Cina: esempio per l’Africa?


La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.

Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.

Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.

«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.

Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.

Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.

The 26th Chinese medical team to Benin/Handout via Xinhua (Photo by Ai Fumei / XINHUA / Xinhua via AFP)

Retorica cinese

La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.

«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.

Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.

È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».

Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».

Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.

Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.

«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.

Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».

«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.

L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».

Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.

Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».

(Photo by Tang ke / ImagineChina / Imaginechina via AFP)

Mercenari cinesi

Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».

Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il

think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento».  La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».

Soft power dalla grande muraglia

Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .

La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?

«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.

A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.

C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».

Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.

«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».

Una nuova strategia

Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.

Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.

Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.

Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».

La svolta

«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.

I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».

L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.

Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».

Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».

Marco Bello

Ponte Generale Seyni Kountché, realizzato dai cinesi, inaugurato nel 2022, Niamey, Niger. Foto Marco Bello

 Cina-Africa su MC

China Files

  • È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
  • Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.
  • www.china-files.com

 

 

 




Bielorussia. A scuola di guerra


Il presidente Lukashenko militarizza il paese sotto la pressione di Putin. E anche i bambini vengono addestrati alla guerra. L’esercito promuove giornate e settimane residenziali per insegnare a obbedire, marciare, sparare. Con l’esca di offrire ai minori in condizioni di povertà cibo, luoghi caldi, una prospettiva di futuro.

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina anche dal territorio bielorusso.
Minsk non è entrata formalmente in guerra, ma il suo presidente Alexander Lukashenko, al comando del Paese dal 1994, ha sostenuto pubblicamente l’aggressione del suo alleato.

Finora le truppe bielorusse non hanno attraversato il confine ucraino, ma nelle città c’è una chiara consapevolezza che prima o poi Putin vorrà un contingente che combatta al suo fianco.

La Bielorussia è un paese chiuso, con molte nostalgie sovietiche impersonate da Lukashenko.

Al suo interno cresce una minoranza, soprattutto giovanile, con una forte pulsione europeista, ma la repressione del regime, attuata con spietatezza, tiene sotto controllo la popolazione che è sempre più impoverita e sempre meno libera.

Molti dissidenti sono fuggiti e operano in esilio. Il cambiamento per il quale lottano, però, appare ancora lontano.

Screenshot del Campo Doblest

Campi militari per ragazzi

A causa degli eventi legati alla guerra, dall’inizio del 2022 le autorità bielorusse hanno messo tra le loro priorità quella dell’aumento del numero di soldati.

La generale militarizzazione della società ha coinvolto anche i bambini, minori di 16 anni.

Il loro addestramento militare rientra in una strategia a medio e lungo termine che prevede anche l’eventuale coinvolgimento futuro nella guerra in Ucraina.

I contesti nei quali viene messa in atto la formazione militare, con veri e propri addestramenti alla vita di caserma, sono campi estivi, stage di vita all’aperto, corsi sportivi durante l’anno, attività extrascolastiche, come avveniva in Italia durante il ventennio, con l’educazione dei «balilla», organizzazione giovanile paramilitare del fascismo.

Il regime bielorusso sta effettuando un’intensa preparazione di massa dei bambini alla guerra, iniziando fin dall’età di 6-7 anni.

I «campi militari patriottici», ricadono sotto il controllo delle agenzie militari del paese, in primo luogo del ministero della Difesa, ma vedono anche la partecipazione di istruttori ceceni provenienti dalla Russia.

Lo scopo, poi, non è soltanto quello di addestrare tecnicamente i ragazzi alla vita militare, ma anche di formarli secondo l’ideologia del «mondo russo».

Bambini poveri e marginali

Nella sola estate del 2022 si sono tenuti almeno 480 campi ai quali hanno partecipato 18mila minori, pari al 2% della popolazione sotto i 18 anni.

In particolare sono stati coinvolti bambini provenienti da famiglie che vivono in condizioni di marginalità e di degrado sociale, bambini orfani o in precarie situazioni psicofisiche: sono quelli che non hanno una protezione adeguata da parte delle famiglie, le quali non si opporranno al coinvolgimento in future azioni militari.

Una prassi simile l’abbiamo già vista in atto in Russia, dove la base dell’esercito attualmente impegnato sul campo in Ucraina è composta da giovani provenienti da aree depresse, da famiglie marginali, oppure orfani, senza istruzione e senza accesso agli ascensori sociali.

campo forpost sb news

La denuncia di Our house

L’organizzazione pacifista e nonviolenta Our house, fondata in Bielorussia nel 2002 e ora in esilio in Lituania, ha pubblicato di recente un rapporto per denunciare questo processo di militarizzazione dei minori bielorussi.

Le pagine del report, tradotte in italiano e diffuse nel nostro paese dal Movimento Nonviolento (partner di Our house nell’ambito della «Campagna di Obiezione alla guerra per il sostegno agli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini»), mettono in evidenza la portata del fenomeno raccogliendo dati e informazioni ufficiali diffusi dai media bielorussi, sia governativi che non.

Il campo Doblest

Nel rapporto di Our house è descritto il tono celebrativo con il quale vengono raccontati i campi patriottici militari.

Si legge, ad esempio, sul campo Doblest (Valore), raccontato dall’agenzia di stampa ufficiale del regime «BelTA», che esso è organizzato negli spazi dell’unità militare 3.214 a Minsk, è attivo durante le vacanze scolastiche ogni giorno dal lunedì alla domenica e fornisce ai bambini che vi partecipano vitto e alloggio per l’intera settimana.

Al campo, proposto in sei sessioni, partecipano gli scolari di tutti i distretti della capitale.

I bambini fanno esercitazioni nelle quali imparano a usare e smontare armi, a capire i propri punti di forza e a muoversi, ad esempio, in un bosco.

Ogni giorno vengono addestrati al combattimento, si esercitano a fornire cure mediche militari, imparano a sparare con armi airsoft, pistole ad aria compressa e armi da fuoco vere.

Partecipano a lezioni su come comportarsi in diverse situazioni di emergenza. Inoltre, familiarizzano con i sistemi d’arma e si cimentano nel combattimento corpo a corpo.

In pochi giorni, i bambini imparano ad allinearsi, a costruire rudimentali nascondigli e a prestare il primo soccorso in caso di ferite. Si esercitano a montare una tenda e ad accendere un fuoco senza accendino o fiammiferi. Imparano l’uso delle mappe attraverso attività ludiche come cercare oggetti nascosti in un certo spazio.

Sono gli stessi addestratori a riportare alcune opinioni dei bambini dopo la prima settimana di formazione paramilitare. Tommy, di 7 anni, afferma: «Sappiamo già come montare una tenda, sparare con un fucile ad aria compressa e un’arma airsoft. Ora sappiamo come preparare correttamente un letto militare, abbiamo imparato come un soldato deve tenere in ordine le cose. Qui impariamo la lotta libera e la medicina. Mi ha particolarmente colpito il fatto di aver sparato con una vera pistola».

Il campo Forpost

Un altro campo descritto nel report di Our house che fa riferimento a un articolo apparso sul sito «Sb news», legato direttamente all’ufficio della presidenza della Repubblica, è il campo Forpost (Avamposto) nel quartiere Zavodskyi di Minsk.

Nel sommario, l’articolo di Sb news scrive: «Il gioco “Zarnitsa”, l’apprendimento delle armi e l’orientamento notturno: un ricco programma attende gli scolari al campo Forpost. Per nove giorni, gli studenti dei distretti Zavodskyi e Leninskyi di Minsk seguiranno un corso accelerato di giovani combattenti. I nostri corrispondenti hanno assistito all’inizio della loro insolita vacanza», e prosegue descrivendo il «gioco di simulazione» proposto ai ragazzi il primo giorno: «Confezioni esplosive e granate fumogene in azione. Il nemico sta minando la strada lungo la quale si muove la colonna. L’auto deve spostarsi sul ciglio della strada. I combattenti del dipartimento di ingegneria e guerra sul veicolo corazzato leggero Drakon respingono l’attacco. Viene catturato un sabotatore, ma poi viene scoperto un oggetto esplosivo.

I militari distruggono il dispositivo con una carica superficiale.

Già nel primo giorno del turno militare patriottico, i ragazzi “hanno sentito odore di polvere da sparo” – prosegue Sb news -. Gli studenti erano felicissimi».

English: President of Russia Vladimir Putin meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko at the Constantine Palace in Saint Petersburg, Russia. Date 25 June 2022. Source Meeting with President of Belarus Alexander Lukashenko. Author Presidential Executive Office of Russia

L’appello all’Ue

Alla pubblicazione del rapporto sulla militarizzazione di massa dei minori in Bielorussia, Our house ha affiancato un appello all’Unione europea e alle organizzazioni internazionali per i diritti umani affinché avviino immediatamente una seria campagna contro questa pratica perché, scrive, «se l’Unione europea non compie una serie di passi decisivi, nel giro di 3-5 anni in Bielorussia crescerà un esercito deviato con giovani […] combattenti professionisti che sanno usare le armi da fuoco, fanatici […] [dell’]ideologia del “mondo russo”, giovani senza legami sociali e senza famiglia, ma ossessionati dal desiderio di vendetta […]. La costruzione di muri al confine o altre misure restrittive, come il divieto di rilascio dei visti, non [li] fermeranno […]. Dobbiamo agire immediatamente».

