Ci sono alcuni artisti dei quali diciamo che fanno arte con la loro stessa vita, con le loro scelte, con il loro stile personale. Succede anche nel mondo biblico che alcuni profeti annuncino il volto di Dio con le proprie azioni. Lo fanno Geremia ed Ezechiele, che a volte si mettono a fare gesti strani, enigmatici, per introdurre le loro predicazioni. Ma, secoli prima di loro, succede in modo straordinario e sconvolgente anche a un altro profeta, forse meno noto ma che affascinerà molto i redattori biblici.
Un libro complicato
Il profeta Osea ha il privilegio di un libro dedicato interamente a lui. Un libro, però, che è discretamente difficile. La sua parte più ampia, dal capitolo 4 in poi, è in poesia, come succede spesso alla profezia ebraica, e allude, in modo a volte stringatissimo, a vicende che gli ascoltatori devono conoscere bene. Come succede alle canzoni contemporanee, non solo non c’è bisogno di spiegare tutti i particolari, ma addirittura è meglio mantenere un po’ di ambiguità, perché siano gli ascoltatori a completare il discorso, facendolo così più proprio.
Osea vive e profetizza nel regno di Israele del Nord, intorno alla capitale Samaria e al suo tempio di Betel, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. È un periodo delicato, che si chiude nel 721 a.C. con la distruzione del tempio e l’annessione dello stato allo spietato impero neoassiro. È probabile che prima della distruzione del tempio alcuni sacerdoti e scribi siano riusciti a fuggire a Gerusalemme, portandosi dietro tradizioni, storie e anche manoscritti, tra cui forse anche i capitoli dal 4 al 14 del nostro libro, che in effetti in alcuni passaggi sembra scritto in una lingua strana e non sempre comprensibile in tutti i dettagli.
Quando si fa un trasloco, però, anche in situazioni molto meno drammatiche di quelle vissute dagli antichi scribi, si coglie l’occasione per liberarsi di ciò che non interessa più, e si sceglie di trasportare solo ciò che si ritiene ancora prezioso. Evidentemente, il libro di Osea è tra i tesori che i fuggiaschi samaritani non vogliono perdere e, una volta arrivati a Gerusalemme, ne spiegano il valore ai sacerdoti locali. Qualcuno, per renderlo più comprensibile, aggiunge un’introduzione in prosa, in un linguaggio che è molto più facile da capire di quello del testo in poesia.
Un matrimonio difficile
«Va’ e prenditi per moglie una prostituta» (Os 1,2). Così inizia il libro di Osea, non proprio un grande punto di partenza per un matrimonio, tanto più in un mondo come quello ebraico ossessionato dalla purità anche nei legami coniugali perché ritiene che i figli non sono semplicemente i discendenti dei genitori, ma sono iscritti in una trasmissione della benedizione divina che risale fino ad Abramo. Offuscare quella linea di trasmissione significa, in ultimo, offendere anche Dio. Eppure è Lui a chiederlo al profeta di sposare una prostituta spingendolo a vivere la propria vita in un modo apparentemente lontano dai precetti divini.
Fin dall’inizio, però, si chiarisce che la posta in gioco non è «soltanto» la vita di una persona, infatti il versetto continua così: «perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Insomma, il testo ci suggerisce subito che il matrimonio di Osea è un’immagine del rapporto di Dio con il suo popolo. Al profeta viene chiesto di sposare una prostituta perché è Dio stesso a trovarsi sposato a un popolo infedele. Quello che farà Osea sarà un’immagine dell’intenzione divina. Il profeta annuncia il messaggio divino con la propria stessa vita.
Quell’intuizione di partenza prosegue nei figli, che ricevono nomi certo non troppo beneauguranti: il primo viene chiamato Izreèl (Os 1,4), come la valle nella quale fu distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), o in cui si trovava la vigna che un re desiderava e che la sua regina, Gezabele, riuscì a strappare al legittimo proprietario facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si sono verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5), proprio come ci aspetteremmo da un Dio severo e giusto.
Dopo Izreèl nascono poi anche Non-amata e Non-popolo-mio (Os 1,9).
