comitato europeo delle regioni, l’ambasciata Usa in Marocco, il sito della Cia, The World Factbook).

Apparentemente arido e senza risorse, il Sahara occidentale è in realtà un forziere di fosfati, garantendo il 70% della produzione mondiale di questo minerale essenziale per l’industria agricola, mentre le acque antistanti le coste sahariane forniscono il 78% del pescato nazionale. Con una tale ricchezza, in tempi di crisi come quelli attuali in cui il controllo delle materie prime per l’agricoltura è strategico, la destabilizzazione della regione non è vista con favore dalla comunità internazionale.

Commemorazione del trentennale della Repubblica Saharawi (2006). Foto Jaysen Naidoo.

Il Marocco e la Repubblica del Saharawi

Quello del Sahara occidentale è un problema che si trascina dal 7 novembre 1975, quando re Hassan II organizzò la Marcia verde durante la quale 350mila marocchini attraversarono il confine con la regione, protettorato spagnolo dal 1884 (il cosiddetto Sahara spagnolo), per rivendicare il diritto di Rabat sul territorio. Era una chiara violazione del verdetto emesso il 16 ottobre 1975 dalla Corte internazionale di giustizia, in cui si affermava che Marocco e Mauritania «non hanno alcun vincolo di sovranità territoriale sul territorio del Sahara occidentale» e che la popolazione saharawi era «in modo schiacciante» a favore dell’indipendenza. La Spagna, che stava attraversando un difficile periodo di transizione, pieno di incognite dopo la morte del dittatore Francisco Franco (20 novembre 1975), anziché contrastare la Marcia verde entrando in conflitto con Rabat, preferì abbandonare la colonia lasciando che Mauritania e Marocco se la spartissero. Il Fronte Polisario (Frente popular de liberación de Saguía el Hamra y río de Oro), appoggiato dall’Algeria, si oppose a questa soluzione, autodichiarando la fondazione della Repubblica democratica araba del Saharawi e continuando la lotta per l’indipendenza, già iniziata nel 1973 contro la Spagna.

Nel 1979 la Mauritania si ritirò dalla sua parte del Sahara occidentale, affermando che la questione doveva essere risolta come un problema di decolonizzazione. La guerra di liberazione del Fronte Polisario continuò contro il solo Marocco, obbligando migliaia di saharawi a migrare a Tindouf, in Algeria.

Nel 1980 il Marocco iniziò a costruire una linea di divisione fisica lunga 2.700 chilometri (il cosiddetto Berm, o muro di sabbia) che lasciò al popolo saharawi solo un terzo del territorio reclamato.

Furono proposti anche diversi tentativi di raggiungere un’intesa, ma tutti fallirono.

Incontro ufficiale tra il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa e Brahim Ghali (a sinistra), a Pretoria (2018). Foto GCIS.

L’intervento delle Nazioni Unite

Nel 1991, Marocco e Polisario raggiunsero un accordo per il cessate il fuoco stabilendo una zona cuscinetto controllata dal contingente Onu del Minurso (United Nations mission for the referendum in Western Sahara) in attesa di un referendum che avrebbe deciso il futuro del territorio e della nazione saharawi. Il referendum non ebbe mai luogo e al suo posto Rabat presentò nel 2006 un piano che avrebbe garantito un governo autonomo saharawi sotto la sovranità marocchina. La proposta, che ebbe l’appoggio statunitense e l’apprezzamento delle Nazioni Unite, venne rifiutata dal Polisario.

La situazione del Sahara occidentale rimase nel limbo delle azioni internazionali sino all’agosto 2017, quando il presidente tedesco Horst Köhler venne nominato inviato speciale dell’Onu.

Fu sotto la conduzione di Köhler che Polisario, Marocco, Algeria e Mauritania iniziarono promettenti negoziati. Le iniziative del nuovo inviato speciale vennero accolte positivamente anche dagli Usa che, assieme alla Francia, proposero un documento che il Polisario interpretò come un appoggio al Piano di autonomia proposto dal Marocco nel 2006. In più, lo stesso documento accusava il Polisario di aver violato il cessate il fuoco nell’area di Guerguerat (estremo sud del Sahara occidentale) chiedendo di dislocare la funzione amministrativa della Repubblica democratica araba del Saharawi a Bir Lehlu, località nel nord est della regione.

I negoziati iniziarono a Ginevra nel dicembre 2018 con un primo successo del Marocco, che riuscì a portare al tavolo delle trattative, oltre al Polisario, anche Algeria e Mauritania, che invece avevano sempre preferito evitare di essere coinvolte nella questione.

Le improvvise dimissioni di Köhler, avvenute il 22 maggio 2019 per ragioni di salute, misero le trattative in stallo. La ricerca di un nuovo inviato speciale dell’Onu non trovò concordi i due principali attori: la proposta del Polisario di cercare tra le diplomazie scandinave il sostituto di Köhler trovava l’opposizione del Marocco, che considerava quei paesi troppo inclini ad appoggiare le rivendicazioni saharawi.

Da parte sua, lo stesso António Guterres, Segretario generale dell’Onu, faticò non poco a trovare candidati internazionali, visto che la causa del Sahara occidentale non è popolare, non porta consenso internazionale, è per lo più una causa sconosciuta ed economicamente non paga. Solo il 6 ottobre 2021, Guterres riuscì a nominare l’italiano Staffan de Mistura come inviato speciale per il Sahara occidentale.

Il vuoto di potere servì a Rabat per promuovere l’apertura di consolati stranieri nel Sahara occidentale. Sono 26 oggi gli Stati che hanno una rappresentanza a El Aaiun o a Dakhla, le due principali città della regione.

Un mezzo di Minurso nel Sahara occidentale. Foto Martine Perret – UN Photo.

La fine del cessate il fuoco

Tra ottobre e novembre 2020, l’interruzione della strada asfaltata del Guerguerat causata da manifestanti nazionalisti saharawi con l’appoggio del Polisario ha indotto il Marocco a mobilitare le proprie truppe all’interno dell’area, una zona cuscinetto controllata dalle truppe del Minurso. L’azione, provocata anche dal disinteresse dell’Onu che non è intervenuta con l’auspicata decisione per riportare la tranquillità nella regione, ha indotto il Polisario a dichiarare terminato il cessate il fuoco che durava da tre decenni, riattivando i suoi contatti diplomatici all’estero e coordinando i militanti nei cinque campi profughi che sorgono in Algeria.

La latitanza delle Nazioni Unite, sommata al peso sempre più importante assunto dal Marocco nell’economia mondiale, ha indotto gli Stati Uniti a riconoscere, il 10 dicembre 2020, la sovranità di Rabat sul Sahara occidentale suscitando le proteste di Russia e Algeria. La prima ha contestato la mossa di Trump come violazione del diritto internazionale, la seconda ha criticato Usa e Marocco di aver barattato il diritto di autodeterminazione dei saharawi con la normalizzazione diplomatica con Israele. Biden che, in un primo tempo, aveva criticato la mossa del suo predecessore ha fatto buon viso a cattivo gioco: il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, dopo aver incontrato il ministro degli Esteri marocchino, Nasser Bourita, ha ammesso che il piano di autonomia proposto dal Marocco «rappresenta un potenziale approccio per soddisfare le aspirazioni del popolo del Sahara occidentale».

Ad aggravare la precaria situazione venutasi a creare per il Polisario, sempre più abbandonato a sé stesso nel contesto internazionale, vi sono le accuse di nepotismo, corruzione e violenze sessuali provenienti dalla stessa organizzazione indipendentista. Il 12 ottobre 2022, dopo aver negato per anni ogni coinvolgimento nelle violazioni dei diritti umani accadute nei campi profughi, alla fine la leadership saharawi ha ammesso le proprie responsabilità portando la Saharawi association for the defence of human rights a chiedere alla Corte spagnola di aprire un’inchiesta approfondita sull’operato di Brahim Ghali, il settantenne presidente dell’autoproclamata Repubblica democratica araba del Saharawi.

Piergiorgio Pescali

Paesaggio sahariano vicino a Awsard. Foto Martine Perret – UN Photo.

Il peso dei fertilizzanti

La guerra ucraina ha aggiunto alla crisi del grano anche quella dei fertilizzanti, visto che la Russia ne è il maggiore esportatore e da essa l’Uione europea dipende per il 30% del suo fabbisogno.

Dopo Russia, Cina e Canada, il Marocco è il quarto esportatore di concimi al mondo. Il principale produttore nazionale è l’Office chérifien des phosphates (Ocp) che, con 21mila dipendenti in 12 filiali nei paesi africani, è la maggiore multinazionale marocchina. Nel 2020 ha registrato ricavi per sei miliardi di dollari e l’Unione europea è il suo terzo mercato mondiale. La Ocp ha previsto per il 2022 un aumento della sua produzione di fosfati del 10% (1,2 milioni di tonnellate).

Nel 1976 la compagnia ha acquisito la miniera di Phosboucraa nel Sahara occidentale, nelle cui viscere sarebbe contenuto il 2% delle riserve di fosfato del Marocco. Secondo la stessa Ocp, il 100% dei profitti sono reinvestiti nella regione attraverso la Fondazione Phosboucraa che ha avviato diversi programmi di sviluppo, tra cui la creazione di Technopole Forum El Oued, una città di 600 ettari a 18 km da Laayoune che, una volta ultimata, dovrebbe offrire un centro di ricerca e sviluppo per studiare l’ambiente sahariano, un centro di supporto per lo sviluppo economico del Sahara occidentale, un centro culturale, servizi sociali. Ma l’industria dei fosfati è anche estremamente energivora: per produrre la quantità di fertilizzanti oggi commercializzata dalla nazione africana, il Marocco deve spendere il 7% della sua produzione energetica totale e destinare l’1% delle sue riserve idriche.

Il fertilizzante più diffuso è il fosfato di ammonio (Dap) che è prodotto da acido fosforico e ammoniaca. L’ammoniaca si produce in una reazione tra azoto e idrogeno, due elementi la cui produzione è estremamente energivora e il cui prezzo dipende quindi (almeno per l’80%) dal costo del gas naturale. Già alla fine del 2021 l’aumento del costo dei gas ha fatto levitare i prezzi dell’ammoniaca da 110 dollari per tonnellata a mille.

