Brasile. Loro sono foresta


La terra è cromosoma essenziale del Dna indigeno. Senza terra i popoli indigeni non sopravvivono in quanto tali. Nelle loro mani, l’ambiente – lo dicono gli studi scientifici – è più rispettato. Per questo non è esagerazione definirli «guardiani della foresta». Né affermare che essi «sono foresta».

La scena è ripresa nella terra indigena Yanomami (regione di Sururucu), in un accampamento di garimpeiros, i minatori illegali tristemente noti. Si vedono le loro tende piantate in uno spiazzo deforestato. Si sente una voce concitata: «Andiamo, andiamo, portateli qui». Non si tratta di animali della foresta, ma di alcuni giovanissimi yanomami, scalzi e in pantaloncini, entrati nell’accampamento degli invasori. I bambini vengono legati (sì, legati) al palo di una baracca venendo accusati dai garimpeiros di essere dei ladri. Il video si chiude così.

L’episodio è raccontato da Hutukara, la principale organizzazione degli Yanomami, che lo ha scoperto tramite Wãnori, un sistema di allarme via cellulare attivato per la prima volta lo scorso luglio. «Dico sempre che il futuro è già oggi –  ha commentato Davi Kopenawa, noto leader yanomami – . Penso che sia importante per noi poter sognare e pensare con altri amici che ci appoggiano, lavorano e combattono insieme. Quelli in città ascoltano, ma non capiscono di cosa hanno bisogno gli Yanomami. Quindi, è fantastico avere questo sistema di allarme per il nostro monitoraggio».

Insomma, anche in piena foresta amazzonica i cellulari sono divenuti strumenti imprescindibili, nel bene e nel male, per vittime e oppressori. A questi ultimi si devono le foto autocelebrative e spaccone postate sulle reti sociali. Alcune di esse sono state pubblicate anche da globo.com.  Si vedono i garimpeiros orgogliosamente in posa con armi da fuoco salde nelle loro mani, davanti a una tavola imbandita con pizze e fusti di birra.

Poco importa se si tratta di voglia di apparire o di una più banale umana stupidità: dimostrano che, nonostante le azioni di sgombero messe in atto dal governo Lula nei primi mesi del 2023 (con la distruzione – stando ai dati ufficiali – di 327 accampamenti, 18 aerei, 2 elicotteri, motori, barche e la riduzione dell’80 per cento dell’area dei garimpo), un numero imprecisato di garimpeiros continua a operare in terra Yanomami.

Secondo «Yamakɨ nɨ ohotaɨ xoa!» (Noi stiamo ancora soffrendo), il rapporto di Hutukara con Seduume e Urihi, uscito a luglio, dopo gli sgomberi delle autorità, si sta assistendo al ritorno di gruppi di garimpeiros sui fiumi Apiaú e Couto Magalhaes e nelle regioni di Papiu, Parafuri, Xitei e Homoxi.

L’insistenza degli Yanomami sull’invasione dei garimpeiros potrebbe apparire esagerata se non si spiegassero gli effetti sconvolgenti che essa produce sulla loro esistenza. Effetti che sono a un tempo ambientali, sanitari, sociali. «La foresta non è contro di noi… chi è contro di noi è l’uomo capitalista», ha spiegato a gennaio a New York Davi Kopenawa.

Secondo il Sistema di monitoraggio delle miniere illegali, da ottobre 2018 a dicembre 2022, l’area interessata dall’attività mineraria è cresciuta di un altro 300%, raggiungendo un totale di 5.053,82 ettari di area devastata, colpendo direttamente quasi il 60% della popolazione Yanomami.

Due giovani Yanomami con un cellulare: da luglio 2023 è stato ativato un sistema di allarme chiamato Wãnori. Foto Evilene Paixao Yanomami – Hutukara.

Conseguenze sulla salute e sulla vita quotidiana

Scrive il citato rapporto di Hutukara: «Oltre alla distruzione delle foreste, del suolo e dei fiumi, che ha un impatto diretto sull’economia delle famiglie indigene, che dipendono dalla pesca, dalla caccia e dalla terra per coltivare, l’attività mineraria influisce direttamente anche sulla salute e sul benessere delle persone e delle comunità».

La situazione sanitaria degli Yanomami vede la grande diffusione di infezioni respiratorie (polmoniti, in primo luogo), parassitosi intestinali, tungiasi (parassitosi epidermica) e – a causa della diffusione della contaminazione da mercurio (utilizzato dai garimpeiros) – ripercussioni pesanti sulla salute riproduttiva delle donne e sullo sviluppo psicofisico dei bambini.

E poi c’è l’esplosione dei casi di malaria, soprattutto nelle zone più vicine ai garimpos.

«Questa malattia, a sua volta, come le infezioni respiratorie, compromette non solo la salute individuale del paziente, ma anche l’economia delle comunità che dipendono dal lavoro familiare per produrre la propria sussistenza. Un uomo che non riesce a curare un campo durante la stagione secca perché indebolito dalla malaria, in futuro avrà maggiori difficoltà a sostenere se stesso e i suoi coresidenti, creando così un circolo vizioso di malaria, crisi economica e fragile socializzazione». Non è – pertanto – un caso se nelle zone a maggior incidenza malarica risultano più alti anche i livelli di denutrizione infantile.

Membri di una comunità indigena osservano gli aiuti alimentari governativi recapitati dall’aviazione militare brasiliana. Foto FUNAI.

Le foto di piccoli yanomami pelle e ossa hanno fatto il giro del mondo. L’esercito brasiliano è intervenuto lanciando da aerei ed elicotteri tonnellate di cibo. Com’è stato possibile arrivare a una simile emergenza?

Secondo varie indagini, il problema della denutrizione è direttamente collegato all’avanzata dei garimpos. Gli Yanomami si sono sempre mantenuti con la raccolta di cibo dalla foresta, con la pesca e la caccia e – in maniera assai minore – coltivando piccoli appezzamenti di terra. Oggi le loro modalità di sussistenza sono state sconvolte dall’invasione dei minatori illegali. L’attività mineraria provoca la deforestazione e distrugge i corsi d’acqua inquinandoli con il mercurio. La selvaggina diventa più scarsa perché gli animali fuggono. Gli indigeni hanno bisogno di trascorrere molto più tempo nella foresta a cacciare e la quantità di cibo portata a casa non arriva più ai livelli di prima.

«La situazione di insicurezza alimentare – spiegano nel loro rapporto le organizzazioni degli Yanomami – non è diffusa nel territorio yanomami, ma è aumentata enormemente negli ultimi anni a causa di una combinazione di fattori, che vanno dalla distruzione delle risorse naturali attraverso lo sfruttamento illegale dei minerali alla disorganizzazione della produzione derivante dalla crisi sanitaria e agli impatti sociali dell’attività mineraria. Nel 2021 e nel 2022, a ciò si sono aggiunti gli effetti del prolungamento della stagione delle piogge, dovuto al fenomeno climatico La Niña, che ha impedito a molte comunità di curare i propri appezzamenti agricoli».

Se questo non bastasse, è possibile trovare notizie che complicano ancora di più il quadro complessivo. Come racconta Repórter Brasil parlando della diffusione dei narcogarimpos. Secondo i dati raccolti dal sito investigativo brasiliano, in sei anni (dal 2017 al 2022) c’è stato un raddoppio delle esportazioni di oro (da 11 a 32 tonnellate) e – dato ancora più inquietante – una triplicazione dei sequestri di cocaina (da 10 a 32 tonnellate).

Indigeni sfilano a Brasilia nella manifestazione che attende la decisione del Stf sul marco temporal (30 agosto). Foto Tiago Miotto – CIMI.

Semplificazioni veritiere

Secondo i dati Inpe (Instituto nacional de pesquisas espaciais), a luglio 2023 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è scesa del 66% rispetto allo stesso mese del 2022. Merito, ha sottolineato la ministra dell’Ambiente Marina Silva, delle nuove politiche del governo Lula. Tuttavia, il dato non può indurre a uno sciocco ottimismo.  Riduzione non significa salvaguardia.

Secondo una ricerca della Agenzia spaziale europea (Esa, marzo 2023), tra il 2017 e il 2021 la perdita forestale è stata di 5,2 milioni di ettari, una superficie più o meno equivalente alle dimensioni del Costa Rica.

Identicamente a «polmone del mondo» per l’Amazzonia, anche «guardiani della foresta» per i popoli indigeni può apparire come una di quelle affermazioni semplificatorie utilizzate per descrivere situazioni complesse. Tuttavia, almeno in questo caso, non si è lontani dalla verità.

Esiste una relazione tra presenza indigena e preservazione ambientale? L’osservazione ma anche la scienza rispondono che la relazione esiste ed è positiva. Uno degli ultimi studi in proposito – pubblicato da Nature sustainability (3 gennaio 2023) – certifica che, nelle aree indigene, la perdita di foreste è molto più contenuta, a patto che esse vengano rispettate. «Le popolazioni indigene – conclude lo studio – potrebbero impedire il superamento del punto di svolta (tipping point) per la trasformazione degli ecosistemi della foresta amazzonica in ecosistemi di savana».

Una maloca, la casa comune degli Yanomami, nell’Alto Catrimani, nella Terra indigena Yanomami (Tiy). Secondo il governo Lula, l’80 per cento dei garimpeiros sono stati cacciati nelle operazioni iniziate a gennaio 2023. Foto Bruno Kelly – ISA.

Intanto, i Guarani

Anche per merito del carisma e della notorietà internazionale di Davi Kopenawa, negli ultimi due anni si è parlato soprattutto dell’emergenza riguardante gli Yanomami.

In realtà, la situazione è molto difficile per tutti i popoli indigeni e la soluzione pare lontana, nonostante la buona volontà del governo Lula, visto che il parlamento brasiliano è dominato da una maggioranza di politici bolsonaristi (per i quali i popoli indigeni sono semplicemente una palla al piede per lo sviluppo del Brasile).

«La sconfitta di Bolsonaro – scrivono Lucia Helena Rangel e Roberto Antonio Liebgott nell’ultimo rapporto del Cimi – alle elezioni presidenziali è stata fondamentale per rompere con il progetto di morte e distruzione in corso. Tuttavia, non basta affrontare le sfide della causa indigena. La negazione dei diritti, il pregiudizio e il razzismo costituiscono lo scenario di un brutale aggravamento della violenza, che viene alimentata o incoraggiata negli uffici e nei corridoi degli organi statali».

Si consideri che il più consistente gruppo indigeno del paese, quello dei Kaiowá Guarani (che occupa gli stati del Sud, ai confini con Paraguay e Argentina), vive in condizioni estreme. Da anni essi sono costretti ai margini delle loro terre tradizionali dalle quali sono stati espulsi con la forza dai fazendeiros e dalle multinazionali agroalimentari che le hanno occupate per farne piantagioni di soia o di canna da zucchero e pascoli per il bestiame.

Un garimpo sul rio Couto Magalhães, Kayanau, Terra indigena Yanomami (in alto, a sinistra, una pista aerea clandestina). Foto Bruno Kelly – ISA.

L’arma dell’intolleranza religiosa

Proprio negli stessi giorni del giudizio del Supremo tribunale federale (Stf), il Consiglio indigenista missionario (Cimi) pubblicava, sul proprio sito, un durissimo atto d’accusa per l’en-

nesima violenza contro esponenti Kaiowá Guarani del Mato Grosso do Sul, stato in cui l’intolleranza e la violenza verso gli indigeni sono consolidate.

Il fatto risale al 18 settembre scorso quando Sebastiana Galton (di 92 anni) e il suo compagno Rufino Velasquez sono morti in un incendio doloso che ha bruciato la loro casa e i loro corpi. Sebastiana era una nota leader religiosa tradizionale che lottava a fianco della propria popolazione. Questa – spiega il Cimi – vive una tragica situazione di disgregazione sociale «la cui causa continua a essere il risultato dello sfollamento forzato, del processo di confinamento e della mancanza di accesso effettivo di questa popolazione ai propri territori tradizionali». Alla lotta per la terra in questo caso si aggiunge – continua la nota – «una complessa situazione di intolleranza religiosa che ha deriso, diffamato e ucciso – spiritualmente e fisicamente – i Ñanderu e i Ñandesy (rappresentanti religiosi tradizionali, ndr) in tutto il territorio Kaiowá Guarani».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra IndÌgena Yanomami

«In tutte le società umane il fenomeno religioso consiste nella mobilitazione delle forze spirituali, siano esse considerate buone o meno (benedizione e maledizione), secondo i bisogni, i desideri e le speranze di un popolo, come strategia per vincere sfide, pericoli e crisi. […] Così, nel caso delle pratiche religiose tradizionali dei Kaiowá Guarani, si può osservare un atto di resistenza di fronte ai molteplici processi di sterminio perpetrati contro le loro comunità».

Senza usare mezzi termini, il Consiglio indigenista missionario accusa le Chiese neopentecostali e i loro metodi.

«Da decenni il Cimi denuncia la presenza e gli effetti distruttivi che queste sette fondamentaliste rappresentano e promuovono tra i Kaiowá Guarani, soppiantando un intero sistema di credenze, screditando leader religiosamente costituiti e, favorendo, penalmente, la distruzione di ambienti e oggetti considerati sacri da questi popoli».

È cosa nota che, da sempre, le potenti Chiese neoevangeliche brasiliane hanno un approccio alla questione indigena completamente diverso da quello della Chiesa cattolica. Per loro i popoli indigeni debbono adeguarsi alla «visione bianca» dell’esistenza.

Riparare il male

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e, fino a poche settimane fa, presidente del Cimi, conclude la sua introduzione all’ultimo rapporto Violência contra os povos indígenas do Brasil con parole che sanno di preghiera e speranza: «Possano i nuovi governanti cercare di riparare il male, garantendo ai popoli indigeni il loro diritto fondamentale alla terra e ai loro modi di essere e vivere nelle differenze».

Paolo Moiola

Nel fotogramma pubblicato sui social un gruppo di garimpeiros mostra orgogliosamente armi pesanti e una tavola imbandita con pizze e birra.


Il Congresso contro il Supremo tribunale federale

«Marco temporal»: bocciato ma promosso

La vittoria giuridica presso il massimo organo giudiziario del Brasile non pare dare certezze ai popoli indigeni. In parlamento e nel paese, l’offensiva anti-indigena della «bancada ruralista» non si ferma. Che farà il presidente Lula?

Il 21 di settembre il Supremo tribunale federale (Stf) vota contro il marco temporal (in sostanza, è incostituzionale considerare terre indigene soltanto quelle occupate al 5 ottobre 1988, data di entrata in vigore della nuova Costituzione). L’entusiasmo per la decisione – sicuramente prematuro, spesso esagerato – dura però lo spazio di qualche giorno. Forse meno. Non è un «indietro tutta», ma quasi. Dopo l’approvazione alla Camera (30 maggio), la proposta sul marco temporal passa – infatti – anche al Senato (27 settembre). A questo punto, la domanda diventa: chi vince in caso di contrasto tra Stf e Congresso?

Carlo Zacquini, missionario della Consolata e grande esperto di Yanomami e popoli indigeni, è caustico: «Le leggi sono una cosa, i legislatori un’altra. Può anche darsi che sia impossibile approvare una legge, ma i politici non smetteranno mai di tentare nuovi o vecchi metodi per fare quello che “è conveniente per loro”. Sono ormai più di cinque secoli che si ammazzano indigeni, non sarà per una decisione del Stf che smetteranno di farlo o di tentare nuove forme per farlo. In fin dei conti la maggioranza dei brasiliani non è Indigena. Nella minestra ci puoi mettere molti prodotti, ma c’è ne sta sempre ancora uno. Se una legge stenta a trovare consenso o trova qualche ostacolo per essere approvata, si fa un’altra proposta, assieme ad altri richiami per le allodole. Tante volte quante necessario perché, alla fine passi, magari per la disattenzione di qualcuno. Se si vuole che i popoli indigeni abbiano una chance di sopravvivere, in Brasile non ci si può permettere alcuna distrazione. La spinta dell’industria agricola e mineraria è fortissima».

Il clima di contrapposizione tra poteri dello stato è palese. Per esempio, un deputato bolsonarista ha presentato una proposta di emendamento alla Costituzione (Pec 50/2023) che conferirebbe al Congresso il potere di sospendere le decisioni del Supremo tribunale federale che «superano i limiti costituzionali».

In base alle proprie prerogative, il presidente Lula potrebbe (e dovrebbe) mettere il veto sulla legge del marco temporal emanata dal Congresso. Tuttavia, come appare evidente, il clima per i diritti dei popoli indigeni rimane pessimo*.

Paolo Moiola

* Per gli aggiornamenti sul tema, seguiteci sul sito: www.rivistamissioniconsolata.it.

Brasilia, una seduta del Supremo tribunale federale (Stf) per decidere sul «marco temporal». Foto: Antônio Cruz – Agência Brasil.

 

 




Taiwan, l’isola ribelle


Sommario

Elezioni presidenziali: i candidati e le alleanze

Ombelico del mondo

Il prossimo gennaio si svolgeranno le elezioni presidenziali a Taiwan. Il panorama politico è diviso tra chi è più vicino a Pechino e chi spinge per il riconoscimento formale del Paese. Per la prima volta ci sono pure due candidati indipendenti. In ogni caso la Cina e gli Usa guardano al voto con attenzione. Da fronti opposti.

«Se voterò? Ma certo, anche se penso che non cambierà molto». E invece potrebbe cambiare tanto, forse tutto. Stacy, 27 anni, parla sotto il cocente sole estivo di Taipei mentre cammina su Ketagalan Boulevard insieme ad altre migliaia di persone. Sono tutti lì per protestare contro il governo taiwanese. Le motivazioni sono diverse. Lei in particolare chiede la riforma del sistema di edilizia pubblica. «Per i giovani è impossibile comprare una casa», dice.

Di fronte, il palazzo presidenziale costruito dall’architetto Uheji Nagano per ospitare il governatore dell’era coloniale giapponese (1895-1945). Alle spalle, non troppo lontani, Liberty Square e il memoriale di Chiang Kai-shek, capo del partito nazionalista cinese (Kuomintang, Kmt) che si rifugiò a Taiwan dopo aver perso la guerra civile con il Partito comunista di Mao Zedong (1949). Restò al potere fino alla morte, nel 1975, e guidò il regime autoritario nella Repubblica di Cina, nome con cui Taiwan è indipendente de facto. La legge marziale era stata imposta nel 1947 e restò in vigore fino al 1987. Non si poteva votare.

Taiwan, sostenitori del Koumintang festeggiano la vittoria di Chiang Wan-an a sindaco di Taipei (novembre 2022). Foto Lorenzo Lamperti.

Un voto importante

Il 13 gennaio prossimo, i cittadini dell’isola principale di Taiwan e delle isole minori (da Kinmen alle Matsu, dalle Penghu a Green Island) andranno alle urne per le elezioni presidenziali. Nella prospettiva molto concreta e disillusa di Stacy, chiunque vincerà non risolverà i suoi problemi. Ma in una prospettiva più ampia, il voto taiwanese potrebbe essere il più importante del 2024 a livello mondiale. Può sembrare un azzardo dirlo, soprattutto considerando che a novembre del prossimo anno sono in programma le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Ma la Repubblica popolare cinese, la Cina continentale guidata da Xi Jinping, sa che la postura statunitense le resterà piuttosto ostile, a prescindere da chi sarà l’inquilino della Casa Bianca. L’esito del voto taiwanese può invece cambiare, e di molto, le relazioni sullo stretto (lo stretto di Taiwan, tra l’isola principale e il continente, ndr) viste le nette differenze tra i vari candidati e gli equilibri mondiali potrebbero modificarsi verso un maggior peso della Cina popolare.

«Ho sempre votato per il Dpp (Partito progressista democratico, indipendentista, ndr), ma stavolta ho paura che se vince ancora potrebbe davvero esserci la guerra», dice Tzu-sheng, architetto di 42 anni. «Ho paura che se vince un candidato dell’opposizione ci svendano a Pechino», dice invece Jiaqi, lavoratrice dell’industria dell’intrattenimento locale. Due visioni antitetiche che rimandano al modo in cui i due partiti principali presentano il voto (Dpp, al potere, più lontano da Pechino, e Kmt, opposizione, più vicino, ndr).

Progressisti o nazionalisti?

Si ricorda che Taiwan, pure essendo indipendente de facto, è riconosciuta da soli 13 paesi al mondo, mentre la Cina popolare la considera proprio territorio. Da tempo, il Kmt parla di una «scelta tra guerra e pace». Una definizione lanciata da Ma Ying-jeou, ex presidente e unico leader di Taipei ad aver incontrato un omologo di Pechino (Xi Jinping, nel 2015 a Singapore). Ma anche unico ex presidente a essere andato in Cina continentale, in un significativo viaggio effettuato lo scorso marzo. Proprio mentre l’attuale presidente Tsai Ing-wen (Dpp) effettuava un contestato doppio transito negli Stati Uniti, durante il quale ha incontrato lo speaker del Congresso americano Kevin McCarthy (esautorato lo scorso ottobre, ndr).

Lai Ching-te, attuale vicepresidente e candidato della maggioranza Dpp, parla invece di «scelta tra democrazia e autoritarismo». Il Kmt dice dunque che in caso di nuova vittoria del Dpp si rischia un conflitto sullo stretto. E che sarebbe sostanzialmente provocato da un governo taiwanese incapace di mantenere il dialogo con Pechino. Il Dpp suggerisce invece che in caso di ritorno al potere del Kmt (che non governa dalle elezioni del 2016), Taiwan potrebbe avvicinarsi in qualche modo al modello di Hong Kong, venendo assorbito nella Cina continentale.