A Vilnius per sostenere i bielorussi

L’organizzazione pacifista che inizialmente lavorava in clandestinità a Minsk, ma poi ha dovuto espatriare per sfuggire alla repressione e ora opera in esilio a Vilnius in Lituania, è guidata da una coraggiosa femminista nonviolenta, Olga Karach (intervista a pag. 58).

Olga è un’attivista, giornalista e politica bielorussa. È stata lei a fondare Our house nel dicembre 2002: inizialmente era un giornale autoprodotto, stampato in uno dei condomini di via Tereshkova a Vitebsk. Nel 2004 si è trasformato in una campagna per i diritti civili nella città.

Mai riconosciuta in Bielorussia, è stata registrata come organizzazione della società civile nel 2014 in Lituania, con il nome di Centro internazionale per le iniziative civili Our house.

Dopo le elezioni presidenziali del 2020 in Bielorussia e le successive proteste, e, ancora di più, dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, un numero enorme di persone in Bielorussia e Lituania ha avuto bisogno di assistenza umanitaria. Our house si è quindi fatta carico di fornirla. Inoltre, continua a monitorare le violazioni dei diritti umani in collaborazione con altre organizzazioni.

Tra queste violazioni, assume un peso sempre maggiore quella del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, aggravata da programmi di militarizzazione di ragazzi e giovani.

Obiettori incarcerati

In Bielorussia gli obiettori di coscienza e i disertori sono perseguitati e incarcerati. Questo ha fatto sì che più di 20mila giovani non abbiano avuto altra scelta se non quella di lasciare il loro Paese e cercare rifugio all’estero.

Un tale movimento di massa di obiettori invia un forte messaggio anche alla Russia: la Bielorussia di Lukashenko finora è stata il più solido alleato di Putin, ma il fatto che i suoi cittadini si rifiutino di partecipare alla guerra è un segno che le narrazioni nazionaliste e militariste, in Bielorussia come in Russia, non sono invincibili.

Mao Valpiana
presidente del Movimento
Nonviolento italiano

Siti:

Intervista a Olga Karach

Rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko

«Il mio nome in bielorusso vuol dire “libertà”, e mi sono data una missione speciale: rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko».

Pensi che l’esercito bielorusso possa partecipare alla guerra in Ucraina?

«Lukashenko sta subendo la pressione politica della Russia, e si sta preparando a farlo, ma incontra una forte opposizione. Sta crescendo, infatti, il numero di pacifisti e obiettori di coscienza nel Paese, sebbene sia molto rischioso. Si va incontro anche alla tortura. Ci sono obiettori di coscienza in carcere per motivi politici e di opinione. Chi può, esce dal paese.

Crediamo che sia ancora possibile rubare l’esercito dalle mani di Lukashenko. Come potrebbe partecipare alla guerra senza soldati?

Chiedo il vostro supporto e la solidarietà internazionale per promuovere il diritto all’obiezione di coscienza e alla diserzione dei bielorussi, per fermare la guerra e impedire il secondo fronte militare contro l’Ucraina».

Quali azioni state mettendo in campo?

«Dal primo marzo, con il supporto delle reti internazionali, noi di Our house abbiamo promosso la campagna “No vuol dire no”, un motto femminista che però si rivolge anche agli uomini che reclamano il diritto di non toccare le armi, di fare obiezione di coscienza o di disertare.

Posso fare un esempio sull’efficacia del nostro lavoro. Il ministro della Difesa ha inviato oltre 43mila cartoline di chiamata alle armi ai giovani bielorussi. Noi abbiamo fatto una campagna di comunicazione forte, e solo 6mila giovani si sono arruolati. È un risultato straordinario, ma pensate a quanto di più potremmo fare con più forze».

Però il regime sembra fortemente nelle mani del dittatore che lo regge con il pugno di ferro.

«Lukashenko ha paura di noi, ha paura di me. Io sono un’attivista per la pace e i diritti umani, una femminista, ma nel mio paese sono considerata una terrorista e un’estremista di alto livello.

Se tornassi adesso non solo andrei in prigione, ma rischierei la condanna a morte.

Lukashenko ha paura di una persona normale come me, di una donna che non ha altro se non una profonda persuasione per la nonviolenza.

Ha paura di altri come me, ha paura dei movimenti pacifisti, ha paura degli obiettori di coscienza e ha paura delle donne del mio paese che possono essere una grande forza contro questa guerra».

In Italia sentiamo parlare poco di Bielorussia. Cosa succede nel Paese?

«Il 20 febbraio scorso abbiamo lanciato un’iniziativa davanti alle ambasciate bielorusse in diverse grandi città europee per chiedere il supporto e il riconoscimento dei nostri obiettori di coscienza e disertori. È stata un’iniziativa di successo che si è svolta anche a Berlino, Amsterdam, Vilnius, Atene. Il giorno seguente Lukashenko ha presentato in Parlamento un decreto, subito approvato, sul tradimento della patria che prevede per i disertori la condanna a morte.

È un fatto gravissimo. Tuttavia, esso ci fa capire che Lukashenko riconosce che il rifiuto della guerra è il vero grimaldello che può togliere consenso al suo regime e a quello di Putin».

Cosa possiamo fare per aiutarvi?

«Sono in esilio in Lituania, tutti noi lavoriamo soprattutto dall’estero e abbiamo bisogno non solo che la nostra voce venga ascoltata, cosa di cui vi ringraziamo, ma di risorse economiche e strutturali per organizzare le nostre attività».

M.V.




I prodotti contenenti Pfas, gli inquinanti eterni


È un dato di fatto che siamo circondati da prodotti d’uso quotidiano contenenti Pfas. Si tratta di sostanze chimiche che apportano ai materiali caratteristiche uniche: impermeabilità, resistenza, antiaderenza. Con una sola controindicazione: sono pericolose.

Ovunque e per sempre. Questi avverbi descrivono due delle caratteristiche principali di un nutrito gruppo di inquinanti chimici, i Pfas (acronimo per PerFluoroAlkyl substances), o sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, che sono ormai ovunque nell’ambiente, nonché nel nostro sangue e nei nostri tessuti, oltre che in quelli degli altri esseri viventi.
In meno di un secolo i Pfas ci sono sfuggiti di mano e oggi sono diffusi dappertutto.

Dove si trovano

Queste sostanze sono da anni utilizzate dall’industria per costruire di tutto, perché con esse si ricavano materiali dalle proprietà eccezionali come l’impermeabilità (sia all’acqua che ai grassi), la resistenza alle alte temperature e l’antiaderenza. Basta pensare al Teflon delle padelle antiaderenti o al Goretex, la membrana presente negli indumenti e nelle calzature impermeabili e antivento.

I Pfas sono presenti anche in strumenti sanitari, saponi, scioline, automobili, schiume antincendio, refrigeranti per frigoriferi, cosmetici, telefoni, elettrodomestici, vernici, batterie, biciclette, intelaiature delle finestre. Inoltre, sono utilizzati come rivestimento per i cartoni della pizza, i bicchieri di carta e gli involucri alimentari, nella concia delle pelli e nel trattamento dei tappeti. Possiamo dire che i Pfas fanno parte della nostra quotidianità e ci facilitano la vita. Ma a che prezzo? Sebbene già da molti anni le aziende costruttrici fossero a conoscenza della nocività di queste sostanze, solo alla fine del secolo scorso e nella prima decade degli anni Duemila la loro pericolosità è divenuta di dominio pubblico in diverse parti del mondo. Nella seconda metà degli anni Novanta, un allevatore residente in West Virginia (Usa) vicino a uno stabilimento della multinazionale DuPont vide morire all’improvviso le sue vacche al pascolo, senza motivo apparente. Da questo episodio prese il via il lavoro pionieristico di un avvocato, Robert Billott, che portò ai processi che resero pubblici i problemi legati a una delle sostanze Pfas capostipiti, cioè il Pfoa o acido perfluorottanoico.

Nel 2006 l’indagine europea Perforce sulla diffusione delle sostanze perfluorate nei fiumi europei, coordinata dall’Università di Stoccolma, portò alla scoperta della presenza in grandi quantità di queste sostanze in diversi corsi d’acqua. Negli anni sono emersi, uno dopo l’altro, diversi episodi di inquinamento, in numerose aree geografiche.

Migliaia di siti contaminati

Negli Stati Uniti il caso più noto di contaminazione «accidentale» è quello verificatosi sulle sponde del fiume Ohio a opera della DuPont, che aveva taciuto per anni sulla pericolosità dei Pfas1. La mancata notifica della tossicità del Pfoa alle autorità governative Usa, costò alla DuPont una class action che portò a una multa di 300 milioni di dollari, più il pagamento di altri 630 milioni per compensare collettivamente più di 3.800 persone, che risultarono affette da una o più patologie Pfas-associate, tra cui: cancro del rene, cancro del testicolo, malattie della tiroide, ipercolesterolemia, colite ulcerosa, ipertensione gravidica (preeclampsia o gestosi).

