Vivono per le strade della capitale guatemalteca aspettando di trovare i soldi o l’opportunità per tentare (o ritentare) l’entrata negli Stati Uniti. Sono i migranti venezuelani le cui storie vengono raccontate in queste pagine.
Città del Guatemala. Josué cammina lentamente tra un semaforo e l’altro dell’incrocio tra la sesta e la decima avenida, nella zona pedonale del centro storico della capitale guatemalteca. Sta lì tutto il giorno e, quando il sole picchia forte nelle ore più calde cerca un po’ di riparo all’ombra di qualche edificio.
Ha 22 anni e la sua maglietta rossa, gialla e blu, con otto stelle sulla manica, non lascia spazio a dubbi sulle sue radici venezuelane. Sulla schiena, a caratteri cubitali, c’è scritto il suo nome. «Josuè» spicca sul tessuto come una tacita affermazione di identità che il giovane non intende nascondere.
I suoi occhi chiari tra le folte ciglia fissano la terra per la maggior parte del tempo. Di tanto in tanto, quando allunga la mano verso qualche passante, Josué solleva il volto mostrando uno sguardo un po’ imbarazzato.
Il ragazzo trascorre le sue giornate a chiedere l’elemosina. Ogni tanto qualcuno gli dà un quetzal (circa undici centesimi di euro), ma la maggior parte dei passanti lo evita, spesso con espressioni disgustate sul volto.
Il wi-fi di Burger King
Carolina ha 18 anni da poco ed è la moglie di Josué. Ogni tanto gli dà il cambio all’incrocio della strada, ma per la maggior parte del tempo si ripara dal sole seduta sul gradino della vetrina di un Burger King della sesta avenida con il loro bambino di un anno e mezzo seduto sulle gambe.
È impegnata a intercettare il wi-fi gratuito della grande catena di fast food perché è tanto che non parla con sua madre e vorrebbe salutarla e raccontarle come sta.
A pochi metri di distanza ci sono Alonso, 29 anni, ex grafico, e Jona, 27 anni, ex studente di ingegneria petrolifera. Parlano della loro vita al passato remoto e aggiungono il prefisso «ex» prima di tutti i lavori e gli studi che hanno fatto, come se le esperienze precedenti, che dovrebbero essere la base per costruire il loro futuro, non esistessero più.
Poco più avanti, una ragazza che ha deciso di non parlare della sua storia, è in piedi all’angolo tra la sesta e la nona avenida e regge un cartello in mano che dice così: «Ho bisogno di aiuto per tornare in Venezuela».
Un mondo nella valigia
Da Josué a Carolina, passando per Alonso e la ragazza con il cartello, tutti condividono lo stesso destino.
Sono giovani migranti venezuelani, bloccati in Guatemala perché senza soldi per continuare il viaggio verso gli Stati Uniti o, eventualmente, tornare a sud, in Venezuela o in altri paesi dell’America Latina.
Dopo mesi trascorsi a viaggiare per raggiungere la meta si fermano per racimolare le risorse economiche necessarie ad andare avanti, o, come la ragazza che non ha più le forze né fisiche né mentali, per tornare indietro.
Sono senza permesso di soggiorno, senza casa e di solito viaggiano con una valigia a testa in cui racchiudono tutto il loro mondo.
Nella situazione di irregolarità migratoria, non hanno la possibilità di ottenere un lavoro né regolare né decorosamente pagato, per cui alcuni provano a vendere caramelle, accendini, braccialetti e bevande in strada, ma la maggior parte di loro chiede l’elemosina in varie parti della città, sul sagrato delle chiese o di fronte alle stazioni dei bus che portano fino alla frontiera con il Messico. Sperano di raccogliere abbastanza denaro per continuare il loro viaggio, perché l’idea di chiedere asilo in Guatemala, uno dei paesi da cui parte il maggior numero di migranti verso gli Stati Uniti, non li sfiora nemmeno.
«Viviamo per strada, ma una volta a settimana ci concediamo una notte in una piccola pensione, qui in centro. Chiedendo l’elemosina riusciamo a fare circa 100 quetzales al giorno (11 euro, ndr) e non bastano per l’alloggio, il cibo, i pannolini per il bambino o per pagare il coyote per passare la frontiera tra Guatemala e il Messico – spiega Josué -. Attraversare il fiume al confine con il Guatemala costa 50 dollari a persona e ne servono molti di più per arrivarci. Siamo qui da un mese e abbiamo appena messo da parte i primi 50 dollari. Ne mancano altri 100».