Due visioni estreme, che seguono la tradizionale contrapposizione del bipolarismo taiwanese. Un bipolarismo nel quale è impossibile trovare una sintesi, perché la visione è opposta non solo su temi concreti, come le relazioni intrastretto, ma anche sul senso di sé e della propria identità. Sostenere uno o l’altro partito non è solo una scelta politica, ma tocca un livello più intimo che lambisce quello storico culturale.

manifestanti alla festa nazionle della Repubblica di cina/Taiwan, 10/10/2022. Foto Vittoria Mazzieri

Una sola Cina

Il Kmt è erede del partito fondato da Sun Yat-sen che governò la Cina continentale fino alla vittoria dei comunisti nella guerra civile (1949). Non solo propone un dialogo più fruttuoso con Pechino, ma continua a vedere Taiwan come parte della Cina. Non la Repubblica popolare cinese, ma la Repubblica di Cina, di cui ormai non restano che frammenti, ma la cui architettura formale e lessicale tutela secondo il Kmt il mantenimento dello status quo. In che modo? Sulla base del cosiddetto «Consenso del 1992», un accordo tra funzionari di Kmt e Partito comunista che riconosce l’esistenza di un’unica Cina ma «con diverse interpretazioni». In sostanza, i due ex rivali della guerra civile nel 1992 riconobbero di far parte tutti di una stessa entità ma senza mettersi d’accordo su quale fosse la sua espressione politica e istituzionale legittima. Un’ambiguità voluta per mantenere in piedi lo status quo, ma che Pechino è sempre stata convinta giocasse a suo favore. Il ragionamento è il seguente: se a Taipei riconoscono che esiste una sola Cina e nel mondo quasi tutti i paesi (tranne 13) riconoscono Pechino come governo legittimo della Cina, prima o poi la riunificazione (o unificazione, come la chiamano a Taiwan) sarà una conseguenza naturale. Questo principio non è però riconosciuto dal Dpp di Tsai. L’attuale presidente è espressione della parte più moderata del partito, quella che non persegue l’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan (che segnerebbe una cesura definitiva e inaccettabile per Pechino) ma che sostiene la cosiddetta «teoria dei due stati». In sostanza, Tsai non riconosce che le due sponde dello stretto facciano parte di una «unica Cina» ma si dice aperta al dialogo qualora Pechino non ponga precondizioni e riconosca l’esistenza di due entità non interdipendenti. Da qui l’assenza totale di dialogo politico tra i due governi dal 2016, da quando cioè Tsai è stata eletta per la prima volta. In questi anni, l’ecosistema sullo stretto è molto mutato. Da una parte, Pechino ha operato un’escalation coercitiva su diversi piani. A livello diplomatico, ha portato nove paesi a rompere i rapporti diplomatici ufficiali con Taipei e a stabilirne con la Repubblica popolare. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’Honduras, che proprio alla vigilia della partenza di Tsai per l’America centrale, lo scorso aprile, ha annunciato l’avvio delle relazioni con Pechino. Ma nel mirino ci sarebbe anche il Guatemala.

Il candidato radicale

Lai, membro del Dpp come Tsai e suo potenziale successore, è invece particolarmente inviso a Pechino perché è considerato più radicale. Questo soprattutto per alcune sue dichiarazioni passate, in cui si era raffigurato come un «lavoratore per l’indipendenza di Taiwan». Cosa ben diversa dal riconoscere e dire di voler tutelare la sovranità de facto di Taiwan come Repubblica di Cina, la posizione ufficiale di Tsai e oggi dello stesso Lai che ha molto smussato la sua retorica e le sue esternazioni sulle relazioni intrastretto da quando è vicepresidente.

Ma a Pechino ricordano che nel 2019, il detestato partito di maggioranza fu sull’orlo della scissione per i contrasti tra l’ala radicale di Lai e quella più moderata di Tsai. Ad agosto, anche Lai ha effettuato un doppio transito negli Usa (dal profilo molto più basso rispetto a quello di Tsai) nell’ambito di un viaggio in Paraguay. Si è impegnato a presentarsi in continuità con Tsai, ma poco prima di partire si è lasciato sfuggire il desiderio che il futuro presidente taiwanese potesse entrare alla Casa Bianca. Eventualità che significherebbe un riconoscimento ufficiale incompatibile con lo status quo.

A Pechino queste uscite fanno comodo per descriverlo come «secessionista» nel messaggio rivolto all’esterno per giustificare le proprie reazioni coercitive, anche se sui media di stato c’è chi sostiene che di Lai non si fiderebbero nemmeno gli Usa, in un messaggio stavolta rivolto al pubblico interno e taiwanese.

L’ex poliziotto e il medico

Hou è invece il sindaco di Nuova Taipei, limitrofa alla capitale. Direttore generale dell’Agenzia nazionale di polizia tra il 2006 e il 2008, si riteneva potesse avere simpatie per il Dpp, ma è entrato invece nella fila del Kmt. Il suo passato di uomo di legge e di ordine sembrava piacere a molti, anche se per gli elettori Dpp il fatto che Hou sia stato poliziotto durante e dopo il periodo della legge marziale (1947-1987, vedi cronologia, ndr) è problematico. Molti lo ricordano come l’ufficiale che nel 1989 guidò la carica nell’ufficio di Cheng Nan-jung, un editore indipendentista che si auto immolò nel suo ufficio piuttosto che lasciarsi arrestare.

A complicare le ambizioni di Hou c’è anche un terzo incomodo, molto ingombrante. Si tratta di Ko Wen-je, popolare medico ed ex sindaco di Taipei che da qualche anno ha lanciato il suo Taiwan people’s party (Tpp). Ko propone una terza via rispetto a Dpp e Kmt. Il primo troppo ostile a Pechino, il secondo troppo asservito, dice lui. E quando propone un maggiore dialogo con il Partito comunista, a molti elettori suona più credibile rispetto al Kmt. Questo perché, a differenza di quest’ultimo, non ha il retaggio storico della legge marziale e il senso di appartenenza esplicito alla sfera storico culturale cinese.

Il Tpp sta attuando una campagna molto aggressiva e sembra piacere ai giovani oltre che alla classe imprenditoriale. Aver guidato Taipei è un biglietto da visita importante, nella zona dove gli affari intrastretto sono più intensi. Messo alle strette sul «consenso del 1992», nodo della discordia, se l’è cavata fin qui dicendo che, prima di esprimersi, a riguardo dovrebbe parlare con Xi per capire come lo intende Pechino.

Basterà a vincere? Difficile, se i candidati dell’opposizione resteranno tre, contro il solo Lai, a occupare tutto lo spazio dello spettro «verde», quello più incline al riconoscimento di Taiwan.

L’industriale

Già, perché il Kmt (come già altre volte in passato) si è diviso. Il candidato sconfitto al processo di selezione interno del partito, Terry Gou, è sceso in campo come indipendente. Con l’obiettivo, dice, di unire tutto il campo anti Dpp. Gou è il fondatore e patron della Foxconn, gigante dell’elettronica e primo fornitore di iPhone per Apple. Ma ha anche enormi interessi in Cina continentale, dove si trovano ancora la maggior parte dei suoi impianti. Tra cui quello immenso di Zhengzhou, ribattezzato «iPhone City».

«Non lascerò che Taiwan diventi la prossima Ucraina. Anzi, farò sì che Taiwan superi Singapore nel giro di 20 anni e abbia il più alto Pil pro capite in Asia», sono le due impegnative promesse elargite nella conferenza stampa di agosto in cui ha sciolto la riserva sulla sua candidatura. Il rischio, dunque, è che la discesa in campo di Gou possa ulteriormente frammentare la scelta anti Dpp e favorire lo stesso Lai.

Secondo diversi sondaggi, in uno scenario a quattro candidati (inedito per Taiwan) il vantaggio dell’attuale vicepresidente sembra destinato infatti ad allargarsi. Per avere speranze, Gou dovrebbe raggiungere un accordo con Hou o Ko, oppure con entrambi. Una sua eventuale ascesa alla presidenza non dispiacerebbe a Xi. E, probabilmente, neppure a Donald Trump, che nel 2019 accolse il «vecchio amico» Gou alla Casa bianca, dove il tycoon potrebbe rientrare nel gennaio 2025.

Taiwanese President Tsai Ing-wen (Photo by Miho Takahashi / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun via AFP)

Cosa cambierà

L’esito delle elezioni potrebbe cambiare di molto le dinamiche intrastretto.

È probabile che, dopo il voto, Xi aumenterà il pressing. Militare e strategico in caso di vittoria del Dpp, che per la prima volta da quando si svolgono le elezioni libere (dal 1996) potrebbe vincere per la terza volta consecutiva le presidenziali.

In caso di vittoria del Kmt, invece, il pressing sarebbe politico, per sottoscrivere accordi o ottenere garanzie di rilievo sul riavvicinamento.

«La Cina non rinuncerà al suo obiettivo di unificazione a prescindere che ciò avventa con i negoziati o con la forza. Nei prossimi anni, le relazioni tra le due sponde dello stretto saranno influenzate dalla competizione strategica tra Washington e Pechino, ma anche dalla saggezza e dalla capacità di Taiwan di gestire questa difficile relazione», sostiene Alexander Huang, direttore del dipartimento internazionale del Kmt e suo rappresentante negli Stati Uniti. «Una vittoria del Kmt ridurrebbe in larga misura la tensione attraverso lo stretto, quantomeno nel breve termine», aggiunge. «Sì, ma a patto di cedere pezzi della nostra sovranità de facto», dicono i sostenitori del Dpp. Prospettive e scenari diversi, che possono avere un impatto anche a livello globale.

Lo stretto di Taiwan non è solo una fondamentale via di passaggio delle merci, ma anche uno degli snodi principali del commercio globale. Per non parlare dell’industria strategica dei semiconduttori, di cui Taiwan è la capitale mondiale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.

Secondo alcuni studi, se il G7 sanzionasse la Cina continentale in caso di crisi su Taiwan, l’economia globale perderebbe almeno tremila miliardi di dollari, equivalenti al Pil del Regno Unito nel 2022. Peggio della guerra in Ucraina. Senza contare il rischio di espansione di un ipotetico conflitto con coinvolgimento di paesi limitrofi come il Giappone, o persino degli Stati Uniti in quello che potrebbe diventare un confronto diretto tra le due potenze.

La speranza è che Taiwan diventi, come sostengono tutti i candidati alle presidenziali pur con ricette diverse, un elemento di stabilità nello scenario regionale e globale.

Sì, il 13 gennaio prossimo può cambiare tanto.

Lorenzo Lamperti


Cronologia essenziale

Dai portoghesi alle incursioni di Pechino

  • Fino al sedicesimo secolo Taiwan è isolata, abitata quasi esclusivamente dalla popolazione indigena.
  • 1544. Arrivano i portoghesi, che le danno il nome di Ilha Formosa. Anche gli spagnoli mettono piede al nord dell’isola.
  • 1622-1662. Presenza olandese sull’isola. È la prima che avvia una modernizzazione di Taiwan.
  • 1662. Gli olandesi vengono cacciati dall’esercito di Koxinga, lealista della dinastia Ming. L’ammiraglio Shi Lang convince dell’importanza strategica di Taiwan lo scettico imperatore Kangxi, che l’aveva definita una «palla di fango».
  • Dal 1683 Taiwan e le Penghu fanno parte  dell’impero Qing come una prefettura della provincia del Fujian.
  • 1885. Taiwan diventa provincia.
  • 1895. I Qing cedono Taiwan e le Penghu all’impero giapponese. I taiwanesi si ribellano e dichiarano indipendenza, stabilendo la Repubblica di Taiwan, la prima repubblica asiatica, ma cinque mesi dopo viene presa dai giapponesi la capitale Tainan.
  • 1945. Con la fine della Seconda guerra mondiale, Taiwan e le isole Penghu vengono consegnate alla Repubblica di Cina, in quel momento governo legittimo della Cina continentale.
  • 1947. Dal cosiddetto «incidente del 28 febbraio del 1947» nasce una grande rivolta contro il governo del Kuomintang (Kmt). I leader e le élite locali vengono massacrati. Inizia l’era della legge marziale e del «terrore bianco».
  • 1949. Chiang Kai-shek perde la guerra civile contro i comunisti di Mao e ripara a Taiwan con esercito e apparato statale del Kmt. Sul continente nasce la Repubblica popolare cinese.
  • 1954-55 e 1958. Prima e Seconda crisi sullo stretto di Taiwan. Si indicano così due crisi militari avvenute nello stretto tra l’esercito della Cina continentale e quello di Taiwan, quest’ultimo appoggiato dagli Usa.
  • 1971. La Repubblica popolare cinese ottiene il seggio alle Nazioni Unite al posto della Repubblica di Cina.
  • 1975. Muore Chiang Kai-shek, il potere passa al figlio, Chiang Ching-kuo.
  • 1979. Gli Stati Uniti avviano relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino e rompono quelle con Taipei, emanando però il Taiwan relations act che stabilisce il sostegno alle capacità difensive taiwanesi.
  • 1986. Inizia la transizione democratica. Viene fondato il Partito progressista democratico (Dpp, sigla inglese).
  • 1987. Abolizione della legge marziale.
  • 1995-1996. Terza crisi sullo stretto. Pechino realizza delle manovre d’intimidazione militare, che sono però un fallimento.
  • 1996. Prime elezioni presidenziali libere. Vince Lee Teng-hui, del Kmt, ma primo di origine taiwanese.
  • 2000. Chen Shui-bian diventa il primo presidente del Dpp. Nel 2009 sarà condannato per corruzione.
  • 2008. Ritorna al potere il Kmt con Ma Ying-jeou. Inizia la grande distensione con Pechino.
  • 2014. Il Movimento dei girasoli occupa il parlamento per protestare contro quello che considera un’eccessivo avvicinamento a Pechino.
  • 2015. Ma Ying-jeou e Xi Jinping si incontrano a Singapore nel primo colloquio di sempre tra i leader delle due sponde dello Stretto.
  • 2016. Tsai Ing-wen, del Dpp, conquista il primo mandato presidenziale e a novembre ha una conversazione telefonica con il neo eletto Donald Trump. Peggiorano le relazioni con la Repubblica popolare cinese.
  • 2020. Tsai Ing-wen conquista il secondo mandato, favorita dall’effetto della repressione di Pechino delle proteste di Hong Kong.
  • 2022. Nancy Pelosi visita Taipei. La Cina avvia imponenti esercitazioni militari intorno a Taiwan.

L.L.

Taiwan, il quariter generale della Tsmc, a Hsinchu. Foto Lorenzo Lamperti.

Lo «scudo di silicio»

Scudo di silicio. Oppure montagna sacra che protegge Taiwan. O, ancora, petrolio elettronico. Sono alcuni dei modi con i quali viene indicata la produzione taiwanese di semiconduttori, capitolo sempre più strategico della contesa tecnologica globale.

Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei microchip. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità, assieme a quelli sudcoreani. Se ci fosse una capitale mondiale dei semiconduttori, sarebbe il Science park di Hsinchu. In un’area di 1.400 ettari operano circa 400 compagnie high-tech che generano oltre il 10% del pil e più del 30% dell’export di Taipei. Quando è stato fondato nel 1980, il parco era una landa desolata. Oggi è considerata la Silicon Valley taiwanese. Nessuno può prescindere dal «petrolio elettronico» prodotto a fiumi in questi impianti.

Soprattutto dalla Taiwan semiconductor manufacturing company, Tsmc, che da sola fabbrica oltre il 50% dei chip al mondo. Il suo fondatore è Morris Chang, ultranovantenne che ancora oggi svolge un ruolo di «ambasciatore» di Taiwan in consessi internazionali come i summit dell’Apec (Asia Pacific economic cooperation). Qui, a Bangkok, ha avuto nel 2022 un colloquio con Xi Jinping. In assenza di dialogo politico tra i governi, i colossi dei chip svolgono un ruolo diplomatico tra le due sponde dello stretto.

La stessa Tsmc ha stabilimenti in Cina e i semiconduttori taiwanesi continuano a fluire verso il «continente». Ma da alcuni anni gli Usa stanno provando a recidere quel cordone tecnologico. Tra 2024 e 2025 dovrebbe aprire la prima fabbrica di Tsmc in Arizona, mentre la Casa bianca impone nuove restrizioni per provare a tagliare fuori la Cina dalle catene di approvvigionamento.

Taiwan vorrebbe continuare a esportare verso Pechino. Non c’è solo una motivazione economica, ma anche politica e strategica. Finché i chip taiwanesi sono indispensabili a Xi, questo serve come deterrente a possibili azioni militari. Non è in realtà l’elemento decisivo, e la contesa va ben oltre i chip. Ma intanto, il resto mondo, accortosi della enorme dipendenza sviluppata nei confronti di Taiwan, prova ad accaparrarsi i suoi chip. Rischiando di ammaccare quello scudo di silicio.

L.L.

Taiwan, strada del centro storico di Sanxia. Foto Lorenzo Lamperti.

Dalla repubblica di Cina a Taiwan

In cerca di identità

Nei sondaggi tra gli abitanti dell’isola, aumenta il numero di chi si definisce solo taiwanese, mentre diminuiscono coloro che si sentono solo cinesi. Il governo spinge per  rafforzare la narrativa identitaria. Per questo utilizza anche l’intrattenimento e il cinema. È in corso una «taiwanizzazione».

Il pezzo più fotografato è un cavolo di giada. Appena più grande di una mano, era un tempo parte della dote della consorte dell’imperatore della dinastia Qing. Si trovava alla Città Proibita di Pechino. Oggi invece è una delle principali attrazioni del museo nazionale di Taipei, che ospita una collezione permanente di quasi 700mila pezzi. Una delle più grandi al mondo, copre ottomila anni di storia cinese dall’età neolitica fino alla fine dell’impero e alla rivoluzione che portò alla fondazione della Repubblica di Cina. Già, perché il museo nazionale di Taipei è il museo della Repubblica di Cina. Al suo interno, artefatti che a Pechino considerano trafugati perché testimonianze fondamentali della storia cinese di cui la Repubblica popolare si considera unica legittima erede. Tanto che, nell’ottobre 2022, è esplosa una polemica per alcuni incidenti museali a causa dei quali si sarebbero rotte la «tazza da tè gialla con il disegno del drago verde» della dinastia Qing (1636-1911) e una porcellana bianca e blu della dinastia Ming (1368-1644).

Esattamente 305 chilometri a sud del palazzo del museo nazionale di Taipei, nei sobborghi dell’antica capitale di Tainan, sorge invece il museo nazionale della storia di Taiwan. La sua apertura, inizialmente prevista per il 2008, è avvenuta nel 2011 dopo 12 anni di preparativi. Il museo contiene circa 60mila manufatti che ripercorrono le influenze aborigene, olandesi, spagnole, britanniche e giapponesi sull’isola. Qui il centro della storia è appunto Taiwan, non la Cina o la civiltà cinese.

Con buona dose di equilibrismo semantico sugli avvenimenti degli ultimi sette decenni, il percorso espositivo assume un punto di vista diverso sulla storia dell’isola. L’apertura del museo nazionale è un passaggio chiave per capire come si percepiscono le nuove generazioni di taiwanesi.

«Quando andavo a scuola io, studiavamo la storia e la geografia della Cina. Non sapevamo nulla di Taiwan», racconta Pei-yu, 40 anni. «Sui libri dei miei figli invece si parla di Taiwan e la Cina è per lo più percepita come qualcosa di esterno», spiega. L’educazione è un elemento fondamentale. A questo proposito viene in mente quanto dichiarato nell’agosto 2022, in un’intervista, da Lu Shaye, ex ambasciatore cinese a Parigi, che menzionò la necessità di «rieducare» i taiwanesi a «riunificazione» avvenuta.

manifestanti alla festa nazionle della Repubblica di cina/Taiwan, 10/10/2022. Foto Vittoria Mazzieri

Sempre più «solo taiwanese»

Se per Chiang Kai-shek i taiwanesi erano «giapponesizzati» dopo i 50 anni di dominio coloniale nipponico, l’attuale Partito comunista cinese è spaventato da quella che definisce «desinizzazione» di oggi.

Se per i taiwanesi di una certa età la distanza con la Cina continentale è soprattutto politica, per quelli più giovani invece la distanza è anche socioculturale. Persino storica e identitaria.

Ogni anno, la National Chengchi University di Taipei svolge due sondaggi sulla questione identitaria. Le scelte messe a disposizione degli intervistati sono tre alla richiesta di autodefinizione: taiwanese, cinese, sia taiwanese sia cinese. Nel 1992, quando cominciarono le rilevazioni, il 25,5% si definiva solo cinese e il 17,6% solo taiwanese, col restante 46,4% taiwanese e cinese. A giugno 2023, il 62,8% si definiva solo taiwanese, il 30,5% taiwanese e cinese, il 2,5% solo cinese.

La forbice si amplia ulteriormente a favore del solo taiwanese nel segmento degli under 25. Ecco il principale timore di Pechino, in passato convinta che il tempo giocasse dalla sua parte: i taiwanesi si stanno allontanando sempre di più dalla Cina continentale. Un processo accelerato dalla democratizzazione avviata negli anni Ottanta.

L’apertura democratica è stata avviata da una negoziazione tra potere e società civile, con i movimenti civili sempre attivi nonostante la dura repressione di Chiang. L’isola principale di Taiwan doveva essere inizialmente una base temporanea nell’attesa di riprendersi la Cina continentale. È qui che si è creata la rottura tra waishengren, i cinesi continentali arrivati a Taiwan dopo il 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han. Una divisione e una tensione intraetnica che ha alimentato la nascita del nazionalismo taiwanese e lo sviluppo di un’identità «altra» rispetto a quella cinese continentale.