Sempre negli Stati Uniti, la multinazionale 3M fu ritenuta responsabile di gravi episodi d’inquinamento dell’aria e dei corsi d’acqua attorno ai suoi siti produttivi in Alabama e nel Minnesota.

In Europa, i più gravi episodi d’inquinamento da Pfas si sono verificati in Germania, Regno Unito, Olanda e in Italia.

In Germania, furono sparse migliaia di tonnellate di fanghi contaminati provenienti da cartiere su oltre mille siti agricoli. Con il passare del tempo, queste sostanze si accumularono nelle piante e si dispersero nelle acque di falda utilizzate da almeno cinque milioni di tedeschi. Anni dopo, il monitoraggio della popolazione dimostrò la presenza nel sangue di Pfas (con prevalenza di Pfoa) 4-8 volte superiore nelle persone esposte.

Nel Regno Unito, intorno alla metà degli anni Novanta, si verificò un grave inquinamento da Pfas presenti nelle schiume antincendio utilizzate per l’addestramento dei vigili del fuoco dell’aeroporto dell’isola di Jersey. I terreni e i pozzi attorno alla struttura continuarono ad avere concentrazioni di Pfos (acido perfluorottanoico solfato) superiori a 10mila nanogrammi per litro (ng/litro) ancora dopo oltre vent’anni, dimostrando la persistenza ambientale di queste sostanze.

In Olanda, per decenni i fumi di un grande impianto di produzione di Pfas dell’azienda Chemours (controllata dalla DuPont) di Dordrecht furono liberamente scaricati in atmosfera, ricadendo poi sul suolo. La popolazione ne risultò contaminata sia per via aerea, che attraverso gli alimenti e l’acqua.

A marzo 2023, sono stati pubblicati i risultati di un’inchiesta europea denominata Forever pollution project, condotta da un gruppo internazionale di giornalisti investigativi coordinati dal quotidiano francese Le Monde. Da questa inchiesta è emerso che attualmente sono più di 17mila i siti europei contaminati da Pfas, Italia compresa (riquadro alla pagina seguente).

I danni alle persone

Il meccanismo d’azione dei Pfas nel nostro organismo non è del tutto noto. Tuttavia, si è capito che queste sostanze sono capaci di interagire con i recettori nucleari (Peroxisome proliferator activated receptor, Ppar) che svolgono un ruolo essenziale nel metabolismo lipidico e glucidico, partecipano al controllo dei processi infiammatori associati con l’aterosclerosi e la sua progressione e intervengono nello sviluppo e nel controllo della risposta immunitaria. Nelle sperimentazioni sui ratti Sprague-Dawley nutriti con Pfoa è stata osservata la variazione dell’espressione genetica di 800 geni. I Pfas riescono a legarsi all’albumina del sangue, una delle principali proteine con funzione di carrier di ormoni.

Negli esseri umani, i Pfas si comportano come interferenti endocrini e possono agire sull’apparato riproduttivo maschile (come dimostrato negli adolescenti e giovani adulti residenti nelle zone a maggiore contaminazione nel Veneto, vedere riquadro) e anche su quello  femminile durante il periodo prenatale e dello sviluppo evolutivo.

Una recente ricerca condotta sul sangue di 252 donne brasiliane gravide per rilevare la presenza di 13 diversi composti fluorurati, ha evidenziato una forte associazione tra la presenza di Pfas nel sangue materno e ridotto sviluppo fetale. Quest’ultimo rappresenta un notevole problema, essendo una significativa causa di mortalità e di morbilità perinatale. La prematurità, inoltre, è associata a un aumento della mortalità e della morbilità a lungo termine.

L’esposizione ai Pfas è stata associata, inoltre, alla gestosi e al diabete gestazionale, alle alterazioni del metabolismo lipidico e tiroideo, alle risposte post vaccinazione del sistema immunitario, allo sviluppo ormonale e all’età del pubarca/menarca, nonché all’epoca della comparsa della menopausa.

Bisognerebbe riflettere su questi dati quando si cercano le cause dell’«inverno demografico». Possono anche essere rimosse le cause socioeconomiche che portano alla denatalità, ma se non vengono rimosse quelle che colpiscono l’apparato riproduttore delle persone, il problema non potrà che aggravarsi.

Nel marzo 2017, l’Efsa (Azienda europea per la sicurezza alimentare) ha proposto valori di Tdi (Tolerable daily intake, «dose giornaliera tollerabile», ovvero la dose di una sostanza che può essere ingerita senza apprezzabili rischi per la salute) di 13 ng/kg per settimana (1,8 ng/kg/die) per il Pfoa e 6 ng/kg/settimana (0,8 ng/kg/die) per il Pfos. È necessario che le autorità nazionali ed europee provvedano al più presto ad adottare tali valori senza farsi influenzare dalle lobbies industriali e commerciali che possono vedere minati i loro interessi.

Un futuro senza Pfas

Nel febbraio 2023, l’Echa (Agenzia europea per le sostanze chimiche) ha pubblicato una proposta di divieto per tutti i Pfas. È evidente che bisogna imparare a farne a meno, almeno per tutti quegli usi per cui essi possono essere sostituiti, come negli abiti, negli imballaggi e nei cosmetici.

Rosanna Novara Topino

 Nota

(1) Il dipartimento di tossicologia dell’azienda rilevò già nel 1961 la tossicità dei Pfas a 8 atomi di carbonio sui ratti e sui conigli. Peraltro, il primo studio che dimostrò l’interazione tra lo Pfoa e l’albumina nel sangue risale al 1956 e fu questo a portare la DuPont a interessarsi degli effetti tossici di questa sostanza sulla salute umana.


Dal Teflon al Goretex
COSA SONO I PFAS E I LORO DERIVATI

U na prima definizione di Pfas risale al 2011 a opera di un gruppo di ricerca guidato da Robert Buck, un chimico impiegato alla DuPont di Nemours, secondo cui i Pfas sono composti alifatici, cioè a catena aperta lineare o ramificata, altamente fluorurati con uno o più atomi di carbonio (C) nei quali tutti i sostituenti sono rappresentati da atomi di fluoro (F) e contenenti il gruppo perfluoroalchilico CnF2n+1.

Recentemente, un gruppo di ricerca del Politecnico federale di Zurigo, ha dato una nuova definizione di Pfas intesi come sostanze fluorurate che contengono almeno un atomo di carbonio metilico o metilenico completamente fluorurato (cioè senza alcun atomo di idrogeno, cloro, bromo o iodio). Questo significa che qualsiasi sostanza con almeno un gruppo metilico perfluorurato o un gruppo metilenico perfluorurato deve essere considerata uno Pfas. Chiaramente, con questa nuova definizione, il numero di Pfas in circolazione aumenta molto e, di conseguenza, anche la necessità di conoscerne le caratteristiche, l’eventuale pericolosità e come regolamentarle.

Il primo Pfas, il politetrafluoroetilene (Ptee), fu ottenuto quasi per caso dal chimico della DuPont Roy Plunkett nel 1938, mentre stava lavorando alla realizzazione di un nuovo refrigerante per frigoriferi. Il composto ottenuto mostrava delle proprietà notevolmente interessanti, era scivoloso e insolubile e pochi anni più tardi venne commercializzato con il nome di «Teflon». Nel giro di pochi anni furono realizzati molti nuovi composti Pfas e, dalla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, il loro numero aumentò enormemente. Di alcuni di essi conosciamo le caratteristiche e la tossicità più o meno elevata a seconda del tipo di molecole, ma di altri non si sa nulla. I Pfas più diffusi sono il Pfoa (acido perfluorottanoico), che è stato ampiamente usato come rivestimento per carta e capi d’abbigliamento (il «Goretex») e il Pfos (acido perfluorottansolfonico) usato nelle schiume antincendio, nelle vernici, negli impregnanti per arredi e nei polimeri fluorurati. In entrambi i casi si tratta di molecole a lunga catena di atomi di C, quelle ritenute più tossiche per la salute. Successivamente alcuni di questi, tra cui il Pfoa furono sostituiti da Pfas a catena corta come il cC604 (6 atomi di C), poiché questi vengono eliminati più rapidamente dall’organismo. Il problema è che essi rientrano tra le cosiddette «regrettable substitutions», cioè sostituzioni deplorevoli, perché permangono nell’ambiente indefinitamente, li assumiamo tramite l’acqua e gli alimenti e hanno capacità di bioaccumulo.

I Pfas sono sostanze molto mobili e capaci di diffondersi ovunque. Anche nel caso in cui una di queste molecole non sia considerata altamente tossica, è comunque molto preoccupante pensare ai possibili effetti di un’esposizione continua e per lunghi periodi a essa. Di fatto attualmente non sappiamo quanti siano i Pfas. Le loro proprietà variano a seconda del tipo di catena (corta, lunga, lineare, ramificata) e dei sostituenti presenti, tuttavia sono tutti caratterizzati da elevata stabilità termica, chimica e fisica, dovute al legame tra C ed F, uno dei più forti in chimica organica.

R.N.T.