Per diminuire le importazioni di ammoniaca necessarie per la produzione di fertilizzanti (Ocp importa tra 1,5 e 2 milioni di tonnellate di ammoniaca per anno), l’Office chérifien des phosphates nel 2018 ha concluso un accordo di cooperazione con il tedesco Fraunhofer institute per sviluppare un progetto per produrre idrogeno verde a Ben Guerir (Sahara occidentale) assieme all’Iresen (Moroccan institute for research in solar energy and new energies).

Nel frattempo, l’invasione russa dell’Ucraina ha peggiorato la crisi alimentare nel paese, dove la gravissima siccità sta facendo il resto. Già durante l’estate del 2021 il prezzo del grano tenero era aumentato a 270 dollari/ton rispetto al 2020 (più 22%) e a 389 dollari/ton all’inizio di marzo 2022.

Pi.Pes.

Uomini al lavoro in una conceria di Fès. Foto Neverlan-Pixabay.

Hanno firmato il dossier:

Piergiorgio Pescali
Ricercatore e consulente in ambito nucleare, è giornalista e scrittore. Da molti anni è uno dei più assidui collaboratori della rivista Missioni Consolata.

a cura di Paolo Moiola giornalista redazione MC.

In uno stretto vicolo del suk di Marrakech. Foto Piergiorgio Pescali.




Grazie da Chernihiv – Ucraina


Parrocchia dello Spirito Santo
Chernihiv-Ucraina

10.05.2022

A nome della nostra comunità di Chernihiv vorremmo ringraziarvi i benefattori della rivista MIssioni Consolata per aver aiutato le persone colpite dalla guerra.

Lo scorso 2022 non è stato un periodo facile per tutta l’Ucraina, compresa la nostra parrocchia. Lo scoppio della guerra che ha coinvolto anche la nostra regione a nord del paese vicino al confine con la Bielorussia, ha presentato molte sfide alla nostra comunità. Dalla fine di febbraio ad aprile, il nostro monastero guidato da noi Oblati, è stato luogo di rifugio per i parrocchiani e i residenti della città ospitati nei sotterranei del nostro monastero e della nostra chiesa. Qui le persone hanno ricevuto aiuti materiali e spirituali. Durante il bombardamento della città c’erano circa 80 persone nelle nostre cantine. Gli Oblati sono rimasti con la gente fino alla fine.

Dopo il ritiro delle truppe russe dal distretto di Chernihiv, il nostro monastero è diventato, tra l’altro, un luogo dove chiunque chiedesse aiuto umanitario poteva ottenerlo. Ci siamo recati nei quartieri più danneggiati della città e dintorni per sostenere le popolazioni particolarmente colpite dalla crudeltà della guerra. Tutto questo è stato possibile grazie agli aiuti umanitari di varie organizzazioni ecclesiali e non e anche con fondi propri. Il nostro monastero ha anche cercato di aiutare coloro che non sono stati raggiunti dagli aiuti umanitari. Abbiamo visitato le case delle persone, comprando loro i prodotti o le medicine necessarie. In diversi casi, siamo stati coinvolti nella ricostruzione di case fatiscenti acquistando materiali da costruzione. Il nostro aiuto, oltre al valore materiale, è stato principalmente di natura spirituale. Pregando insieme alle persone, abbiamo voluto dare loro un segno di solidarietà viva e di speranza. Dal settembre 2022, abbiamo ripreso la distribuzione dei pasti: “le cene del martedì e del giovedì”. A causa della situazione finanziaria molto difficile degli abitanti della città, il numero di persone che venivano al monastero per un pasto è aumentato il martedì: sono circa 70 le persone donne e uomini che ricevono un cibo caldo. A questo scopo i parrocchiani si sono uniti con grande impegno cucinando un pasto caldo.

Abbiamo anche in programma di aprire un centro di aiuto psicologico in parrocchia, perché molte persone sono ferite e hanno bisogno di aiuto psicologico.

Ancora una volta, desideriamo ringraziarvi per la vostra gentilezza e assicurarvi un ricordo orante per tutti i nostri benefattori. Benvenuti a Czerniców!!!

Padre Sergiy Panchenko OMI
Parroco della parrocchia dello Spirito Santo




Freddy, un cyclone lungo un mese


Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

È durato più di un mese il ciclone Freddy, dal 4 febbraio al 14 marzo 2023, affermandosi come uno dei più lunghi di sempre, e ha colpito l’Africa sudorientale provocando 499 vittime in Malawi, 165 in Mozambico e 17 in Madagascar.
Si è formato sull’Oceano indiano, al largo della costa nordoccidentale dell’Australia, e ha percorso ottomila chilometri toccando terra una prima volta in Madagascar il 21 febbraio, e poi di nuovo il 24 febbraio e l’11 marzo in Mozambico@.
Secondo il Sistema globale di allerta e coordinamento in caso di catastrofi, struttura nata da una collaborazione fra Nazioni Unite, Unione europea ed Eurosat, i venti sono arrivati a 250 chilometri all’ora nel tratto a est delle Mauritius@, e intorno ai 170 chilometri orari all’approdo in Madagascar e nel secondo approdo in Mozambico. La popolazione in qualche modo esposta agli effetti del ciclone è stata di 2,9 milioni di persone.

Nei giorni successivi al dissiparsi del fenomeno, gli sfollati in Malawi avevano superato il mezzo milione, mentre in Mozambico erano oltre 163mila le persone ospitate in vari centri di accoglienza nelle province di Zambezia, Sofala, Tete, Inhambane e Niassa@.

«Per quanto riguarda la nostra zona», scriveva lo scorso marzo monsignor Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata e vescovo di Tete, «nei distretti di Doa e Mutarara, nelle pianure e sulle sponde dei grandi fiumi, molte persone hanno perso la casa, hanno perso tutto. Centinaia di edifici sono crollati a causa della forza del vento e della pioggia. La situazione peggiore è l’alluvione provocata dall’esondazione dei fiumi Chire e Zambesi: l’intera regione è allagata, compresi i campi coltivati. Le strade sono interrotte, così come la ferrovia Beira-Tete».

Epidemia di colera

Il ciclone si è abbattuto su Malawi e Mozambico quando entrambi i paesi stavano affrontando un’epidemia di colera, cominciata a marzo 2022, e ha complicato le operazioni di contrasto alla diffusione dell’infezione, anche perché molte strutture sanitarie hanno subito danni.

Il dipartimento per la gestione delle catastrofi del Malawi segnalava@ infatti 81 strutture danneggiate, di cui 74 funzionanti ma non accessibili e 7 in cui il servizio era sospeso. In Mozambico, secondo l’Istituto nazionale di gestione e riduzione del rischio di catastrofi, i centri sanitari danneggiati erano 53, di cui 50 nella sola Zambezia@.

L’epidemia di colera in corso è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come la peggiore nella storia del Malawi. Lo scorso marzo Ifrc Go, la piattaforma della Croce rossa e Mezzaluna rossa internazionale per l’informazione sulle emergenze, riferiva che erano 54.677 le persone colpite dalla malattia nei precedenti 12 mesi trascorsi dal primo caso registrato (3 marzo 2022) e le vittime erano state 1.682@.

Quanto al Mozambico, il portale di informazione umanitaria Reliefweb riportava che la cifra cumulativa delle persone colpite dal colera dall’inizio dell’epidemia era di 11.158 in otto province, con un aumento di 479 casi in un solo giorno; le vittime erano state fino a quel momento 51. Dei 38 distretti colpiti dal colera, 37 segnalavano un focolaio ancora attivo e gli operatori umanitari impegnati sul campo si dicevano preoccupati anche di un possibile aumento delle malattie trasmesse attraverso l’acqua, come la diarrea e la malaria.

Ciclone e colera

L’Oms ha diffuso un avvertimento che descrive l’attuale epidemia di colera come una pandemia che mette a rischio un miliardo di persone in 43 paesi. Nel complesso, i casi in Africa sono stati circa 80mila in 15 paesi nel 2022 e, a gennaio di quest’anno, erano già 26mila in dieci paesi. Le vittime sono state 1.863 l’anno scorso e 660 quest’anno.

La diffusione del colera sembra a sua volta avere un legame con un precedente fenomeno meteorologico estremo, la tempesta tropicale Ana, che ha colpito il Malawi nel gennaio dell’anno scorso. Janet Kayita, rappresentante dell’Oms a Lilongwe, ha detto alla rivista The Lancet Microbe che «le piogge torrenziali e le inondazioni» causate da quel ciclone, così come «i danni estesi ai sistemi idrici e sanitari e il sovraffollamento, hanno creato le condizioni perfette per un’epidemia di colera»@.

Il colera, infatti, è una malattia provocata da un batterio, il vibrio cholerae (vibrione del colera), che si trasmette attraverso l’ingestione di acqua o cibo contaminati dal materiale fecale di individui infetti.

Scarse condizioni igieniche, assenza di impianti fognari adeguati e mancanza di acqua potabile, dunque, sono elementi che aumentano il rischio di contagio.

Inoltre, nel trattamento della malattia, che ha come principale sintomo la diarrea e provoca una rapida disidratazione, è fondamentale avere accesso ad acqua pulita per permettere la reintegrazione dei liquidi e dei sali persi. Per questo, la distruzione dei sistemi idrici, conseguente a un evento estremo come un ciclone, non solo aumenta le probabilità di contagio ma rende più difficile curare le persone che si sono infettate@.

Quattro cicloni in cinque anni

Freddy è il più recente dei fenomeni estremi che hanno colpito queste zone. Soltanto negli ultimi cinque anni ce ne sono stati una decina, di cui almeno cinque hanno provocato vittime e sfollati e creato danni a edifici e infrastrutture per decine di milioni di dollari.

Nel 2019 i due cicloni Idai e Kenneth hanno causato almeno mille morti e costretto 2,2 milioni di persone a sfollare, risultando così uno dei peggiori disastri naturali in Africa meridionale dall’inizio del secolo.

Nel 2021 ci sono state due tempeste tropicali, Chalane e Eloise, mentre nel 2022 la regione è stata colpita dalla tempesta tropicale Ana approdata in Mozambico il 24 gennaio 2022, e dal ciclone Gombe, a marzo dello stesso anno.