La transizione democratica è stata avviata dal figlio di Chiang Kai-shek, Chiang Ching-kuo, in una sorta di ascolto delle istanze sempre vive di attivisti e oppositori. Ma quella vissuta da Taiwan non è stata una semplice democratizzazione del sistema politico, è stato anche l’avvio di una ridefinizione della sua identità. La scelta di Lee Teng-hui, nativo taiwanese, come successore di Chiang Ching-kuo ha rappresentato il punto di congiunzione che ha attenuato la divisione tra waishengren e benshengren.

Dal 2000 il primo presidente del Dpp, Chen Shui-bian, poi condannato per corruzione, ha contribuito a rafforzare l’identità taiwanese, cambiando la denominazione di aziende e luoghi pubblici. Per la prima volta sono stati affrontati pubblicamente gli orrori del «terrore bianco» (come viene chiamato il regime instaurato durante legge marziale, dal febbraio 1947 al 1987, ndr), con conseguente rivalutazione in negativo della figura di Chiang. Oggi, il suo memoriale ospita insieme un’esposizione dei suoi cimeli, una statua in suo onore con due guardie armate e un museo dei diritti umani che racconta la brutale repressione da lui attuata nei confronti degli oppositori.

Taiwan, tempio Quingshui Zushi, a Sanxia, comune a sud di Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Diritti civili e cinema

A contribuire al rafforzamento del senso di alterità taiwanese rispetto alla Cina continentale c’è anche l’avanzamento sul fronte dei diritti civili. Una spinta molto forte in tal senso, che ha funzionato anche sul fronte esterno, è stata la legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso nel 2019. Proprio mentre partiva la repressione delle proteste di Hong Kong, altro elemento spartiacque che ha allontanato Taiwan dalla Repubblica popolare, convincendo tanti, anche tra i più possibilisti, che il modello «un Paese, due sistemi» in vigore nell’ex colonia britannica non potesse essere accettato.

Il cambiamento lo si vede anche nella produzione cinematografica e televisiva, sul quale il governo taiwanese sta insistendo molto per rafforzare una narrativa identitaria che evidenzi le diversità con la Cina continentale sotto il punto di vista non solo politico, ma anche storico ed etnico-linguistico. Se in passato le produzioni televisive e cinematografiche ad alto budget erano per lo più rivolte a raccontare le vicende delle dinastie dell’impero cinese, o al limite della storia repubblicana (non popolare) cinese, ora si finanziano più volentieri altri tipi di opere. Tra gli esempi più noti c’è Seqalu – Formosa 1867, prodotto dal Taiwan public television service e destinatario di un’imponente campagna pubblicitaria. La serie televisiva, approdata anche su Netflix, è un adattamento del romanzo Lady Butterfly of Formosa di Chen Yao-chang, un ex politico del Dpp.

La sua storia è basata sul naufragio del mercantile statunitense Rover al largo delle coste taiwanesi, avvenuto per aver colpito una barriera corallina nel marzo 1867. Quattordici marinai americani furono uccisi dagli aborigeni taiwanesi per vendetta dopo l’uccisione di decine di membri della tribù Kaolut da parte dei tanti stranieri che erano circolati per secoli intorno all’isola. Incidente dal quale nacque una spedizione militare di Washington appoggiata dalle forze cinesi della dinastia Qing.

Sia il romanzo sia la serie puntano a sottolineare la varietà etnica e culturale di Taiwan. D’altronde lo scrittore Chen dice di essere discendente dei Siraya, una delle popolazioni aborigene dell’isola. Ma sono tanti gli esempi che fanno capire come ci si trovi di fronte a una tendenza ben precisa.

Diversi film degli ultimi anni raccontano storie legate alla comunità Lgbtq+.

Island Nation racconta la transizione democratica di Taiwan dopo la legge marziale. Days we stared at the sun è, invece, incentrato sul movimento dei girasoli che di fatto contribuì alla vittoria di Tsai Ing-wen alle elezioni del 2016 dopo aver occupato nel 2014 per 23 giorni lo yuan legislativo (il parlamento unicamerale taiwanese) per protestare contro un accordo sul settore terziario con Pechino proposto dall’amministrazione Kmt del presidente Ma Ying-jeou. Un’esperienza, quella del movimento dei girasoli, poi parzialmente assorbita dall’amministrazione Tsai e così normalizzata. E in parte disillusa. La recente serie Wave makers descrive invece una campagna elettorale taiwanese senza fare riferimenti alla Cina, e la cattiva gestione di abusi sessuali all’interno di un partito. Da essa è scaturita un’ondata di #MeToo con denunce all’interno di partiti reali (Dpp compreso), istituzioni e mondo dell’intrattenimento.

Taiwan ha, inoltre, annunciato l’obiettivo di diventare un paese bilingue (quantomeno a livello ufficiale) con l’elevazione dell’inglese a lingua ufficiale entro il 2030. Tsai vorrebbe che il mondo vedesse Taiwan come «occidentale, pur se influenzata dalla civilizzazione cinese e formata dalla tradizione asiatica», come ha scritto in un articolo di due anni fa su Foreign affairs.

Raccontare la storia di Taiwan al mondo è diventato un obiettivo primario, come si può notare dalla creazione della piattaforma in lingua inglese TaiwanPlus, lanciata nella seconda parte del 2021.

Taiwan, il museo dei diritti umani, all’interno del mausoleo di Chang Khai-shek, a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Taiwanizzazione

Il Dpp non persegue, almeno per ora, una dichiarazione di indipendenza formale come Repubblica di Taiwan. Consapevole che la mossa porterebbe a una scontata reazione militare di Pechino, ma anche del 40% circa della popolazione che si sente appartenente alla sfera culturale cinese. Intanto, però, prosegue la taiwanizzazione del suo messaggio, a più livelli. Basti pensare al nuovo passaporto che, rispetto al passato, mantiene il nome Repubblica di Cina solo in caratteri cinesi, con il nome Taiwan leggibile in caratteri latini.

Oppure al logo per la festa nazionale del 10 ottobre, che ancora una volta omette il nome Repubblica di Cina, nonostante si tratti della celebrazione di quanto successo nel 1911 con la rivolta di Wuchang che diede vita alla rivoluzione Xinhai: l’inizio della fine per l’impero Qing. Una giornata commemorata anche dalla Repubblica popolare.

Taiwan è un luogo con più livelli di lettura, che ancora si interroga su se stesso. Come la domanda che si pone Momo, la protagonista del romanzo simbolo della letteratura sci-fi queer taiwanese, Membrane di Chi Ta-wei: «Ma il passato che conosco è reale o fittizio?». Un racconto scritto non a caso negli anni Novanta, nel vortice di autoanalisi che ha portato i taiwanesi a osservare le ferite del passato e li ha condotti sulla strada di un complesso processo di ricostruzione identitaria in corso ancora oggi. E a porsi domande le cui risposte non sono mai univoche. Non ancora.

Lorenzo Lamperti

Taiwan, un elettore consulta il foglio dei candidati, durante le elezioni locali, il 26 novembre 2022. Foto Lorenzo Lamperti.


Le diverse strategie per «riassimilare» Taiwan

riprendere L’isola ribelle

Donne e uomini di Taiwan, da oltre 70 anni sono abituati all’ipotesi di un’invasione dal continente. Chi può, si prepara una via di fuga, mentre in città compaiono i cartelli per improbabili rifugi. La strategia di Pechino non è solo militare, bensì molto diversificata. Per il presidente Xi Jinping è solo questione di tempo.

Sono apparsi un poʼ in sordina, ma ci sono. Evacuation shelter (rifugio per lʼevacuazione): 600 metri in quella direzione. Con tanto di mappa, percorso più rapido e numeri di emergenza. In diversi angoli di Taipei sono apparsi questi cartelli di colore verde. Sono entrati in silenzio a far parte del caotico e vibrante arredo urbano. Eppure, pochi vi si soffermano. Quasi nessuno sembra prestare loro attenzione. Lʼipotesi di una guerra a tanti sembra ancora inconcepibile. Anche se qualcuno ha cominciato a prepararsi qualche via di fuga. Un passaporto di Singapore, magari, per facoltosi uomini dʼaffari. Un semplice zaino pronto per le emergenze per chi ha il portafoglio meno fornito.

Da oltre 70 anni i taiwanesi sono abituati a convivere con lʼipotesi di un conflitto. Negli anni Cinquanta, durante le prime due crisi dello stretto, Mao Zedong fece bombardare le isole Kinmen e Matsu, avamposti ancora oggi controllati da Taipei, ma a pochi chilometri di mare dal Fujian (provincia cinese che si affaccia sullo stretto, ndr). Da quelle isole partivano spesso attacchi contro la costa continentale, peraltro con il placet dellʼamministrazione Usa di Dwight Eisenhower.

Fu allora che si svolse lʼunico cambiamento di territorio tra Repubblica popolare cinese e Repubblica di Cina dalla fine della guerra civile, con lʼEsercito popolare di liberazione che si impossessò di Yijiangshan, nelle isole Dachen. Evento rievocato in una celebrazione speciale del Comando del teatro orientale delle forze armate cinesi lo scorso 9 settembre.

Ad agosto 2022, invece, Xi Jinping era riemerso dal conclave estivo annuale del Partito comunista apparendo a Jinzhou, città oggi parte della provincia nord orientale del Liaoning da cui nel 1948 partì la campagna di Liaoshen, decisiva per orientare la guerra civile a sfavore del Kmt di Chiang Kai-shek. Due episodi che sembrano avere un valore simbolico, soprattutto visto che il passaggio di Xi da Jinzhoun è avvenuto nel momento di nazionalismo più aggressivo contro i cosiddetti «secessionisti» taiwanesi dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Come a dire: abbiate pazienza, alla fine lʼobiettivo sarà raggiunto ma ci vuole tempo.

(Photo by Handout / Taiwan Defense Ministry / AFP)

Prove di difesa

Quei cartelli apparsi in diversi angoli di Taipei si sono materializzati anche in risposta alle imponenti esercitazioni militari di agosto 2022. Non tanto perché i taiwanesi le abbiano vissute con panico o particolare tensione. Ma più che altro per la polemica che ne è nata sul lancio di missili da parte dellʼesercito cinese. Alcuni di questi hanno sorvolato lo spazio di Taiwan, senza che il governo desse alcun tipo di allarme o comunicazione, arrivata per prima dalle autorità giapponesi. Circostanza che ha fatto riflettere parecchi, i quali sui social, e non solo, hanno iniziato a lamentarsi di non sapere cosa fare o dove andare in caso di un futuro reale pericolo. Da qui le maggiori condivisioni delle mappe di rifugi, i quali, più che a bunker antiaerei somigliano spesso a scantinati. E da qui lʼampliamento del manuale di difesa civile pubblicato dal governo.

Con la guerra in Ucraina e, ancora prima, il ritiro degli Usa dallʼAfghanistan, lʼesecutivo taiwanese sta provando a cambiare la comunicazione. Fino a qualche anno fa si minimizzavano i rischi nella narrazione interna, ampliandoli invece nella comunicazione verso la comunità internazionale. Ora però in molti a Taipei temono una sottovalutazione da parte dellʼopinione pubblica. Negli ultimi due anni sono nate diverse iniziative di addestramento alla resistenza dei civili, mentre, a livello governativo, è stata approvata lʼestensione della leva militare obbligatoria da 4 a 10 mesi.

Eppure, resta ancora tutta da verificare non solo la capacità, ma anche la volontà dei taiwanesi di combattere. Secondo un sondaggio della Taiwan foundation for democracy del dicembre 2022, oltre il 70% degli intervistati sarebbe disposto a difendere Taiwan. Stime ottimistiche secondo altre rilevazioni.

Altri osservatori come Paul Huang della Taiwanese public opinion foundation mettono in evidenza i problemi di morale allʼinterno dellʼesercito, dove più volte negli ultimi anni sono emerse presunte reti di spionaggio a favore di Pechino, spesso intessute da ufficiali, anche di alto grado, in pensione. Altri ancora in servizio attivo.

Ma cʼè anche qualche vantaggio nella strategia di difesa taiwanese. Intanto, la geografia. «Lʼisola è circondata dallʼoceano, è difficile da raggiungere ed è complicato sbarcare. Ci sono montagne alte. Insomma, lʼeventuale campo di battaglia potrebbe diventare un incubo per chi attacca», sostiene Kuo Yu-jen del National policy research.

Taiwan, uno dei cartelli verdi che indicano il percorso migliore per un rifugio antiaereo, a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Blocco navale

«LʼUcraina è più facile da attaccare, ma Taiwan è più difficile da aiutare», dice Lin Ying-yu dellʼIstituto di studi strategici della Tamkang University. «Un blocco navale potrebbe essere la futura strategia di Pechino». Una sorta di stritolamento che tagli i rifornimenti, porti allʼesaurimento le riserve energetiche e induca allʼapertura di un negoziato politico del grado di autonomia concesso allʼinterno del modello «un paese, due sistemi». Secondo Lin, lʼesercito cinese non ha ancora le capacità per farlo. «Le esercitazioni degli ultimi mesi dimostrano che la modernizzazione militare cinese procede spedita, manca però ancora qualche anno prima di poter sostenere un blocco totale o condurre unʼinvasione su larga scala, che sarebbe comunque solo lʼextrema ratio».

Prima di allora, si continuerà con lʼallargamento della cosiddetta «zona grigia», area non di combattimento, ma nella quale vengono condotte operazioni militari, incursioni, sconfinamenti. In questo caso lungo lo stretto. A preoccupare Taipei non sono solo i mezzi dellʼesercito, ma anche quelli di guardia costiera e marina militare. «Ne arriveranno progressivamente sempre di più», prevede Chieh Chung della National policy foundation. In tal senso, spesso i funzionari taiwanesi sono più preoccupati da manovre meno visibili allʼesterno, ma potenzialmente di maggiore impatto. Un esempio? Le ispezioni a bordo delle navi sullo stretto annunciate durante le esercitazioni dello scorso aprile. Il tutto contestualmente al primo impiego della portaerei (cinese) Shandong al largo della costa orientale, lʼunico lato da cui potrebbero arrivare aiuti esterni. Ecco, se Pechino riuscisse a sostenere un blocco navale prolungato di quella zona potrebbe puntare a trasformare lo stretto in una sorta di mare interno. Prodromi di questo approccio se ne sono avuti più volte negli scorsi mesi, quando le navi cinesi hanno fronteggiato quelle statunitensi o canadesi in transito.

È quella che lʼammiraglio Chen Yeong-kang, ex comandante della marina di Taipei, ha definito «strategia dellʼanaconda», mirata a «stritolare piano piano il nostro centro di gravità per arrivare a un negoziato». Magari prendendo di mira i cavi sottomarini, che portano la connessione internet sullʼisola. Lo scorso febbraio, due cavi sono stati recisi al largo delle isole Matsu. Semplice incidente o test? Non è dato saperlo, ma i lavori di riparazione sono terminati 50 giorni dopo. Ci si immagini la recisione dei cavi che collegano Taiwan al resto del mondo in uno scenario di blocco navale con mancanza di riserve energetiche: difendersi sarebbe tuttʼaltro che semplice.

Taiwan sta provando a capire come sviluppare un sistema satellitare autonomo, visto che la fiducia in Starlink è quasi inesistente per gli stretti rapporti di Elon Musk con la Cina e per le sue esternazioni su Taiwan.

Taiwan, scritte politiche «Resisti Cina, libertà ora» al Tò-uat Books x Café Philo a Taipei. Foto Lorenzo Lamperti.

Guerra normativa

Alessio Patalano del Kingʼs College ha spiegato, durante un recente intervento pubblico a Taipei, di ritenere più probabile un ipotetico «decapitation strike» che unʼinvasione su larga scala o un blocco navale. Vale a dire unʼoperazione di commando speciale volta a eliminare i leader politici e le autorità istituzionali taiwanesi.

Pechino potrebbe usare anche altre tipologie di armi. A partire da quelle normative. Lo scorso aprile, ad esempio, si è saputo che per la prima volta un cittadino taiwanese sarà processato per secessionismo. Si tratta di Yang Chih-yuan, attivista di 33 anni arrestato lo scorso agosto a Wenzhou, nella Cina continentale, subito dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei. Allora era apparsa una chiara ritorsione per lʼincontro fra Pelosi e Lee Ming-che, altro attivista taiwanese che aveva passato qualche anno nelle carceri continentali. Dopo quasi nove mesi, la Procura suprema del popolo di Pechino ha comunicato lʼincriminazione di Yang. La sua colpa sarebbe quella di aver sostenuto un referendum sullʼindipendenza e aver partecipato alla fondazione del Partito nazionalista di Taiwan, che persegue una dichiarazione di indipendenza formale e lʼadesione di Taipei alle Nazioni Unite. Attività svolte oltre un decennio fa a Taiwan, ma che ora possono costare a Yang da 10 anni allʼergastolo. Le accuse a Yang mostrano la volontà di Pechino di dare una base legale alla sua pretesa di sovranità su Taiwan.

Taiwan, mercatini notturni di Liuhe, Kaohsiung, nel sud dell’isola. Foto Lorenzo Lamperti.

Taiwanesi sul continente

Nonostante una netta diminuzione dallʼinizio del Covid, i taiwanesi che vivono e lavorano sullʼaltra sponda dello stretto sono ancora più di un milione. Vicende come quella di Yang possono avere un impatto anche più profondo delle manovre militari sullʼopinione pubblica taiwanese.

Ci sono poi le liste nere dei «secessionisti», che puntano non tanto a colpire il singolo individuo o politico, quanto lʼintreccio tra figure sgradite a Pechino e il mondo imprenditoriale dell’isola. Emblematica la vicenda del conglomerato taiwanese Far eastern group, operativo da diversi anni in Cina continentale e destinatario di una maxi multa e minaccia di esproprio per aver cofinanziato un evento a cui era intervenuto uno dei politici nella blacklist. Il patron dellʼazienda si è sentito in dovere di mandare una lettera aperta ai media in cui spiegava di essere contrario allʼindipendenza. Stesso concetto applicato nella vicenda di Wu Rwei-ren, il primo taiwanese accusato con la legge di sicurezza nazionale entrata in vigore a Hong Kong nel 2020. Nessun istituto universitario o accademico taiwanese ha firmato lʼappello dellʼAcademia Sinica a sua difesa. Lʼaccusa non avrà conseguenze dirette su Wu finché resterà a Taiwan, ma può impattare sul lavoro di altri accademici che potrebbero pensarci due volte prima di occuparsi di temi delicati.

Cʼè poi il fronte economico. Lʼeconomia taiwanese è entrata in recessione, quantomeno nella prima parte del 2023. Pesa soprattutto il rallentamento dellʼexport a causa di una domanda indebolita, compresa quella della Cina continentale che rappresenta sempre il primo mercato di destinazione delle esportazioni taiwanesi. Negli scorsi mesi, Pechino ha preso di mira lʼesportazione di mango dall’isola. Prima era toccato alle cernie, agli ananas e persino al kaoliang, il celebre liquore di sorgo bevuto da Xi e Ma Ying-jeou nello storico incontro di Singapore del 2015. E alimentare la paura di un conflitto, come dimostra il ritiro degli investimenti su Taiwan di Warren Buffett, potrebbe persino legare lʼeconomia taiwanese ancora di più a quella di Pechino.

Una donna di mezza età si ferma a osservare uno di quei cartelli verdi apparsi in diversi angoli di Taipei. Spinge un passeggino. Poi parla con il compagno di dove andare a cena nel fine settimana. Ma nella mente, forse, una traccia di quel cartello verde resta.

Lorenzo Lamperti


Cattedrale del Cuore Immacolato di Maria a Hinsichu (1955) – foto Luca Bovio

I cristiani sull’isola

C’è una sola entità statuale europea a intrattenere relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica di Cina, Taiwan. Si tratta della Santa Sede. La presenza del cattolicesimo a Taiwan affonda le radici nella piccola colonizzazione spagnola. Oggi, i cristiani rappresentano una fetta non trascurabile del 3,9% circa della popolazione taiwanese. I protestanti sono quasi il doppio dei cattolici. Solo buddhismo e taoismo contano più fedeli, in un panorama religioso frastagliato e originale, anche grazie allo storico incontro tra le credenze delle popolazioni aborigene, di origine austronesiana, e la prima grande immigrazione dei cinesi di etnia Han. Sul territorio taiwanese ci sono poco meno di tremila chiese. Chiang Kai-shek e Chiang Ching-kuo erano metodisti, Lee Teng-hui è stato membro della Chiesa presbiteriana, che ha forti legami con il Dpp fin dagli anni Ottanta. I rapporti tra Taipei e la Santa Sede non sono mai stati in discussione, con la presenza di un’ambasciata e di una nunziatura nei rispettivi territori. Negli ultimi anni, i tentativi di dialogo tra papa Francesco e il Partito comunista cinese hanno messo in dubbio il futuro di queste relazioni. Ma la chiesa mantiene una presenza importante anche dal punto di vista sociale, giocando pure un ruolo nella raccolta e nell’invio di aiuti sanitari in Italia durante la pandemia di Covid-19. Sono numerosi i progetti condotti a Taiwan dai preti e suore camilliani.
I missionari della Consolata, sono presenti dal 2014 nella diocesi di Hsinchu, oggi in due comunità*.

L.L.

* Prossimamente racconteremo in modo approfondito il lavoro di Imc a Taiwan.

