Tra i profeti ci sono personaggi molto diversi. Tutti mettono al centro del loro messaggio la fede e l’affidamento a Dio, ma ciascuno vive la propria vocazione in modo singolare. Ci sono quelli decisi, sicuri di sé, generosi e convinti alla Isaia («“Chi manderemo?”. “Eccomi, manda me!”», Is 6,8), e altri molto più travagliati come Geremia. Geremia di tormenti ne ha moltissimi, ed è proprio questo che ce lo rende più simpatico, moderno ed esemplare.
Lo sfondo storico
I profeti, lo sappiamo, sono gli autori biblici che più dialogano con il mondo nel quale sono inseriti. Il «ministero profetico» consiste esattamente nella capacità di inserire il messaggio divino in situazioni storiche concrete, cogliendo come Dio reagirebbe a quelle condizioni, che lettura offrirebbe di quei contesti. È quindi chiaro che una conoscenza precisa dello sfondo storico in cui i profeti agiscono è più che necessaria.
Il problema è che i profeti ci hanno lasciato libri scritti per lo più in forma poetica, frequentemente allusiva ed evocativa più che descrittiva, spesso difficili da interpretare in modo corretto. D’altronde, è esattamente quello che riscontriamo nella nostra poesia o persino nei commenti politici dei nostri tempi. Di questi, però, conosciamo tutti i particolari, così che capiamo le allusioni, anche minime, e tutto diventa più facile. Della storia antica, invece, non riusciamo più a ricostruire le situazioni, se non le grandi linee.
È una fortuna che i capitoli 34-45 del libro di Geremia offrano un contesto storico un po’ più preciso che aiuta a comprendere meglio le parti poetiche.
Lo sfondo generale del tempo di Geremia, dunque, è questo: nel 721 a.C. cade il regno di Israele del Nord per mano dell’impero neoassiro. Nel 701 a.C. s’interrompe miracolosamente l’assedio di Gerusalemme prima della caduta della città. L’impero neoassiro va in crisi e viene sostituito da quello neobabilonese, altrettanto espansionista (arriverà a conquistare anche l’Egitto). All’inizio del VI secolo a.C. si fa forte la pressione anche sulla Giudea, che in effetti cadrà nel 587 a.C., dopo una prima sconfitta e accordo di vassallaggio nel 597 a.C.
In Giudea emergono due visioni diverse della realtà e su come affrontare il pericolo. Una, più religiosa, sostiene che, come aveva già fatto più di un secolo prima, Dio salverà il suo tempio, che è sacro («Tempio del Signore è questo!», Ger 7,4). Un’altra, più mondana, crede invece che la salvezza verrà dall’accordo politico con l’Egitto. Entrambe sono convinte che occorra difendere l’autonomia della Giudea contro i babilonesi. Bisogna solo resistere: che si tratti di Dio o dell’Egitto, qualcuno arriverà a salvarci.
Un messaggio inaudito
È su questo sfondo che Geremia si trova inviato a portare un messaggio inaudito: «Volete essere fedeli al Signore? Lasciate che il suo tempio venga distrutto. Dio non interverrà più a salvare il vostro regno. Vi chiede di lasciare che la storia prosegua sulle sue strade, e che voi scopriate modi nuovi di relazionarvi con lui» (cfr. 5,7-19; 7,3-16; 42,9-22).
Un messaggio come questo ha una forza che va contro tutte le credenze del tempo.
Il tempio di Gerusalemme non era semplicemente il luogo dove pregare o offrire sacrifici, come oggi è per noi una chiesa, sia pure essa la più grande o centrale come San Pietro o qualche santuario famoso in tutto il mondo. Il tempio era «il luogo che Dio si è scelto dove porre la sua dimora in mezzo agli uomini» (Dt 16,11, fra gli altri), l’unico luogo della presenza di Dio nel mondo.
Se dobbiamo ipotizzare un parallelo per capirci, era qualcosa di più vicino a quello che per noi è l’Eucaristia, piuttosto che al semplice edificio sacro.
Immaginiamo un profeta cristiano che dica che, per essere fedeli a Dio, occorre lasciar profanare l’Eucaristia. Il messaggio di Geremia è simile a questo.
Ma è anche un messaggio che arriva subito prima della guerra e durante l’assedio. È facile che il profeta venga percepito dai suoi contemporanei come un disfattista, che non collabora con lo sforzo militare. E per questo verrà, infatti, minacciato («Non profetare nel nome del Signore, sennò morirai per mano nostra», Ger 11,21), imprigionato (Ger 37-38) e alla fine addirittura deportato a forza in Egitto, il nemico di coloro ai quali Geremia invitava ad arrendersi (Ger 43,1-7).
Non è un caso che la tradizione vuole Geremia morto martire. Il suo libro o altri scritti biblici non ne dicono niente, ma sarebbe coerente con la sua esperienza.
Una persona tormentata
Già il contesto e il messaggio di Geremia ci hanno messo di fronte a una situazione complessa, faticosa.