Josué e Carolina si sono conosciuti in Ecuador, quando dal loro punto di vista non c’erano più motivi per restare in Venezuela. «I nostri genitori non riuscivano a mantenere la famiglia – racconta Josué -. E io stesso non andavo né a scuola né riuscivo a trovare un lavoro che mi permettesse di guadagnare a sufficienza. L’inflazione là è altissima e anche se lavori, ti sembra di non guadagnare nulla».
Più di 7,7 milioni di venezuelani sono fuggiti dal loro paese negli ultimi anni a causa dell’instabilità economica e politica che, di fatto, ha costretto molte persone in una spirale di povertà estrema. La maggior parte dei migranti si è rifugiata in Colombia, Perù, Ecuador o Cile, ma negli ultimi anni, a causa della pandemia e della crisi economica che ha colpito anche questi paesi, molti venezuelani hanno deciso di lasciarsi alle spalle la vita precaria che conducevano nei paesi latinoamericani per provare la fortuna negli Stati Uniti (riquadro a pag. 54).
Il ricordo del Darién
Improvvisamente Carolina intercetta il segnale wi-fi del Burger King e mostra con orgoglio la foto che si sono scattati all’uscire vivi dalla giungla del Darién dopo giorni di cammino tra fango e burroni.
Quel punto del percorso migratorio è tra i più pericolosi di tutto il viaggio, a causa sia delle difficoltà naturali come le paludi, che rendono faticoso e spesso mortale il cammino, sia della presenza di bande criminali che assaltano i migranti derubandoli di tutti i loro averi.
Carolina ora sorride perché, proprio ricordando l’interminabile fatica che hanno vissuto sulla propria pelle nel Darién, è convinta che la parte più difficile del loro viaggio sia passata.
Non hanno più soldi né forze, ma nessuno è riuscito a privarli della speranza.
Sono partiti dall’Ecuador nel dicembre 2022, hanno attraversato la Colombia, la giungla del Darién, Panama, Costa Rica (dove sono rimasti alcuni mesi a lavorare), Nicaragua, Honduras e alla fine sono arrivati in Guatemala a maggio del 2023.
«Abbiamo visto persone annegare nel fango del Darién perché non avevano più forze per andare avanti, altre sono scivolate nei dirupi e sono sparite per sempre. Noi siamo stati fortunati e siamo sopravvissuti – racconta Carolina -. So che il Messico è pericoloso, perché i narcos e la polizia cercano sempre di derubarti, ma sono sicura che noi riusciremo ad arrivare negli Stati Uniti».
I muri da superare
Carolina parla con l’entusiasmo di chi forse non sa che il Guatemala, così come il Messico, gioca il ruolo di muro per i migranti diretti negli Stati Uniti senza visto, via terra. Da molti anni, il Messico viene considerato un’estensione della frontiera degli Stati Uniti, e le oltre cinquanta stazioni migratorie sparse sul territorio nazionale sono un ostacolo che i migranti conoscono bene e provano a evitare. Si avventurano in percorsi più precari dove spesso vengono intercettati da gruppi criminali che li derubano o li sequestrano.
Il Guatemala, invece, era stato elevato a «terzo paese sicuro» da un accordo firmato nel 2019 tra l’ex presidente Trump e l’ex presidente guatemalteco Jimmy Morales.
L’accordo permetteva di deportare nel paese centroamericano le persone salvadoregne e honduregne che si presentavano alla frontiera degli Stati Uniti e che non avevano richiesto asilo politico in Guatemala, considerato – appunto – abbastanza sicuro per accogliere richiedenti asilo. Di fatto l’accordo estendeva ancora di più le frontiere degli Stati Uniti che, in questo modo, riuscivano a delegare al Guatemala la gestione di un immenso numero di migranti, creando un enorme primo posto di blocco.
L’accordo è stato revocato nel 2021, ma il Guatemala continua a gestire una politica migratoria di contenimento.
Nel 2022, il paese centroamericano ha respinto 15.593 venezuelani e 2.555 nicaraguensi, cubani e haitiani. Ogni giorno la polizia nazionale guatemalteca detiene ed espelle decine di migranti, per lo più venezuelani.
Deportazioni
Muro dopo muro, deportazione dopo deportazione, gli Stati Uniti sono diventati un miraggio per Alonso e Jona che condividono l’incrocio tra la sesta avenida e la decima strada con la famiglia di Carolina e Josué. «Ho perso il conto di quante volte siamo stati deportati – ridono nervosamente Alonso e Jona -.