Al santuario di S. Teresina a Hisinchu (foto Luca Bovio)

Hanno firmato il dossier:

  •  Lorenzo Lamperti
    Giornalista professionista, è direttore editoriale di «China Files», scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi. Vive e lavora a Taipei, Repubblica di Cina / Taiwan. Ha già collaborato con MC scrivendo su vari paesi. In particolare: Taiwan, vento europeo sullo stretto, luglio 2022.
  • a cura di Marco Bello
    Giornalista, direttore editoriale MC.
  • Foto del dossier 
    Le foto del dossier, se non specificato diversamente, sono di Lorenzo Lamperti.

 

 




Una storia americana


I Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946, in Canada l’anno seguente. La loro attività ha conosciuto anni d’oro, ma anche una fase di declino. Oggi i gruppi missionari dei due paesi del Nord America si sono uniti al Messico per affrontare assieme una nuova sfida, difficile ma entusiasmante.

Il Vangelo di Matteo – «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (28,9) – e il Vangelo di Marco – «Andate in tutto il mondo e annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (16,16) – testimoniano che i primi discepoli di Gesù di Nazareth erano consapevoli di aver ricevuto dal Risorto il mandato di andare ad annunciare la sua parola in tutto il mondo.

Se questa evangelizzazione rimase confinata negli ambienti ebraici fin dai primi anni, san Paolo sentì il dovere di portare la buona notizia ai pagani: in Rm 1,1 si presenta come un «apostolo messo a parte per annunciare il Vangelo di Dio». Gli Atti degli Apostoli raccontano i viaggi missionari di Paolo in Turchia, Grecia, Roma, e forse in Spagna. Nella sua lettera ai Galati, capitolo 2, Paolo spiega che Pietro fu mandato ai Giudei, mentre lui stesso fu mandato ai Gentili.

Questa epopea missionaria ebbe un tale successo che, all’inizio del IV secolo, l’intero impero romano sarebbe diventato cristiano e per secoli le comunità cristiane avrebbero creduto che il loro mandato missionario fosse completo e il Vangelo fosse stato annunciato a tutte le nazioni.

Dipinto raffigurante la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680).

Il mondo è più grande

Fu nel XV e XVI secolo che ci si rese conto di quanto, oltre i limiti dell’Occidente, ci fosse ancora una moltitudine di esseri umani da raggiungere. In questa consapevolezza, ebbe un ruolo importante l’uomo che sarebbe diventato patrono delle missioni, San Francesco Saverio, il primo missionario gesuita e il primo missionario in Giappone.

I missionari iniziarono, quindi, a unirsi ai conquistadores portoghesi e spagnoli nella loro ricerca di nuove rotte verso l’Asia. Quando poi si comprese che la terra è rotonda e che la strada può prendere anche la direzione verso Ovest, i missionari accompagnarono i colonizzatori – soprattutto portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi – che si stabilirono nelle Americhe.

Ciò provocò una querelle che oggi è difficile da comprendere:  la cosiddetta «disputa di Valladolid» tra Juan de Sepulveda (1490-1573) e Bartolomé de Las Casas (1484-1566).

Il primo riteneva che gli amerindi non fossero esseri umani e, di conseguenza, non ci si dovesse preoccupare delle loro anime e che potessero essere considerati come bestiame o schiavi; il secondo, al contrario, credeva che anch’essi fossero esseri umani con un’anima e, quindi, era necessario predicare loro il Vangelo perché potessero essere salvati.

In ogni caso, durante il primo secolo di colonizzazione delle Americhe, gli studiosi stimano che quasi il 90% degli indigeni scomparì, principalmente a causa di malattie contagiose portate dai coloni europei, ma anche a causa della violenza.

Dipinto rappresentante l’uccisione dei missionari gesuiti francesi avvenuta nella Nuova Francia, a metà del 1600, per mano delle popolazioni autoctone.

Evangelizzazione dal Sud al Nord America

Gradualmente, le Chiese cristiane costituirono comunità in tutta l’America con coloni provenienti dall’Europa.

In America Latina, nel XVI secolo, le comunità cristiane fondarono varie città: Buenos Aires nel 1536, Rio de Janeiro nel 1565, Cartagena (Colombia) nel 1533 e Quito nel 1534.

In Nord America, il cristianesimo prese piede con gli espolratori europei. Già nel 1524 l’italiano Giovanni da Verrazzano arrivò nei pressi di New York, che venne però fondata soltanto nel 1609 dagli olandesi  che le diedero il nome di New Amsterdam.

L’evangelizzazione di questa parte delle Americhe fu opera dei missionari spagnoli in California, di quelli anglicani negli Stati Uniti e dei francesi in Canada. Tra i primi si ricorda Junipero Serra (1713-1784), un francescano che papa Francesco ha dichiarato santo il 23 settembre del 2015.

Nel 1534, l’esploratore francese Jacques Cartier (1491-1557) scoprì il fiume San Lorenzo. Fu però solo nel 1608 che ci fu il primo insediamento permanente – Québec (Ville de Québec) – per merito di un altro esploratore transalpino, Samuel de Champlain (1567-1635). Ciò che Champlain cercava era un pied-à-terre per acquistare le pellicce portate dagli indiani. Lo stesso obiettivo del commercio può essere visto come motivo della fondazione nel 1634 di una seconda città sulle rive del San Lorenzo, Trois-Rivières.

Québec fu la città dove operò la mistica francese Marie Guyart (Marie de l’Incarnation, 1599-1635, proclamata santa nel 2014). Santo è anche il suo primo vescovo, François de Montmorency-Laval (1623-1708). La sua diocesi copriva praticamente tutto il Nord America. Diversa è la storia della fondazione di Montréal, nata sotto il nome di Ville Marie (oggi quartiere della città canadese noto come Old Montréal, ndr), come missione presso gli aborigeni. Questo è il motivo per cui molti dei suoi fondatori sono stati riconosciuti beati o santi.

L’interno della cattedrale di Notre Dame a Montreal. Foto Timothy I. Brock – Unsplash.

Popoli indigeni e martiri

I primi sacerdoti vennero per prendersi cura dei nuovi coloni.  Tuttavia, molto presto i gesuiti e i recolletti (della famiglia francescana, ndr) iniziarono a voler evangelizzare gli aborigeni della Nuova Francia (nome di una vasta area del Nord America colonizzata dai francesi, ndr). Ebbero un certo successo con gli Uroni, ma penetrarono molto poco tra gli Irochesi, dove visse la prima santa indiana, Kateri Tekakwitha (1656-1680), la cui tomba si trova nella piccola chiesa all’interno della riserva di Kahnawake, appena a sud ovest di Montréal.

Il conflitto tra Irochesi e Uroni fece vittime anche tra i missionari. Tra il 1642 ed il 1649, otto missionari di origine francese subirono il martirio: sei sacerdoti gesuiti (Isaac Jogues, Antoine Daniel, Jean de Brébeuf, Gabriel Lallemant, Charles Garnier, Noël Chabanel) e due coadiutori laici (René Goupil e Jean de La Lande). Tutti furono dichiarati santi nel 1930.

Secondo Statistics Canada, dei quasi due milioni di aborigeni censiti in Canada, circa la metà afferma di non avere alcuna affiliazione religiosa, mentre poco più della metà sono cattolici. E qui si apre una questione delicata. Come ha dimostrato la «Commissione nazionale per la verità e la riconciliazione» nel suo rapporto finale del 2015, i missionari, specialmente attraverso le «scuole residenziali» (scuole per indigeni; ne scriveremo in un futuro dossier, ndr) hanno collaborato a un «genocidio culturale», che avvelena ancora le relazioni tra le diverse comunità indigene e il resto del Canada, comprese le Chiese.

In The History of Québec Catholicism, lo storico Jean Hamelin parla di «colonialismo spirituale» e di «ambiguità dell’attività missionaria»: «Le missioni sono presentate come una questione di orgoglio nazionale».

Dopo la sconfitta francese nella battaglia delle pianure di Abramo nel 1759, i canadesi francesi sopravvissero raggruppandosi attorno alla Chiesa cattolica per sfuggire ai tentativi di assimilazione ed eliminazione culturale da parte dei nuovi governanti inglesi.

È questa Chiesa franco canadese che diventò una delle Chiese più missionarie del mondo: a metà del XX secolo, il Québec, con più di cinquemila missionari (1 missionario ogni 1.120 cattolici), seguiva soltanto l’Irlanda (un missionario ogni 457 cattolici), l’Olanda (uno ogni 556) e il Belgio (uno ogni 1.050 cattolici).

La residenza dei Missionari della Consolata a Montreal. Foto IMC Montreal.

I Missionari della Consolata

Fu in questo contesto che i Missionari della Consolata arrivarono negli Stati Uniti nel 1946 e in Canada nel 1947.

Non sorprende quindi che i padri Bartolomeo Durando (1901-1992) negli Stati Uniti e Luigi Amadio (1916-2010) in Canada ebbiano avuto difficoltà a trovare vescovi disposti ad accoglierli nelle loro diocesi.

Alla fine, i primi Imc si stabilirono in California e in una riserva indiana in Ontario. I primi accettarono di lavorare nelle parrocchie, ma ben presto la congregazione si rese conto che ciò non corrispondeva agli obiettivi ricercati, che erano l’animazione vocazionale e missionaria e la raccolta di donazioni per le missioni.

A tal fine, negli anni Novanta, l’istituto si trasferì negli Stati Uniti orientali e nella provincia canadese del Québec. Negli Stati Uniti furono importanti anche le attività di formazione e specializzazione, non solo per sacerdoti e fratelli, ma anche per i laici disponibili a dedicare qualche anno alla missione. Venti americani e una dozzina di canadesi diventarono missionari Imc.

Una veduta della città di Québec, fondata nel 1608 e considerata il primo insediamento urbano nel Nord America. Foto Timothee Geenens – Unsplash.

Gli anni d’oro

L’età d’oro dell’attività missionaria Imc in Nord America furono gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1985.

C’erano allora più di cinquanta Imc negli Stati Uniti e più di trenta in Canada. Negli Stati Uniti venivano pubblicati nove periodici, mentre in Canada erano almeno quattro.

Tra il 1976 e il 1986, Notre Dame Hall, il nostro Centro di animazione missionario di Montréal, inviò 1,86 milioni di dollari in assistenza finanziaria a più di dodici paesi di missione. Solo nel 1979, negli Stati Uniti, 257 parrocchie in 46 diocesi furono visitate per le giornate missionarie, che raccolsero circa 200mila dollari per le missioni. E il settore dell’assistenza missionaria inviava circa 150mila dollari all’anno per tutti i tipi di progetti missionari. Una trentina di studenti di origine africana vennero a studiare negli Stati Uniti.

La reazione al declino

Il declino è avvenuto molto rapidamente: la vocazione è scomparsa completamente  negli anni Novanta e in questi due paesi nordamericani il numero delle comunità è passato da quindici a solo due negli Stati Uniti, e i membri da 60 a una decina ora in due comunità: una nel New Jersey e una in California.

Anche in Canada ci sono due comunità, una a Toronto e la seconda a Montréal con otto missionari Imc, sempre più spesso di origine straniera.

Per rivitalizzare la presenza in Nord America, la Direzione generale dell’istituto ha unito le circoscrizioni di Canada e Stati Uniti con quella del Messico (paese nel quale l’istituto è entrato nel 2008) formando, quindi, un’unica delegazione religiosa. Nelle nuove missioni messicane operano attualmente otto missionari, distribuiti su due comunità: una a Guadalajara (stato di Jalisco) e un’altra a Tuxtla Gutiérres (nello stato meridionale del Chiapas, vicino al confine guatemalteco).

Jean Paré*

 * Missionario della Consolata canadese (Montréal, 1945), dopo gli studi a Montréal, Torino, Roma e Parigi, padre Jean Paré ha insegnato in Canada, Congo Rd e Italia (Università Urbaniana) e lavorato come giornalista in riviste ed emittenti radio (Radio Canada e Radio Ville Marie). Oggi vive e lavora a Montréal.


Le riviste Imc di Canada e Stati Uniti

Anima missionaria

Sono la responsabile delle tre riviste che l’Istituto Missioni Consolata pubblica nel Nord America: Réveil missionnaire (Rm, per il Canada francese), Consolata missionaries (Cmc, per il Canada inglese) e Consolata missionaries US (Cmus, per gli Stati Uniti, in inglese). Oltre alla sottoscritta, il nostro comitato di redazione comprende un redattore laico, Domenic Cusmano (italiano), e un redattore religioso, padre Jean Paré. Il primo è giornalista per le due riviste inglesi, mentre il secondo firma alcuni articoli e scrive di spiritualità, giustizia nel mondo e dialogo interreligioso. A turno, facciamo (in verità, più in passato che attualmente) i cosiddetti viaggi missionari sul campo sia per raccogliere materiale giornalistico sulle varie comunità Imc nel mondo sia per vedere i progetti per i quali raccogliamo fondi.

Il comitato di redazione pianifica le tre pubblicazioni che presentano un contenuto quasi identico. In Canada escono sei numeri all’anno, e precisamente cinque riviste di 16 pagine e un calendario di 32 pagine. Gli Stati Uniti, invece, producono quattro numeri all’anno, cioè tre di 16 pagine e un calendario. La tiratura di ogni numero è tra le 3.500 e le 5.000 copie.

Le riviste sono un essenziale strumento di comunicazione tra i Missionari della Consolata e tutti i nostri amici e benefattori. Ci permettono, infatti, d’informare i lettori sulle attività della missione, sulle storie di successo e, naturalmente, sulle molte sfide che i missionari devono affrontare ovunque essi operino. L’obiettivo è anche quello di rendere i lettori consapevoli della situazione dei più poveri e di toccare la loro anima missionaria.

Ghislaine Crête

 

 

 




Messico. Di tutti, ma non dei Maya


Un percorso di oltre 1.500 chilometri, cinque stati attraversati, costi giganteschi: sono i dati salienti del «Tren Maya», un’opera che sta avendo impatti enormi sulla penisola dello Yucatán, cuore della civiltà maya. Proprio le comunità indigene e gli ambientalisti si sono (inutilmente) opposti al progetto, fortemente voluto dal presidente messicano Manuel Obrador (Amlo).

Secondo il presidente Amlo (Andrés Manuel López Obrador), il Tren Maya sarà un volano di crescita economica. A fine opera, saranno 1.525 chilometri di rotaie che collegheranno Palenque a Cancún, attraverso cinque stati messicani (Chiapas, Quintana Roo, Yucatán, Campeche e Tabasco).

La ferrovia servirà al trasporto di merci (legname, minerali, materiali da costruzione) e al turismo, riducendo da qualche settimana a pochi giorni gli spostamenti tra le piramidi maya e le spiagge sull’oceano.

Il costo del progetto, presentato nel Piano di sviluppo nazionale 2019-2024 come ricetta anti povertà, è di 20 miliardi di pesos (circa un miliardo e mezzo di euro) per un totale di 42 treni e 34 stazioni, con accesso a sette aeroporti e ventisei aree archeologiche.

Obiettivo dichiarato del governo Amlo è portare lavoro e reddito, migliorando le comunicazioni interne in un paese dove quasi non esistono ferrovie e la popolazione si sposta su autobus lenti e poco capienti.

L’opera si sta realizzando in tempi record: circa l’80 per cento dei lavori sono già conclusi e, mentre scriviamo, ci sono già stati viaggi su alcune tratte del percorso. L’intervento sta riscuotendo un vasto consenso popolare, soprattutto tra le classi medio basse.

Il prezzo da pagare, però, potrebbe essere molto alto, come denunciano scienziati, ambientalisti, rappresentanti delle comunità indigene e Ong locali, suffragati anche da una recente sentenza del Tribunale internazionale per i diritti della natura (Vedi sotto: Comunità indigene inascoltate).

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Silenzio sugli svantaggi

«Il cosiddetto Tren Maya non è un treno e non è maya», ha spiegato Miguel Angel del Congresso nazionale indigeno (Congreso nacional indígena, Cni).

«Non si tratta di una semplice posa di binari, ma di un’opera mastodontica, inclusiva di più progetti che stanno trasformando il territorio sul piano logistico, energetico, agricolo».

La ferrovia si porta dietro resort, centri commerciali, lotti residenziali, alberghi. In corrispondenza di almeno diciotto stazioni sorgeranno polos de desarrollo (poli di sviluppo) destinati a ospitare ognuno 50mila persone, con allevamenti di maiali e polli per il circuito turistico e l’esportazione in Cina che – insieme a nuove colture di palma e soia – aumenteranno inquinamento e consumi idrici.

Inoltre, «il treno non è maya perché non è pensato per la popolazione ma per gli interessi del governo, delle potenze straniere come Cina, Canada e Usa, e delle imprese che sfruttano le risorse locali».

«Anche la criminalità organizzata avrà maggiori opportunità di investire i proventi illeciti nel settore turistico e immobiliare», ha osservato Miguel Angel.

È già in atto un fenomeno di gentrificazione (trasformazione di un’area da popolare a esclusiva, ndr) per cui, nelle zone di passaggio del treno, i prezzi stanno lievitando, rendendo proibitivi i costi dei beni essenziali e delle case.

«Per la gente comune ci sono solo svantaggi. Le stazioni, costruite vicino alle città e ai siti turistici, sono difficilmente raggiungibili da chi vive nei villaggi. Gli scavi e l’estrazione di pietre rovinano il territorio, i bambini devono andare a scuola in mezzo alla polvere e al rumore, con problemi per la salute. Nella zona di Palenque stanno colando cemento armato a pochi metri dalle piramidi, al solo fine di ampliare e rendere più sontuosi il museo, la biglietteria e le strutture ricettive».

I lavori del Tren Maya sono spesso accompagnati da sfratti ed espropri illegali. Gli ejidos (le terre comunitarie) – denuncia l’Ong messicana Prodesc – vengono fatti passare come proprietà private grazie al sostegno di notai compiacenti. Per lasciare spazio ai cantieri si sono demolite centinaia di abitazioni, e non sempre le famiglie hanno ricevuto indennizzi o sistemazioni alternative.

Anche i posti di lavoro e i vantaggi economici sarebbero uno specchietto per le allodole, «temporanei e destinati a concludersi insieme ai cantieri», ha sostenuto l’esponente del Cni.

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Neocolonialismo

Secondo le comunità in resistenza, il Tren Maya «è una delle grandi opere che proseguono nel solco del neocolonialismo estrattivista, danneggiando l’ambiente, la società e l’economia». Esso costituisce «un tutt’uno con un altro mega progetto voluto da Amlo, il Corridoio interoceanico, una linea ferroviaria che collegherà i porti dell’Atlantico con quelli del Pacifico. Ciò allo scopo di riconfigurare il territorio con la creazione di interi hub logistici (autostrade, ferrovie, aeroporti) e manifatturieri (gasdotti, oleodotti, raffinerie, miniere, parchi industriali).

«Il presidente del Messico, che si presenta come un innovatore vicino al popolo, sta facendo più danni dei precedenti governi conservatori. Riscuote consensi tra la gente perché fa cose utili nell’immediato, ma provoca danni irreparabili nel medio e lungo periodo», dicono al Cni.

Amlo è stato il primo presidente di sinistra dell’ultimo secolo, il più votato nella storia messicana recente con oltre il 53 per cento dei voti.

A diffidare di lui (che, nelle elezioni del giugno 2024, non potrà ricandidarsi, ndr), sono stati per primi gli zapatisti: nel 2012 il subcomandante Marcos lo definì «l’uovo del serpente», per indicare che sotto il guscio progressista covava un neoliberista.

Voto al referendum sul Tren Maya (15 dicembre 2019); le modalità della consultazione sono state criticate da più parti. Foto Lexie Harrison-Cripss – AFP.

Devastazione ambientale

Per fare posto alla ferrovia Palenque-Cancún si sta abbattendo il 70 per cento degli alberi che fanno parte della Selva Maya, la più grande nel continente americano dopo quella amazzonica. Quel che appare dall’alto è un’enorme cicatrice grigiastra, fatta di terra e cemento, che spacca in due il verde folto della copertura boschiva per centinaia di chilometri.

«Stanno disboscando ettari di foresta originaria, fonte di sostentamento per le comunità maya che vivono di un’agricoltura di piccolo impatto e che le attribuiscono carattere sacro. Così si distrugge una preziosa riserva della biosfera, un habitat di specie animali che necessitano di ampi spazi: giaguari, ocelot, tapiri, scimmie, coccodrilli, pappagalli».

Ma i danni ambientali non si fermano qui, come spiega il biologo Roberto Rojo. «La foresta pluviale è ricca di specie viventi, di siti archeologici non ancora del tutto scoperti e di formazioni geologiche uniche, i cenotes: grotte calcaree sotterranee o a cielo aperto, caratterizzate da stalattiti, stalagmiti e laghetti d’acqua dolce dal limpido colore verde o blu». Oltre alla loro bellezza che attrae turisti da tutto il mondo, queste oasi naturalistiche costituiscono una fonte di approvvigionamento idrico che rischia di scomparire. «Ormai solo il trenta per cento delle fonti è incontaminato, e la carenza d’acqua pulita danneggia i piccoli coltivatori favorendo l’abbandono o la cessione delle terre ai latifondisti». Nel 2018 Roberto Rojo ha fondato i Cenotes urbanos, gruppo di speleologi impegnato a mappare i cenotes non documentati di Playa del Carmen, dove si sta costruendo il tratto cinque (da Tulum a Playa del Carmen) del Tren Maya. Dal 2019 la loro è diventata una corsa contro il tempo per censire il maggior numero di grotte, nel tentativo di impedirne la distruzione.