Dopo Idai e Kenneth, anche Missioni Consolata onlus ha sostenuto la ricostruzione di alcune delle case andate distrutte a Tete@.

«Anche stavolta c’è bisogno di tutto, cibo compreso», ha detto a marzo monsignor Antunes a proposito degli effetti del ciclone di quest’anno, «ma soprattutto è urgente pensare al dopo e mettere le persone in condizione di avere una seconda stagione di semina: dobbiamo fornire loro sementi il prima possibile, così che possano iniziare a coltivare appena le inondazioni saranno finite».

Un freno allo sviluppo

Il Mozambico, riportano ormai in modo abbastanza unanime diversi studi, è uno dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico@. La frequenza degli eventi estremi è aumentata negli ultimi anni e, stimava la Banca mondiale già nel 2019@, il paese potrebbe perdere 440 milioni di dollari all’anno soltanto per le inondazioni.

L’impatto del ciclone Freddy non è ancora stato calcolato in modo definitivo, ma Idai e Kenneth combinati avevano causato danni e perdite per 3 miliardi di dollari e avevano imposto costi di ricostruzione per 4,3 miliardi di dollari, in uno stato il cui prodotto interno lordo nel 2021 era pari a 15,8 miliardi di dollari.

Il Mozambico sta anche affrontando un conflitto nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove dal 2017 una milizia islamista affiliata allo Stato islamico (Isis) sta affrontando l’esercito mozambicano e i suoi alleati nella regione, fra cui Rwanda e Sudafrica. Il conflitto ha finora provocato oltre 4.500 morti e un milione di sfollati e rifugiati.

Chiara Giovetti


Foto da vari autori e testimoni  inviate dal vescovo di Tete, monsignor Diamantino Antunes.



3 maggio, Giornata mondiale della libertà di stampa

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’istituzione della giornata mondiale della libertà di stampa, proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1993 in risposta alla «Dichiarazione di Windhoek». La dichiarazione deve il suo nome alla capitale della Namibia, dove fu adottata il 3 maggio 1991 da un gruppo di giornalisti africani che partecipavano a un seminario dell’Unesco dal titolo: «Promuovere una stampa africana indipendente e pluralista», e due anni dopo il giorno della dichiarazione venne scelto per celebrare la giornata mondiale.

Il tema di quest’anno è: «Shaping a future of rights: freedom of expression as a driver for all other human rights» (Plasmare un futuro di diritti: la libertà di espressione come motore per tutti gli altri diritti umani). Gli eventi principali si svolgono alla sede dell’Onu di New York. Fra questi c’è la consegna del premio internazionale per la libertà di stampa Unesco-Guillermo Cano, dal nome del giornalista colombiano Guillermo Cano Isaza, direttore del giornale El Espectador, assassinato nel 1986 di fronte alla sede del giornale da sicari al servizio del cartello di Medellín guidato dal narcotrafficante Pablo Escobar e dai suoi associati.

Alla data di chiusura di questo articolo non è noto il vincitore del premio, dal valore di 25mila dollari; nel 2022 è stato assegnato all’Associazione dei giornalisti bielorussi come dimostrazione di sostegno ai «giornalisti di tutto il mondo che criticano, si oppongono e smascherano politici e regimi autoritari trasmettendo informazioni veritiere e promuovendo la libertà di espressione», come ha ricordato Alfred Lela, presidente della giuria internazionale del premio. Nel 2021, invece, il premio era andato a Maria Angelita Ressa, giornalista filippina naturalizzata statunitense che nello stesso anno aveva anche vinto, insieme al collega russo Dmitrij Muratov, il premio Nobel per la pace@.

Nel 2021, si legge nel rapporto dell’Unesco Journalism is a public good (Il giornalismo è un bene pubblico), i giornalisti uccisi sono stati 55, in calo rispetto al 2020 (62) e dimezzati rispetto al dato più alto nel periodo considerato (2010- 2021), cioè quello del 2012, quando ne furono assassinati 124. Aumentano invece i giornalisti in carcere, 293, il dato peggiore nei dodici anni presi in esame.

Nel quinquennio dal 2016 al 2020, il paese in cui sono stati uccisi più giornalisti è il Messico (61), seguito da Afghanistan (51), Siria (34), Yemen (24), Iraq e Pakistan (entrambi a 23).

I paesi arabi sono quelli con il tasso di impunità più elevato per gli omicidi dei giornalisti: il 98 per cento dei casi, infatti, rimane irrisolto@.

Secondo l’organizzazione non governativa International Press Institute (Ipi), che monitora la libertà di stampa nel mondo e tiene traccia degli abusi subiti dal personale dei media dopo l’invasione russa dell’Ucraina, in Russia sono 169 i giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo dall’inizio della guerra@.

Chi.Gio.

 




Cuore e verità


Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, indagati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».

Comunicare, e soprattutto comunicare la verità come dovrebbero fare sia giornalisti che missionari, è un mestiere rischioso. Sì, perché è vero che la verità rende liberi, ma non piace a chi costruisce il proprio potere e la sua ricchezza sulla menzogna, sul controllo dell’opinione pubblica, la manipolazione, il monopolio, il pensiero unico e l’ostentazione.

Comunicare, come insegnare, dovrebbe aprire nuovi orizzonti, far vedere oltre il proprio naso, stimolare la mente a ricercare idee inedite, far incontrare nuove realtà ed esperienze di vita. Aiutare quindi le persone a diventare più libere, creative, responsabili, fraterne, serene, rispettose e solidali. Far capire che la bellezza del mondo non finisce con i muri del proprio giardino, con il proprio pezzetto di cielo, con la propria lingua e cultura.

Purtroppo, spesso, la realtà che viviamo è tutto il contrario di questo. Siamo in un tempo in cui la comunicazione non è solo quella fatta dai giornalisti, ma è soprattutto quella subdola, incontrollabile, invasiva di internet, dei social, della pubblicità, dei video virali, dei programmi televisivi e delle molte altre forme di comunicazione da cui siamo colpiti quotidianamente senza accorgercene. Tutte forme di comunicazione che non hanno lo scopo di rendere libere le persone, ma di condizionarle e asservirle.

Quando un bambino, lasciato per ore davanti a uno schermo (Tv, smartphone, tablet) cresce senza saper distinguere un cartone animato dalla pubblicità o da un programma serio, come può far maturare in sé una mentalità critica e libera?

Dove finisce la libertà e il senso critico di chi viaggia nel web condotto da algoritmi e intelligenza artificiale che, potenzialmente positivi, sono usati invece per condizionare le scelte, annullando la capacità di distinguere tra realtà e finzione, verità e fake news, a servizio dei profitti sempre più alti di pochi e del potere di politici, partiti e governi intenti a mantenere o costuire il consenso a tutti i costi?

Per questo c’è da ringraziare per quei giornalisti che ancora oggi sono disposti a pagare di persona per servire e comunicare la verità. Essi sono un segno positivo che alimenta la speranza e che mostra quanto la verità sia più forte della menzogna, in qualsiasi forma essa si presenti.

Grazie a persone come il nostro amico Gianni Minà, comunicatore appassionato e gentile, che è stato gradito ospite anche su queste pagine.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di quello che il Papa, nel suo messaggio, chiama «comunicare la verità nella carità». «In un periodo storico segnato da polarizzazioni e contrapposizioni – da cui purtroppo anche la comunità ecclesiale non è immune – l’impegno per una comunicazione “dal cuore e dalle braccia aperte” non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno. Tutti siamo chiamati a cercare e a dire la verità e a farlo con carità. Noi cristiani, in particolare, siamo continuamente esortati a custodire la lingua dal male (cfr. Sal 34,14), poiché, come insegna la Scrittura, con la stessa (lingua, ndr) possiamo benedire il Signore e maledire gli uomini fatti a somiglianza di Dio (cfr. Gc 3,9). Dalla nostra bocca non dovrebbero uscire parole cattive, “ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29)».

È quello che stiamo provando a fare con questa rivista, che non ha altre pretese oltre a quella di aiutare a guardare agli altri, vicini e lontani, per conoscerli nella verità, vincendo pregiudizi e stereotipi, senza piegarsi alle mode del momento, smascherando manipolazioni, paternalismi o paure alimentate ad arte. Siamo una piccola voce, una goccia nel mondo della comunicazione. Ma abbiamo una forza che ci brucia dentro: l’amore per l’uomo, ogni uomo, con una preferenza: quella per il più debole, indifeso, emarginato e sfruttato, visto con gli occhi di Cristo.

 




Sommario MC Maggio 2023

La rivista è online dal 14 maggio.


Editoriale

Cuore e verità

Le cifre parlano: 58 giornalisti uccisi nel 2022, 48 scomparsi, 65 trattenuti in ostaggio, 533 incarcerati, di cui 110 in Cina, 47 in Iran, e 169 giornalisti fermati, arrestati, inda­gati o sotto processo in Russia dall’inizio della guerra. Quasi quasi fare il giornalista è più pericoloso che fare il missionario. Un «mestiere», quest’ultimo, che ha il suo bel numero di vittime, come ricordato il 24 marzo scorso nella «giornata dei martiri»: 18 nel 2022, 22 l’anno prima, 20 nel 2020, con il record di ben 40 nel 2018, senza contare quelli «scomparsi», come padre Paolo Dall’Oglio in Siria nel luglio 2013.

Il 3 maggio ricorre la «giornata mondiale della libertà di stampa» proclamata dall’Onu, e il 21 la «giornata mondiale delle comunicazioni sociali», celebrata dalla Chiesa ne mondo, per la quale papa Francesco ha proposto il tema «Parlare col cuore. Secondo verità nella carità (Ef 4,15)».


Dossier

Parola di re

Marocco: successi e debolezze.
Viaggio nel paese maghrebino.
Dio, nazione, re

Nonostante i progressi e la presenza di un islam relati­vamente moderato, il Marocco rimane un paese con gravi problemi sociali e strutturali. Tra cui un’agricoltura molto arretrata, un elevato tasso di disoccupazione giovanile e una dinamica politica limitata. Tutte le decisioni essenziali rimangono nelle mani di una sola persona, re Mohammed VI.


