Nella città vecchia di Gerusalemme, di norma, a dare la sveglia è, intorno alle 5 di mattina, la preghiera del muezzin; poco dopo suonano le campane delle chiese cristiane.
Sabato 7 ottobre, una data che purtroppo rimarrà nei libri di storia, a squarciare il silenzio dell’alba è stato il suono delle sirene. Nitido quanto inatteso.
Un suono sinistro che preannunciava i rumori della guerra. E la Terra Santa, che fino alla sera prima era animata dalla grande festa ebraica di Sukkot, dalle file dei pellegrini cristiani nei luoghi santi, dalla preghiera in tutte le moschee, si è trovata a fare i conti con i morti, le distruzioni, la paura, la solitudine.
Tutto cambiato improvvisamente, con un salto indietro di decenni, ma soprattutto soffocando i semi di speranza per questa terra che negli anni sono stati gettati da tante persone di buona volontà.
La guerra è in queste ore in pieno svolgimento.
Israele ha negli occhi un eccidio, quello dei terroristi di Hamas nei kibbutz al confine con Gaza e al pacifico rave che i giovani stavano tenendo nel deserto del Negev. Qualcosa che non si verificava, per la crudeltà e le proporzioni, «dai tempi della Shoah», come sottolineato dal premier israeliano Benyamin Netanyahu.
Dall’altra parte è cominciato un assedio su Gaza che colpisce indiscriminatamente la popolazione civile, rimasta senza cibo, acqua, energia, medicine e costretta a un esodo al Sud della Striscia verso un confine che resta però sigillato.
«È una tragedia immane, non capisco il disegno di Dio per questa terra, la sua terra», è uno dei messaggi che arriva sul mio whatsapp da quella terra martoriata.
La stessa domanda corre in un incontro online con il Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, che solo la settimana prima dell’attacco di Hamas era stato creato cardinale dal Papa in Vaticano. «La domanda non è “dov’è Dio”, ma “dov’è l’uomo”», risponde il francescano.
Uno degli effetti «collaterali» della guerra è la cappa di solitudine scesa su questo paese: l’allegria e la vita che normalmente si riversano per gran parte della giornata in strada, che è un po’ la cifra di questo angolo del pianeta, si sono trasformate in deserto. Le botteghe della città vecchia di Gerusalemme hanno tirato giù le serrande come ai tempi del covid. La guesthouse dei Melchiti, a pochi passi dalla Porta di Jaffa, gira la chiave nel portone, non sapendo quando riaprirà i battenti.
Così è anche a Betlemme, in Cisgiordania: «La gente è molto preoccupata, sanno che perderanno il lavoro e che sarà difficile andare avanti; qui si vive principalmente di turismo religioso», racconta Giulia, una giovane volontaria italiana di Pro Terra Sancta.
Da Betlemme arriva anche la preoccupazione di chi assiste i bambini orfani e malati nella struttura Hogar Niño Dios, gestita dai sacerdoti e dalle suore del Verbo Incarnato. «Il nostro contatto con loro – riferiscono dall’Unitalsi (Unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali) che da quindici anni aiuta i religiosi con i propri volontari – è giornaliero, e nelle loro parole si sente il dolore e la preoccupazione per la situazione che stanno vivendo. A noi il compito di pregare».
La preghiera dunque. Per questo, nonostante l’eco delle sirene e il rombo degli aerei, i luoghi santi continuano a rimanere aperti.
Come a Ein Karem, dove si trova la chiesa che ricorda la Visitazione di Maria a Elisabetta: «Il luogo dove tutti vengono a pregare per la pace», dice padre Rafael Sube, francescano messicano della Custodia di Terrasanta.
Il Magnificat qui è declinato in oltre quaranta lingue, scritto su grandi piastrelle di ceramica che decorano le mura del cortile. «Questo vuol dire che i popoli possono stare vicini, possono vivere insieme, non sono loro a volere le guerre. Qui preghiamo per la pace in tutto il mondo perché la guerra non c’è solo in Ucraina, dobbiamo guardare a tutti i paesi che soffrono».
Era il 6 ottobre quando padre Rafael pronunciava profeticamente queste parole. Forse pensava proprio alla Terra Santa in cui vive da 31 anni.
Dal giorno dopo, con i missili arrivati da Gaza anche nei cieli della città vecchia, la preghiera per la pace guarda, infatti, soprattutto a questo angolo del pianeta, Gerusalemme, Urusalim, che si traduce: «Città della pace».
Manuela Tulli