«La rotta ferroviaria attraversa almeno un centinaio di cenotes. Qui il terreno calcareo si sbriciola, perciò i binari non poggiano direttamente a terra ma vengono sopraelevati a 17,5 metri d’altezza, su centinaia di pali del diametro di oltre un metro conficcati a 25 metri di profondità, è come costruire su gusci d’uovo», dice Elias Siebenborn, membro dei Cenotes urbanos. «Gli scavi distruggono alghe e batteri essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema e inquinano l’acqua. A volte, per procedere più in fretta, le ruspe tappano i cenotes con la terra. È un danno incalcolabile, irreversibile».

Donne indigene; le comunità non sono state coinvolte nel progetto ferroviario del Tren Maya. Foto Robin Canfield – Unsplash.

Senza autorizzazioni

Lo scorso marzo il Tribunale internazionale per i diritti della natura ha chiesto al governo di sospendere i lavori del Tren Maya che «provoca devastazioni a lungo termine e viola la stessa legge messicana».

La costruzione della ferrovia, si legge nella sentenza, è avvenuta «senza la Manifestación de impacto ambiental integral (relazione preliminare sugli impatti ecologici prevista dalla legge, nda), senza autorizzazioni per il cambio di destinazione d’uso dei terreni, e senza attenersi alle sospensioni giudiziali richieste in questi anni dagli Amparos» (tribunali costituzionali cui i cittadini possono adire direttamente, un po’ come i Tar italiani, nda).

«Il Tren Maya è un ecocidio e un etnocidio che viola i diritti ambientali, umani e culturali delle comunità indigene, in nome di una visione puramente commerciale e finanziaria», dice Raúl Vera López, uno dei giudici del Tribunale. Esponente della teologia della liberazione e strenuo difensore dei diritti umani, monsignor Vera López è tra le voci che, fin dai tempi del presidente conservatore Felipe Calderón (2006-2012), hanno denunciato i pericoli della militarizzazione del Messico, un tema «caldo» anche sotto il governo Amlo.

Il vescovo messicano Raúl Vera López, conosciuto per le sue battaglie per i diritti umani, si è schierato contro il Tren Maya. Foto Especial – desdelafe.mx.

«Oggi predomina una politica della paura che rafforza il clima di violenza, già molto forte nel Paese a causa del narcotraffico e dei paramilitari», spiega il vescovo Vera López. «Anche i lavori del Tribunale ne hanno risentito: noi giudici siamo stati seguiti da gente armata. Dopo aver subito minacce e intimidazioni, diverse persone hanno disertato le udienze o si sono limitate a mandare biglietti di denuncia anonimi. Nello Stato di Quintana Roo, a Señor, i militari sono andati di casa in casa a minacciare gli abitanti; a Tihosuco, durante un’udienza si sono presentati tipi sospetti che hanno fotografato i partecipanti e preso le targhe delle automobili».

Sono anche in aumento le sparizioni forzate e gli assassinii, in un paese tra i primi al mondo per numero di defensores e defensoras ambientales uccisi. Nel 2021, su 200 omicidi, oltre un quarto si sono verificati in Messico (dati Global Witness).

Il Tren Maya comporta «una militarizzazione massiccia e capillare, i lavori avanzano preceduti dalle camionette blindate dell’esercito», sostiene monsignor Vera López.

«Le forze armate hanno anche la gestione diretta di diversi cantieri, perché a loro è riconosciuta la facoltà di fare impresa, assumere personale edile e appaltare i lavori a ditte esterne», ha spiegato Miguel Angel del Cni.

La Guardia nazionale controlla le attività del Tren Maya, mentre la Marina gestisce il Corridoio interoceanico. «Parte dei proventi dei cantieri sono destinati a pagare le pensioni dei militari, che quindi hanno tutto l’interesse a reprimere il dissenso», ha detto Miguel Angel.

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Una resistenza lunga 500 anni

Per fronteggiare l’apparato militare e di potere che sostiene le grandi opere, le comunità indigene ricorrono a vie legali, manifestazioni di piazza e blocchi dei cantieri. Una lotta impari, Davide contro Golia. Dove trovano la forza per non arrendersi?

«Ciò che da sempre ci dà coraggio, ci mantiene uniti e solidali, e sostiene la resistenza dei nostri popoli, è la spiritualità», ha spiegato Raul Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano esperto di movimenti sociali latinoamericani, relatore all’incontro El Sur resiste, promosso dal Cni.

«Nella vita quotidiana, come nelle iniziative di contrapposizione, i rituali e la cosmovisione maya sono onnipresenti, ad esempio attraverso le cerimonie in onore della terra, dell’acqua, della foresta.

La spiritualità ci proietta in una dimensione non materiale ma profondamente umana, l’essere umano è un essere spirituale che può andare oltre le contraddizioni materiali», ha continuato Zibechi. «Ci sta piombando addosso un’enorme tempesta, contro cui non possiamo costruire barriere materiali; ma possiamo unirci, abbracciarci, affidarci alla Pachamama, la Madre Terra».

Qualunque sia l’esito dello scontro, «questa è la nostra vittoria: aver continuato a esistere e resistere, essere ancora qui dopo la lunga notte di 500 anni (dall’arrivo di Cristoforo Colombo, nda). E forse, come popolo, r-esisteremo per altri 500 anni».

Stefania Garini

Mappa del percorso, delle tratte e delle stazioni principali del Tren Maya.


Le imprese straniere in Messico

«El tren alemán»

Negli ultimi anni un numero crescente di imprese, soprattutto statunitensi, ha trasferito le proprie produzioni in Messico, raggiungendo nel 2022 un volume di investimenti diretti pari a 35,3 miliardi di dollari, il 12% in più rispetto all’anno precedente (dati Banco de México).

Ad attirare capitali sono le politiche commerciali, come l’accordo di libero scambio Nafta 2 con Usa e Canada entrato in vigore nel 2020, ma anche le scarse tutele ambientali e la possibilità di impiegare manodopera a basso costo.

Tra le aziende europee interessate dalle grandi opere vi sono le spagnole Renfe (compagnia ferroviaria) e Ineco (ingegneria dei trasporti), la lussemburghese Arcelor Mittal (piastre in acciaio per la raffineria di Dos Bocas), la francese Alstom (costruzioni ferroviarie). Tra i soggetti impegnati in Messico nelle vecchie e nuove opere di estrattivismo energetico vi sono anche alcune aziende italiane, come Enel Green Power (parchi eolici di Oaxaca) ed Eni (raffineria di Tabasco).

La tedesca Deutsche Bahn è presente nella progettazione del Tren Maya (qualcuno, sarcasticamente, lo chiama Tren Aleman) attraverso la controllata DB Engineering & Consulting. Pur avendo firmato una Convenzione con l’impegno di garantire i diritti delle comunità, secondo il Congresso nazionale indigeno la Deutsche Bahn (tristemente nota per aver gestito i «treni della morte» sotto il nazismo) avrebbe ignorato il primo e basilare diritto: quello delle persone a essere informate e consultate. Per parte sua, la Deutsche Bahn sostiene che il progetto sta creando lavoro e che il treno è un mezzo di trasporto ecologico, che ben si sposa con l’emergenza climatica.

S.Ga.

Scorcio del sito archeologico maya di Palenque, nello stato del Chiapas. Foto Dassel – Pixabay.


Il Tribunale internazionale per i diritti della natura

Comunità indigene inascoltate

Il Tribunale internazionale per i diritti della natura, fondato nel 2014 dalla Global alliance of the rights of nature, ha lo scopo di far valere la soggettività giuridica della Natura – che non può difendersi da sé -, denunciando i crimini perpetrati contro di essa e dando voce ai popoli indigeni in merito alle violazioni subite dalla loro terra, dalle loro acque e dalla loro cultura. Pur essendo un tribunale d’opinione, le cui sentenze non hanno potere vincolante, i suoi pronunciamenti costituiscono importanti precedenti per le rivendicazioni legali di comunità e attivisti.

A deliberare sul Tren Maya, dopo aver raccolto le testimonianze di una ventina di comunità negli stati di Chiapas, Campeche, Quintana Roo e Yucatán, sono stati i giudici Francesco Martone, già presidente di Greenpeace Italia, Raúl Vera López, vescovo emerito di San Cristobal de Las Casas e di Saltillo, la sociologa argentina Maristella Svampa, l’avvocato ecuadoriano Yaku Pérez e il capo delegazione zapoteco dell’Indigenous environmental network, Alberto Saldamando.

La sentenza del Tribunale è stata notificata al presidente Amlo, alla Commissione nazionale per i diritti umani, ai relatori Onu per i diritti umani e per i diritti dei popoli indigeni, al rappresentante dell’Unesco in Messico, e tradotta in lingua maya per renderla accessibile alle comunità.

È da escludere però che Amlo faccia dietrofront, visto che nel 2021, in risposta ai mandati giudiziali degli Amparos che chiedevano la sospensione dei lavori, aveva dichiarato il Tren Maya opera di sicurezza nazionale. D’altra parte, la linea ferroviaria è ormai quasi completata.

S.Ga.

Una piramide di Chichén Itza, uno dei più noti siti archeologici maya nella penisola dello Yucatan. Foto Mario La Pergola – Unsplash.

 




L’economia dei respingimenti


Ogni anno sono milioni i rifugiati e i migranti. Lasciano i loro paesi per guerre, persecuzioni, disastri naturali, fame. Cercano rifugio e ospitalità nei paesi ricchi, i quali – oggi ancora più che nel passato – mettono in atto politiche di respingimento. Proviamo a spiegare i termini di una questione planetaria.

Secondo l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati, nel 2023 almeno 117 milioni di persone (secondo le prime stime) in tutto il mondo hanno lasciato le loro case per sfuggire a guerre e persecuzioni. A questi occorre aggiungere – stando ai dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) – circa 281 milioni di migranti (e ancora non c’è unanimità giuridica sugli spostamenti dovuti ai cambiamenti climatici: sono rifugiati ambientali o migranti ambientali?). La sola guerra in Ucraina ha provocato lo spostamento di circa 7 milioni di individui. Persone che scappano senza una meta ben precisa con il solo intento di mettersi in salvo. Molti terminano il loro viaggio non appena trovano un accampamento della Croce Rossa o delle Nazioni Unite pronti ad accoglierli. Altri, invece, proseguono con l’intento di trovare riparo in un paese ricco, dove pensano di potersi garantire un futuro diverso. I paesi ricchi, però, non li vogliono e il loro viaggio si trasforma spesso in tragedia. Il naufragio di Cutro (26 febbraio 2023), con il suo centinaio di vittime, ne è una triste testimonianza.

Le strategie dei governi

Per impedire ai migranti di entrare e stabilizzarsi dentro i loro confini, i paesi ricchi si avvalgono di un piano strategico articolato su più livelli.

Il primo livello di sbarramento è rappresentato da accordi con i paesi di transito affinché impediscano ai migranti di proseguire il loro viaggio.

In Europa, le grandi ondate migratorie sono iniziate nel 2011 dopo l’intervento armato in Libia da parte dell’Occidente che destabilizzò il paese mettendo in fuga centinaia di migliaia di libici e di stranieri immigrati che si trovavano nel paese per lavorare.

Nel 2013 un barcone si rovesciò nei pressi di Lampedusa e affogarono quasi 400 persone. Il fatto provocò grande sconcerto nell’opinione pubblica e l’allora governo Letta decise di avviare l’operazione Mare Nostrum, il pattugliamento del Mar Mediterraneo da parte della Marina militare  italiana per salvare i migranti in pericolo. Ma l’operazione non durò più di un anno.

Nel frattempo, anche il Medioriente era entrato in piena crisi umanitaria per il protrarsi della  guerra in Iraq e in Afghanistan e il divampare della guerra in Siria. Quell’anno all’incirca quattro milioni di siriani si trovavano in Libano e Turchia. Tuttavia, c’era anche chi cercava di raggiungere l’Unione europea. Nel 2015 ben 900mila persone approdarono sulle coste greche, in un paese impreparato ad affrontare un’emergenza umanitaria di tali proporzioni dopo anni di austerità che lo avevano messo in ginocchio.

Così l’Unione europea chiese aiuto alla Turchia, che si impegnò a pattugliare le proprie coste per impedire ai migranti di imbarcarsi verso la Grecia. In più, qualora qualcuno fosse riuscito a raggiungere i paesi europei, la Turchia se lo sarebbe ripreso. In cambio, l’Unione europea ha versato (a rate) sei miliardi di euro per il mantenimento dei rifugiati in Turchia. Oltre che con i soldi, l’Ue ha pagato Erdogan anche con il silenzio sulla violazione dei diritti umani e altri abusi commessi dal governo turco verso i Curdi. Ma questo non poteva essere messo nero su bianco.

Il patto è scaduto nel 2021 e non è dato sapere se e come verrà rinnovato. Ma ha fatto scuola e negli anni seguenti altri accordi sono stati stipulati sia dall’Ue che dal governo italiano con vari paesi del Nord Africa.

Migranti su un barchino. Foto Geralt – Pixabay.

L’accordo con la Libia

Nel caso dell’Italia, uno dei più imponenti è stato quello firmato nel 2017 con la Libia. In cambio di mezzi e denaro elargiti dall’Italia alla Guardia costiera libica, il governo del paese si impegnava a bloccare i flussi migratori tramite la chiusura del confine sud, il blocco delle partenze via mare verso l’Europa, il respingimento a terra dei migranti intercettati al largo delle coste libiche.

Il memorandum, rinnovato già due volte, prima nel 2020 poi nel 2023, dovrebbe aver comportato una spesa complessiva di 124 milioni di euro. Il condizionale è d’obbligo perché la trasparenza scarseggia.

Lorenzo Figoni, esponente di Action Aid, sottolinea come il Parlamento svolga un ruolo marginale sull’argomento: vota i finanziamenti di massima indicati in legge di bilancio, ma poi non chiede una rendicontazione dettagliata della spesa. Di certo comunque c’è che la Libia è un inferno per i migranti.

In varie occasioni Ong e Nazioni Unite hanno documentato come rifugiati e migranti vengano arbitrariamente arrestati e imprigionati in centri di detenzione dove rimangono per lunghi periodi in condizioni disumane. Senza cibo, senza acqua, senza servizi igienici, sono spesso sottoposti a percosse e torture con bastoni, spranghe, plastica fusa, scariche elettriche, prolungati periodi di sete. Le donne, comprese ragazze giovanissime, subiscono ripetute violenze sessuali.

Crimini commessi da parte di personale governativo libico sovvenzionato dal governo italiano. Come se non bastasse, vari rapporti delle Nazioni Unite denunciano forti collusioni fra trafficanti di esseri umani e vertici della polizia, nonché della Guardia costiera libica.

Lo sostiene, ad esempio, il rapporto d’indagine pubblicato il 3 marzo 2023 da Human rights council quando scrive di «avere ragionevoli motivi per ritenere che il personale di alto livello della Guardia costiera libica  e della Direzione per la lotta alle migrazioni illegali sia colluso con trafficanti e contrabbandieri che assieme ai gruppi di miliziani catturano i migranti e li privano della loro libertà». E aggiunge: «La Missione ha anche ragione di credere che le guardie abbiano chiesto e ottenuto pagamenti per il rilascio dei migranti.

In Libia, la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il contrabbando di esseri umani generano entrate significative a individui singoli, a gruppi criminali organizzati, a personale delle istituzioni statali».

L’accordo con la Tunisia

Secondo Action Aid, tra il 2015 e il 2020, l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro a favore di Libia, Niger, Tunisia, Sudan e altri governi africani che non garantiscono il rispetto dei diritti umani, come contropartita della loro attività di respingimento o trattenimento dei migranti. Una politica che il governo Meloni intende rafforzare coinvolgendo un’Unione europea con la quale la contrapposizione è continua. Richiesta che la Commissione europea sembra intenzionata ad accogliere a giudicare dal protocollo di intesa firmato con il governo tunisino il 16 luglio 2023. Fra i molteplici punti toccati, è compresa anche la lotta alle migrazioni illegali con un sostegno finanziario ipotizzato in 105 milioni di euro da parte dell’Ue.

Il memorandum è però controverso: il presidente tunisino Saied parla di carità, mentre i governi europei non vedono alcuna diminuzione dei flussi migratori. Inoltre, al tempo stesso in cui avveniva la firma del protocollo, i quotidiani di tutto il mondo riportavano le foto di migranti ricacciati nel deserto dalla polizia tunisina, morti per mancanza d’acqua.

L’Ue è impegnata nella lotta contro i migranti anche su un altro fronte. Quello di protezione e controllo dei confini nazionali, anche se i protagonisti principali di questa attività rimangono i singoli governi che arrivano a costruire muri e recinzioni, pur di impedire l’ingresso ai migranti.

Soldati indiani lungo la barriera che divide il confine tra India e Bangladesh. Foto IANS.

Stati Uniti (ma anche India)

Una strategia che non riguarda solo l’Europa, ma il mondo intero. Basti dire che lungo il confine con il Bangladesh, l’India ha costruito una fortificazione metallica lunga 3.200 chilometri, la più lunga degli oltre 15mila chilometri di sbarramenti costruiti a livello mondiale. Nelle Americhe, gli Stati Uniti sono separati dal Messico da mille chilometri di muro alto dieci metri, parte in cemento, parte in metallo. E poiché in alcuni tratti è il Rio Grande a fare da confine, nel luglio 2023 il governatore repubblicano del Texas ha pensato di sbarrare l’attraversamento ai migranti con una serie di boe tenute insieme da filo spinato. E pensare che gli attuali Stati Uniti sono nati per iniziativa di immigrati che si fecero spazio trucidando gli abitanti originari.

Venendo all’Europa, i primi sbarramenti ai confini vennero costruiti negli anni Novanta del secolo scorso attorno a Ceuta e Melilla, due possedimenti spagnoli incastonati sulle coste marocchine che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

In seguito altre fortificazioni sono state costruite lungo i confini europei per un totale di duemila chilometri, non solo sulle frontiere esterne, ma addirittura fra nazioni aderenti all’Unione europea. Lo testimoniano i 350 chilometri di rete metallica stesa fra Austria e Slovenia, Ungheria e Croazia, Slovenia e Croazia.

Intanto, in Europa

A partire dal 2015 con l’aggravarsi della situazione in Medioriente, un numero crescente di fuggiaschi ha cercato di raggiungere l’Unione europea via terra, lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Ma stati come Bulgaria, Romania, Ungheria, perfino Grecia, venivano temuti perché tristemente famosi per i loro respingimenti.

Ancora oggi migliaia di migranti cercano di entrare in Croazia, ma sono ripetutamente respinti, spesso in maniera brutale.

Le testimonianze raccolte da Amnesty international, e molte altre associazioni umanitarie, parlano di migranti che non appena attraversano il confine croato in mezzo ai boschi, sono catturati da persone armate e incappucciate ma con divise della polizia. Quindi, sono picchiati, derubati, sottoposti a sevizie e poi consegnati alle guardie di frontiera che li respingono in Bosnia.

Fra il gennaio 2020 e il dicembre 2022, l’organizzazione danese Drc ha registrato quasi 30mila respingimenti dalla Croazia, molti dei quali accompagnati da trattamenti violenti e degradanti.

A rendere ancora più drammatica la situazione c’è che il rischio di essere respinti in Bosnia può riguardare anche chi è riuscito a raggiungere l’Italia.

In nome di un accordo bilaterale stipulato nel 1996 con la Slovenia, nel 2020 l’Italia ha respinto in quel paese 1.300 migranti che verosimilmente sono poi stati respinti in Croazia e quindi in Bosnia, secondo il fenomeno del cosiddetto respingimento a catena.

Fortunatamente, nel 2021, una sentenza del tribunale di Roma ha dichiarato l’inapplicabilità dell’accordo del 1996 e i respingimenti verso la Slovenia si sono arrestati. Con l’avvento del governo Meloni si rischia, però, di tornare al passato perché, nel dicembre del 2022, il ministero dell’Interno ha emanato una circolare rivolta ai prefetti di Trieste, Udine e Gorizia nonché al Commissario di governo per la provincia di Bolzano, per sollecitarli «ad adottare iniziative volte a dare ulteriore impulso all’attività di vigilanza sulla fascia di confine, al fine di assicurare la più efficace attuazione degli accordi stipulati con la Slovenia e l’Austria».

Parole in burocratese con effetti reali sui migranti anche perché, come vedremo nella prossima puntata, l’Europa intera, al di là delle parole, si sta organizzando per destinare sempre più risorse alle politiche di respingimento.

Francesco Gesualdi
(prima parte – continua)




Geremia, il più tormentato dei profeti


Tra i profeti ci sono personaggi molto diversi. Tutti mettono al centro del loro messaggio la fede e l’affidamento a Dio, ma ciascuno vive la propria vocazione in modo singolare. Ci sono quelli decisi, sicuri di sé, generosi e convinti alla Isaia («“Chi manderemo?”. “Eccomi, manda me!”», Is 6,8), e altri molto più travagliati come Geremia. Geremia di tormenti ne ha moltissimi, ed è proprio questo che ce lo rende più simpatico, moderno ed esemplare.

Lo sfondo storico

I profeti, lo sappiamo, sono gli autori biblici che più dialogano con il mondo nel quale sono inseriti. Il «ministero profetico» consiste esattamente nella capacità di inserire il messaggio divino in situazioni storiche concrete, cogliendo come Dio reagirebbe a quelle condizioni, che lettura offrirebbe di quei contesti. È quindi chiaro che una conoscenza precisa dello sfondo storico in cui i profeti agiscono è più che necessaria.

Il problema è che i profeti ci hanno lasciato libri scritti per lo più in forma poetica, frequentemente allusiva ed evocativa più che descrittiva, spesso difficili da interpretare in modo corretto. D’altronde, è esattamente quello che riscontriamo nella nostra poesia o persino nei commenti politici dei nostri tempi. Di questi, però, conosciamo tutti i particolari, così che capiamo le allusioni, anche minime, e tutto diventa più facile. Della storia antica, invece, non riusciamo più a ricostruire le situazioni, se non le grandi linee.