Articoli

Il Papa in Sud Sudan.
È il tempo dei fatti

Dopo il Congo, papa Francesco è andato in Sud Sudan, insieme all’incaricato della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, e all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Un viaggio progettato da tempo, ma che era stato rimandato per motivi di sicurezza. Monsignor Carlassare, comboniano, vescovo di Rumbek, ci racconta le sue impressioni.

(Photo by TONY KARUMBA / AFP)

Dadaab. Il campo profughi più grande d’Africa.
La città dei tendoni

Da 32 anni è una città fatta di ripari di fortuna, in mezzo al deserto. Ci abitano 350mila persone, e gli arrivi continuano. Intanto la guerra in Europa ha dirottato in Ucraina parte delle risorse. Alcune Ong e agenzie Onu continuano a dare assistenza a una popolazione (di rifugiati) che non può farcela da sola.

Il gruppo «donne di parola» si racconta in un libro
Donne che scrivono la storia

Cosa accade quando le vicende della gente comune si incontrano con la grande Storia? Ce lo illustrano le autrici de «Le storie siamo noi». Una preziosa operazione di riscatto della memoria e della tradizione orale, in cui emerge il ruolo di avanguardia delle donne, protagoniste spesso dimenticate.

Popoli indigeni e missionari
Mai fare tabula rasa

Un missionario racconta come è cambiata la propria percezione delle popolazioni autoctone. Un nuovo atteggiamento che ha dato buoni frutti. Per esempio, con il popolo dei Nasa, in Colombia, nella regione del Cauca, dove l’Imc è presente da quasi quarant’anni.

L’ecocolonialismo della transizione energetica
Idrogeno in Amazzonia

Una centrale elettrica a idrogeno nel cuore della foresta pluviale guianese. In nome della transizione energetica si rischia di devastare l’ambiente e uccidere l’identità originaria dei popoli indigeni.

 

Una guerra d’occupazione: il dramma degli sfollati
Nord Kivu senza pace

Nell’est del secondo paese africano per superficie, tra i più ricchi di risorse, imperversano gruppi armati sostenuti da paesi confinanti. Gli stessi sono alleati della Rdc a livello regionale. Le contraddizioni sono forti. Come pure non si spiega la presenza della missione Onu per la pace che in 23 anni non ha dato risultati. Ce ne parla un attivista per i diritti umani di Goma.

Luacano, ricostruire dalle macerie della guerra
Gocce di speranza

I Missionari della Consolata sono arrivati nel 2018 a Luacano, diocesi di Luena nella provincia di Moxico. Proprio nella regione dove, sedici anni prima, aveva avuto i suoi momenti conclusivi la guerra civile che ha stravolto la vita del paese dal 1975 al 2002 lasciando pesanti distruzioni e numerosi campi minati.

 


Rubriche

Noi e Voi

Nonviolenza e guerra in Ucraina

Pubblichiamo lo scambio di mail tra un nostro lettore e Pasquale Pugliese, autore dell’arti­colo «La guerra dei sonnambuli» uscito su MC di gennaio. Ringraziamo i due per averlo condiviso con noi e i nostri lettori.

Sudafricano con i sudafricani

L’annuncio della scomparsa, il 14 marzo 2023, di padre Rocco Marra ha portato una grande nube di tristezza su molti, sia missionari che laici nella delegazione (il gruppo dei 25 missionari della Consolata, ndr) del Sudafrica/eSwatini.

Una rivista che parli a tutti

Scrivo queste righe a lei perché da sempre, non da oggi, ho apprezzato lo spessore educativo della rivista. […] In conclusione, MC ha uno spessore di contenuto morale educativo molto elevato.

Nell’agenda di Gianni

La sua rubrica esordì su MC nel dicembre del 2015 con un titolo azzeccatissimo: «Persone che cono­sco». Perché Gianni Minà, scomparso lo scorso 27 marzo, conosceva tutti, ma proprio tutti. Famosa al riguardo è rimasta la battuta di Massimo Troisi: «Invidio quest’uomo per la sua agendina telefonica», disse l’attore napoletano.

E la chiamano economia

Popolazione e ambiente

In questa seconda puntata dedicata al tema demografico, affrontiamo le relazioni tra crescita della popola­zione e impatti sull’ambiente. Con una evidenza: i poveri hanno molti più figli, ma la loro responsabilità sulla crisi ecologica è inferiore a quella dei ricchi.

Camminatori di speranza /5

Mosè, in faccia a Dio

Ci sono personaggi biblici che ci costringono a spiegare chi sono, per quale motivo sono importanti e dove andarli a rintracciare. Altri, invece, sono molto conosciuti e si ergono in tutta la loro maestosità spaventandoci quasi per quanto sono solenni e centrali. Tra questi spicca senza dubbio Mosè, colui che parlava faccia a faccia con Dio come con un amico (Es 33,11), colui che può riassumere in sé tutta la legge («Mosè e i profeti» è una sintesi dell’Antico Testamento utilizzata dallo stesso Gesù in Lc 16,29).

Cooperando

Freddy, un ciclone lungo un mese

Il ciclone Freddy ha colpito Malawi, Mozambico e Madagascar tra febbraio e marzo, e ha causato centinaia di vittime, travolto case e inondato campi. Ma ha anche distrutto centri sanitari e sistemi idrici in paesi che già erano in grande difficoltà a causa di un’epidemia di colera.

Amico

Un gemito inesprimibile

Com’è possibile sperare ancora, Signore? Ci guardiamo attorno e vediamo l’intera creazione che geme e soffre le doglie del parto. E insieme a essa, gemiamo anche noi (Rm 8). Cosa sperare ancora, in questo tempo che pare uccidere il futuro? Su questa Terra scossa da crisi ambientali, pandemie, conflitti armati, disastri naturali, carestie di umanità?

Possiamo attenderci ancora la salvezza? Una qualsiasi salvezza?
Il mondo attende la rivelazione dei figli di Dio. Ma cosa riveleranno?
Ci salveranno dalla morte? Saranno in grado di guarire le ferite che da troppo tempo aspettano di essere rimarginate? Oppure ci chiederanno di rassegnarci, in attesa dell’aldilà?

Librarsi

Un libro sulla filiera dei container
Le frontiere del mondo

Ogni giorno, 400 milioni di container attraversano il globo. Carichi di tutte le merci lecite (come ananas, o scarpe) e illecite (come droghe, o armi), per essi non esistono frontiere. Se si vuole capirne qualcosa, si trovano muri, filo spinato e, a volte, militari armati.




Kenya: Inondazioni a Parkati


C’è un villaggio praticamente sconosciuto nella profondità della Rifty Valley in Kenya, pochi chilometri a Sud del Lago Turkana. Per la gente di quel villaggio, nel 1981 padre Luigi Graiff, missionario della Consolata, ha dato la vita, ucciso da razziatori mentre andava per aiutare i più poveri. Quel villaggio si chiama Parkati.

La notte tra il 25 e il 26 aprile ha piovuto abbondantemente e Parkati è stata spazzata da un’inondazione terribile che ha causato la perdita di bestiame e la distruzione di edifici, comprese parti della scuola e del dispensario. Per fortuna non ci sono morti tra la gente perché è precipitosamente scappata verso le parti più alte della valle mentre l’acqua invadeva le capanne, i pochi negozi e i recinti del bestiame portando via tutto.

Un colpo terribile per una comunità che, duramente provata dalle distruzioni, è rimasta praticamente senza cibo a causa dei danni ai pochi negozi e alla morte di moltissime capre.

Le immagini parlano per loro. Si sono salvate la chiesa e la scuola materna, mentre le toilette sono da ricostruire.

Il villaggio di Parkati è nella diocesi di Maralal ed è servito dai missionari di Yarumal che hanno sede nella missione di Tuum.

notizia segnalata da Daniel Lorunguya

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Nonviolenza da Oscar


«Coda. I segni sul cuore» e «The Guilty», Il colpevole

Una ragazza, figlia di genitori sordi, scopre di avere un talento nel canto. Un poliziotto danese si lascia coinvolgere in un caso che non dovrebbe seguire. Due film diversi tra loro, ma accomunati dall’ascolto attivo dei protagonisti che affrontano i conflitti cambiando se stessi e le relazioni attorno a loro.

Coda. I segni sul cuore

A volte vincono. Sì, a volte – raramente – i film nonviolenti arrivano ai vertici del riconoscimento mondiale.

È stato così per Coda. I segni sul cuore che ha vinto tre Oscar nel 2022: il più ambito, quello per il miglior film, quello per l’attore non protagonista, Troy Kotsur, e quello per la migliore sceneggiatura non originale.

Coda è il remake statunitense di un film francese del 2014, La famiglia Bélier, una pellicola talmente bella che al Centro studi Sereno Regis, dove ci occupiamo di educazione alla pace, lo usiamo spesso nei nostri corsi.

Tra l’altro, Coda è passato come film fuori concorso anche all’edizione 2021 del Tff (Torino film festival, ndr) ed è uno dei film segnalati dal premio «Gli occhiali di Gandhi», il premio del Centro studi Sereno Regis, in collaborazione con il Tff, alla cinematografia nonviolenta.

È una storia che esemplifica in modo semplice, ma non superficiale, come un conflitto si può risolvere in modo nonviolento.

La trama è semplice: la diciassettenne Ruby, figlia di due persone sorde (c.o.d.a., dall’inglese child of deaf adults, figlia di adulti sordi), scopre di avere un talento nel canto. Inizia a prendere lezioni, finché il suo maestro le propone di continuare gli studi trasferendosi in un’altra città.

Il film racconta come Ruby riesca nel compito di accompagnare i genitori, impossibilitati a riconoscere la sua dote, a mettersi nei suoi panni, coinvolgendoli, rassicurandoli, e mettendosi a sua volta nei loro panni, cosa che rappresenta una delle lezioni basilari della nonviolenza: riconoscere i bisogni dell’altro, il quale non è un avversario, ma una persona con cui trovare il giusto modo di relazionarsi.

Le scene fondamentali che illustrano in modo magistrale la soluzione nonviolenta del conflitto sono tre.

La prima è quella nella quale emerge il problema ed esplode il conflitto: il desiderio della ragazza di trasferirsi si scontra con la contrarietà dei genitori, i quali, con la partenza della figlia che li aiuta nella loro azienda a conduzione famigliare, perderebbero un valido aiuto.