Un anno e mezzo fa abbiamo lasciato il Cile dove stavamo vivendo da alcuni anni. Arrivati fino alla frontiera Usa, la polizia statunitense ci ha beccati e deportati a Panama. Da lì siamo andati in Costa Rica e abbiamo provato a lavorare, ma non guadagnavamo abbastanza, così abbiamo deciso di migrare nuovamente. La polizia guatemalteca ci ha intercettato una prima volta e portati in Honduras. È la seconda volta che siamo qui e speriamo che non ci deportino di nuovo. Tornare in Venezuela è fuori discussione, per cui, se tutto va bene, resteremo in Guatemala finché non riusciremo a racimolare i soldi che ci servono per andare avanti».
La Casa del migrante
Dall’altra parte del centro storico, Leidy (nome di fantasia), 41 anni e madre single di un bambino di otto anni con disabilità mentale, è appena arrivata alla «Casa del migrante» dei missionari scalabriniani. Prevede di attraversare il Messico in poche ore. Lei ha ancora qualche soldo per finanziare il viaggio verso il Nord America e non pensa di rimanere in Guatemala neanche un giorno in più.
«Appena arriveremo alla frontiera degli Stati Uniti, farò richiesta per entrare nel programma di accoglienza speciale dedicato alle persone venezuelane», dice Leidy, dimenticandosi, o forse ignorando, che non ha i requisiti necessari per fare domanda.
Infatti, l’iscrizione al programma di accoglienza rivolto ai nicaraguensi, haitiani, cubani e venezuelani è aperto solamente a trentamila persone al mese che hanno negli Stati Uniti uno sponsor in grado di garantire loro un lavoro, una volta raggiunto il Paese per via aerea.
Non sono ammessi al programma coloro che si presentano alla frontiera terrestre, né tantomeno chi viene sorpreso dalla Border patrol (la polizia di frontiera statunitense), mentre cerca di attraversare il confine in modo irregolare.
«Non ho uno sponsor negli Stati Uniti, ma mio figlio è malato e sono certa che ci accetteranno», dice Leidy, che per mesi ha attraversato una frontiera dopo l’altra a piedi, a volte con l’aiuto di un coyote pagato ad alto prezzo, ma di certo mai con un regolare visto d’ingresso.
«Il Venezuela è bellissimo»
Come Leidy, centinaia di venezuelani, soprattutto famiglie, arrivano a Città del Guatemala di sera. Molti chiedono di poter avere un pasto caldo e un letto alla Casa del migrante.
Alcuni arrivano con evidenti ferite ai piedi e vesciche, altri con la febbre e la bronchite, tutti hanno bisogno dei servizi dell’infermeria del rifugio.
All’alba svaniscono come un sogno. Perché vogliono proseguire il viaggio; con i bambini che possono camminare al loro fianco e i più piccoli avvolti in una coperta legata sulla schiena.
«Il flusso migratorio in transito proviene principalmente dal Venezuela – spiega Elena Zamin, volontaria della Casa del migrante -. Riceviamo una media di tremila persone al mese e il 75% di loro sono venezuelane, ma questa è solo una piccola percentuale di tutti quelli che arrivano giornalmente a Città del Guatemala. Molti dormono per strada, vicino al mercato La Terminal. La maggior parte di loro è senza soldi perché, prima di arrivare qui, sono stati assaliti numerose volte anche dalla polizia guatemalteca».
Più di 250mila persone hanno attraversato il Darién tra gennaio e luglio 2023, un numero superiore a quello dell’intero 2022. Il 55% di loro sono venezuelani diretti negli Stati Uniti per i quali l’America Centrale e il Guatemala sono un passaggio obbligato.
Intanto, mentre Leidy si assicura che il suo bambino riposi tranquillamente in un letto della Casa del migrante prima di riprendere il viaggio all’alba, Josué abbraccia suo figlio e si siede vicino a Carolina davanti Burger King. Poco più avanti, Alonso tiene la bandiera venezuelana sulle spalle, con l’aria fiera di chi, nonostante tutto, non riesce ad abbandonare l’orgoglio nazionale: «Il Venezuela è bellissimo. Ci sono spiagge, le Ande, Maracaibo e il páramo. Non siamo scappati da questo, ma da chi ci ha governato o ci vuole governare. Queste persone ci hanno condannato alla fame ed è questo il motivo per cui ora siamo qui in strada in un paese straniero».
