La solidarietà degli immigrati
A Palermo, i membri dell’associazione Stra Vox, giovani tra i 16 e i 30 anni provenienti dall’Africa occidentale, dal 2019 sostengono le persone in difficoltà, immigrate e italiane, distribuendo pasti caldi, beni di prima necessità e giocattoli per bambini.
Ogni anno svolgono attività di raccolta fondi tramite il «Ramadan solidale», distribuendo circa 900 pasti caldi nella zona di Ballarò, e tramite il «Natale solidale», acquistando giocattoli da regalare a centri aggregativi, parrocchie e famiglie.
A Jesi, in provincia di Ancona, i volontari del Centro culturale islamico Al Huda (che unisce musulmani di Tunisia, Marocco, Algeria, Bangladesh, Pakistan, Albania e Senegal) nel 2020 hanno donato al Comune 2.500 euro per contribuire ai bisogni emersi durante la pandemia, inoltre si dedicano a periodiche iniziative ambientali, ripulendo le principali zone della città.
A Venezia, negli ultimi anni, i bangladesi della Venice Bangla School, con sede a Mestre, hanno effettuato donazioni in denaro al Comune e alla protezione civile, e hanno regalato 100 tute protettive anti-Covid alla polizia di Stato, 100 alla polizia municipale e 300 all’ospedale locale.
Sono alcuni degli esempi virtuosi presentati nella ricerca Partecipo quindi dono. L’impegno solidale delle persone di origine immigrata oltre la pandemia, realizzata dal Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo in collaborazione con Csvnet (associazione nazionale dei Centri Servizio Volontariato), per esaminare le pratiche di dono e aiuto messe in atto dalle persone di origine straniera a partire da due emergenze: la pandemia da Covid-19 e l’accoglienza di profughi del conflitto russo-ucraino.
L’indagine, realizzata in diverse regioni italiane attraverso 330 questionari, 64 interviste narrative e l’analisi di sette realtà associative, rovescia lo stereotipo dell’immigrato destinatario passivo degli aiuti descrivendolo come protagonista attivo della solidarietà.
Ma qual è l’identikit dei cittadini stranieri con propensione al dono?
«Al 59% sono donne, che mostrano maggiore sensibilità e dispongono di tempo libero dal lavoro fuori casa», spiega la sociologa Deborah Erminio dell’Università di Genova, una delle curatrici della ricerca.
Si tratta, inoltre, di persone con titoli di studio medio alti (il 52% laureati), con occupazioni dignitose anche se non sempre stabili (42%), residenti in Italia da molti anni (in media più di 20), nelle regioni più sviluppate (quasi il 90% tra Nord e Centro) e che vivono nel nostro Paese con la propria famiglia (64%). «Ciò dimostra che la maggiore stabilità socio-economica e giuridica consente di liberare energie a favore degli altri: l’integrazione mette in circolo la solidarietà».
L’attitudine solidaristica, a favore sia dei propri connazionali sia della società e delle istituzioni italiane, è stata analizzata in tre ambiti: dono di beni materiali (raccolte fondi, collette alimentari, giocattoli), dono di tempo (visite a persone malate, babysitteraggio occasionale, aiuto ad altri stranieri per le pratiche burocratiche), volontariato vero e proprio (nel quale emerge un senso di solidarietà universalmente orientata).
La maggior parte degli intervistati, 8 su 10, dedicano il proprio aiuto alle persone bisognose che vivono in Italia, indipendentemente dalla loro origine, per cui prevale un orientamento universalistico seppure in una dimensione di prossimità fisica. «I cittadini d’origine straniera sentono la responsabilità sociale verso il nostro Paese: spesso, anche quando aiutano gli altri immigrati, lo fanno non con spirito di parte ma perché li vedono come categoria povera e vulnerabile. Il criterio è: si aiuta chi ha bisogno», nota Deborah Erminio.
Circa il 55% del campione considerato è anche impegnato nella solidarietà transnazionale con i territori d’origine, sia nella forma di rimesse inviate regolarmente a familiari o ad associazioni e centri religiosi, sia in occasione di emergenze (terremoti, incendi, conflitti). Accanto all’esigenza di integrarsi nel nostro Paese, rimane dunque il desiderio di mantenere i legami con la propria società di origine.
In tutti i casi, «la solidarietà è contagiosa: tende ad aiutare di più chi a sua volta ha ricevuto aiuto, per cui si crea un circuito virtuoso di responsabilità sociale», spiega Deborah Erminio. Lo confermano le parole di El Anouar El Miloudi, presidente del Centro culturale islamico Al Huda: «Abbiamo deciso di fare qualcosa di bello per aiutare il Comune di Jesi, perché loro sono sempre con noi e quando bussiamo hanno sempre la porta aperta. Durante il Covid, ci hanno dato un terreno dove seppellire i nostri morti. Il Comune ci ha fatto un grande favore, in quel periodo non c’era il cimitero e hanno concesso un terreno per la comunità islamica».
L’indagine evidenzia la capacità degli immigrati – inclusi i neocittadini italiani e le nuove generazioni cresciute nel nostro Paese – di aggregarsi in forme più o meno organizzate (associazioni, comunità religiose, gruppi di connazionali) per attivarsi e prestare aiuto. Emerge così «l’esistenza di una classe media di origine immigrata che durante la pandemia ha fatto da tramite tra le istituzioni italiane e la popolazione straniera, tutelando la salute di tutti. Pensiamo ad esempio ai migranti irregolari, a lungo esclusi dalle vaccinazioni anti-Covid», osserva Maurizio Ambrosini, sociologo dell’Università di Milano, altro curatore di Partecipo quindi dono.
La pratica del dono manifesta anche una dimensione politica, è un modo per sentirsi parte della società italiana a pieno titolo, cittadini a tutti gli effetti. «Accanto all’idea di una restituzione simbolica nei confronti del Paese ospitante, c’è una domanda di riconoscimento sociale. L’altruismo è una forma di cittadinanza dal basso, che rivendica più ascolto e apertura in sede politica», dice Ambrosini. «Del resto, gli immigrati trovano più spazio nell’associazionismo che nel mondo del lavoro o della politica. Come spesso avviene, la sfera del volontariato è un passo avanti».
Stefania Garini