La seconda è la rappresentazione delle difficoltà oggettive dei genitori nel comprendere il talento della figlia (qui il regista mette anche il pubblico nella condizione di capire lo stato d’animo dei genitori). La terza è quella della soluzione finale del conflitto: la ragazza riesce a rendere partecipi i genitori della sua performance usando la lingua dei segni (uno dei motivi per cui è stato fatto il remake statunitense del film francese: la lingua dei segni europea è diversa da quella Usa).

Il film della regista Sian Heder si differenzia dall’originale francese di Éric Lartigau, per il fatto che i ruoli di persone sorde sono stati interpretati da attori effettivamente sordi, a cominciare da Marlee Matlin, che vinse l’oscar come migliore attrice per Figli di un dio minore del 1986.

Andatelo a vedere e, se possibile, guardate anche La famiglia Bélier: un confronto che vi riserverà delle belle sorprese.

D.C.

Il colpevole (The Guilty)

«Il colpevole (The Guilty)» è un thriller del 2018, terzo film del danese Gustav Möller.

Si potrebbe definire un film claustrofobico, incredibilmente ambientato in sole due stanze. Eppure ha una forte e determinante componente nonviolenta. Vediamo perché.

Asgar è un agente di polizia di Copenaghen, temporaneamente demansionato, per un motivo che scopriremo più avanti, al servizio di risposta alle chiamate di emergenza. È il classico lavoro da 112: smistare le telefonate. Una noia.

Un giorno, però, riceve la chiamata di una giovane donna che dichiara di essere stata rapita dall’ex marito, e Asgar decide di oltrepassare i limiti professionali prendendosi segretamente carico dell’investigazione e mettendosi in gioco per salvare la donna.

Svolgere un’indagine esclusivamente al telefono, però, è pericoloso, e il protagonista deve confrontarsi con un inaspettato ribaltamento della situazione.

Spesso, fare supposizioni partendo da poche informazioni, può portare a commettere gravi errori, anche se si hanno le migliori intenzioni.

Ciò che appare un limite del film, cioè la messa in scena in sole due stanze, amplifica la tensione, spingendo a entrare nello spazio emotivo dei protagonisti.

Il regista lancia una vera e propria sfida allo spettatore, cercando di emozionarlo con il semplice riferimento a «ciò che accade fuori». Una sfida indubbiamente vinta.

Così come è vinta la sfida della sostenibilità ambientale della produzione: niente sparatorie, niente auto incendiate, niente palazzi che crollano.

«Il colpevole», il cui titolo originale è Den Skyldige, merita di essere visto non solo perché è un thriller emozionante e magnetico, ma anche perché offre spunti di riflessione sulla nonviolenza.

La grande empatia di Asgar nell’aiutare la donna al telefono, a prescindere dai suoi doveri, ne è un esempio. Il protagonista va contro l’etica professionale per salvare una persona sconosciuta, facendosi coinvolgere dalla sua vicenda e mettendoci tutto il suo impegno.

Inoltre, è interessante notare come il dialogo sia l’unico strumento utilizzato per risolvere il conflitto e, in una situazione estrema, per salvare una vita.

Non solo. Il dialogo diventa cura e diventa perdono, per sé e per gli altri: mettendosi nei panni della donna, nel suo dramma, il poliziotto trova il coraggio di affrontare le proprie responsabilità (il motivo – che non sveliamo – per il quale è stato «messo a riposo» in ufficio) e, in definitiva, di perdonarsi.

Un chiaro esempio di come la relazione profonda tra esseri viventi, il vero ascolto, partecipe e responsabile, siano le basi fondanti di un percorso di risoluzione nonviolenta dei conflitti.

Giorgia Bettuzzi e Dario Cambiano




Tre parole magiche


Uno degli studiosi più attenti della vita del beato Giuseppe Allamano, del suo tempo e ambiente, è stato senza dubbio padre Igino Tubaldo. A cent’anni dalla sua nascita, lo ricordiamo con gratitudine, soprattutto per la voluminosa biografia in quattro tomi e altri innumerevoli scritti che ci ha lasciato. Cosciente di quanto sia prezioso l’epistolario per una persona, poiché in esso ognuno esprime al meglio i sentimenti più intimi, padre Tubaldo ha voluto scandagliare con molta attenzione le 1.256 lettere scritte dall’Allamano. Al termine del suo lavoro ci ha svelato che tre brevi parole sono quelle che meglio hanno espresso il cuore del nostro padre verso i suoi figli missionari e missionarie.

La prima parola è «coraggio». Questa espressione poteva significare: avanti, stai tranquillo, stai di buon umore, non preoccuparti. La usa 397 volte nelle sue lettere, soprattutto scrivendo ai suoi figli e figlie nelle lontane missioni dell’Africa. La frequenza di questa parola esprimeva quanto lui quotidianamente coglieva, pregando la «sua» Madonna Consolata. Riconosceva quanto arduo e difficile fosse il compito di aprire una nuova strada all’evangelizzazione e voleva dire loro tutto il suo amore di padre e la protezione materna della Consolata. Un esempio: «Coraggio, dunque. Ti ripeto: coraggio e pensa che io ti amo, anche perché con i voti perpetui sei mio figlio perpetuo. Scrivimi spesso».

La seconda parola è «caro/a», utilizzata 330 volte. Per lui non era un semplice e formale aggettivo con cui aprire le sue lettere. Voleva subito trasmettere con tale espressione la sua vicinanza, condivisione e tutto il suo amore nei riguardi dei suoi figli e figlie. Lui, sempre misurato, con questo termine manifestava tutta la sua carica affettiva, umana e spirituale. E i suoi missionari lo sapevano bene e contraccambiavano con altrettanto affett. Ma questo termine non lo utilizzava solo con i missionari e missionarie: non sono rare le espressioni come: «Cara Consolata», «Cari africani», «Cari defunti», «Caro vicerettore».

La terza parola è «ti benedico» e ricorre, nel suo epistolario, 470 volte. Essa rifletteva non solo il suo dovere di sacerdote, ma anche l’atteggiamento di un «patriarca biblico» che sentiva la sua responsabilità su questo suo «popolo missionario». Scriveva a padre Angelo Dal Canton e a fratel Anselmo Jantet, ritornati dalla loro prigionia in Etiopia nel dicembre 1915: «Tutte le sere senza eccezione vi mandai la mia speciale benedizione con due segni di croce». Dopo la morte dello studente Baldi Eugenio (+14/06/1917) in guerra, scriveva ai missionari: «Nella sua ultima lettera dal fronte mi diceva: “Non so se al giungerle questa mia sarò ancora vivo; in ginocchio le domando la sua santa benedizione”. L’ebbe in tutti i giorni e più volte al giorno». Così anche alle suore missionarie: «La mia benedizione a tutte e a ciascuna».

Tre parole, tre perle, che rivelano il cuore di un fondatore e padre.

padre Piero Trabucco

Periferia di Bonaventura, Colombia


Fiducia nella divina Provvidenza

Padre Lawrence Ssimbwa, missionario della Consolata ugandese, da vari anni lavora in Colombia fra gli afroamericani della costa nella diocesi di Bonaventura, in una realtà di periferia caratterizzata da grande povertà e abbandono dove l’opera di evangelizzazione ha bisogno di appoggiarsi a una profonda fiducia nella Provvidenza.

Tutto nelle mani di Dio

Chiamiamo Divina Provvidenza la preoccupazione di Dio per tutta la creazione o i suoi interventi per mezzo dei quali le creature sono guidate al loro fine. Tutto ciò che Dio ha creato lo conserva e lo governa attraverso la sua Provvidenza.

La fiducia nella Divina Provvidenza è molto evidente nella spiritualità del beato Giuseppe Allamano. Non si può parlare di lui senza metterlo in relazione con essa. Era un esempio di fiducia totale nella Provvidenza perché metteva tutto nelle mani di Dio. Esortava spesso i suoi figli, missionari e missionarie a confidare totalmente del Signore.

Secondo il beato Allamano «fiducia» è sapere che Dio accompagna sempre i piani quotidiani degli esseri umani, e che la vita non dipende solo dai loro sforzi, dalle capacità intellettuali, dalle ricchezze acquisite. Tutto, in larga misura, dipende dalla cura amorevole di Dio che manda la pioggia sui giusti e sui malvagi (Matteo 5,45), per cui noi, come discepoli missionari di Gesù Cristo, lasciamo tutto nelle mani del Signore senza paura.

«Non fondiamo la nostra confidenza nei mezzi umani che sono in noi: talento, forze e virtù ecc., o che sono negli altri. Facciamo sempre quello che possiamo da parte nostra, poi lasciamo tutto nelle mani del Signore, senza timore. Egli lascia mai l’opera a metà» (Così vi voglio, p. 139).

La missione: luogo della Divina Provvidenza

La missione appartiene sempre a Dio e è il suo principale protagonista. Durante tutta la sua vita, Giuseppe Allamano ha chiarito che la missione è la magnifica opera di Dio e dipende interamente dalla sua Divina Provvidenza. I discepoli missionari del Signore sono semplicemente dei collaboratori che agiscono secondo la sua santa volontà.

Lui, come padre e fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata doveva preoccuparsi della loro formazione, ma anche del sostegno materiale dei due istituti in patria e nei luoghi di missione. Tuttavia, non ha mai perso il sonno a causa di questa grande responsabilità perché aveva piena fiducia nella Divina Provvidenza.

Ha detto: «Io non dubito della Provvidenza. Senza questa fiducia ci sarebbe da perdere la testa. Alle volte accade che si arriva a sera e non c’è denaro per una fattura che scade. Ebbene il giorno dopo i denari arrivano e si salda il debito. Vi assicuro che non ho mai lasciato di dormire tranquillamente per questo fastidio» (Così vi voglio, p. 140).

La Consolata è la vera fondatrice

E come riponeva tutta la sua fiducia nel Signore, Giuseppe Allamano confidava anche nella potente intercessione della Consolata. Affermava che Maria Consolata era la vera fondatrice dei due istituti e che lui era semplicemente uno strumento messo da Dio per concretizzare quest’opera. Fondato su questa convinzione attribuiva un po’ tutto all’opera del Signore per intercessione della Consolata.