È una fortuna che i capitoli 34-45 del libro di Geremia offrano un contesto storico un po’ più preciso che aiuta a comprendere meglio le parti poetiche.

Lo sfondo generale del tempo di Geremia, dunque, è questo: nel 721 a.C. cade il regno di Israele del Nord per mano dell’impero neoassiro. Nel 701 a.C. s’interrompe miracolosamente l’assedio di Gerusalemme prima della caduta della città. L’impero neoassiro va in crisi e viene sostituito da quello neobabilonese, altrettanto espansionista (arriverà a conquistare anche l’Egitto). All’inizio del VI secolo a.C. si fa forte la pressione anche sulla Giudea, che in effetti cadrà nel 587 a.C., dopo una prima sconfitta e accordo di vassallaggio nel 597 a.C.

In Giudea emergono due visioni diverse della realtà e su come affrontare il pericolo. Una, più religiosa, sostiene che, come aveva già fatto più di un secolo prima, Dio salverà il suo tempio, che è sacro («Tempio del Signore è questo!», Ger 7,4). Un’altra, più mondana, crede invece che la salvezza verrà dall’accordo politico con l’Egitto. Entrambe sono convinte che occorra difendere l’autonomia della Giudea contro i babilonesi. Bisogna solo resistere: che si tratti di Dio o dell’Egitto, qualcuno arriverà a salvarci.

Un messaggio inaudito

È su questo sfondo che Geremia si trova inviato a portare un messaggio inaudito: «Volete essere fedeli al Signore? Lasciate che il suo tempio venga distrutto. Dio non interverrà più a salvare il vostro regno. Vi chiede di lasciare che la storia prosegua sulle sue strade, e che voi scopriate modi nuovi di relazionarvi con lui» (cfr. 5,7-19; 7,3-16; 42,9-22).

Un messaggio come questo ha una forza che va contro tutte le credenze del tempo.

Il tempio di Gerusalemme non era semplicemente il luogo dove pregare o offrire sacrifici, come oggi è per noi una chiesa, sia pure essa la più grande o centrale come San Pietro o qualche santuario famoso in tutto il mondo. Il tempio era «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,11, fra gli altri), l’unico luogo della presenza di Dio nel mondo.

Se dobbiamo ipotizzare un parallelo per capirci, era qualcosa di più vicino a quello che per noi è l’Eucaristia, piuttosto che al semplice edificio sacro.

Immaginiamo un profeta cristiano che dica che, per essere fedeli a Dio, occorre lasciar profanare l’Eucaristia. Il messaggio di Geremia è simile a questo.

Ma è anche un messaggio che arriva subito prima della guerra e durante l’assedio. È facile che il profeta venga percepito dai suoi contemporanei come un disfattista, che non collabora con lo sforzo militare. E per questo verrà, infatti, minacciato («Non profetare nel nome del Signore, sennò morirai per mano nostra», Ger 11,21), imprigionato (Ger 37-38) e alla fine addirittura deportato a forza in Egitto, il nemico di coloro ai quali Geremia invitava ad arrendersi (Ger 43,1-7).

Non è un caso che la tradizione vuole Geremia morto martire. Il suo libro o altri scritti biblici non ne dicono niente, ma sarebbe coerente con la sua esperienza.

Una persona tormentata

Già il contesto e il messaggio di Geremia ci hanno messo di fronte a una situazione complessa, faticosa.

Ma a tutto ciò si aggiunge anche la personalità del profeta, che non è un combattente e non vorrebbe essere dove si trova né dire ciò che deve proclamare. Si ritiene troppo giovane e incapace di parlare in pubblico (Ger 1,6), è costretto ad annunciare al suo popolo che subirà violenza e oppressione e per questo, quando le cose vanno ancora bene, viene preso in giro (Ger 20,8) e gli viene fatto notare che ciò che annuncia non si compie (17,15). Viene rifiutato dalla sua famiglia (12,6) e si lamenta più volte della propria sorte, che non avrebbe desiderato: «Ahimè, madre mia, che mi hai generato uomo di litigio e discordia!» (15,10). Eppure, ribadisce di non aver voluto annunciare il lutto e la distruzione, ma di essere semplicemente stato mandato da Dio a farlo (17,16).

In una letteratura e in un mondo culturale che non erano abituati a cogliere e quindi a narrare le lotte interiori, Geremia appare dilaniato dal desiderio di rinunciare al proprio mandato  di parlare a nome di Dio, un compito che sente scaturire da dentro sé: «Mi hai sedotto, Signore, e io ho lasciato che tu mi seducessi. Mi hai violentato, sei stato più forte di me. Mi dicevo che non avrei più pensato a te, non avrei più parlato in nome tuo, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9).

Emerge il ritratto di un uomo mite e timido che è costretto ad annunciare un messaggio duro e luttuoso, non viene creduto e viene schernito, e si mortifica ancora di più per la propria sorte. È un uomo passionale e delicato che vive in un tempo di guerra e crudeltà. L’uomo sbagliato nel tempo sbagliato.

Il sogno di Geremia

Certo, Geremia non annuncia soltanto distruzione e morte. Nutre un sogno che prende poco alla volta forma ed esplode nel capitolo 31. Il sogno è quello di un’alleanza nuova tra Giuda e Israele da una parte e il Signore dall’altra. Senza dubbio un’alleanza c’era già stata, scaturita dalla liberazione dal potere oppressivo dell’Egitto, il che suona quasi come ironico per chi sperava proprio da quel paese la salvezza contro i babilonesi, ma quella alleanza era stata infranta proprio da Israele. Per questo serve un’alleanza nuova che non sia una riedizione di quella vecchia. Geremia la immagina non scritta sulla pietra, ma nel cuore, sull’organo che secondo gli ebrei era la sede delle decisioni: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore (ossia “penseranno spontaneamente come Dio, si sintonizzeranno naturalmente con lui”)», «non dovranno più istruirsi l’uno con l’altro, invitandosi a conoscere il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34).

Geremia sogna una umanità capace di entrare in armonia profonda con Dio, al punto da non avere più bisogno di maestri, di mediatori, di motivatori. E allora, finalmente, Dio perdonerà tutto, non ricorderà più il peccato, perché si troverebbe davanti un’umanità amante, pronta a vivere in intimità con lui. E quello che Dio vuole non è essere ubbidito ma amato, e non vede l’ora di perdonare e riprendere a vivere insieme in comunione.

Il sogno di Geremia prosegue: il Signore, che ha disposto gli astri e garantisce il succedersi del giorno e della notte, promette che si dimenticherà della sua alleanza solo quando anche le leggi di natura non funzioneranno più, cioè mai.

Geremia sogna quell’armonia profonda di cui non ha mai potuto godere, cogliendo che proprio e soltanto quella è anche il sogno di Dio, che minaccia costantemente vendetta e punizione, ma sempre spera di non doverle mettere in pratica.

Il messaggio di Geremia

C’è allora qualcosa che questo complicato e sofferente profeta può affidare anche a noi oggi?

Quello che Geremia vuole, un rapporto con Dio senza mediatori, senza sacerdoti, senza tempio, senza legge, è l’intuizione di un rapporto con il Signore immediato, senza strumenti e quindi anche senza garanzie, ma profondo e spontaneo. Non come due soci in affari, ma come due innamorati.

Geremia sogna una relazione fatta non di certezze, di assicurazioni, ma di fiducia, in cui l’uomo impari finalmente a vivere pienamente, senza nulla che possa illudere di poter tenere Dio sotto controllo, ma fidandosi soltanto della sua promessa che ci sarebbe stato sempre. Semplicemente un rapporto di amore, di affidamento reciproco.

E Geremia predica questo sogno in uno dei momenti più cupi della storia d’Israele, nella consapevolezza di essere la persona sbagliata, nel dramma personale di non sentirsi a posto. Se Osea riceve da Dio l’invito a confidare in lui e amarlo anche fuori dagli schemi attesi, Geremia non si vede neppure spiegare la missione, ma la deve vivere senza capirla fino in fondo. Anche in questo caso, però, ha senso fidarsi semplicemente di Dio, affidarsi a lui, comprese scelte concrete come comprare un campo mentre sta arrivando un esercito invasore (Ger 32) o invitare gli esiliati del 597 a cercare il bene nella terra nella quali sono stati deportati (Ger 29), senza temere che questo significhi tradire il Signore. Proprio mentre l’esercito della terra in cui vivono sta marciando contro la patria nella quale erano nati.

Geremia coglie un Dio che si fa trovare ovunque, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si ha l’impressione di essere sbagliati e al posto sbagliato. Anche in quelle situazioni, è Dio l’autentico e unico pastore di Israele (Ger 23,1-8), che resta presente e vigila sui suoi, come rassicura la prima visione dell’intero libro (Ger 1,11-12): Dio veglia, Dio c’è. «Tu continua solo ad aver fede» (Mc 5,36).

Angelo Fracchia
(Camminatori 09 – continua)




A riflettori spenti


Pierpaolo Mittica è un fotogiornalista conosciuto a livello internazionale. Il centro del suo lavoro è il racconto della vita di chi ha subito guerre o catastrofi. Ciò che accade alle persone quando l’attenzione dell’informazione cala. In Bosnia come in Ucraina.

Fotografo umanista: Pierpaolo Mittica, classe 1971, non potrebbe essere definito diversamente. Conosciuto e premiato a livello internazionale, le sue fotografie sono state esposte in Europa, Stati Uniti e Cina e pubblicate dai più importanti periodici in Italia e all’estero1.

I suoi documentari trasmessi da Prime video, Al Jazeera e Discovery Channel, solo per citare alcune delle piattaforme più note.

Eppure, il successo non ha scalfito l’umanità e l’attenzione che Pierpaolo dedica a ogni storia.

Lo intervisto poco dopo il suo rientro dall’Ucraina dove si è recato a distanza di diversi mesi dallo scoppio della guerra. Ha aspettato ad andarci, perché quello che interessa a lui non sono sangue e pallottole, ma ciò che resta, le piccole storie dimenticate dai grandi media.

Polaroid e Neorealismo

Ha solo dodici anni Pierpaolo quando lo zio, Alfredo Fasan, fotografo professionista, gli regala una Polaroid e lo inizia ai segreti della camera oscura. Subito capisce che la narrazione attraverso le immagini è qualcosa di potente, e se ne innamora.

A diciotto anni si reca a Spilimbergo e fa da assistente a Giuliano Borghesan, uno dei maestri della fotografia italiana che negli anni Cinquanta scrisse con la luce pagine memorabili del Neorealismo in Friuli.

Pierpaolo che spazia dal ritratto alla fotografia di viaggio, sempre mantenendo alta l’attenzione sulle persone.

Sono le persone, infatti, le loro storie, la loro cultura, ad attrarre lo sguardo del giovane fotografo, specialmente le vite dimenticate, quelle ai margini.

La Bosnia: ciò che resta

È il 1998 quando Pierpaolo decide di documentare le conseguenze della guerra dei Balcani.

Il fotografo parte per Sarajevo perché gli sembra impossibile che il conflitto, così vicino a casa sua, sia già dimenticato.

Va in Bosnia con due idee molto chiare sul suo lavoro: la prima è che la guerra guerreggiata non fa per lui. Non vuole raccontare il sangue, il dolore dei soldati feriti, il lutto per i compagni morti, lo strazio delle armi e della violenza.

In fondo, un soldato che muore sul campo fa il proprio lavoro, come un giornalista di guerra, un umanitario, o qualsiasi figura legata allo sporco affare che sono i conflitti in armi.

La seconda idea chiara, forse ancora più importante, è quella di voler raccontare chi è sopravvissuto e deve sopravvivere in un paese dove non ci sono più Stato, leggi, rispetto per la vita.

Pierpaolo vuole raccogliere ciò che resta quando si è perso tutto, le piccole storie, quelle che si tende a dimenticare o a nascondere. E racconterà l’alienazione delle persone di fronte al loro presente, al futuro, e rispetto al loro passato. E la coscienza sporca dell’Europa che ha permesso per troppi anni genocidi e pulizie etniche.

India in bianco e nero

Dopo la guerra dei Balcani, Pierpaolo, spinto dalla voglia di incontrare un luogo dell’anima, decide di partire per l’India.

Il Paese lo colpisce più forte del previsto, nel bene e nel male. Si rende presto conto che l’impatto emotivo non è mai calcolabile, esistono cose, infatti, che non si possono capire senza viverle in prima persona.

Racconta Varanasi e le città legate a culti spirituali profondi, le tradizioni, le baraccopoli, le fogne a cielo aperto, gli odori terribili che si mescolano agli incensi votivi. L’olfatto, in India, viene temprato per sempre. E poi la vista: caos, disordine, densità di persone, cose e colori. E suoni ovunque.

I sensi vengono coinvolti totalmente, e Pierpaolo comprende che l’unico modo per non farsi distrarre da tutta quella realtà è l’uso del bianco e nero. Eliminando una parte di sollecitazioni, può toccare l’anima di quel mondo straordinario.

Chernobyl: il veleno invisibile

È nel 2002 che il lavoro di Pierpaolo incontra una realtà che non abbandonerà mai: quella di Chernobyl e dell’Ucraina.

Non è per lui una realtà sconosciuta, ma l’incontra in modo particolare durante una cena con amici, dove conosce Ivana Rizzo, presidente di un’associazione che aiuta i bambini vittime dell’esplosione della centrale nucleare avvenuta nel 1986: i piccoli vengono portati in Italia durante le vacanze perché possano allontanarsi per un periodo dalle zone contaminate.

Pierpaolo ascolta Ivana parlare di villaggi contaminati ma ancora abitati, sia in Bielorussia che in Ucraina, e di una seconda zona di esclusione oltre i 30 km di raggio attorno alla centrale. Decide così di partire per vedere con i propri occhi. Ben presto comprende che quel poco che sapeva era solo la punta di un iceberg sporco e profondissimo.

Le zone contaminate, infatti, sono abitate, e i cittadini non sanno nulla dell’effetto delle radiazioni a lungo termine.

Il popolo si fida del governo e così coltiva, alleva, utilizza terre che provocano effetti disastrosi sulla salute: infarti del miocardio, malformazioni, tumori.

Il 70% dei bambini nati dopo l’esplosione della centrale è destinato a morire fra i trenta e i quarant’anni.

Pierpaolo si concentra sulle zone di esclusione. Va a Radinka, un villaggio situato a 300 metri oltre il margine della zona di esclusione di Chernobyl, nell’oblast’ di Kiev, a 50 km dal confine con la Bielorussia. Incontra lo scienziato bielorusso Yuriy Bandazhevsky che da anni studia le conseguenze della contaminazione sui bambini residenti a Radinka e nella provincia di Ivankov e combatte, per far conoscere la verità, contro le autorità locali, internazionali e la lobby atomica.

Oggi l’80% degli oltre 3.700 bambini esaminati residenti in quelle terre ha turbe del ritmo cardiaco in relazione diretta con la quantità di cesio incorporata. Inoltre, il 30% presenta una contaminazione interna da cesio 137 sopra i 50 Bq/kg (Becquerel al chilogrammo), livello che provoca diverse patologie.

Da questo progetto lungo di versi anni, deriverà un altro lavoro del fotografo su Kiev, città che al tempo dell’incidente nucleare aveva ospitato molti sfollati dalla zona coinvolta.

Ucraina: seconda famiglia

È il 24 febbraio del 2022: la Russia invade l’Ucraina alle 4 del mattino. Pierpaolo vorrebbe partire subito, ma non è possibile: Chernobyl è occupata dai russi e, anche quando viene liberata, i permessi per entrare e documentarla non arrivano.

Lui non vuole raccontare i soldati, l’occupazione, le morti: ancora una volta il suo sguardo è rivolto al popolo che subisce le conseguenze della guerra.

Questa volta però, a differenza della Bosnia, per Pierpaolo la storia si svolge nella sua seconda casa. Le persone con cui ha condiviso anni di lavoro per raccontare disastri, censure, dolore, dimenticanza, ora sono di nuovo in pericolo.

I permessi arrivano nel novembre 2022, e il fotografo parte con Alessandro Tesei, il videomaker con cui lavora da anni.

L’idea è di arrivare a Kiev e poi spostarsi, permessi permettendo, a Chernobyl. Ma subito i due si rendono conto che Kiev, come le cittadine limitrofe, racconta storie che non trovano voce e ascolto.

L’inverno è freddo, si arriva a meno venti gradi, e le persone si preparano ad affrontarlo senza elettricità e riscaldamento, avvolti dalla neve e dalla paura.

Pierpaolo si muove, dunque, raccontando le persone che provano a sopravvivere. Si fa strada tra le case e i palazzi divelti dalle bombe, ascolta e racconta le vite quotidiane senza cercare la foto d’effetto. Allo stesso tempo vuole comprendere le reali motivazioni dell’attacco russo: pensa che la Nato e il sentirsi minacciati siano una scusa di Putin per prendersi territori che offrono molte opportunità. Da anni infatti, Russia e Cina si contendono l’Africa, e uno sbocco sul mare rende questo continente più raggiungibile. Accesso al mare e accesso alla quinta riserva di gas più grande al mondo, quella del Donbass, sono motivazioni più che valide, più della minaccia della Nato.

Il timore di Pierpaolo, oggi, è che la guerra si incancrenisca, continuando a fare vittime fra una popolazione già allo stremo.

Il senso del fotogiornalismo

Passione, amore, empatia, modestia: per fare il lavoro più bello del mondo non c’è la ricetta perfetta, ma questi quattro elementi non devono mancare.

Pierpaolo parla dei sacrifici necessari per raccontare le vite degli altri, ma anche della bellezza delle esperienze che si fanno.

Accanto ai progetti raccontati finora, dal 2002 Pierpaolo ne porta avanti un altro intitolato Living Toxic, un lavoro a lungo termine che si propone di raccontare tutti i tipi di inquinamento che stanno mettendo in pericolo l’ambiente. Da Chernobyl a Fukushima, dall’incidente nucleare di Mayak fino all’estrazione di carbone in Cina. Sempre con l’obiettivo di sensibilizzare e far comprendere con un linguaggio semplice ciò che rischiamo di perdere, perché, come dice il fotografo, «stiamo distruggendo la nostra casa, esserne consapevoli è il primo passo per attuare un cambiamento».

Valentina Tamborra

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Note

1- Tra le testate che hanno pubblicato foto di Pierpaolo Mittica: l’Espresso, la Repubblica, il Corriere della Sera, Days Japan International, Asahi Shinbum, The Telegraph, The Guardian, Sueddeutsche Zeitung, Der Spiegel, De Zeit, Wired USA, Asian Geo, China Newsweek, National Geographic.




Kenya. Due donne e la Rieti farm


Sara e Gladys, una volontaria e una suora, fanno una scommessa vincente sulla voglia di riscatto e sull’energia di altre donne, e sulle capacità organizzative di una
piccola Odv trevigiana. Nel giro di un decennio cambiano il volto e la qualità della vita di una comunità a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria.

A Manyonge, un villaggio rurale di un migliaio di abitanti nella Siaya County, a due passi dalla sponda keniana del grande Lago Vittoria, Un articolato progetto di agricoltura sociale con l’impiego di nuove tecniche di coltivazione è diventato strumento di promozione della parità di genere e di tutela dei diritti umani.

La storia collega quel lontano lembo d’Africa con Montebelluna (Treviso), dove è nata nel 1987 l’Associazione volontariato insieme (Avi), promossa dallo scomparso padre Pierino Schiavinato, Missionario della Consolata (1939-2016).

L’associazione ha avuto come primo presidente Daniele Schiavinato, un fratello di padre Pierino che tutt’ora vive nella storica missione keniana di Mujwa (fondata nel 1911), dove ha creato un’impresa sociale rilanciando l’attività di una vecchia falegnameria che i Missionari della Consolata avevano avviato ancora in epoca coloniale. Per oltre vent’anni è stata guidata da Gino Merlo, che ne ha forgiato l’attuale impronta all’insegna del motto «se non fai niente non succede niente», e che ha poi passato il testimone all’attuale presidente Francesco Tartini.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

Due agronome

Sara P., montebellunese di nascita, anche se oggi vive sull’Appennino romagnolo, ha conseguito a Padova una laurea triennale in Cooperazione allo Sviluppo con specializzazione in area rurale, e ha poi completato gli studi a Firenze, con una laurea magistrale in Studi geografici e antropologici.
Gladys Adiambo Owuor è, invece, una religiosa keniana delle Franciscan sisters of st. Anna (Fsa), congregazione nata in Olanda nella prima metà dell’Ottocento che oggi ha la sua casa generalizia a Nairobi. La tonaca non le ha mai impedito di salire su un trattore o sul sellino posteriore di una moto, e accanto alla professione di fede può vantare anche un diploma in agronomia.

Nel 2004 le Fsa acquistano a Manyonge una tenuta agricola semi abbandonata di circa 8 ettari, digradanti verso il fiume Yala, e da quel momento suor Gladys inizia a coltivare il sogno di rivitalizzare la «Rieti farm» (così ribattezzata dopo un soggiorno di alcune suore nella cittadina laziale) e di trasformarla in un centro comunitario capace di migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Il sogno inizia a concretizzarsi nel 2013 quando Sara decide di visitare l’ovest del Kenya, un territorio lontano dagli usuali percorsi turistici, e viene accolta nella missione in cui suor Gladys vive e presta il suo servizio, trovandosi a condividere idee e progetti di sviluppo di quel grande appezzamento di terreno.