Poi ci lascia il suo numero di telefono guatemalteco per metterci in contatto con lui prima di legarsi la bandiera e scompare dietro un angolo.
Diventare invisibili
Settimane dopo il telefono di Alonso suona a vuoto. Sembra sparito o, forse, ha semplicemente lasciato il Guatemala, dopo aver risparmiato i soldi sufficienti a pagarsi un bus verso la frontiera con il Messico e un coyote per attraversare il fiume. O forse, come nei suoi peggiori incubi, è stato deportato nuovamente verso sud. L’unica cosa certa è che, nell’invisibilità in cui sono costretti i migranti in tutto il mondo, di lui, così come di Carolina e tutti gli altri, non c’è più traccia.
Simona Carnino
Stati Uniti / Migranti sul confine meridionale
Pressione continua, soluzioni difficili
Nel solo mese di settembre, sul confine sud degli Stati Uniti, sono stati oltre 210mila i migranti senza permesso fermati dalle autorità statunitensi. Per comprendere meglio il dato e avere un termine di paragone: in più di dieci mesi (da gennaio al 9 novembre), gli sbarchi di migranti in Italia sono stati pari a 144.889 persone. Tra quei 210mila si sono contati oltre 50mila venezuelani. In precedenza, questi preferivano trovare riparo nei paesi più vicini (Colombia, Perù, Ecuador, Brasile), anche per evitare il pericoloso attraversamento del Darién. D’altra parte, la fuga dal Venezuela ha assunto connotati biblici: secondo R4V (una piattaforma di coordinamento), sarebbero addirittura 7,7 milioni le persone espatriate (rifugiati, migranti e richiedenti asilo).
La condizione dei migranti venezuelani è particolare, a causa della mancanza dal 2019 di relazioni diplomatiche ufficiali tra il governo di Caracas e quello di Washington. Pertanto, mentre gli Stati Uniti possono rimpatriare migranti illegali (300mila tra maggio e ottobre 2023, secondo fonti ufficiali) verso paesi dell’America Centrale e di altre parti del mondo, il Venezuela non accettava deportazioni ufficiali. La situazione è cambiata dallo scorso ottobre, dopo un accordo tra i governi dei due paesi. In base ad esso, il 18 dello stesso mese dal piccolo aeroporto di Harlingen, in Texas, è partito per Caracas un primo aereo con a bordo 131 venezuelani espulsi dagli Stati Uniti.
A settembre, per alleggerire la pressione sulle casse delle città che accolgono i migranti (New York, Chicago e Denver, in primis), il presidente Biden aveva offerto lo status di protezione temporanea (Temporary protected status, Tps) a circa 472mila venezuelani negli Stati Uniti, la maggior parte dei quali entrata dal confine meridionale. La mossa consentirà ai venezuelani arrivati prima del 31 luglio di richiedere permessi di lavoro e protezione contro l’espulsione.
Peraltro, il governo di Nicolás Maduro rifiuta la definizione di «rifugiati» per i migranti venezuelani, come ha spiegato in una riunione della Unhcr il viceministro Rubén Dario Molina. I venezuelani usciti dal paese lo hanno fatto per cause economiche e queste sono state prodotte dalle oltre 900 misure coercitive unilaterali adottate contro il Venezuela. La questione dei migranti non può essere utilizzata per fini politici e mediatici (Correo del Orinoco, 10 ottobre 2023). Anche le cifre sono molto diverse: secondo il governo latinoamericano, i venezuelani emigrati (per ragioni economiche) sarebbero due milioni e di questi la metà sarebbe già rientrata usufruendo del programma Vuelta a la patria («Ritorno in patria»).
Per quanto riguarda gli Usa, nel corso del 2023 sono state anche ampliate le funzioni di una app per cellulari sviluppata dalle autorità della Customs and border protection (Cbp) e denominata «Cbp One» attraverso la quale i migranti senza documenti d’entrata negli Usa possono ottenere informazioni e soprattutto chiedere un appuntamento con le autorità statunitensi presso posti di frontiera prestabiliti sul confine meridionale. Sul sistema sono piovute svariate critiche, non ultima quella secondo la quale gli appuntamenti sono appannaggio di coloro che hanno i telefoni migliori o una connessione adeguata.
Al momento la cosa certa è che l’arrivo in massa di migranti dal confine sud del paese sta mettendo in gravi difficoltà Joe Biden, che su questo tema si giocherà la possibile rielezione nel novembre del 2024.
Paolo Moiola