In innumerevoli occasioni ha parlato dell’amore materno della Consolata per l’istituto: «Sì, noi siamo figli di questa nostra madre tenerissima, che ci ama come pupilla degli occhi suoi, che ideò il nostro istituto, lo sostenne in tutti questi anni materialmente e spiritualmente ed è sempre pronta a tutte le nostre necessità. La vera fondatrice è la Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Come ogni madre si prende cura dei suoi figli e delle sue figlie, così anche la Consolata ha sostenuto gli istituti fondati dal beato Giuseppe Allamano. Ha detto: «Tutto quello che si è fatto è opera della SS.ma Consolata. Ella ha fatto per questo istituto dei miracoli quotidiani: ha fatto parlare le pietre, piovere denari. Nei momenti dolorosi la Madonna intervenne in modo straordinario e questo senza parlare delle grazie concesseci lungo l’anno, anche di ordine temporale, come il pane quotidiano. Sì, anche per questo lascio l’incarico alla Madonna» (Così vi voglio, p. 216).

Il fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata riponeva grande fiducia nell’intercessione materna di Maria Consolata, tanto da affidare tutto alle sue cure. Era convinto che non avrebbe mai smesso di intercedere per i suoi missionari che annunciavano il Vangelo del suo Figlio Gesù, nostro salvatore. Animato da questa fiducia, in diverse occasioni ha detto: «Per le spese dell’istituto non ho mai perso il sonno e l’appetito. Dico alla SS.ma Consolata: pensaci tu!, se fai bella figura sei tu!» (Così vi voglio, p. 217).

Conclusione

Questa è la grande esortazione del beato Giuseppe Allamano ai suoi figli. Con essa ci aiuta a capire che la missione è opera di Dio e dipende interamente da lui. Sta a noi continuare a lavorare, ma con questa incorruttibile sicurezza. La Provvidenza di Dio non ci delude. «Vorrei proprio che i nostri istituti in genere e tutti voi in particolare aveste sempre questa grande fiducia in Dio» (Così vi voglio, p. 141).

padre Lawrence Ssimbwa

Padre Lawrence in visita a una famiglia


Carlo Acutis e Giuseppe Allamano

I missionari e le missionarie della Consolata, ogni anno scelgono un patrono speciale da invocare nella loro preghiera. Quest’anno hanno scelto il beato Carlo Acutis, adolescente morto nel 2006 e beatificato da papa Francesco nel 2020. La sua vita, le sue virtù e i suoi amori evidenziano vari aspetti in comune con la vita e la santità del beato Allamano.

Un giovane di oggi

Il motivo che ci ha indotto a scegliere il beato Carlo Acutis come nostro patrono per l’anno 2023 è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato per l’eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare e nella quale seminare il Vangelo.

Fin da piccolo Carlo manifesta una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.

Innamorato dell’eucaristia

All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». È fortemente innamorato dell’eucaristia, tanto da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’eucaristia è la mia autostrada per il Cielo».

L’infinito come meta

Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Ai primi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa a una semplice febbre o influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San
Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: «Bene, qui c’è gente che sta peggio di me». Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso».

Carlo ama ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo», e spesso dice anche: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per marciare verso questa meta e non «morire come una fotocopia», Carlo dice che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.

I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Sacramentini

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’eucaristia.

Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro beato fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. L’Allamano ci esortava ad essere «sacramentini», ad avere un grande amore per l’eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, a identificarci con il Cristo nel suo mistero pasquale.

La recita giornaliera del santo rosario è per Carlo espressione di delicato amore per la santa Madre di Gesù, di cui il nostro fondatore era innamorato, presentandocela come nostra madre tenerissima, la Consolata.

I social al servizio del Vangelo

La passione di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra famiglia religiosa, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. In nostro padre fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.

Papa Francesco, nei suoi messaggi annuali in occasione della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «Anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti».

Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione oggi.

padre Stefano Camerlengo e suor Simona Brambilla

 

 




Malaria: meglio, ma non basta


Il 25 aprile è la giornata mondiale della malaria, malattia che, nei primi due mesi del 2023, ha già provocato la morte di circa 65mila persone. La pandemia da Covid-19 ha peggiorato le cose ma, anche dopo il ritorno dei servizi sanitari alla normalità, il mondo rischia di mancare l’obiettivo che si era dato per il 2030: ridurre i casi di malaria dagli attuali 60 a 6 ogni mille persone a rischio.

Secondo l’ultimo rapporto sulla malaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, i decessi causati da questa malattia nel mondo non sono aumentati nell’ultimo anno considerato (2021): sono anzi diminuiti a circa 619mila, contro i 624mila del 2020@.

Il risultato non era scontato, perché la pandemia da Covid-19 ha determinato fra il 2020 e il 2021 l’interruzione di servizi di diagnosi, cura e prevenzione contro l’infezione, facendo tornare i decessi ai livelli del 2012, e interrompendo così un ventennio di decremento quasi ininterrotto che aveva visto il suo dato migliore nel 2018, anno in cui morirono per questa malattia poco meno di 567mila persone.

I casi di malaria, si legge ancora nel rapporto, sono continuati ad aumentare tra il 2020 e il 2021, anche se a un ritmo molto più lento rispetto al 2019-2020 e si sono attestati a circa 247 milioni nel 2021, rispetto ai 245 milioni nel 2020 e ai 232 milioni nel 2019.

Quasi la metà delle infezioni sono avvenute in soli quattro paesi: Nigeria (26,6%), Repubblica democratica del Congo (12,3%), Uganda (5,1%) e Mozambico (4,1%). Sempre quattro paesi hanno avuto poco più della metà delle morti per malaria a livello globale: ogni cento decessi, 31 sono avvenuti in Nigeria, 13 in Congo Rd, 4 in Tanzania e altrettanti in Niger.

Dei decessi globali fra i bambini di età inferiore ai 5 anni, 2 su 5 sono avvenuti in Nigeria.

A causare la malaria è un parassita trasmesso attraverso la puntura di zanzare del genere Anopheles (vedi box sul fondo). Un motivo di preoccupazione che il rapporto Oms segnala è la diffusione anche in Africa, negli ultimi dieci anni, della Anopheles stephensi, zanzara capace di adattarsi e diffondersi nei contesti urbani. Originaria dell’Asia meridionale e della penisola arabica, è in grado di trasmettere sia i parassiti P. falciparum che P. vivax e ed è resistente a molti degli insetticidi utilizzati nella prevenzione della malaria.

da www.paginemediche.it

Covid e cambiamento climatico

Secondo il rapporto dell’Oms, le interruzioni dei servizi essenziali contro la malaria durante la pandemia di Covid-19 hanno riguardato soprattutto la distribuzione delle zanzariere trattate con insetticida e il numero di diagnosi e di trattamenti della malattia.

Nel 2020, nei 46 paesi nei quali erano state pianificate campagne di distribuzione, i sistemi sanitari nazionali e i loro partner sono riusciti a distribuire solo poco più di 200 milioni di reti protettive contro i 270 milioni previsti.
In Congo Rd, Eritrea e India, la percentuale non ha raggiunto il 60%; in Kenya non ha superato il 2%, mentre Costa d’Avorio e eSwatini non hanno effettuato alcuna distribuzione.

Nel 2021, i paesi che avevano in programma tali distribuzioni erano 43 e le zanzariere da distribuire 171 milioni. Ne sono state distribuite 128 milioni, cioè solo tre quarti: otto paesi non hanno raggiunto il 60% (Benin, Eritrea, Indonesia, Nigeria, Isole Salomone, Thailandia, Uganda e Vanuatu) e sette paesi (Botswana, Repubblica Centrafricana, Ciad, Haiti, India, Pakistan e Sierra Leone) non hanno distribuito nessuna delle zanzariere previste.

Quanto alle mancate diagnosi, se nel 2018 e 2019 i test effettuati nei paesi dove la malaria è endemica erano stati rispettivamente 392 e 450 milioni, nel 2020 sono diminuiti a 398 milioni e nel 2021 si sono fermanti a 435.

Il calo registrato nel 2020, precisa il rapporto, è stato dovuto principalmente al minor numero di test effettuati nella regione africana (10,5 milioni in meno) e nella regione del sud est asiatico (38 milioni in meno, di cui 37 milioni in India).

Un altro elemento di preoccupazione, rileva il rapporto, è l’effetto potenziale del cambiamento climatico sulla diffusione della malattia. «Nonostante le incertezze su come inciderà sulla malaria, è certo che il cambiamento climatico avrà un effetto sulla distribuzione geografica e sull’intensità e stagionalità delle malattie trasportate da un vettore», come appunto le zanzare.

Lo scorso febbraio, il New York Times riportava uno studio realizzato dagli studiosi del «Centro per le scienze della salute globale e della sicurezza» dell’Università di Georgetown, negli Stati Uniti, secondo il quale «nel secolo scorso le zanzare che trasmettono la malaria nell’Africa subsahariana si sono spostate ad altitudini più elevate di circa 6,5 metri all’anno e si sono allontanate dall’Equatore di 4,7 chilometri all’anno»@.

Un ecologo dell’università della California a Los Angeles, intervistato nell’articolo, ha sottolineato l’importanza di raccogliere dati per capire esattamente come e quanto velocemente le zanzare e altri animali portatori di malattie si stiano muovendo nel mondo. Ci si aspetta che i climi più caldi siano vantaggiosi per le zanzare perché esse, così come i parassiti che trasportano si riproducono più velocemente a temperature più elevate.

© Yofre Morales – disinfestazione contro malaria

Malaria e anemia, la banca del sangue di Dianra

La malaria porta con sé diverse complicanze, che sono più gravi nei bambini e neonati, nelle donne incinte e nelle persone anziane. Fra queste c’è l’ipoglicemia, una riduzione patologica dei livelli di glucosio nel sangue, che dà sintomi come sudorazione, tremori, debolezza e, quando è grave, anche confusione, convulsioni e coma@.

C’è poi l’anemia che si manifesta perché il parassita invade i globuli rossi per riprodursi e ne provoca la distruzione. Nei casi di anemia grave, spiega il dottor Stéphane Gnanago – medico del centro di salute Joseph Allamano gestito dai Missionari della Consolata a Dianra, in Costa d’Avorio – la distruzione dei globuli rossi determina un ridotto «apporto di ossigeno agli organi e ai muscoli e può portare a insufficienza respiratoria, collasso cardiocircolatorio e arresto cardiaco». In contesti come quello di Dianra, uno dei motivi dell’aggravarsi degli effetti della malaria, come l’anemia, è la reazione tardiva da parte dei pazienti: «Le famiglie portano i bambini al centro di salute solo all’ultimo minuto», spiega il dottor Gnanago, «dopo aver tentato di curarli con rimedi tradizionali. E quando arrivano qui, i bambini sono già in condizioni gravi».