Un matrimonio improbabile segnato da rapporti difficili anche con i figli, immagine di un Dio che evidentemente non è contento del suo popolo e che inizia a pensare di doverlo punire. D’altronde, è diritto e, sostanzialmente, quasi dovere di un capofamiglia farsi rispettare anche con le cattive.
Una soluzione «divina»
La possibilità di un castigo severo e inflessibile aleggia in tutto il libro. In fondo, è ciò che ci si aspetta che faccia un marito, proprietario della moglie, ed è ciò che solitamente si pensa che dobba fare Dio. Quante volte persino noi, moderni ed evoluti, ci diciamo che se Dio ci fosse e fosse attento a noi, certe ingiustizie non le sopporterebbe.
Anche Dio, verrebbe da pensare, è tentato da una soluzione violenta e chiara (Os 2,11-15) che forse non lo rallegrerebbe, ma almeno lo vendicherebbe.
E invece Egli trova una soluzione diversa. Non quella che l’uomo si aspetterebbe, ma quella che meglio corrisponde al cuore.
«La condurrò nel deserto», là dove non ci sono distrazioni, dove si può essere soli, come lo erano Dio e il suo popolo durante i quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa, «e parlerò al suo cuore», cercando di convincerla, di farsi ascoltare e ubbidire. «La sedurrò» (Os 2,16). «E in quel giorno non mi chiamerai più “mio signore”», o, per usare il termine ebraico che può suonare familiare persino a noi, «non mi chiamerà più “mio baal”». «Baal» era il modo con cui i Cananei, molto diffusi e importanti nel nord d’Israele, si riferivano al loro dio, che poi coincideva con il modo con cui la moglie parlava al marito, riconoscendolo a lei superiore e suo «capo». «In quel giorno non mi chiamerai più “mio signore” ma “mio uomo”» (Os 2,18), come un’innamorata, che riconosce in colui che ha di fronte non il suo padrone, ma il suo amato, una persona con la quale sta in rapporto alla pari.
E, siccome impostare in questo modo il rapporto amoroso significa per Dio (e per Osea) non avere certezze (un padrone può imporre la sua volontà, un amante no), da qui in poi Dio si mette ad attendere una risposta, e a sognare.
Dio immagina di mettere pace in tutta la natura (2,20), sogna una relazione fatta di «giustizia e diritto», unendo l’aspetto più formale, esteriore, legale (diritto) e quello più profondo di equilibrio nel rapporto, di profonda sintonia e correttezza (giustizia). Poi ancora immagina «amore» (il termine indica l’affetto gratuito, disinteressato, dei genitori verso i figli) e «benevolenza», atteggiamenti che rimandano però alle viscere, ai sentimenti più diretti, spontanei, passionali e intimi. Dio sogna, cioè, che la realtà esteriore del matrimonio dica quella più interiore del desiderio di vivere insieme, e che l’attrazione si esprima anche in dono gratuito e generoso.
«A Izreèl risponderanno il grano, il vino nuovo e l’olio» (Os 2,24), così che la valle diventata sinonimo di maledizione si riempirà di quei doni agricoli che, secondo i cananei, era baal a garantire. «Amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò “Popolo mio”, ed egli mi dirà “Dio mio”».
È un sogno. Dio sta immaginando un matrimonio di totale amore. Sta sognando, perché ancora in attesa di una risposta.
Un amore senza condizioni
Tutti noi sogniamo un amore incondizionato. O, più egoisticamente, di essere amati senza condizioni. Anche se, nella storia, viviamo anche di patti: «Se non mi sei fedele, se non mi ami, anche io mi disamorerò».
Il libro di Osea, la vita di Osea, ci dicono che Dio non ha intenzione di mettere condizioni. Ne è tentato, come tutti gli amanti, e ipotizza la punizione vendicativa. Ma decide di essere troppo innamorato per mettere a rischio questa relazione.
Nel capitolo 11, in poesia, Osea fa ripercorrere a Dio la storia con il suo popolo, al quale ha insegnato a camminare tenendolo per le ascelle, da dietro, come un papà che non vuole abbandonare ai pericoli il figlio ma desidera che impari a camminare con fiducia nei propri mezzi (11,3), e che ha preso in braccio per baciarlo sulla guancia (11,4): «Li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore».