Ma a tutto ciò si aggiunge anche la personalità del profeta, che non è un combattente e non vorrebbe essere dove si trova né dire ciò che deve proclamare. Si ritiene troppo giovane e incapace di parlare in pubblico (Ger 1,6), è costretto ad annunciare al suo popolo che subirà violenza e oppressione e per questo, quando le cose vanno ancora bene, viene preso in giro (Ger 20,8) e gli viene fatto notare che ciò che annuncia non si compie (17,15). Viene rifiutato dalla sua famiglia (12,6) e si lamenta più volte della propria sorte, che non avrebbe desiderato: «Ahimè, madre mia, che mi hai generato uomo di litigio e discordia!» (15,10). Eppure, ribadisce di non aver voluto annunciare il lutto e la distruzione, ma di essere semplicemente stato mandato da Dio a farlo (17,16).
In una letteratura e in un mondo culturale che non erano abituati a cogliere e quindi a narrare le lotte interiori, Geremia appare dilaniato dal desiderio di rinunciare al proprio mandato di parlare a nome di Dio, un compito che sente scaturire da dentro sé: «Mi hai sedotto, Signore, e io ho lasciato che tu mi seducessi. Mi hai violentato, sei stato più forte di me. Mi dicevo che non avrei più pensato a te, non avrei più parlato in nome tuo, ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,7-9).
Emerge il ritratto di un uomo mite e timido che è costretto ad annunciare un messaggio duro e luttuoso, non viene creduto e viene schernito, e si mortifica ancora di più per la propria sorte. È un uomo passionale e delicato che vive in un tempo di guerra e crudeltà. L’uomo sbagliato nel tempo sbagliato.
Il sogno di Geremia
Certo, Geremia non annuncia soltanto distruzione e morte. Nutre un sogno che prende poco alla volta forma ed esplode nel capitolo 31. Il sogno è quello di un’alleanza nuova tra Giuda e Israele da una parte e il Signore dall’altra. Senza dubbio un’alleanza c’era già stata, scaturita dalla liberazione dal potere oppressivo dell’Egitto, il che suona quasi come ironico per chi sperava proprio da quel paese la salvezza contro i babilonesi, ma quella alleanza era stata infranta proprio da Israele. Per questo serve un’alleanza nuova che non sia una riedizione di quella vecchia. Geremia la immagina non scritta sulla pietra, ma nel cuore, sull’organo che secondo gli ebrei era la sede delle decisioni: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore (ossia “penseranno spontaneamente come Dio, si sintonizzeranno naturalmente con lui”)», «non dovranno più istruirsi l’uno con l’altro, invitandosi a conoscere il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande» (Ger 31,33-34).
Geremia sogna una umanità capace di entrare in armonia profonda con Dio, al punto da non avere più bisogno di maestri, di mediatori, di motivatori. E allora, finalmente, Dio perdonerà tutto, non ricorderà più il peccato, perché si troverebbe davanti un’umanità amante, pronta a vivere in intimità con lui. E quello che Dio vuole non è essere ubbidito ma amato, e non vede l’ora di perdonare e riprendere a vivere insieme in comunione.
Il sogno di Geremia prosegue: il Signore, che ha disposto gli astri e garantisce il succedersi del giorno e della notte, promette che si dimenticherà della sua alleanza solo quando anche le leggi di natura non funzioneranno più, cioè mai.
Geremia sogna quell’armonia profonda di cui non ha mai potuto godere, cogliendo che proprio e soltanto quella è anche il sogno di Dio, che minaccia costantemente vendetta e punizione, ma sempre spera di non doverle mettere in pratica.
Il messaggio di Geremia
C’è allora qualcosa che questo complicato e sofferente profeta può affidare anche a noi oggi?
Quello che Geremia vuole, un rapporto con Dio senza mediatori, senza sacerdoti, senza tempio, senza legge, è l’intuizione di un rapporto con il Signore immediato, senza strumenti e quindi anche senza garanzie, ma profondo e spontaneo. Non come due soci in affari, ma come due innamorati.
Geremia sogna una relazione fatta non di certezze, di assicurazioni, ma di fiducia, in cui l’uomo impari finalmente a vivere pienamente, senza nulla che possa illudere di poter tenere Dio sotto controllo, ma fidandosi soltanto della sua promessa che ci sarebbe stato sempre. Semplicemente un rapporto di amore, di affidamento reciproco.
E Geremia predica questo sogno in uno dei momenti più cupi della storia d’Israele, nella consapevolezza di essere la persona sbagliata, nel dramma personale di non sentirsi a posto. Se Osea riceve da Dio l’invito a confidare in lui e amarlo anche fuori dagli schemi attesi, Geremia non si vede neppure spiegare la missione, ma la deve vivere senza capirla fino in fondo. Anche in questo caso, però, ha senso fidarsi semplicemente di Dio, affidarsi a lui, comprese scelte concrete come comprare un campo mentre sta arrivando un esercito invasore (Ger 32) o invitare gli esiliati del 597 a cercare il bene nella terra nella quali sono stati deportati (Ger 29), senza temere che questo significhi tradire il Signore. Proprio mentre l’esercito della terra in cui vivono sta marciando contro la patria nella quale erano nati.
Geremia coglie un Dio che si fa trovare ovunque, anche quando tutto sembra andare male, anche quando si ha l’impressione di essere sbagliati e al posto sbagliato. Anche in quelle situazioni, è Dio l’autentico e unico pastore di Israele (Ger 23,1-8), che resta presente e vigila sui suoi, come rassicura la prima visione dell’intero libro (Ger 1,11-12): Dio veglia, Dio c’è. «Tu continua solo ad aver fede» (Mc 5,36).
Angelo Fracchia
(Camminatori 09 – continua)