Il programma nazionale di lotta alla malaria in Costa d’Avorio, commenta padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata responsabile del centro di salute di Dianra, fornisce test e trattamenti per la malaria in modo gratuito. Ma se i pazienti aspettano troppo prima di andare al centro, le terapie di base non sono più sufficienti. Per questo, continua padre Matteo, «avere a disposizione le sacche di sangue e poter effettuare trasfusioni ci permette di salvare vite: delle 579 sacche di sangue di cui il nostro centro ha potuto disporre nel 2022, solo 9 sono state usate per le donne ricoverate in maternità mentre 570 sono andate ai pazienti del dispensario. Di queste, 556 sono state usate per curare bambini in anemia severa: un’enormità».

© AfMC / Dianrà, Costa D’Avorio

Neisu, ordinaria emergenza

Nel 2021 l’ospedale Nôtre Dame de la Consolata di Neisu, nella Repubblica democratica del Congo, ha effettuato 2.778 test per la malaria, una media di oltre 7 al giorno. La malattia è risultata la prima voce fra le patologie diagnosticate sia in consultazione esterna – 2.482 casi su 4.885 pazienti, il 50,8% dei pazienti visitati – che in medicina interna: 220 pazienti ricoverati su 1.139, il 19%, dati 2021.

In pediatria, la malaria grave e la malaria grave anemica sono di gran lunga la principale causa di ricovero, con, rispettivamente, 732 casi (il 34%) e 520 (24%) su 2.155 bambini ospedalizzati. Su 30 bambini deceduti in pediatria nel 2021, per due la causa è stata la malaria grave e per 15 la malaria anemica grave. Circa tre donne su dieci fra quelle accolte in maternità avevano la malaria.

«L’ospedale», spiega il responsabile Ivo Lazzaroni, missionario laico della Consolata, «è integrato nella sanità pubblica congolese dal 2007, e aderisce ai programmi di prevenzione del sistema sanitario nazionale.

Ogni mese, i 12 infermieri titolari degli altrettanti centri di salute sul territorio vanno a Isiro, capoluogo della provincia dell’Alto Uélé, consegnano i dati sulla malaria e sulle altre patologie monitorate ai funzionari della zona di salute (zone de santé, in francese, articolazione territoriale del Ssn congolese, ndr) e ricevono zanzariere e farmaci (ad esempio il Coartem, a base di artemisina) da portare a Neisu per l’ospedale e i centri».

Le zanzariere sono destinate alle donne incinte, che le ricevono nel corso delle formazioni loro offerte durante le consultazioni prenatali, in cui le ostetriche spiegano alle donne che questi oggetti «non devono venire regalati ai bambini per farci le reti delle porte di calcio», scherza Ivo, «ma sono fondamentali per la loro salute».

E queste formazioni purtroppo non bastano: «Anche noi – spiega Ivo – siamo alle prese, come Matteo, con famiglie che vengono molto tardi a portare i bambini in anemia severa. Purtroppo non abbiamo l’autorizzazione dalla zone de santé a fare le trasfusioni direttamente nei centri e posti periferici, quindi le donne devono portare il bambino all’ospedale. Ma le distanze sono grandi: il nostro centre de santé più lontano è a oltre 60 chilometri dall’ospedale e non è facile per queste madri trovare un passaggio in moto per venire di corsa. Per questo accade a volte che il bambino muoia nel tragitto o poco dopo l’arrivo in ospedale».

Ikonda, restare comunque in guardia

«Qui nella regione di Njombe la malaria non è endemica», spiega padre Marco Turra, responsabile del Consolata Ikonda Hospital, in Tanzania. «I pochi pazienti che abbiamo affetti da questa malattia vengono dalle zone calde, soprattutto da Mbeya e Morogoro. L’anno scorso abbiamo fatto il test a 4.660 pazienti e solo 134 sono risultati positivi», meno del 3%. «Ora che ci troviamo nella stagione delle piogge», continua padre Marco, «solo il mese scorso abbiamo avuto 14 casi: è una malattia molto legata a fattori climatici».

Non essendo Njombe una regione endemica, spesso il problema viene sottovalutato: «Si pensa prima ad altre malattie, poi, se la febbre non passa, si considera anche l’ipotesi di malaria. A volte invece non ci si fida dei test e, in presenza di sintomi compatibili vengono somministrate le terapie. Di recente abbiamo avuto un paziente con una patologia polmonare proveniente da questa regione. All’inizio non si è pensato alla malaria, poi invece è risultato positivo. Ora è guarito».

© AfMC – prelievo di sangue per test malaria al Catrimani, Roraima, Brasile

Aumento dei casi in Amazzonia

La malaria è fra le malattie protagoniste anche del peggioramento delle condizioni di vita del popolo indigeno yanomami, che vive nell’Amazzonia brasiliana e con il quale i Missionari della Consolata lavorano da metà degli anni Sessanta. Durante un’intervista con un’emittente televisiva brasiliana@ padre Corrado Dalmonego, missionario della Consolata che lavora nella missione di Catrimani, nella Terra indigena yanomami da quindici anni, ha ricordato che «nel 2022 si sono registrati 21mila casi di malaria fra gli indigeni yanomami, e l’anno prima erano circa 20mila. Ma nel 2013-2014 i casi erano duemila: sono decuplicati. E alla malaria vanno aggiunte le malattie respiratorie e gastrointestinali».

Fattori responsabili di questa emergenza sanitaria, così definita lo scorso 20 gennaio dal nuovo governo basiliano guidato da
Inacio Lula da Silva, sono l’invasione delle terre indigene da parte dei cercatori d’oro e la corruzione, che ha distratto le risorse finanziarie destinate ai servizi sanitari per le terre indigene: entrambi fenomeni favoriti dal disinteresse e dall’aperta ostilità del governo di Jair Bolsonaro nei confronti delle comunità originarie dell’Amazzonia brasiliana.

Chiara Giovetti

© AfMC / Trasfusioni di sangue a bambini affetti da conseguenze della malaria


Che cos’è la malaria e come la affrontiamo

La malaria è una malattia umana febbrile acuta causata dal parassita Plasmodium che viene trasmesso attraverso le punture delle zanzare femmine infette del genere Anopheles. Due delle cinque specie di plasmodi responsabili della malaria sono particolarmente pericolose: Plasmodium falciparum, il parassita che causa più morti e anche il più diffuso nel continente africano, e Plasmodium vivax, la specie dominante nella maggior parte dei paesi al di fuori dell’Africa subsahariana.

I primi sintomi – febbre, mal di testa e brividi – di solito compaiono da 10 a 15 giorni dopo la puntura infetta; possono essere lievi e per questo difficili da riconoscere. Senza trattamento, la malaria da P. falciparum può progredire in malattia grave o perfino causare la morte entro 24 ore.

La diagnosi avviene con l’individuazione al microscopio dei parassiti nel sangue del paziente (la cosiddetta goccia spessa) oppure, ove il microscopio non sia disponibile, attraverso test antigenici rapidi, che individuano appunto un antigene, cioè una sostanza estranea al nostro organismo – in questo caso una specifica proteina – prodotta dal parassita nel nostro sangue.

La prevenzione avviene attraverso la profilassi comportamentale, che mira a evitare il contatto con la zanzara vettore del parassita e che si basa sull’utilizzo di zanzariere trattate con insetticida e di insetticidi da spruzzare negli ambienti. C’è poi la profilassi con farmaci antimalarici, che prevede l’assunzione di un ciclo completo di questi farmaci nei momenti di maggiore esposizione al rischio di contrarre la malattia, che si sia o meno già infetti.

Infine, dall’ottobre 2021, l’Oms ha anche raccomandato l’uso del vaccino contro la malaria Rts, S/AS01 per i bambini nelle aree con trasmissione da moderata ad alta della malaria da P. falciparum. La prima parte della sperimentazione di fase 3 (2009-2014) del vaccino ha mostrato una diminuzione di oltre la metà dei casi di malaria nel primo anno dopo la vaccinazione e una riduzione del 40% nei 4 anni successivi. Nella seconda parte della sperimentazione di fase 3 (2017-2020) i partecipanti hanno ricevuto il vaccino appena prima del picco della stagione della malaria: la sua efficacia nel prevenire la malattia è stata intorno al 75%.

Il miglior trattamento disponibile indicato dall’Oms, in particolare per la malaria da P. falciparum, è la terapia combinata a base di artemisinina (Act). Altri principi attivi usati sono la clorochina, la meflochina e numerosi altri di cui l’Oms tiene una lista aggiornata nella quale indica anche quali sono consigliati nelle diverse regioni del mondo.

I motivi di preoccupazione relativi alla malaria – resistenze delle zanzare agli insetticidi e del parassita ai principi attivi nelle terapie, mutazioni genetiche nel parassita che inficiano l’affidabilità dei test e la diffusione delle zanzare Anopheles in zone in cui non erano presenti – sono monitorati dall’Oms e consultabili nella «mappa delle minacce»@.

Chi.Gio.

Fonte: Oms

 

 




Otto miliardi


Questa è la soglia superata dalla popolazione mondiale lo scorso novembre. Un dato che va interpretato visto che nei paesi occidentali il numero si sta contraendo, mentre in quelli africani sta aumentando. Con importanti ricadute a tutti i livelli.

Non si conosce se si sia trattato di un nastro rosa o celeste, né su quale porta sia stato appeso, ma le Nazioni Unite sostengono che il 18 novembre 2022, da qualche parte nel mondo, c’è stata una nuova nascita che ha portato la popolazione globale oltre la soglia degli otto miliardi.