Certo, si è trovato di fronte ingratitudine e tradimento (11,2). Ma di fronte alla possibilità, che sarebbe reale, di punirlo (11,6-7), si lascia intenerire: «Come potrei abbandonarti? Come potrei trattarti come Admà e Seboim?» (le due città distrutte insieme a Sodoma e Gomorra, cfr. Dt 29,22). Dio si sente struggere le viscere all’idea di fare del male al proprio figlio (Os 11,8). «Io sono Dio, e non uomo» (Os 11,9), e questa affermazione, che potremmo anche interpretare dicendo che di sicuro, se decide di punire, punirà, diventa invece la premessa per affermare che lui non castigherà. Dio ha deciso, è dalla parte della vita del suo popolo. Parlerà al suo cuore, tenterà di sedurlo, ma non gli farà del male.
Tutto questo Osea lo intuisce, chissà se in sogni o visioni, o semplicemente continuando a meditare sul volto di Dio che emerge dalla storia d’Israele. E capisce che se Dio è così, quella è l’immagine precisa dell’amore vero. Perché, di fronte a una donna che continua a prostituirsi anche da sposata (Os 3,1), Osea si sente chiamato a fare non ciò che gli altri pensavano che dovesse fare (costringerla, denunciarla e piuttosto farla lapidare, mostrando chi era il capo), ma ciò che Dio farebbe, amando incondizionatamente, persino senza essere corrisposto allo stesso modo, senza essere capito (in fondo, Gomer, la moglie, potrebbe pensare di aver fatto il suo «dovere», dandogli tre figli).
Un’intuizione abissale
Tutto ciò sarebbe già tantissimo. Ma può darsi che ci sia dentro persino di più.
Osea vive e profetizza nel nord d’Israele, dove è più forte la presenza delle popolazioni di religione cananea, che, stando a quanto riusciamo a ricostruire, prevede anche la prostituzione sacra come atto religioso. Perché mai una donna sposata e con figli, amata dal marito, dovrebbe tornare a prostituirsi? Può darsi che il libro di Osea suggerisca addirittura che Gomer, la moglie, sia una cananea, e che continua a frequentare quegli altri dèi.
Osea sarebbe chiamato ad amare una donna infedele e di un’altra religione, e, facendolo, «rappresentare» Dio stesso, il quale non sarebbe allora attento ai doveri religiosi, a riti o formule di fede, ma al rapporto d’amore. Quasi come se dicesse: «Non mi importa neppure se non vuoi essere tra i miei fedeli; ma amami».
Capiamo quanto il libro e la vicenda di Osea possano aver sconvolto gli antichi fedeli. Abituati (un po’ come noi, se siamo sinceri…) a pensare a un Dio potente, inflessibile e giudice severo ma giusto. Sono invece messi davanti a un cuore amante, che vuole essere amato. A costo di trascurare convenzioni, norme e «buone abitudini». E si trovano davanti un profeta che decide di vivere come Dio, un Dio che, nella vita di Osea, si mostra fragile, pronto ad ammettere che non smetterà di amare e di attendere con paziente ansia una risposta.
Da parte di Dio non ci sono incertezze: sarà Lui stesso a guarire Efraim dalle sue infedeltà (14,5), a far fiorire il popolo e a porsi per lui come un cipresso sempreverde (14,9; il cipresso era la pianta tipica dei luoghi della prostituzione sacra a Baal, ndr.). Capita che nel Primo Testamento si paragonino i giusti ad alberi radicati lungo corsi d’acqua (Sal 1,3; Sir 50,8), ma mai altrove si ricorre a queste immagini per definire Dio. È come se qui si volesse anticipare che Dio non solo garantirà sempre la sua protezione, ma addirittura che si farà presente in mezzo a loro come un uomo. Con Gesù quell’immagine e quel desiderio di comunione misericordiosa prenderanno il loro volto definitivo.
Angelo Fracchia
(Camminatori 08 – continua)