Italia / Dalla Miteni alla Solvay
QUANDO PRODURRE SIGNIFICA INQUINARE

In Italia, i due principali casi di inquinamento da Pfas si sono verificati a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, dove ci sono i vecchi stabilimenti Montedison, ora di proprietà della multinazionale belga Solvay, e a Trissino, in provincia di Vicenza, dove la Miteni (foto di questa pagina), azienda nata negli anni Sessanta (con il nome Rimar, produttrice di sostanze chimiche per i tessuti e appartenuta in passato alla famiglia Marzotto), produceva Pfoa sotto il controllo della società giapponese Mitsubishi. Entrambe le aziende sono finite sotto processo e ritenute responsabili civili di avvelenamento delle acque e di disastro ambientale.

Emergenza sanitaria nel Veneto

Nel 2012 l’Arpa ha individuato un picco di 120mila ng/litro (nanogrammi per litro) di acido perfluorottanoico (Pfoa) nelle acque di scarico della Solvay di Spinetta Marengo riversate nel fiume Bormida, affluente del Po. A Trissino, la Miteni è stata costruita sopra la ricarica di una falda acquifera, poiché la produzione di sostanze chimiche necessita di acqua per la lavorazione e per il raffreddamento degli impianti. Oltre alla falda, la Miteni ha utilizzato il torrente Poscola, per sversare le acque di raffreddamento, trattate come pulite. In tal modo, i prodotti di sintesi dell’azienda hanno contaminato aria, terreni e acqua di tre province, Padova, Vicenza e Verona per 593 chilometri quadrati. I risultati dello studio Perforce hanno individuato il fiume Po come il più contaminato d’Europa da Pfas (200 ng/l contro una media di 20 ng/l negli altri fiumi europei).

In Germania, dopo che Perforce aveva rivelato una forte contaminazione da Pfas dei terreni, dovuta all’uso dei fanghi industriali inquinati come concimi, sono stati immediatamente posti dei limiti alle acque potabili e di scarico industriale nella misura di 100 ng/l. In Italia, tuttora, mancano limiti nazionali agli scarichi industriali.

Nel 2013 sono stati fissati dei limiti ma solo per il Veneto e nella misura di 500 ng/l (ora ridotta a 330). A ottobre dello stesso anno sono stati presentati i risultati di un’analisi delle acque venete durata cinque anni a opera del Cnr, da cui è emerso che, nelle tre province colpite, c’è la contaminazione da Pfas più estesa d’Europa sia per il quantitativo di queste sostanze, sia perché sono stati contaminati tutti i ricettori cioè la falda, i fiumi e l’acquedotto, che porta l’acqua nelle case di oltre 350mila persone. La regione Veneto ha chiesto aiuto al ministero dell’Ambiente e a quello della Sanità. Per potere continuare a utilizzare i pozzi delle tre province, questi hanno dovuto essere dotati di filtri a carboni attivi. Tuttavia, manca un censimento completo del numero dei pozzi, anche perché i proprietari dovrebbero dotarli di filtri a spese proprie, per cui spesso non li segnalano.

Nel 2015 la Regione Veneto ha disposto la raccolta di campioni di sangue per l’analisi della presenza di Pfas su parte della popolazione, soprattutto agricoltori e allevatori che esportano i loro prodotti, dopo avere suddiviso la zona contaminata in tre colori (rossa A e B, arancione e gialla). I risultati di tale indagine, condotta dall’Istituto superiore di sanità (Iss), hanno rivelato la presenza di 750 ng/l di Pfoa nel sangue degli agricoltori e di oltre 8 ng/l nel sangue di tutte le altre persone testate. Si tratta di una vera e propria emergenza sanitaria, aggravata dal fatto che l’accesso a questo tipo di analisi è limitata dalla Regione Veneto alle sole persone residenti nella zona rossa e nate in determinati anni. Se ne sta discutendo per quanto riguarda gli abitanti della zona arancione.

Nel 2018, la Miteni è fallita, ma i suoi impianti sono ancora lì e la bonifica non è ancora iniziata. Le indagini congiunte dell’Arpav e del Noe (Nucleo operativo ecologico dei carabinieri) hanno dimostrato la presenza di ingenti quantità di scarti di produzione seppelliti nei terreni attorno all’impianto.

Nel sangue

Va, infine, ricordato che, in Italia, sono ancora molto limitati gli strumenti e le metodologie per trovare i Pfas nel sangue. A dicembre 2021, il Policlinico di Milano ha validato un metodo per la misurazione della presenza di trenta diversi Pfas (ma la platea è di 5mila e forse molti di più).

R.N.T.




Padre Mino Vaccari, quando l’amore mantiene giovani


Rumuruti, Kenya. La stanza è piccola. Ci sta una branda e poco altro: tanti libri, letti e riletti. È il regno di padre Mino Francesco Vaccari, testimone dell’essenzialità della vita e dello spirito di servizio ai poveri. Accanto, c’è il piccolo studio: una scrivania, altri libri e alcune foto di scene di vita africana.

Padre Vaccari è missionario della Consolata, novanta e più anni portati bene, oltre sessanta dei quali trascorsi ininterrottamente in Kenya. I suoi racconti, attraverso un linguaggio fluido con un simpatico intervallare emiliano di tanti «capissi», lasciano un segno di memorie profonde. Umanissime.

È originario di Baiso, un paesino del reggiano. Il fascino provato nei confronti dei missionari maturò in lui fin da piccolo, quando, durante la Seconda guerra mondiale, conobbe un sacerdote braccato dai nazifascisti. La sua famiglia lo accolse in casa, nonostante i rischi: «Una grande persona, tormentata dalle mie curiosità di ragazzino vivace». Probabilmente maturò così la sua vocazione, cresciuta tra alti e bassi in un ambiente difficile come quello del seminario negli anni preconciliari.

Tutti gli studi furono portati a termine a Torino, nel seminario della casa madre dei Missionari della Consolata.

La disciplina era molto rigida. «Avevo un debole per l’informazione sportiva. Capissi. Ma dovevo leggere i giornali di nascosto, perché erano considerati stampa clandestina. Il mio debole per il Bologna rischiai di pagarlo caro. Uscii di nascosto dal seminario per andare allo stadio di Torino a sostenere la mia squadra del cuore. Capissi che poteva saltare tutto». Il tifo acceso per i rossoblu è rimasto. Padre Vaccari si concede ancora oggi un po’ di privacy per vedersi le partite del Bologna alla tv. Non ne perde una. Nel 1959 fu ordinato sacerdote. Finalmente, nei primi anni Sessanta, il Concilio Vaticano II aprì la Chiesa alla società. La promozione umana, valorizzata dalla fase postconciliare, rafforzò la missionarietà: «Puntavo fortissimamente a una destinazione in Africa, peraltro subito accolta. Dopo lo studio dell’inglese, a Londra e successivamente nel Galles, partii in nave da Venezia per il Kenya. Una lunga navigazione. Non si arrivava più».

Nella «prima» missione

La sua destinazione era Tuthu, nella prima storica missione della Consolata in Kenya.

Fu una meta importante per i contatti con la popolazione kikuyu. Entrò subito nella loro mentalità e cultura. Da Tuthu si trasferì a Nyahururu, nel cuore della contea di Laikipia, nella terra delle savane, sulla linea dell’equatore, con il compito di studiare attentamente i sistemi scolastici: «La promozione umana nasce proprio nei banchi di scuola».

La maturazione dell’attività missionaria avvenne con i tanti anni da parroco a Tetu, nei pressi della città di Nyeri, sugli altopiani centrali. Con l’aiuto delle suore, che costituiscono tuttora una vera forza della natura, ebbe l’opportunità di entrare a contatto con i villaggi dispersi in un territorio vastissimo, in rapporto diretto con le tribù indigene. «Le suore – spiega con il suo dolce sorriso – mi aiutarono a diventare un missionario tra la gente». Completò così il suo percorso in terra africana. In quel periodo maturarono anche le sue battaglie contro la corruzione, contro i giganteschi conflitti di interesse dei latifondisti, contro lo sfruttamento dei lavoratori: «Capissi, non è concepibile lavorare senza tutele per sei settemila scellini al mese (pari a una cinquantina di euro)».

Capita ancora oggi che quando vede qualcuno in grave difficoltà, padre Vaccari inventi un lavoro pur di dare un po’ di soldi per vivere. Non vuole fare l’elemosina, ma investire sulla dignità della persona. La sua denuncia continua contro le disuguaglianze sociali: «L’economia del Kenya corre a perdifiato, ma i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri».

Verso Rumuruti

foto Gigi Anataloni

Padre Vaccari fu chiamato a servire i Missionari della Consolata in Kenya come loro superiore dal 1987 al 1993. Ma amava stare tra la gente: ormai la sua gente. Così, finito il suo secondo mandato nel 1993, maturò la nuova destinazione, quella di una missione molto povera e allo stadio iniziale, Rumuruti, facendo la staffetta con padre Luigi Brambilla (brianzolo, classe 1939, ora a Tuthu, dove padre Mino aveva cominciato) che nel 1991 ne era diventato il primo parroco, ma era stato eletto vice superiore regionale. All’inizio di quello stesso 1993 era venuto a mancare padre Giuseppe Ricchetti (classe 1933 di Fiorano Modenese), il quale, grazie al grande cuore di tanti benefattori emiliani, aveva costruito pozzi, scuole, dispensari, fino all’ultimo gioiello: la missione di Banana Hill nella periferia nord di Nairobi.