Suor Gladys ha in mente di realizzare una fattoria modello che possa affiancare alla produzione di frutta e ortaggi anche un centro di formazione per gli agricoltori locali, per metterli in condizione di valorizzare al meglio i loro piccoli appezzamenti, e che possa incentivare la piccola imprenditoria femminile.

In Kenya le donne hanno un ruolo centrale nella lavorazione manuale dei campi, così come in tutti gli aspetti della vita economica e sociale, ma nel contempo soffrono una forte disparità di genere che le priva di diritti umani fondamentali e le sovraccarica di responsabilità familiari.

L’agricoltura praticata dalle donne Luo, l’etnia prevalente nella Contea di Siaya, è di mera sussistenza, incentrata su piccoli appezzamenti di terreno coltivati con metodi tradizionali, qualche capra e qualche pollo, e nelle famiglie più fortunate una mucca.

Le colture principali, destinate all’autoconsumo e al piccolo commercio locale, sono mais, sorgo, fagioli, piselli, arachidi, cassava, patata dolce, cavoli e banana. In un contesto così povero, anche a causa della deforestazione e di attività estrattive che hanno ridotto la biodiversità, alto è il rischio di abbandono della scuola e delle coltivazioni da parte della componente giovanile della comunità, per inseguire il miraggio di una vita migliore in qualche grande città come Kisumu. Un sogno che, per lo più, si infrange nelle squallide baraccopoli di periferia.

coltivazioni e consociazione tra alberi e piante orticole

I sogno diventa realtà

Sara raccoglie le idee dell’amica suor Gladys ma anche dati statistici e analisi socio economiche. Studia le linee di sviluppo del governo nazionale ed elabora il tutto mettendo a frutto i propri studi universitari, arrivando alla stesura del progetto: «Agricoltura, sicurezza alimentare e salute: il centro comunitario per lo sviluppo rurale integrato “Rieti farm”». Esso si propone di contrastare la povertà e la malnutrizione infantile con il miglioramento delle pratiche agricole, la diversificazione delle piccole produzioni locali e altre strategie per l’incremento del reddito, e soprattutto con il rafforzamento delle organizzazioni femminili. Il tutto garantendo al massimo l’equilibrio con il fragile ambiente naturale.

La scommessa è quella di trasformare un’agricoltura di sussistenza in un’agricoltura di resistenza e resilienza.

Resistenza e resilienza contro la tentazione di abbandonare il duro lavoro dei campi, regolato per secoli dai cicli delle piogge che i cambiamenti climatici hanno irreversibilmente alterato, e contro la deforestazione causata dalle monocolture industriali, come le piantagioni di ananas, quelle di palma da olio per il biodiesel o le coltivazioni in serra di rose che hanno ormai avvelenato, con il massiccio impiego di pesticidi, il Lago Naivasha.

sopralluogo al punto di prelievo acqua irrigua dal fiume Yala -2016

Il coinvolgimento dell’Avi

A questo punto inizia la ricerca dei finanziamenti, e per Sara è naturale bussare alla porta dell’Avi che, pur essendo una piccola organizzazione, opera in Kenya da oltre trent’anni. L’associazione ha una buona esperienza in materia di bandi pubblici, e ha già realizzato con successo alcuni progetti alimentari finanziati dalla Presidenza del Consiglio, grazie ai fondi dell’otto per mille che sono gestiti direttamente dallo stato e sono destinati a contrastare la fame nel mondo.

Il progetto della «Rieti farm» viene adattato alle linee guida di Palazzo Chigi e presentato nel 2014. La risposta positiva arriva l’8 febbraio 2016. Nel frattempo, il 24 maggio 2015 papa Francesco ha regalato al mondo la sua enciclica Laudato si’ che esorta alla cura della «casa comune» offrendo nuove importanti motivazioni per realizzare il progetto.

Dopo una missione di verifica in loco e una rimodulazione del quadro economico, la prima tranche viene accreditata alla fine del 2017, e i lavori iniziano a febbraio 2018.

particelle per coltivazioni dimostrative -2019

Investimenti

Tra il 2018 ed il 2020 si procede alla recinzione dell’intera proprietà e al rifacimento dell’impianto di irrigazione, per il pompaggio dell’acqua del fiume Yala sino alla parte sommitale della fattoria, dove vengono collocati quattro serbatoi sopraelevati da 10mila litri e un quinto da 6mila, che poi la distribuiscono per caduta ai vari appezzamenti coltivati. Vengono ristrutturati alcuni edifici già presenti, ricavandone un ufficio con la necessaria dotazione tecnologica, una sala riunioni, una cucina condivisa e alcuni alloggi per i dipendenti, con servizi igienici. Nel tempo arriva anche l’allacciamento alla rete elettrica che consente la sostituzione della vecchia pompa a diesel e l’illuminazione dei fabbricati. Viene acquistata una moto per gli spostamenti del personale e anche tendoni e sedie per ospitare i seminari di formazione.

La gente di Manyonge ha sempre utilizzato l’acqua del fiume anche per usi domestici, limitandosi a farla bollire. Il progetto iniziale prevede soltanto la realizzazione di un serbatoio e di un impianto di filtraggio per distribuirla chiarificata in prossimità del villaggio, evitando alla popolazione una lunga discesa sino alla riva dello Yala, sempre con l’occhio attento ai coccodrilli.

Ci si accorge ben presto che non è una soluzione sufficiente e Avi riesce a ricavare dal proprio bilancio ulteriori risorse per realizzare un pozzo che pesca l’acqua potabile a 80 metri di profondità. Per la comunità di Manyonge, e soprattutto per i bambini, più esposti alle patologie intestinali, la qualità della vita fa un gigantesco passo avanti.

S.P. e sr. Gladys all’uscita da un ufficio governativo a Siaya -2016

Produzioni

Vengono selezionati e messi a dimora piante particolarmente adatte alla tipologia di terreno e al clima, resistenti alle fitopatie e alla siccità, e allo stesso tempo rispondenti alle abitudini alimentari della popolazione. Alle orticole e alle leguminose si affianca la frutta tropicale per la quale il Kenya è famoso: ananas, banano, papaya, frutto della passione, mango, avocado, ma anche arance e meloni.

Il progetto prevede pure la costruzione di una stalla e l’acquisto di cinque mucche da latte, libere di muoversi in un’area a pascolo dove vengono seminate erbe specifiche per l’alimentazione bovina, mentre il letame viene reimpiegato per la fertilizzazione del terreno.

A seconda delle stagioni, la produzione oscilla dai venti ai quaranta litri di latte al giorno, sufficiente per soddisfare le esigenze di una trentina di famiglie, ma la domanda è molto più alta.

Allevamento, orticoltura e attività agroforestali sono praticate in sinergia, con gli obiettivi di ottenere un buon livello di fertilità del terreno, alternare le aree a pascolo con le aree coltivate, nutrire gli animali con foraggio e fieno autoprodotti, ottenere alimenti sani e vitali, instaurare un ciclo produttivo virtuoso per l’uomo e per l’ambiente e incentivare gli agricoltori locali a riprodurlo nelle rispettive piccole proprietà.

La produzione del centro comunitario viene venduta sul mercato locale: in parte alle mense scolastiche della subcontea, in parte alla popolazione delle immediate vicinanze che la acquista all’ingrosso per rivenderla al mercato e incrementare il proprio reddito. I ricavi ottenuti dalla vendita permettono al centro di sostenere le proprie attività al servizio della comunità.

Incontro volontari AVI con gruppi femminili della comunità di Manyonge -2016

Formazione

Alla Rieti farm viene introdotta la riforestazione, piantando oltre tremila alberi per contrastare l’erosione del suolo, fungere da barriera frangivento e ombreggiare il terreno, in modo da conservarne l’umidità e proteggere le orticole e le piante da frutto dal torrido sole tropicale.

La presenza di varietà arboree è di importanza strategica per la funzione educativa del centro, dove i piccoli produttori locali apprendono un nuovo approccio all’agricoltura che integra consapevolezza ecologica e conservazione ambientale.

Parte del terreno viene destinata a produzioni dimostrative che consentono di trasmettere la pratica della pacciamatura (tecnica agricola di protezione del suolo intorno alle piante, ndr) per conservare al massimo l’umidità naturale, la rotazione delle coltivazioni.

Le attività formative prevedono anche l’organizzazione di visite guidate in altre fattorie della regione, strategie di diversificazione del reddito domestico incentrate su pollicoltura e apicoltura, strategie di commercializzazione dei prodotti agricoli e tecniche di conservazione e stoccaggio dell’ortofrutta e dei prodotti caseari.

Attenzione particolare viene dedicata alla gestione dell’acqua, alle tecniche di potabilizzazione domestica, alle malattie veicolate da acqua infetta e alla loro prevenzione, e anche al riutilizzo a scopi irrigui.

Altri percorsi formativi sono incentrati su gestione della salute e la prevenzione delle patologie più comuni nella zona, come la malaria, la nutrizione bilanciata e le tecniche di conservazione e la preparazione del cibo, le dinamiche familiari, il ruolo maschile e femminile e quello dei giovani, i cambiamenti culturali e i conflitti intergenerazionali.

Durante l’emergenza Covid questi incontri hanno confortato e supportato una comunità disorientata e allarmata, e il centro ha assunto anche un ruolo di ammortizzatore sociale, interfacciandosi con le istituzioni locali e offrendo alla popolazione informazioni e materiali utili alla prevenzione del contagio.

Visitatori speciali

il nuovo apiario e l’arrivo delle attrezzature per la lavorazione del miele

L’attività del Centro è stata occasione formativa anche per alcuni studenti dell’istituto agrario Sartor di Castelfranco Veneto (Tv), che, nel 2018 e nel 2019, ha organizzato due visite in loco di altrettanti gruppi di studenti guidate dalla dirigente Antonella Alban, che lasceranno un ricordo indelebile nei giovani partecipanti.

Nel tempo la Rieti farm è diventata una tappa obbligata anche per chi si avvicina all’Avi per dedicare le proprie vacanze a visitare i suoi progetti di cooperazione internazionale.

Nuove idee, nuovo progetto

La pandemia ha dilatato di circa un anno i tempi di realizzazione del progetto, e la decisione del governo del Kenya di chiudere per l’intero anno scolastico 2020  tutte le scuole ha fortemente penalizzato la vendita dei prodotti alle mense, che dopo l’emergenza è fortunatamente ripresa.

Suor Gladys viene scherzosamente ribattezzata Iron sister per la tenacia e l’energia con le quali, a dispetto del suo fisico minuto, riesce a coordinare ogni cosa, mentre Sara svolge dall’Italia un lavoro certosino e prezioso di gestione contabile. Da questo scambio continuo nascono fatalmente nuove idee, anche per rispondere alle nuove fragilità sociali che la pandemia ha portato con sé.

Nasce così il nuovo progetto «A rural hub for change» con l’obiettivo di affrontare la crisi sociale ed economica che il Covid-19 ha lasciato in eredità, allargando l’ambito di azione anche ad altri villaggi della contea e perseguendo due obiettivi specifici: il contrasto alla disoccupazione giovanile e la valorizzazione del ruolo femminile nei processi di trasformazione e sviluppo delle comunità rurali.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

Sara e Gladys definiscono precise linee strategiche di intervento, volte a consolidare i risultati già acquisiti e a raggiungerne di nuovi: produzione agricola basata sulla diversificazione e sull’introduzione di nuovi prodotti come miele e funghi shitake; acquisto di nuove mucche da latte; realizzazione di un laboratorio per la trasformazione dei prodotti; formazione di gruppi di giovani e di donne in attività agricole sostenibili e generatrici di reddito. Ma anche consulenza per l’avvio di piccole imprese agricole; formazione nell’ambito della promozione della salute, della prevenzione, della nutrizione, dell’ecologia e della sostenibilità ambientale; promozione della cultura e dell’informazione attraverso la creazione di una biblioteca di comunità.

Gli investimenti prevedono l’acquisto di un trattore per ridurre la necessità di lavoro manuale e garantire alle lavoratrici una maggiore disponibilità di tempo per la vita familiare e la formazione personale; la costruzione di un apiario e di una fungaia; la realizzazione di un vivaio per diffondere l’agroforestazione, la realizzazione di un laboratorio per la produzione di marmellate, conserve e altri trasformati e, non ultimo, la costruzione di una biblioteca comunitaria, con annessa sala riunioni, a supporto delle attività educative e formative.

Il sostegno al piccolo allevamento come attività integrativa di reddito

In questa nuova fase vengono individuati come possibili beneficiari delle azioni di supporto alla piccola imprenditoria locale 250 giovani tra i 18 ed i 35 anni, e 150 donne. Mentre le attività formative e il servizio biblioteca si stima possano raggiungere 900 persone tra adulti e minori.

Nel frattempo, il Centro comunitario Rieti farm è diventato un punto di riferimento per le istituzioni locali, come gli uffici regionali del ministero dell’Agricoltura, la Jooust University di Bondo e due istituti agrari della contea, e ha istaurato collaborazioni e scambi anche con altri progetti di agricoltura sostenibile promossa nella regione da varie organizzazioni internazionali.

Avi, Montebelluna

cancello e viale di ingresso alla fattoria




La Cina è latina


Sono molti i paesi latinoamericani che firmano accordi commerciali con la Cina. La «Belt and road initiative» dà la possibilità al gigante asiatico di intensificare gli investimenti. Le aziende tecnologiche cinesi sono sempre più presenti nel continente, il che diventa un’influenza geopolitica. Cosa che non piace agli Usa, storicamente «padroni» di quel territorio.

La «trade war» con gli Stati Uniti, la corsa ai materiali critici, ma anche la necessità di trovare nuove opportunità di investimento e assoldare ulteriori partner per portare avanti la riforma dellʼordine mondiale: la Cina ha molte buone motivazioni per guardare allʼAmerica Latina. E i numeri confermano come lʼinteresse sia già tangibile. Complice il clamoroso ritardo di un Occidente restio a concretizzare le annose mezze promesse. Ad esempio, Guillermo Lasso, presidente uscente dell’Ecuador, liberale e con un passato da dirigente alla Coca Cola, il 15 maggio ha siglato un accordo di libero scambio con Pechino. Non è il solo da quelle parti a rivolgere lo sguardo a Oriente. Cile, Costa Rica, Perù, Paraguay, Uruguay e Honduras hanno già firmato trattati analoghi o si apprestano a farlo.

Mentre gli Stati Uniti, potenza regionale, frenano lʼespansione dei commerci citando il mancato rispetto dei diritti umani, la Cina – con circa 500 miliardi di dollari di interscambio – è ormai il secondo partner commerciale per tutta lʼAmerica Latina dopo Washington. Nel Sud America è già il primo. Soia, grano, mais, cotone, tabacco e carne bovina: sono alcuni dei 106 prodotti statunitensi a cui Pechino nel 2018 ha applicato tariffe rialzate fino al 25% per rappresaglia contro i dazi imposti da Donald Trump sulla tecnologia cinese. Questi prodotti oggi guidano la lista delle esportazioni dallʼAmerica Latina verso la Repubblica popolare cinese (Rpc). Più merci scambiate vuol dire anche maggiori occasioni per effettuare pagamenti in valuta locale, tanto che recentemente lo yuan, la moneta cinese, ha superato lʼeuro come seconda valuta di riserva estera del Brasile.

La via della seta

Poi ci sono gli investimenti. Oltre venti paesi dellʼAmerica Latina hanno aderito alla Belt and road initiative (Bri), il progetto lanciato da Pechino nel 2013 per costruire reti di trasporto in giro per il mondo. Dal 2005 al 2022 le banche cinesi hanno concesso prestiti ad aziende e governi regionali per oltre 136 miliardi di dollari. Dopo un periodo di assestamento, lʼultimo anno è stato contraddistinto da un ritorno ai finanziamenti su larga scala, con un crescente interesse per le energie rinnovabili anziché per lʼindustria petrolifera. Seguono tecnologia digitale, scienze e tecnologie agrarie, e comunicazioni satellitari: la Cina cementa la propria presenza nel continente e lo fa intercettando abilmente le aspirazioni dei governi in carica.

Gli avvertimenti americani sono serviti a poco: Huawei – bandita (completamente o in parte) dal 5G di una decina di paesi europei -, secondo il Center for latin america and latino studies, avrà verosimilmente accesso alla rete di Colombia, Venezuela, Cile, Argentina e Uruguay. Forse anche del Brasile, dopo lʼuscita di scena del sinoscettico Jair Bolsonaro e lʼelezione a presidente di Lula, che ha personalmente visitato un centro di ricerca Huawei durante un viaggio a Shanghai dello scorso aprile.

(Photo by Luis Barron / Eyepix Group). (Photo by Eyepix/NurPhoto)

Aziende cinesi in America Latina

La regione è sempre più laboratorio per lʼinternazionalizzazione delle aziende tecnologiche cinesi: in Colombia, quella di Didi è stata lʼapp di trasporto più scaricata del 2020, mentre lo scorso luglio il colosso cinese delle auto elettriche Byd ha annunciato che investirà 624 milioni di dollari in Brasile per costruire un nuovo complesso industriale, il suo primo impianto fuori dallʼAsia.

La Cina raccoglie anche quanto lasciato dallʼOccidente. Nella lista figurano dieci progetti idroelettrici in Brasile abbandonati dallʼamericana Duke Energy nel 2016, nonché quote di partecipazione nel colosso del litio cileno Sqm, lasciate due anni più tardi.

«Washington è come la Chiesa cattolica, i cinesi sono come i mormoni»: è il paragone eloquente utilizzato da un ministro degli Esteri latinoamericano, citato dal Financial Times, per descrivere lʼapproccio pragmatico di Pechino in opposizione agli aut aut ideologici degli Stati Uniti, convinti che gli affari vadano subordinati alla difesa dei valori democratici.

La «nuova Africa»

Lʼimpressione è che lʼAmerica Latina stia diventando – insieme al Medio Oriente – la «nuova Africa». Lʼaumento del debito africano, la permeabilità del continente al terrorismo islamico, la corruzione dilagante stanno spingendo la Cina a diversificare i mercati di sbocco per i propri investimenti nonché ad assicurarsi nuovi fornitori di materiali critici. Secondo i dati del Servizio geologico degli Stati Uniti, Bolivia, Argentina e Cile sono i primi tre paesi al mondo per riserve di litio, rispettivamente con 21, 19,3 e 9,6 milioni di tonnellate. Lʼinnalzamento di barriere normative in Namibia e Zimbabwe ha reso più appetibili le miniere sudamericane.

Proprio come in Africa, ora quei contatti economici coltivati nelle ultime decadi diventano paravento per sinergie meno innocue. LʼAmerica Latina sta diventando lo scacchiere di una nuova partita tra grandi potenze che vede la penetrazione cinese assumere connotazioni non più solo economiche, ma anche politiche e militari. È il segno di come la capacità di stringere accordi commerciali, dispensare investimenti e concedere prestiti, abbia contemporaneamente assegnato a Pechino una preziosa leva diplomatica in unʼarea del mondo centrale nel risiko per la leadership globale. Inoltre, trattandosi del «cortile di casa» statunitense ogni vittoria cinese assume un valore simbolico elevatissimo.

President of Brazil Luiz Inacio Lula da Silva (L) and President of China Xi Jinping (R) (Photo by Phill Magakoe / AFP)

Taiwan

Tutto, o quasi, ruota intorno a Taiwan (vedi dossier su questo numero ndr), lʼisola che la Cina rivendica come parte integrante dei propri territori. La maggior parte dei paesi latinoamericani hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese subito dopo il viaggio a Pechino del presidente americano Richard Nixon nel 1972. Da allora il legame ideologico è servito da collante politico in tutti quei paesi storicamente guidati dalla sinistra, come Venezuela, Argentina, Cuba, Bolivia e Messico. Ciononostante, per decenni la regione è rimasta ugualmente una delle più accoglienti per Taipei, alleata degli Stati Uniti fin dalla Guerra fredda.

Una decina di stati latinoamericani ha continuato a tenere fede agli impegni presi negli anni ʼ40, quando – su istruzione dellʼamministrazione Truman – iniziarono a diventare ferventi anticomunisti.

Nel 2016 lʼarrivo al potere a Taiwan dei filo indipendentisti del Partito democratico progressista (Dpp, in inglese) ha spinto Pechino a ostracizzare ancora di più lʼisola, proprio sfruttando il forte ascendente economico. Da allora Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno interrotto rapporti ufficiali con Taiwan per riconoscere la Cina popolare. Alcune isole dei Caraibi, Haiti, Guatemala, Paraguay e Belize sono rimaste le uniche nazioni regionali con cui Taipei intrattiene ancora relazioni diplomatiche. Una fedeltà precaria spesso messa in discussione durante le campagne elettorali, quando promettere lʼarrivo di capitali cinesi torna comodo agli aspiranti presidenti. Dʼaltronde Taipei, sebbene non estranea alla cosiddetta «diplomazia dei dollari», ha presa ormai solo sulle nazioni meno sviluppate dellʼAmerica Latina, mentre i paesi più avanzati, come Panama, da tempo orbitano nella galassia cinese. Tanto che ad agosto il Parlamento centroamericano (istituzione politica per lʼintegrazione regionale, ndr) ha espulso lʼex Formosa come osservatore permanente dopo oltre ventʼanni.

Questione di sicurezza

Inutile dirlo, è una questione che preoccupa anche gli Stati Uniti. Quando El Salvador ha reciso i legami con Taiwan a favore della Repubblica popolare, al Congresso Usa è stata proposta la sospensione degli aiuti al governo di Nayib Bukele come monito per gli altri governi regionali ancora indecisi.