La popolazione cresce quando le nascite superano le morti, ma questo risultato può essere ottenuto attraverso una varietà di combinazioni che condizionano fortemente l’età media dei cittadini. Ad esempio, dove l’alto tasso di natalità convive con un alto tasso di mortalità degli adulti, la crescita della popolazione è caratterizzata da un’età media bassa: la popolazione è più giovane (come accade in gran parte dei paesi africani). Se, al contrario, la crescita è caratterizzata da una bassa natalità che si accompagna a una mortalità altrettanto bassa degli adulti, è probabile una prevalenza di popolazione adulta e anziana (come accade, ad esempio, in Italia).

Queste differenze si fanno sentire sul piano economico perché l’età condiziona la capacità di lavoro e, quindi, di produzione.

Storia della popolazione

Nel mondo, la popolazione ha cominciato a crescere in maniera significativa nel 1800 a partire dall’Europa.

Oltre a un’alta natalità (una media di 4 figli per donna feconda), varie altre ragioni hanno contribuito al fenomeno: una migliore alimentazione, città più pulite grazie alla costruzione di sistemi fognari più moderni, scoperte mediche e farmaceutiche che hanno iniziato a limitare la mortalità infantile e adulta. Si calcola che, fra il 1800 e il 1850, la popolazione europea sia passata da 187 a 266 milioni di abitanti, un aumento del 42% che ha fatto parlare di rivoluzione demografica. La crescita demografica, però, non è stata accompagnata da un’uguale crescita di posti di lavoro. Di conseguenza, sono stati tantissimi coloro che hanno scelto di cercare miglior fortuna all’estero. In totale, si stima che, fra il 1800 e il 1930, i migranti europei siano stati 60 milioni, soprattutto verso le Americhe e l’Oceania.

Intorno al 1910 la popolazione europea o di origine europea (includendo Stati Uniti, Canada, Oceania e anche paesi latino-americani di forte immigrazione, come l’Argentina) rappresentava più di un terzo di quella mondiale (contro il 20 per cento di un secolo prima), e cresceva più rapidamente di quella del resto del mondo. Ma poi la corsa è rallentata e, pur con un breve sussulto negli anni Sessanta (conosciuto come «baby boom»), il numero di nascite per donne feconde (tasso di fertilità) è sceso sotto il due: un livello cioè che porta la popolazione a contrarsi.

Nel frattempo, la popolazione stava cominciando a crescere nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo: pratiche come la bollitura dell’acqua, le vaccinazioni e le disinfestazioni con il Ddt nelle regioni malariche, riducevano la mortalità, mentre la natalità rimaneva a livelli sostenuti. Basti dire che nel 1950, in Rwanda, Kenya, Filippine, la media di figli per donna fertile era superiore a sette, mentre in Cina e India era attorno a sei. Fatto sta che, fra il 1950 e il 1987, la popolazione mondiale è raddoppiata passando da 2,5 a 5 miliardi di individui. Un raddoppio in 37 anni non si era mai visto nella storia dell’umanità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Eberhard Grossgasteiger – Unsplash.

Il caso Cina

Dopo il 1987 la popolazione mondiale ha continuato a crescere, ma non allo stesso ritmo perché il tasso di natalità si è ridotto quasi ovunque. A ogni latitudine, ma per ragioni diverse: dove per il diverso ruolo sociale conquistato dalle donne; dove per la maggiore istruzione che ha permesso a esse di avere un maggiore controllo del proprio corpo; dove per la promozione massiccia di anticoncezionali; dove, ad esempio in India, per l’istituzione di premi per tutti coloro che accettavano di sottoporsi a sterilizzazione; dove per il divieto alle coppie di oltrepassare un determinato numero di figli.

Quest’ultima pratica è stata assunta in particolare in Cina nel 1980 quando Deng Xiaoping ha proibito alle coppie di avere più di un figlio. Chi trasgrediva la regola rischiava di perdere il posto di lavoro e di pagare multe esorbitanti. Si poteva addirittura arrivare all’assurdo che il secondo o il terzo figlio non potesse essere registrato all’anagrafe condannando i malcapitati a non avere nessun riconoscimento sociale.

Nel 2015 la regola del figlio unico è stata tolta tornando a quella di due figli che era in vigore durante gli anni Settanta. Poi, nel maggio 2021, è stato addirittura introdotto il permesso di avere fino a tre figli. Troppo tardi. Nel 2022 la popolazione cinese è calata di circa 850mila persone. Secondo le Nazioni Unite, se dovesse persistere la tendenza alla perdita di popolazione, la Cina passerebbe dagli attuali 1,4 miliardi di abitanti a 1,2 nel 2050 e scenderebbe sotto il miliardo entro il 2075. Stando così le cose, già nel corso di questo 2023, l’India dovrebbe sorpassare Pechino come nazione più popolosa del pianeta. Nel frattempo, la Cina è diventato il paese con il più alto numero di anziani: nel 2019 le persone oltre sessanta anni erano 254 milioni; nel 2040  si prevede che saranno 402, il 28% dell’intera popolazione. Con gravi ripercussioni per il sistema economico: la riduzione del numero di persone in età lavorativa potrebbe provocare un calo della produzione, un aumento del costo del lavoro e una crescita vertiginosa della spesa sanitaria e sociale per l’assistenza ai più anziani.

Il caso africano

A livello mondiale il tasso medio di fertilità è di 2,4 figli per donna fertile, appena sopra il 2,1, detto «tasso di conservazione», perché considerato il livello minimo utile a impedire alla popolazione di contrarsi. Ma moltissime nazioni sono ormai sotto questa soglia. In Italia, ad esempio, siamo a 1,24, in Spagna a 1,23, in Corea del Sud addirittura a 0,85. Le Nazioni Unite prevedono che la popolazione di 61 nazioni si ridurrà di almeno l’1% fra il 2022 e il 2050.

Gli unici paesi in controtendenza sono quelli più poveri, soprattutto dell’Africa, continente con un tasso medio di fertilità di 4,3, lo stesso che avevamo in Europa nel 1800.

Secondo i dati della Banca mondiale, relativi al 2020, il primato spetta al Niger con 6,9 nascite per donna fertile. Seguono la Somalia con 6,4, la Repubblica Democratica del Congo con 6,2, il Mali con 6, l’Angola con 5,4, la Nigeria con 5,3. In conclusione, l’Africa subsahariana è l’area del mondo con il più alto tasso di crescita demografica, tanto da aspettarsi un raddoppio entro il 2040, passando da 1,1 a 2,1 miliardi di persone.

Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, la popolazione mondiale continuerà a crescere fino a raggiungere 10,4 miliardi nel 2100, poi dovrebbe stabilizzarsi o addirittura diminuire. Ma continuare a trattare il tema della popolazione mondiale come un tutt’uno non ci dà il vero quadro della situazione. In effetti in tema di popolazione il mondo va diviso in tre fasce: quella a rapida crescita demografica, quella a modesta crescita, quella a crescita zero o negativa. Ognuna di esse presenta i propri problemi e le proprie specificità.

Siamo in otto miliardi. Foto di Sam Chen – Pixabay.

Paesi in denatalità

Nel 2021 si sono contati una quarantina di paesi con crescita negativa, guidati dalla Lituania che ha subito una riduzione demografica dell’1,19%. Fra essi compare anche l’Italia che nel 2021 ha avuto un calo complessivo di residenti dello 0,3% rispetto al 2020. Già nel 2008 il Parlamento europeo aveva lanciato grida di allarme precisando che la denatalità avrebbe voluto dire invecchiamento della popolazione, meno persone al lavoro e quindi meno soldi per sanità e previdenza sociale a causa delle minori entrate fiscali.

Nel 2021 gli over 65 in Italia erano 13,9 milioni e rappresentavano il 23,5% della popolazione totale. Nel 2050 la loro quota è attesa al 34,9%, e c’è chi trema pensando alle difficoltà che ci attendono. Una popolazione di vecchi non può badare a se stessa: senza un’adeguata base di giovani disposta a farsene carico è destinata a soccombere sotto il peso degli enormi bisogni economici, sociali, sanitari, assistenziali.

Nella situazione opposta si trova l’Africa con tre quarti della popolazione al di sotto dei 35 anni, 900 milioni di individui. Quasi metà di loro, 35% dei residenti, è in età da lavoro collocandosi fra i 15 e i 35 anni. E, tuttavia, un terzo dei giovani africani è disoccupato e un altro terzo sottoccupato. Solo il 17% ha un lavoro salariato regolare, ed è lontana la prospettiva che questa quota possa crescere. Ogni anno in Africa il mercato del lavoro vede l’ingresso di 10-12 milioni di nuovi giovani, ma l’offerta di nuovi posti non supera i 3 milioni. Di questo passo, avverte la Banca per lo sviluppo africano, nel 2025 i giovani africani senza alcuna prospettiva di lavoro saranno 263 milioni. Situazione destinata ad aggravarsi considerato che, nel 2050, le persone fra i 15 e i 35 anni in Africa sono attese a 850 milioni. In conclusione, l’unica prospettiva di vita per molti giovani africani è la migrazione, principalmente dalle campagne verso le città e dai paesi africani a più bassa capacità produttiva verso quelli a maggiore capacità produttiva. Già oggi 19 milioni di africani si trovano in un paese del continente diverso da quello di nascita. Ma altri 17 milioni si trovano in continenti diversi dall’Africa.

Il ruolo delle migrazioni

Considerato che il mondo è formato da aree con una penuria di giovani e altre con un eccesso,  sarebbe interesse di tutti un riequilibrio attraverso una maggiore libertà di movimento delle persone. I paesi che stanno invecchiando potrebbero ringiovanirsi e i paesi con molti giovani potrebbero migliorare la propria economia tramite le rimesse degli emigranti. Ma in Europa, e in particolare in Italia, solo pochi hanno messo a fuoco che questa è la strada da battere. Fra essi Tito Boeri che, da presidente dell’Inps, non ha perso occasione per ricordarci il ruolo insostituibile dei migranti: senza i due milioni e mezzo di lavoratori stranieri che pagano le tasse e versano i contributi, il sistema previdenziale italiano non ce la farebbe. Chi invece sembra non averlo capito è la politica che pure avrebbe il compito di individuare i problemi e trovare le soluzioni. Il fatto è che i fenomeni si mettono in moto da soli, e quando la politica li intercetta, spesso succede che invece di gestirli in un’ottica di bene comune li cavalca per fini elettorali. Paradossi della democrazia.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)

Siamo in otto miliardi. Foto di Humberto Chavez – Unsplash.