Rumuruti, la missione sulla remote route (strada remota, da qui il nome) che da Nyahururu portava verso il nord, a Maralal nel Samburu, nacque dal nulla, come cappella della missione di Nyahururu. Quando padre Mino vi arrivò, c’erano sì una chiesa e una casetta per i missionari, ma la povertà attorno era immensa, alimentata anche da tanti conflitti tra i vari gruppi tribali per il controllo delle terre un tempo monopolio dei grandi proprietari terrieri bianchi.

Un ponte con l’Italia

Padre Vaccari ereditò nel 1993 la grande impresa umanitaria avviata da padre Richetti. Un’area economicamente forte, come quella del distretto emiliano della ceramica, si è stretta attorno ai missionari per sostenerli nelle loro attività. A Rumuruti c’è tanta Italia. E l’avventura continua anche oggi con l’impegno solidale della onlus «Africa nel cuore», una rete molto estesa di volontariato, con sede a Fiorano Modenese. Scuola, formazione, cultura e sanità sono le parole che costituiscono il motto che trascina tante iniziative. E la strategia di padre Vaccari è precisa: «I poveri devono avere le stesse opportunità dei benestanti. Il diritto allo studio vale per tutti, così come quello alla sanità».

I cambiamenti sono evidenti e la popolazione locale è pronta per assumersi le proprie responsabilità: «Il futuro è loro. È necessario un nostro passo indietro, perché la terra è degli africani e noi non siamo neo colonizzatori».

Lui però resterà in Kenya, senza creare imbarazzi, anche se ad agosto saranno 93 gli anni sulle spalle: «Non sarò ingombrante, ma non saprei proprio dove andare. Non posso lasciare la mia terra, che ormai è l’Africa». Sono stati così trovati degli spazi di convivenza: «Io sosterrò sempre le loro attività, senza disturbare». E indica orgoglioso la strada maestra: «Il bene della Chiesa è papa Francesco. Lui ci riporta concretamente al Vangelo».

Ora che ha compiuto un capolavoro lungo oltre sessant’anni, al tramonto si ritira per giocare a carte con gli amici più stretti.
E, mentre batte il fante, trova il modo di raccontare qualche aneddoto di vita vissuta.

Vanna Paltrinieri, Annie Munyi, Renato Chiarotto
 e Chiara Vimercati

Per un approdondimento su Rumuruti

Rumuruti, missione di frontiera.
Vangelo ed educazione. Sviluppo e pace.
Dossier MC 3/2015




MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio


Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Scuola e sanità prima di tutto

La distribuzione delle donazioni per ambito di intervento ricalca abbastanza quella dei due anni precedenti, con le iniziative per sanità e istruzione a rappresentare da sole quasi il 40% del totale. Caratterizzata dal lavoro
dei quattro grandi ospedali (Ikonda e Makiungu in Tanzania, Wamba in Kenya e Neisu in Rd Congo) e dei due centri di salute (Dianra e Marandallah in Costa d’Avorio) in Africa, la sanità ha ricevuto 854mila euro (22,7% del totale), mentre l’istruzione – dall’asilo all’università – ha ottenuto quasi 657mila euro (17,5%).

Intorno al 3% si collocano poi le attività con i popoli indigeni, gli interventi che mirano a creare sviluppo economico e le iniziative che garantiscono alle comunità locali l’accesso a fonti d’acqua pulita e affidabile.

Questi tre ambiti hanno raccolto rispettivamente 124mila, 118mila e 117mila euro, mentre la formazione professionale, cioè quelle attività formative che forniscono competenze a persone che si trovano ormai al di fuori di un percorso scolastico – corsi di sartoria, informatica di base, gastronomia, e simili – hanno ottenuto 28mila euro, lo 0,8%.

Emergenze quotidiane

Una voce consistente è certamente quella che raggruppa ambiti non riconducibili a quelli già menzionati e che ha ottenuto un sostegno complessivo di 534mila euro, il 15% del totale.

All’interno di questa voce, il 2022 ha visto un robusto sostegno alle attività a carattere religioso, fra cui la costruzione o ristrutturazione di chiese, la copertura dei costi di formazione dei nuovi missionari nei seminari, la fondazione di una nuova missione, la formazione permanente dei missionari di ogni età. La maggiore novità del 2022 all’interno di questo gruppo di ambiti è invece la realizzazione di interventi di emergenza in sostegno ai rifugiati ucraini, prima solo in Polonia poi anche in Ucraina.

Le spese di amministrazione e funzionamento  della Onlus sono state pari al 12,5% del totale (469mila euro)

Il sostegno generico è stato di 314mila euro, l’8,4%. Si tratta, in quest’ultima voce, di un tipo di aiuto che è difficile ricondurre alla logica dei progetti o, comunque, degli interventi strutturati e organizzati, perché sostiene quella parte del lavoro dei missionari che consiste nell’assistenza immediata a persone che affrontano una difficoltà improvvisa e temporanea: un (o, più spesso, una) capofamiglia che perde il lavoro, un malato che non può pagare le cure mediche e tantomeno i farmaci necessari, un contadino o un pastore che ha perso tutto a causa della siccità o di razziatori. Piccole e grandi emergenze quotidiane che le persone affrontano anche bussando alla porta della missione per chiedere aiuto e, quasi sempre, cercando di ricambiare appena è loro possibile.

Congo, progetti salute

Ospedale di Neysu, Congo RD (AfMC)

La Repubblica democratica del Congo è, fra i Paesi di missione, il secondo per offerte ricevute: quasi 532mila euro, dopo i 955mila della Tanzania. È anche il paese in cui si sono svolti tre dei sei progetti in evidenza, interventi significativi che nel bilancio sociale illustrano ciascun ambito di intervento.

Il progetto dell’ambito salute è in realtà un insieme di interventi che si sono svolti all’ospedale di Neisu, nella provincia dell’Alto Uélé, Congo orientale. Hanno interessato la cardiologia, la maternità e l’ortopedia, oltre al trasporto di operatori e pazienti.

«La cardiologia è completa», confermava a maggio da Neisu il responsabile dell’ospedale, Ivo Lazzaroni, laico missionario della Consolata. «Facciamo una trentina di elettrocardiogrammi al mese mentre gli esami eco-doppler per ora sono meno e quasi solo per pazienti che vengono da Isiro», il capoluogo, 70 chilometri più a ovest: «Il costo dell’esame, 25mila franchi congolesi (circa 12 euro), dissuade tante persone dei villaggi qui in foresta».

Ma la sensibilizzazione dei pazienti sul ruolo della prevenzione nelle malattie del sistema cardiovascolare, che la dottoressa e le due infermiere formate a Kinshasa affiancano al lavoro di diagnosi e cura, sta iniziando a dare frutti: «Qui si usa tanto olio di palma e sale, per cui le ipertensioni sono frequenti. Le persone, però, stanno iniziando a capire: lo vediamo anche dal fatto che sempre più spesso decidono di comprare i farmaci per le malattie cardiovascolari che vengono loro prescritti, anche se hanno un costo elevato per il livello di reddito locale».

La maternità ha poi ricevuto una seconda incubatrice, «perché la precedente non funzionava più e non è stato possibile ripararla. È una grazia di Dio: ci sono dei bambini nati prematuri o sottopeso che ne hanno davvero bisogno». Ivo sta attivandosi per procurarne un’altra, perché quella attuale deve a volte ospitare più di un bambino.

Infine, la formazione in chirurgia ortopedica e traumatologia, che un medico e un infermiere dell’ospedale stanno seguendo a Kinshasa, permetterà di trattare con più efficacia i pazienti con fratture. «Molti di loro», dice Ivo, «se le procurano cadendo dalle palme, dove salgono a raccogliere i frutti per produrre l’olio. Se si rompe un ramo, o si incontra un serpente, si possono fare cadute disastrose. Se riescono a sopravvivere, i pazienti si trovano con fratture scomposte che non solo devono essere operate, ma richiedono mesi di fisioterapia». Il costo totale di questi interventi, che include anche l’acquisto di sei piccole moto per il personale sanitario dei centri periferici e per il trasporto dei pazienti, è stato di circa 44mila euro.

Baayanga, bambini pigmei a scuola (AfMC/Flavio Pante)

Scuola a Bayenga, mattonelle a Kinshasa

Sempre in Congo, padre Flavio Pante sta avviando la costruzione di una scuola a Bayenga, 140 chilometri circa a sud est di Isiro. Qui i Missionari della Consolata lavorano dagli anni Novanta con i Pigmei bambuti, per favorirne il dialogo, storicamente difficile, con la popolazione di etnia bantu e accompagnarne il percorso di ricerca di un modo di vita che rispetti la loro cultura e il loro legame con la foresta ma, allo stesso tempo, non li escluda dalla partecipazione alla vita della società congolese, fatta più di sedentarietà e di agricoltura che di nomadismo e caccia.