Il fatto è che il crescente affiatamento tra la dirigenza cinese e i leader dellʼAmerica Latina ha risvolti anche in termini di sicurezza. Come sottolinea su Asia Times Evan Ellis del Us army war college strategic studies institute, la Cina gestisce diverse strutture commerciali sparse tra Messico, Bahamas, Panama e nei Caraibi, potenzialmente utilizzabili per la raccolta di informazioni dʼintelligence. È uno degli aspetti più controversi della Belt and Road Initiative, additata dai detrattori.

A giugno il Wall Street Journal ha riacceso i riflettori sulla presenza a Cuba di avamposti utilizzati dal ministero della Sicurezza dello stato cinese ad appena 100 miglia dalle coste della Florida. Non è esattamente una novità: la Cina utilizza lʼisola caraibica per la raccolta di informazioni militari fin dal 1999, quando LʼAvana ha concesso al governo cinese di stabilirsi a Bejucal, città a sud della capitale, in una struttura dove operavano precedentemente i servizi sovietici.  Per stessa ammissione della Casa bianca, nel 2019 Pechino avrebbe provveduto a potenziare la base, non è chiaro se in cambio di nuovi investimenti nel paese o della rinegoziazione dei debiti, annunciata lo scorso novembre. Sempre secondo fonti del quotidiano finanziario (Wsj), la possibile nuova struttura militare fa parte del «Progetto 141», unʼiniziativa con cui la Cina mira a espandere la propria rete di supporto militare e logistico in tutto il mondo.

Mentre la vicinanza geografica agli Stati Uniti rende gli stati latinoamericani degli avamposti troppo vulnerabili per un attacco navale in caso di guerra, la stessa prossimità fisica si rivela invece strategica per portare avanti operazioni di disturbo a livello di comunicazione elettronica. A questo proposito giocano a favore della Repubblica popolare gli accordi commerciali stretti a livello locale dalle big tech cinesi: ad esempio il G5 Huawei (azienda privata ma legata al governo cinese, accusata di spionaggio in vari paesi).

Come sottolinea sempre Ellis, lo scenario bellico più probabile coinvolge proprio Taiwan, definita da Pechino il «rischio più importante» per le relazioni con Washington. Un coinvolgimento degli Usa al fianco di Taipei potrebbe rendere necessario il supporto delle nazioni dellʼAmerica Latina.

(Photo by Ecuadorian presidential palace / XINHUA / Xinhua via AFP)

«Fratellanza Sud-Sud»

Ma lʼinvasione cinese dellʼisola – salvo colpi di scena – non sembra imminente. Più che a imbracciare le armi, nellʼimmediato, il sostegno della regione latinoamericana è teso perlopiù alla promozione di valori e aspirazioni condivise. La chiamano «fratellanza Sud-Sud», è la solidarietà che lega Cina e molti paesi emergenti, accomunati da un passato simile. Nel 1840, centinaia di migliaia di immigrati cinesi furono portati dai colonizzatori portoghesi e americani a Cuba e in Perù per lavorare come schiavi nelle piantagioni di canna da zucchero o nelle miniere dʼargento. Oggi gli echi di quellʼimperialismo occidentale nel cosiddetto «Sud globale» sono amplificati dal malcontento accumulato negli ultimi decenni a causa della mancata riforma dellʼordine internazionale. Da noi si parla di «revisionismo», ma per molti paesi emergenti lʼarchitettura mondiale è composta da istituzioni ormai obsolete che non rispecchiano adeguatamente i nuovi equilibri economici e geopolitici.

Nuovo ordine mondiale

Prendiamo i Brics, lʼacronimo composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Nata nei primi anni Duemila, lʼorga-nizzazione ha acquisito nuovo vigore dopo la guerra in Ucraina e la contestuale rinascita di un terzo blocco di nazioni «non allineate», ovvero non favorevoli allʼinvasione russa, ma critiche nei confronti della Nato. Sono sempre di più i paesi a valutare un ingresso nella piattaforma.

Nel 2022, anticipando lʼadesione dellʼArgentina, il presidente (uscente, ndr) Alberto Fernández ha definito il gruppo «unʼalternativa cooperativa a un ordine mondiale che ha lavorato a beneficio di pochi». Lo stesso vale per il Venezuela. Incontrando a Brasilia lʼomologo Luiz Inacio Lula da Silva alcuni mesi fa, Nicolas Maduro ha affermato che Caracas è pronta a contribuire alla «costruzione della nuova architettura geopolitica mondiale che sta nascendo». Si tratta di un supporto simbolico ma non solo, considerata la vagheggiata intenzione di introdurre una moneta dei Brics in grado di affrancare gli stati membri dal dollaro.

Ecco che, mentre oggi tutti gli occhi sono puntati su Taiwan e le acque agitate dellʼIndo-Pacifico, lʼepicentro della competizione tra Cina e Stati Uniti si sta spostando proprio in America Latina.

Alessandra Colarizi

Nel numero di ottobre abbiamo pubblicato un articolo sulla Russia in America Latina.


La storia infinita del canale del Nicaragua

Doppio canale

Agli inizi del Novecento gli Stati Uniti avevano due opzioni per la costruzione di un canale che mettesse in comunicazione il Pacifico con l’Atlantico: passare per il Nicaragua o attraverso Panama. Il Congresso votò per la seconda opzione. Non solo perché era il percorso più breve, ma anche perché permetteva di aggirare i vari vulcani attivi che costellano l’America Centrale.

Un secolo dopo, con l’aumento del traffico marittimo, l’idea di un’alternativa nicaraguense torna d’attualità. Stavolta sono i cinesi a fiutare l’affare, incoraggiati dalla nascente Bri e dal contestuale interesse economico di Pechino per i mercati emergenti.

Nel giugno 2013, la Hk Nicaragua canal development investment group (Hknd), società registrata a Hong Kong e guidata dall’imprenditore Wang Jing, ottiene una concessione di 50 anni per finanziare e gestire l’opera. Ma nel 2015 il terremoto del mercato azionario cinese compromette fortemente la stabilità finanziaria dell’ex miliardario e del suo impero economico. Tre anni dopo il progetto è praticamente da considerarsi defunto: non solo, nel frattempo la Cina ha ormai spostato molti dei suoi investimenti a Panama.

A seguito di difficoltà finanziarie, nel 2018 la Hknd chiude i suoi uffici e sparisce nel nulla. È solo nel novembre 2021 che Wang ricompare con una lettera di congratulazioni per la conferma del presidente Daniel Ortega a un quarto mandato. «Il Gruppo Hknd e io abbiamo fiducia nel progetto del Canale grande», scrive l’affarista quasi a voler esorcizzare le pile di debiti che in patria lo hanno messo nei guai. E non è l’unico: passività e insolvenze da anni rallentano l’espansione della Bri.

C’è chi ritiene che Managua non abbia mai pensato seriamente di cedere la costruzione del canale ai cinesi. Piuttosto, il governo nicaraguense voleva dimostrare agli Stati Uniti di avere altre valide alternative, spiega alla Bbc la ricercatrice Sarah McCall Harris.

Poco dopo la vittoria elettorale, Ortega ribadisce il messaggio interrompendo le relazioni diplomatiche con Taiwan per allacciare contatti ufficiali con Pechino.

Lo scorso 31 agosto i due paesi annunciano la firma di un trattato di libero scambio che coinvolge pratiche doganali, tariffe, servizi finanziari e accordi ambientali multilaterali. Ma del famigerato canale, oltre la Grande muraglia, non se ne parla più.

A.C.




Pakistan. La chimera della libertà


I rapimenti e le conversioni forzate di ragazze cristiane e di altre minoranze religiose sono solo la punta dell’iceberg delle violazioni alla libertà religiosa nel Paese asiatico. L’instabilità politica, le leggi anti blasfemia, le formazioni estremiste rendono pericolosa la vita del 4% di popolazione non musulmana.

Huma Younous, Zarvia Pervaiz, Meerab Mohsin, Arzoo Raja. Sono alcune delle ragazze pachistane che in questi anni hanno subito rapimenti, violenze, matrimoni forzati e conversioni all’islam.

Conosciamo i loro nomi perché le loro famiglie hanno avuto il coraggio di denunciare, ma rappresentano solo la punta di un iceberg. Il fenomeno delle ragazze rapite in Pakistan a causa della loro fede è una piaga enorme della quale non si conosce precisamente la dimensione.

Si tratta di giovani cristiane in un Paese in cui il 96 per cento della popolazione è musulmana. A finire in questa spirale di violenze, però, ci sono giovani anche delle altre minoranze religiose.

Una tragedia inascoltata

Secondo un rapporto del Center for social justice (Csj), Ong guidata dal cattolico pachistano Peter Jacob, nel 2021 si sono verificati 78 casi di donne e ragazze (cristiane e indù) rapite, convertite con la forza e sposate da uomini musulmani. Il 76 per cento di queste erano minorenni.

Il numero di casi registrati nel 2021, afferma il Csj, è aumentato dell’80 per cento rispetto all’anno 2020. Ma le famiglie che, per mancanza di soldi o coraggio, vivono nel silenzio questa situazione sono molto più numerose di quelle registrate.

Una tragedia che spesso si consuma nell’indifferenza della comunità internazionale.

C’è voluto il docufilm The losing side, presentato al Festival di Cannes 2022 e vincitore di un premio nella categoria Best human rights film, per fare conoscere al grande pubblico questo dramma.

Protezione legale

A sostenere da anni i diritti di alcune di queste giovani c’è una coraggiosa avvocata cattolica, Tabassum Yousaf. Lei stessa in passato ha ricevuto minacce e ora è schierata per la difesa dei diritti delle minoranze. «Fornisco assistenza legale alle nostre donne vulnerabili e alle ragazze minorenni che sono state vittime di abusi sessuali, discriminazioni, conversioni e matrimoni forzati», cioè soggetti non adeguatamente tutelati «a causa delle lacune nella legge».

Il Pakistan, spiega l’avvocata che porta avanti progetti sui diritti umani anche con la diocesi di Karachi, è «firmatario di trattati internazionali» per cui «abbiamo fatto leggi, ed emendamenti alle leggi, per dare protezione alle minoranze, alle donne e ai bambini», ma, nonostante ciò, «molti di questi provvedimenti sono rimasti sulla carta».

Le minoranze

Se il fenomeno dei rapimenti e delle conversioni forzate delle giovani donne è tra le questioni più gravi, complessivamente in Pakistan si registrano violazioni della libertà di fede tra le maggiori nel mondo.

La popolazione è quasi interamente musulmana, composta principalmente da sunniti (circa l’85 per cento della popolazione) mentre gli sciiti rappresentano il 10 per cento. Le minoranze religiose, prevalentemente cristiane, indù e ahmadi, più alcuni baha’í, sikh, parsi e una comunità ebraica, sono in calo. Tutte le minoranze messe insieme costituiscono complessivamente tra il 3,6 e il 4 per cento della popolazione. Tutte subiscono discriminazioni, quando non vere e proprie persecuzioni.

La comunità ebraica è praticamente in via di estinzione: secondo le statistiche ufficiali conterebbe tra le 2.000 e le 2.500 persone, ma fonti della stessa comunità ritengono che nel Paese ne siano rimaste circa ottocento, sugli oltre 200 milioni di abitanti complessivi.

Per quanto riguarda la persecuzione relativa alla minoranza cristiana, il Pakistan, nella World watch list della ong Open doors, è collocato al settimo posto nel mondo, ovvero tra i Paesi dove meno è rispettata la libertà di fede (dopo Corea del Nord, Somalia, Yemen, Eritrea, Libia e Nigeria).

Le leggi sulla blasfemia

Lo status delle minoranze religiose è ulteriormente influenzato dalle cosiddette «leggi sulla blasfemia», introdotte nel Paese dal generale Zia-ul-Haq tra il 1982 e il 1986. Non si tratta propriamente di leggi, ma di emendamenti al codice penale pachistano che, di fatto, limitano la libertà di religione e di espressione. I reati punibili includono la «profanazione» del Corano e le offese al profeta Maometto, che comportano rispettivamente come pena massima l’ergastolo e la condanna a morte.

Nonostante i richiami, a dire il vero timidi, della comunità internazionale affinché venga abolita questa normativa, essa, dall’inizio del 2023, ha invece visto un’ulteriore stretta.

Se prima veniva condannato chi era accusato di avere insultato il Corano o il profeta Maometto, «ora può essere applicata anche per sanzionare chiunque è accusato di avere insultato persone legate al Profeta. Il giro di vite è stato disposto dal Parlamento per inasprire le già rigide leggi nazionali», denuncia la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

Quanti vengono accusati di avere «insultato» mogli, compagni o parenti del profeta Maometto rischiano, dall’inizio del 2023, 10 anni di carcere, pena che può essere estesa all’ergastolo, oltre a una multa di un milione di rupie.

L’accusa di blasfemia diventa inoltre un reato per il quale non è possibile la cauzione.

L’inasprimento delle pene scaturisce da un disegno di legge presentato da Abdul Akbar Chitrali, parlamentare appartenente a un partito politico religioso.

«L’approvazione del disegno di legge rappresenta un segnale estremamente preoccupante», commenta Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia. «La normativa finora ha di fatto favorito la persecuzione ai danni delle minoranze religiose, a cominciare da quelle cristiana e induista. Ora la situazione inevitabilmente peggiorerà», aggiunge Monteduro. «Spesso i cristiani vengono accusati strumentalmente di blasfemia da soggetti che vogliono semplicemente perseguire interessi privati. Il risultato è che gli accusati o vengono arrestati o diventano preda della reazione violenta delle folle.

La normativa anti blasfemia viene usata anche come arma contro gli avversari politici e il suo inasprimento creerà maggiori opportunità per un suo uso improprio. Così le minoranze religiose, a cominciare da quella cristiana, sono ancora più minacciate».

AFP PHOTO/ Rizwan TABASSUM (Photo by RIZWAN TABASSUM / AFP)

Il caso di Asia Bibi

Il caso più noto, rispetto all’uso di questa legge sulla blasfemia, è quello di Asia Bibi. Per lei, che ha subito dieci anni di carcere duro per essere stata accusata ingiustamente di blasfemia, e che ha rischiato fino all’ultimo momento la pena di morte, c’è stata una mobilitazione internazionale che ha visto in prima linea l’Italia e la Francia.

Il 31 ottobre del 2018 è stata scagionata dalla Corte suprema del Pakistan, ma la donna e la sua famiglia hanno comunque dovuto lasciare il loro Paese per le minacce degli islamisti. Ora vivono in Canada.

«In Pakistan ci sono ancora troppe “Asia Bibi”, nelle prigioni», fa presente Shahid Mobeen, fondatore dell’associazione Pakistani cristiani in Italia e docente di Filosofia presso la Pontificia università urbaniana.

Mobeen contesta il fatto che, in questi anni, quando si è parlato delle minoranze religiose, in Pakistan si è fatto riferimento al «modello della Carta di Medina dei tempi di Maometto» che stabiliva diritti per gli immigrati di altre religioni. «La protezione ben venga ma noi non siamo immigrati sul territorio – sottolinea Shahid Mobeen -, noi abbiamo fondato il Pakistan insieme a Mohammad Ali Jinnah e siamo figli di quella terra. Come cristiani siamo presenti in quel territorio prima ancora che arrivasse l’islam e quindi chiediamo di essere trattati con uguali diritti, con pari dignità e pari opportunità nell’istruzione e nel lavoro perché vogliamo contribuire alla crescita e allo sviluppo del Paese».

Anche nei casi in cui non ci siano veri e propri atti persecutori, i cristiani e gli altri appartenenti a fedi diverse dall’islam sono comunque discriminati nella quotidianità, dall’accesso al lavoro agli aiuti. Nei mesi del Covid sono stati diversi gli appelli alla comunità internazionale affinché venisse condannata anche la discriminazione sanitaria.

I fedeli non appartenenti alla grande comunità musulmana sono a lungo rimasti privi dei dispositivi di protezione o comunque delle condizioni minime che potevano evitare il contagio da coronavirus.

Ahmadi: musulmani, anzi no

In questa situazione nella quale la libertà di fede in Pakistan risulta essere una chimera, c’è il caso particolare degli ahmadi, comunità nata nel 1898 a Qadian, in India, nel periodo in cui vigeva il potere britannico. Il suo fondatore è Mirza Ghulam Ahmad Ahmad.

Alcuni articoli del codice penale pachistano, promulgati nel 1984, hanno reso un reato penale per gli ahmadi definirsi musulmani o chiamare la propria fede islam.

«Dal punto di vista del culto siamo uguali agli altri musulmani: preghiamo cinque volte al giorno, consideriamo Maometto come profeta, abbiamo il Corano come libro sacro. Il ruolo del nostro fondatore non era di dare vita a una nuova religione, bensì di riformare quella del suo tempo», spiegava Ataul Wasih Tariq, imam della comunità ahmadi in Italia nell’ambito di un incontro interreligioso in Vaticano con papa Francesco il 5 settembre del 2022.

Secondo Omar Waraich, responsabile del Dipartimento dell’Asia del Sud di Amnesty international, «ci sono poche comunità in Pakistan che hanno sofferto tanto quanto gli ahmadi».

«Alcune fonti – afferma Aiuto alla Chiesa che soffre nel Rapporto 2020 sulla libertà religiosa nel mondo – riportano che tra il 1984 e il 2019, 262 ahmadi sono stati uccisi a causa della loro fede, 388 hanno subito violenze e 29 moschee ahmadi sono state distrutte. Per legge gli ahmadi non possono avere moschee proprie, né chiamare alla preghiera e, per poter votare, devono essere necessariamente classificati come non musulmani o aderire a una delle correnti principali dell’islam».

Le tensioni politiche, nuovi rischi per i cristiani

Il Pakistan non ha mai goduto di grande stabilità politica e questo ha consentito negli anni la crescita di formazioni estremiste.

I ripetuti attentati nei luoghi di culto e nei quartieri delle minoranze, compresa quella dei musulmani sciiti, non hanno trovato mai una risposta decisa da parte del governo.

Da aprile 2022, con il cambio della guardia, dal governo di Imran Khan a quello del suo principale avversario Shahbaz Sharif, l’instabilità è aumentata. Le sanguinose manifestazioni, sia pro che contro l’ex premier, accusato anche di corruzione, mostrano che la nuova leadership politica è tutt’altro che salda.

L’11 agosto scorso, poi, Sharif ha sciolto l’Assemblea nazionale al termine della legislatura. Il presidente Arif Alvi, al posto di Sharif, ha nominato primo ministro provvisorio Anwaar-ul-haq Kakar per guidare il Pakistan verso le elezioni nazionali.

Il Paese, tra l’altro, ha vissuto in questi ultimi anni anche rovinose alluvioni causate dai cambiamenti climatici.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e, in particolare, i cristiani, questa situazione di incertezza «non aiuta di certo», afferma la ong Open doors. «Negli ultimi anni, con il premier Imran, la radice e i danni del passato sono rimasti intatti, anzi, una certa “narrazione estremista” ha continuato ad essere perpetuata e a far breccia nella popolazione a vari livelli. Quell’estremismo strisciante, spesso sfociato in attacchi alle comunità cristiane oltre [che in] minacce a chiunque difendesse cause [contro le] violazioni dei diritti umani […], non è sparito e purtroppo in momenti di instabilità politica come questo – sottolinea ancora Open doors -, rischia di aumentare la propria influenza».

Presto un giovane santo?

La persecuzione religiosa è talmente radicata in Pakistan che i cristiani di fatto vivono in una perenne trincea. Nella capitale Karachi, la maggior parte dei cristiani vive nel quartiere Essa Nagri (tradotto dall’urdu «il quartiere di Cristo»), dove vivono ammassati e, in qualche modo, trincerati innalzando muri di protezione per sentirsi più sicuri.

Essa Nagri è un quartiere dove le fogne sono a cielo aperto, i collegamenti elettrici precari e anche la sicurezza non è sempre garantita. Nel 2016 qui sono stati uccisi cinque ragazzi cristiani dai fondamentalisti islamici.

Nella città di Lahore, nel nord del Paese, il quartiere cristiano è invece quello di Youhanabad. Qui vivono circa 130mila cristiani tra cattolici e membri di altre confessioni. Nel quartiere si trovano due chiese, la Saint John, cattolica, e la Christ church, protestante, entrambe attaccate in due attentati contemporanei il 15 marzo del 2015.

In quell’attentato persero la vita molte persone tra le quali il giovane cattolico Akash Bashir, proclamato Servo di Dio (il primo nella storia della Chiesa del Pakistan) il 31 gennaio del 2022, festa di San Giovanni Bosco.

Akash Bashir, nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pachistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa, era uno studente del Don Bosco technical institute di Lahore, ed era tra i giovani attivi nella comunità parrocchiale.

Akash era in servizio al cancello d’ingresso della chiesa, quel 15 marzo del 2015, quando notò un uomo che voleva entrare con una cintura esplosiva sul corpo.

Il giovane ha abbracciato l’uomo, bloccandolo e tenendolo fermo al cancello d’ingresso, facendo sì che il piano del terrorista, quello di fare una strage all’interno della chiesa, fallisse.

L’attentatore si è allora fatto esplodere uccidendo se stesso e il giovane Akash.

Nel 2019, durante un nostro viaggio in Pakistan per documentare la situazione dei cristiani, abbiamo incontrato a Lahore Emmanuel Bashir e Naz Bano, il padre e la madre del giovane. «È morto per salvare la vita degli altri, è un martire della Chiesa e noi ne siamo orgogliosi perché questo è testimoniare il Vangelo», ci hanno detto, auspicando che il Papa potesse riconoscere il loro Akash martire e santo, anche per dare coraggio alla martoriata comunità cristiana locale.

Manuela Tulli