«Non sono uno da grandi progetti», scherzava in una lettera padre Flavio lo scorso maggio, «vado avanti con quello che ho, secondo la realtà del posto e i suoi tempi». Con l’aiuto di familiari, donatori privati, enti ecclesiali e organizzazioni amiche, padre Pante ha raccolto 9mila euro con cui costruirà nove classi che possono contenere fino a 80 allievi l’una, «limite posto dal regolamento scolastico del Congo. Ora più della metà del totale degli allievi è ospitato in un’altra scuola con orari a turni, ma stanno stretti e vivono diversi disagi». Le aule saranno in legno con tetti di lamiera e pareti in fango, rivestite di cemento per riparare le classi da vento e pioggia. «Sempre se il cemento sarà accessibile», precisa padre Flavio: perché «la situazione del Kivu», dove sono in corso violenti scontri fra l’esercito congolese e i ribelli del gruppo M23@, «porta per noi grosse difficoltà negli approvvigionamenti e un grande aumento nei prezzi».

A Kinshasa, nel quartiere di Mont Ngafula, padre César Balayulu ha infine realizzato con 2mila euro un microprogetto di recupero delle bottiglie di plastica, che vengono sciolte per produrre mattonelle da pavimentazione. «L’idea mi è venuta guardando un’iniziativa simile portata avanti dai gesuiti non lontano dalla nostra missione», spiegava a maggio padre César. «Vista la quantità enorme di bottiglie disperse nell’ambiente a Kinshasa, ho deciso di coinvolgere trenta persone fra giovani e donne della zona e cominciare». Questo potrebbe essere un progetto pilota, da ampliare almeno con l’acquisto di un apposito forno elettrico chiuso, per ridurre al minimo le esalazioni derivanti dallo scioglimento della plastica, spiega César. «I risultati sono incoraggianti: i torrenti d’acqua che si formavano nella zona intorno alla parrocchia con le violente piogge tropicali, prima scavavano il terreno. Da quando abbiamo messo il pavé fatto con la plastica delle bottiglie, l’erosione si è molto ridotta». Non solo, aggiungeva padre David Bambilikpinga Moke, superiore regionale del Congo: «Non trovando più le bottiglie a ostruire canali e fossi, durante le piogge, l’acqua defluisce più facilmente verso il fiume».

Distribuzione di cibo donato dai Missionari della Consolata in Polonia ai Frati Francescani Albertini di Zaporizia (AfMC/Luca Bovio)

La Polonia e l’emergenza Ucraina

Sin dai primi giorni di marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e la fuga di milioni di persone nei paesi limitrofi, i Missionari della Consolata in Polonia hanno cominciato a organizzare l’accoglienza per i profughi, in collaborazione con la parrocchia di Santa Margherita in Łomianki vicino a Varsavia e la Caritas. Nei mesi successivi sono poi cominciate anche le missioni per portare aiuti in territorio ucraino. Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha partecipato a queste missioni insieme a don Leszek Krzyża, direttore dell’ufficio di aiuto per le chiese dell’Est presso la Conferenza episcopale polacca: grazie anche ai 51mila euro raccolti da Mco, padre Luca, don Leszek e le tante persone che hanno collaborato con loro, sono riusciti a portare cibo, prodotti per l’igiene, generatori nelle città di Kijew, Charnichow, Karkiw, Dniepr, Zaporiza, Kherson, Mikolaj, Odessa, Leopoli@.

A maggio scorso padre Luca Bovio, confermava il persistere della situazione di emergenza, specialmente nelle zone prossime al fronte. «Non ci sono più spostamenti di persone verso la Polonia, ma continuano quelli interni all’Ucraina, anche perché il governo invita le persone che vivono vicine alle zone di scontri a spostarsi». Non tutti, però, raccolgono l’invito, perché non se la sentono di lasciare i luoghi dove sono nati e cresciuti, ma anche perché la primavera è tempo della semina, e mancarla significa trovarsi senza provviste il prossimo inverno. «Così, in occasione di un viaggio nei pressi del fronte mi è capitato di assistere a scene quasi surreali, con i missili russi che cadevano a 500 metri da me mentre, a due chilometri nella direzione opposta, un contadino arava la terra sul suo trattore». Non ci sono lati positivi nella guerra, conclude padre Luca, ma la solidarietà che è emersa in questi mesi con la mobilitazione di così tante persone fra Polonia, Italia, Usa, Canada, aiuta tanto e dà speranza.

Bambini a colazione nel Baixo Cotingo ( AfMC/foto Francesco Bruno)

Acqua e popoli indigeni

Fra i progetti per garantire alle comunità l’accesso all’acqua c’è lo scavo di un pozzo artesiano che si sta svolgendo a Baixo Cotingo, nella Terra indigena Raposa Serra do Sol (stato di Roraima, Brasile), dove la siccità degli ultimi anni priva la comunità di Camará dell’acqua durante l’estate, mentre d’inverno il sistema di canali che porta l’acqua a valle dalle montagne vicine è spesso bloccato da foglie e detriti.

«Il pozzo artesiano è già stato perforato a una profondità di 64 metri», scriveva a maggio padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata, «e ha fornito acqua sufficiente per l’intera comunità indigena di Camará, che ora può bere e utilizzare acqua pulita e potabile, non contaminata dal mercurio usato nell’estrazione mineraria illegale ancora in corso nella zona»@.

Il lavoro con i popoli indigeni del Venezuela, infine, continua ad accompagnare i Warao nell’affrontare le tante difficoltà legate alla più generale situazione del Paese@ e alla particolare condizione di emarginazione delle comunità indigene (cfr. articolo pag 10).

«Lo Stato venezuelano ha praticamente abbandonato le scuole delle comunità che vivono nella zona del reticolo di canali e corsi d’acqua minori (caños) del fiume Orinoco», scriveva lo scorso aprile padre Andrés García Fernández, missionario della Consolata nella missione di Nabasanuka e responsabile del progetto. Andare a scuola in queste zone è già peraltro molto complicato: «A causa delle grandi distanze, che devono essere coperte in curiara (canoa), insegnanti e bambini sono spesso assenti dalle lezioni».

A questo si aggiungono le difficoltà economiche di molte famiglie, costrette a rivolgersi alla missione per avere vestiti usati; e la mancanza di igiene combinata con l’assenza di strutture sanitarie adeguate e farmaci in grado di contrastare la diffusione di malattie come amebiasi e altri parassiti intestinali, infezioni della pelle, delle vie respiratorie, delle vie urinarie, micosi.

Il progetto Dignità per il popolo warao, si concentra su tre linee strategiche: alfabetizzazione, attività generatrici di reddito e salute. Finanziato da donatori privati con 5mila euro nel 2022, cerca di sopperire alle mancanze del sistema educativo con la distribuzione di materiale scolastico e la trasmissione del sapere tradizionale dagli anziani ai bambini. Fornisce inoltre formazione a 80 donne in tecniche sartoriali e sensibilizzazione su temi igienico sanitari per promuovere la prevenzione e la conoscenza delle piante officinali.

Chiara Giovetti

 




Opere tutte

Come mai quegli uomini non bruciano? Gettati nella fornace ardente, le fiamme non li consumano. E cantano.
Cerco di comprendere le parole che pronunciano: benedicono il loro Dio. E domandano a ogni cosa, ogni essere, ogni uomo, di fare altrettanto: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3, 57).

Come possono esaltare un qualsiasi dio le acque, i cieli, le stelle, il sole, i venti, il freddo e il caldo, la luce e le tenebre, i monti e le colline? E le creature che germinano sulla terra, i mostri marini, gli uccelli dell’aria, gli animali tutti, selvaggi e domestici?

Certo, i figli dell’uomo sì, potrebbero lodare il loro Dio.

E, per lo stupore che provo, sono tentato anche io, abituato a dominare ogni cosa con il mio potere, di sentirmi creatura capace di gratitudine verso un altro. Verso l’Altro che, creando tutto, ha creato anche me, amando tutto, ama anche me.

Li osservo, mentre lodano il loro Dio che li sta salvando dalla fiamma.

E, ascoltando la loro lode, lo vedo con i miei occhi: sotto forma di angelo, tra le fiamme, assieme a loro.

Io che sono re, signore di tutto ciò che il mio sguardo può contenere, non andrei mai tra le fiamme per i miei servi. Lui sì. E forse lo farebbe anche per me.

«Lodate il Signore perché egli è buono, perché il suo amore è per sempre». Perché il suo amore è per sempre, e per ogni creatura, dall’acqua al pesce, alla mia nostalgia di Lui; dalla pietra all’abisso che egli penetra con il suo sguardo, al mio cuore.

Buona immersione estiva nelle opere del Signore,
buona benedizione di Lui e della vita abbondante che ha messo in te,
da
amico

Luca Lorusso

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Mondi perduti


Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.

La storia che racconta è semplice, perché, quando si parla di chi vive a contatto con la natura, le narrazioni si fanno semplici.

Virginio e Sisa sono due anziani quechua che vivono isolati sull’altipiano boliviano. La loro età avanza e, con essa, il cambiamento climatico che desertifica i pascoli già stentati di quelle altezze. La loro piccola mandria di lama non ha più cibo.

Virginio ogni giorno deve allontanarsi chilometri da casa per trovare poche radure erbose, e deve raccogliere acqua al villaggio, cosa mai successa prima.

Una malattia completa il quadro.

Nelle inquadrature spaziose, lente, non si legge la maestà della natura, ma l’inquietudine per un ambiente che è cambiato in modo irrimediabile e per il quale nessuno sembra preoccuparsi. Tant’è che il nipote di Virginio e Sisa non sa proporre ai nonni nulla di meglio che la scelta già fatta da suo padre: andare a vivere in città.

I due anziani non si rassegnano, ma, con la siccità, anche la mandria di lama perde valore: lo scopo di una vita si dissecca in un’istantanea arida e desolata.

Virginio e Sisa sono personaggi interpretati da due veri quechua: non sono attori. Un’operazione, questa di Loayza Grisi che ricorda il neorealismo italiano.

I loro sguardi, le carezze, l’affetto che si scambiano, sono reali, e questo è ancora più dilaniante: la vita che vediamo sullo schermo è davvero la loro.

«Utama», in lingua quechua, vuol dire «la nostra casa». Una casa che, per colpa di qualcuno tanto distante che non si sa neppure nominare, diventa inospitale.

Lunana alla fine del mondo

C’è un altro film che si dovrebbe guardare subito dopo Utama (anche per tirarsi un po’ su di morale): è Lunana: il villaggio alla fine del mondo, girato da Pawo Choyning Dorji in Bhutan nel 2019. Attenzione: se siete riusciti a resistere al fascino della Bolivia inaridita, non ce la farete con le vallate del Bhutan (un paese grande come un pisello schiacciato tra il materasso Cina e il pavimento India, in mezzo alla catena dell’Himalaya) e sognerete di andarci a vivere.

La trama del film è molto semplice: un maestro elementare viene inviato dal governo a insegnare in un villaggio letteralmente «alla fine del mondo». Tanto in fondo al mondo che la neve interrompe le comunicazioni per sei mesi l’anno e impone al giovane maestro una decisione: accettare l’incarico e restare, oppure tornare indietro prima che la neve lo blocchi.

Il villaggio è così povero che la scuola è una stanza vuota, non ha i vetri, la lavagna, i gessetti.

Per il maestro, inizialmente, la scelta da fare è chiara: tornare alla civiltà al più presto. Ma qualcosa, forse l’estrema gentilezza degli abitanti del villaggio, forse il fatto che loro per primi capiscono il disagio di un forestiero, lo convince a restare.

La trama del film è elementare, eppure la magia che emana è preziosa, imperdibile. Fa davvero venire voglia di andare a cercare quella valle sperduta per vivere più intensamente, perché, quando non hai più le protesi dei telefoni, televisori, social media, e tutti i surrogati di vita di cui ci dotiamo, la vita si fa più intensa, i rapporti più sinceri e intimi.

Altiplano

I film sui mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando, non sono molti, ma scuotono profondamente.

«Altiplano» di Peter Brosens e Jessica Woodworth, prodotto nel 2009, è uno di essi.

Decisamente più crudo dei precedenti, racconta l’ennesimo oltraggio alle terre e popolazioni ancestrali peruviane, avvelenate dai liquami di una miniera, simbolo per eccellenza dello sfruttamento umano della natura.

La popolazione subisce, si ribella, si vendica. Tutto molto triste. Ma drammaticamente vero.

«Altiplano» è un film difficile, non concede nulla di leggero. È un monito per tutti, per ricordarci sempre quanto l’essere umano sappia essere devastante.

Oltre la storia vediamo le spettacolari Ande, la loro impassibile maestà che sembra osservare le tristi vicende umane da un’altra dimensione.

Un invito ad andare oltre, con il pensiero e le azioni.

La ballata di Narayama

L’ultimo film che vogliamo proporvi sul rapporto tra gli esseri umani e la natura è La ballata di Narayama, una pellicola giapponese del 1983 di Shôhei Imamura, Palma d’oro a Cannes.

Orin è una donna settantenne che, prima di recarsi sul monte Narayama, come è tradizione, per lasciarsi morire, «mette a posto» la sua famiglia, procurando, con un ultimo sforzo, il necessario per la loro vita.

La sua vicenda è l’immagine di una diversa interpretazione della vita, la quale non si riduce, come per noi, ad accumulare anni e cose, ma è un darsi agli altri sapendosi ritirare quando è il tempo giusto.

Un film toccante, certamente non facile, ma che ci interroga profondamente sul senso che diamo al nostro vivere.

Dario Cambiano
Centro studi Sereno Regis




Il Niger adotta un nuovo inno nazionale, per smarcarsi dal passato coloniale


Il 22 giugno scorso, l’Assemblea Nazionale (Parlamento) del Niger ha votato il nuovo inno nazionale, che sostituisce «La Nigérienne» (La nigerina), scritto dal francese Maurice Albert Thiriet nel 1961. Il paese saheliano, indipendente dal 1960, ha finalmente un inno nazionale scritto da musicisti nigerini.

Il nuovo inno, dal titolo «L’onore della patria», «descrive le ragioni che fanno l’unità del nostro popolo, la comunità di destini e di ideali di condivisione, perché noi vogliamo ritrovare, creare un nuovo Niger», racconta Amadou Mailallé, presidente del comitato che ha redatto il nuovo inno.

Il contenuto parla anche della chiamata alla patria, alla cittadinanza e alla fraternità. Il cambiamento è stato fortemente voluto dagli studenti universitari. In effetti, «La nigérienne», era troppo segnato dal passato coloniale del paese.

Il Niger, 1,2 milioni di chilometri quadrati, di cui tre quarti di deserto, è uno dei paesi più poveri del mondo (con l’indice di sviluppo umano tra i più bassi sulla scala di 191 paesi). Allo stesso tempo, ha un tasso di fecondità medio tra i più alti, circa 6,8 figli a donna (in discesa dai 7,2 del 2021). è abitato da circa 23 milioni di persone di otto etnie principali.

Il Niger è uno dei maggiori produttori di uranio al mondo, e ha anche risorse petrolifere, attualmente sfruttate da una compagnia cinese.

Il Paese è oggi strategico, anche per l’Europa, perché il suo territorio è diventato, negli ultimi anni, un crocevia per i migranti da Africa occidentale e centrale verso la costa del Mediterraneo, attraverso Algeria, Tunisia e Libia.

Marco Bello

Il ponte Kennedy, sullo sfondo i palazzi amministrativi e hotel del centro di Niamey. Foto Marco Bello




Sommario rivista luglio 2023

La rivista è online dal 10 luglio.


Editoriale

La missione sfida i missionari

Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.

Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.

Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.


Dossier

Riflessioni sulla Guerra a vent’anni dall’invasione dell’Iraq

Menzogne, attori e comparse delle «nostre» guerre tutto sarà dimenticato?

(Photo by Jewel SAMAD / AFP)

Sono passati vent’anni dall’invasione degli alleati in Iraq. Una guerra giustificata con una menzogna, e alla quale si opposero milioni di pacifisti in tutto il mondo. Ma a nulla valse. Meccanismi che si sono ripetuti in molte guerre volute dall’Occidente. Mentre i paesi che cercavano una soluzione negoziale (spesso possibile), venivano messi all’angolo.

Venti anni fa, nel mese della guerra, l’offensiva anglo-statunitense «Iraqi Freedom» contro l’Iraq iniziava con una campagna di bombardamenti aerei. Malgrado tutto. Malgrado l’inedito rifiuto popolare espresso nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo (il New York Times parlò di «seconda superpotenza mondiale», a indicare la prima manifestazione planetaria contro un conflitto). Malgrado l’opposizione di importanti paesi anche in Occidente e nel mondo arabo. Malgrado, infine, l’evidente falsità del pretesto bellico: il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. Eppure, il Paese fu bombardato, invaso, occupato. E nessun capo politico militare fu in seguito punito per questo. Meccanismi molto simili (senza però la presenza di milioni di pacifisti nelle strade) si sono verificati nelle altre guerre mosse dall’Occidente e alleati a partire dal 1991. Per un totale (vedi scheda a pag. 41) di 6 milioni di morti. Più la distruzione dei paesi nel mirino, gli spostamenti di popolazioni, il dilagare del terrorismo.


Articoli

Tra gli indigeni del Venezuela. Nove anni con i Warao

Foto Wysocki Pawel – Hemis.fr – AFP.

Juan Carlos Greco, missionario argentino, ha lavorato lungamente tra i Warao, popolo indigeno del Delta Amacuro, in Venezuela. Da qualche mese opera a Boa Vista, Roraima, dove molti indigeni sono immigrati, spinti dalla necessità e per iniziare (o provare a iniziare) una nuova esistenza. In queste pagine, padre Juan Carlos Greco ricorda gli anni trascorsi nelle loro terre.

Da quest’anno sono a Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima. Nei precedenti nove anni ho vissuto tra i Warao del Venezuela, quasi sempre nel loro habitat tradizionale: i canali del rio Orinoco, nello stato del Delta Amacuro. Oggi,  i Warao si possono incontrare in paesi inaspettati – da Cuba a Trinidad e Tobago -, luoghi spesso raggiunti dopo viaggi avventurosi.

Gli anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno lasciato un piacevole ricordo e molteplici insegnamenti che sarebbero sufficienti per scrivere un libro. In queste pagine, però, mi limiterò a evidenziare alcuni pensieri e sentimenti legati a quelle che io chiamo «le tre “o”» dei Warao: oralidad, oyentes y orgullo, che, in italiano, diventano «oralità, ascoltatori e orgoglio».

Julius Robert Oppenheimer. Anche i fisici hanno conosciuto il peccato

Foto Atomic Heritage Foundation.

Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica.  Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo dello scienziato da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.

G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.

Ciad. Viaggio nel paese cerniera tra Nord e Sud Sahara. L’ultimo dei saheliani

La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.

La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi.

A colloquio con Alessandra Colarizzi. Cina: esempio per l’Africa?

(Photo by CAAS Institute of Crop Sciences / XINHUA / Xinhua via AFP)

La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.

Bielorussia, minori militarizzati. A scuola di guerra

Il presidente Lukashenko militarizza il paese sotto la pressione di Putin. E anche i bambini vengono addestrati alla guerra. L’esercito promuove giornate e settimane residenziali per insegnare a obbedire, marciare, sparare. Con l’esca di offrire ai minori in condizioni di povertà cibo, luoghi caldi, una prospettiva di futuro.

Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato l’Ucraina anche dal territorio bielorusso.
Minsk non è entrata formalmente in guerra, ma il suo presidente Alexander Lukashenko, al comando del Paese dal 1994, ha sostenuto pubblicamente l’aggressione del suo alleato.

Padre Mino Vaccari, quando l’amore mantiene giovani. Una lezione di vita

Rumuruti, Kenya. La stanza è piccola. Ci sta una branda e poco altro: tanti libri, letti e riletti. È il regno di padre Mino Francesco Vaccari, testimone dell’essenzialità della vita e dello spirito di servizio ai poveri. Accanto, c’è il piccolo studio: una scrivania, altri libri e alcune foto di scene di vita africana.

Padre Vaccari è missionario della Consolata, novanta e più anni portati bene, oltre sessanta dei quali trascorsi ininterrottamente in Kenya. I suoi racconti, attraverso un linguaggio fluido con un simpatico intervallare emiliano di tanti «capissi», lasciano un segno di memorie profonde. Umanissime.


Rubriche

Noi e voi

  • «Grande cuore» è andata in Cielo, omaggio a «Ltau sapuk», la mamma dal cuore grande. Mirella Menin.
  • Creazione da reinterpretare? Domanda per capire meglio la Bibbia.
  • Assalto all’occidente? Una lettera rivelatrice di una mentalità che pensavamo scomparsa, ma invece ancora troppo presente.

E la chiamano economia

Le banche e la lezione dimenticata

Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà  l’ultima volta, a meno che…

Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.

Camminatori di speranza

Rut. Amore contro ogni convenzione

Nel turbinio di dibattiti mondani di questo anno, c’è chi ha fatto notare che il legame tra Camilla Parker Bowles e Carl Windsor (anche noto come Carlo III re del Regno Unito) avrebbe avuto tutte le caratteristiche per piacere all’industria cinematografica e alla nostra cultura romantica, eccetto una: i due innamorati, infatti, che sono legati da affinità sportive e intellettuali, ma osteggiati dalle famiglie perché lui nobile e lei no, e che, costretti a matrimoni «convenienti», non si perdono mai di vista finché un giorno finalmente coronano il loro sogno d’amore, diventando addirittura sovrani, non sono belli.

Nostra Madre Terra

I prodotti contenenti Pfas, gli inquinanti eterni

Impermeabili, resistenti, antiaderenti. È un dato di fatto che siamo circondati da prodotti d’uso quotidiano contenenti Pfas. Si tratta di sostanze chimiche che apportano ai materiali caratteristiche uniche: impermeabilità, resistenza, antiaderenza. Con una sola controindicazione: sono pericolose.

Ovunque e per sempre. Questi avverbi descrivono due delle caratteristiche principali di un nutrito gruppo di inquinanti chimici, i Pfas (acronimo per PerFluoroAlkyl substances), o sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, che sono ormai ovunque nell’ambiente, nonché nel nostro sangue e nei nostri tessuti, oltre che in quelli degli altri esseri viventi.

In meno di un secolo i Pfas ci sono sfuggiti di mano e oggi sono diffusi dappertutto.

Cooperando

MCO. Il bilancio sociale, per conoscersi meglio

Lo scorso mese Missioni Consolata Onlus ha pubblicato il bilancio sociale 2022. Anche quest’anno, redigerlo è stata un’occasione per conoscere e far conoscere meglio il nostro lavoro, per migliorare la comunicazione interna e per soffermarsi su alcuni progetti significativi.

Il 2022 è stato un anno positivo per Missioni Consolata Onlus, che ha registrato un aumento di donazioni ricevute intorno al 6%. Lo si può leggere nel bilancio sociale 2022, pubblicato sul sito di Mco a fine giugno.

Amico.

Opere tutte

Foto di Anaya Katlego su Unsplash

Come mai quegli uomini non bruciano? Gettati nella fornace ardente, le fiamme non li consumano. E cantano.
Cerco di comprendere le parole che pronunciano: benedicono il loro Dio. E domandano a ogni cosa, ogni essere, ogni uomo, di fare altrettanto: «Benedite, opere tutte del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Dn 3, 57).

Come possono esaltare un qualsiasi dio le acque, i cieli, le stelle, il sole, i venti, il freddo e il caldo, la luce e le tenebre, i monti e le colline? E le creature che germinano sulla terra, i mostri marini, gli uccelli dell’aria, gli animali tutti, selvaggi e domestici?

Certo, i figli dell’uomo sì, potrebbero lodare il loro Dio.

Librarsi film

Mondi perduti

Non sono molti i film che raccontano il rapporto tra gli esseri umani e la natura mostrando i mondi che stiamo perdendo, la vita che stiamo devastando. Ecco quattro titoli che portano in Bolivia, Perù, Bhutan, Giappone, e scuotono profondamente.

C’è un film che dice tutto. Forse «tutto» è esagerato, però dice tante cose, a chi le sa ascoltare. Parla del Sud del Mondo, della povertà, del cambiamento climatico, della progressiva urbanizzazione delle società, della perdita del contatto con gli altri esseri viventi.

Si intitola Utama. Le terre dimenticate. È un film di Alejandro Loayza Grisi, prodotto nel 2022 tra Bolivia, Uruguay e Francia.




Perù. Popoli indigeni ancora isolati. Per fortuna.


In Perù, una parte del Congresso voleva depotenziare una legge che protegge i popoli indigeni isolati. Pericolo scampato. Per il momento.

Secondo i dati del ministero della Cultura del Perù, nel paese andino ci sono 55 popoli indigeni, di cui 51 vivono in Amazzonia e 4 sulle Ande. Si parla di circa 4 milioni di persone, pari al 26% della popolazione totale. Di queste all’incirca settemila vivono in isolamento, cioè volutamente separate dal resto della società. Ad esse ci si riferisce con il termine di «Pueblos indígenas en situación de aislamiento y contacto inicial» (Piaci, in sigla).

Lo scorso 23 giugno, una commissione (Comisión de descentralización) del Congresso peruviano ha «fermato» (momentaneamente) il progetto n. 3518 presentato da Jorge Morante Figari, esponente di Fuerza popular, il partito fujimorista. Il progetto legislativo mira a modificare radicalmente la norma 28736, nota come «Ley Piaci», che dal 2006 difende (almeno in linea teorica) l’esistenza e l’integrità dei popoli indigeni isolati.

Qualora la proposta venisse approvata, la competenza in materia di Piaci passerebbe dal ministero della Cultura ai governi regionali i quali potrebbero riconoscere o meno l’esistenza stessa dei popoli isolati, cancellare riserve indigene già riconosciute e sospenderne la creazione di altre.

Contro le riserve indigene e, in generale, contro i diritti dei popoli indigeni sono in campo forze poderose, di solito guidate da imprenditori bianchi. Una delle più note è la «Coordinadora por el desarrollo sostenible de Loreto» (Cdl). Loreto è la regione amazzonica del Perù che ospita il maggior numero di popoli indigeni: ben 32. Secondo Christian Pinasco Montenegro, presidente della Cdl, nella regione non esistono popoli indigeni isolati e, pertanto, le riserve non hanno ragione di esistere. Per Belvi Gelith Saldaña Calderon, vicegovernatrice di Loreto, la legge Piaci va modificata perché è un ostacolo allo sviluppo della regione. Sul lato opposto, a difesa dei popoli isolati e della legge del 2006 c’è l’organizzazione che raggruppa i popoli indigeni dell’Amazzonia peruviana («Asociación interétnica de desarrollo de la selva peruana», Aidesep). Infine, tra i più rispettati difensori dei diritti dei popoli indigeni s’incontra anche mons. Miguel Ángel Cadenas, vescovo di Iquitos, con una lunga esperienza missionaria tra i Kukama (il maggiore gruppo indigeno di Loreto).

Per il momento l’offensiva anti indigena è stata bloccata. Ma c’è da scommettere che i fautori di essa torneranno alla carica, magari sotto altre insegne o in altre forme. In Perù come altrove, le terre indigene fanno gola.

Paolo Moiola

Indigeni peruviani isolati (foto Ministerio de Cultura – Aidesep)