L’avidità si paga

Mondo
Francesco Gesualdi

Nel 1987, il «giorno del sorpasso» (overshoot day) arrivò il 19 dicembre. Nel 2023 è stato lo scorso 2 agosto. Da tempo sappiamo che, con gli attuali livelli di consumo, una Terra non basta. Oggi la scelta non è soltanto tra sviluppo «sostenibile» e «insostenibile», ma anche tra sviluppo «egoistico» e «altruistico».

Se non bastassero la siccità in pieno inverno e le alluvioni, gli allagamenti e le bombe d’acqua dell’estate, ci sono i calcoli matematici a confermarci la gravità degli squilibri ambientali che l’uomo ha creato.

Un metodo di calcolo utilizzato è l’overshoot day, alla lettera il «giorno del sorpasso», che ci indica il giorno dell’anno in cui la nostra avidità supera la capacità di rigenerazione del pianeta. È la data in cui i nostri consumi smettono di basarsi sulla capacità riproduttiva della terra e avvengono a spese del capitale naturale. Come chi avendo finito la legna da ardere decide di scaldarsi buttando nel caminetto pezzi di travicelli tolti dal tetto. Lì per lì ha la sensazione che tutto tenga, ma alla fine si ritrova senza legna e senza tetto.

L’impronta sul calendario

L’overshoot day prende spunto dall’«impronta ecologica», l’indicatore che misura la quantità di terra fertile di cui abbiamo bisogno per sostenere i nostri consumi. E se, d’istinto, siamo portati a pensare che la terra fertile ci serve solo per il cibo, in realtà i consumi che affondano le loro radici in essa sono molto più ampi.

Basti pensare all’abbigliamento che utilizza cotone, alla mobilia fatta di legno, agli edifici e le strade che occupano suolo, ai medicinali che usano piante officinali. Ma l’aspetto (in apparenza) più sorprendente è che ci serve terra fertile anche per andare in automobile o per accendere una lampadina.

Troppo spesso dimentichiamo che quando infiliamo la chiave nel cruscotto, insieme al rombo del motore, emettiamo anidride carbonica (CO2), un veleno di cui non ci diamo pensiero solo perché madre natura è così generosa da togliercelo di mezzo grazie all’attività delle piante. Ma non in maniera infinita. Sicuramente non abbastanza da poter assorbire tutta l’anidride carbonica prodotta dalla combustione dei 16 miliardi di litri di petrolio che consumiamo giornalmente a livello mondiale. Basti dire che per sbarazzarci della CO2 che produciamo bruciando un solo litro servono cinque metri quadrati di foresta.

A livello planetario la terra fertile disponibile sotto forma di pascoli, foreste, terre arabili, ammonta a poco più di 12 miliardi di ettari, ma i consumi raggiunti dall’umanità ne richiedono all’incirca 22. Un deficit di dieci miliardi di ettari che l’overshoot day rappresenta per mezzo del calendario.

Attestato che ogni giorno ci servono 58 milioni di ettari di terra fertile, l’overshoot day ci indica il giorno dell’anno in cui entriamo in zona negativa perché abbiamo esaurito tutta la terra fertile di cui madre terra dispone. Un limite che ogni anno raggiungiamo qualche giorno prima. Nel 1987 l’overshoot day arrivò il 19 dicembre, nel 2009 il 25 settembre, nel 2023 il 2 agosto. Ormai i giorni dell’anno in cui viviamo senza corrispettivo di terra fertile sono 150, il 40% dell’intera annata. Parola dell’istituto ambientalista americano Global footprint network.

La terra disponibile e quella consumata

Come si possa consumare oltre la capacità produttiva della terra sembra un enigma inspiegabile, tanto più che non abbiamo mai la percezione di trovarci a corto di prodotti naturali. Ma, paradossalmente, lo squilibrio non si manifesta sotto forma di penuria bensì di eccesso. Il problema riguarda l’anidride carbonica che, da vari decenni, emettiamo oltre la capacità di assorbimento del sistema naturale con conseguente accumulo in atmosfera. Più precisamente ne produciamo ogni anno 37 miliardi di tonnellate, mentre il sistema delle foreste e degli oceani è in grado di assorbirne solo 20, un bilancio negativo annuale di 17 miliardi di tonnellate che, accumulandosi in atmosfera, fa aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima.

Se prendiamo la terra fertile totale e la dividiamo per gli abitanti del pianeta, ormai 8 miliardi, scopriamo che ognuno di noi ha diritto a 1,6 ettari di terra fertile.

Questa è l’impronta ecologica sostenibile, ossia la quantità di terra fertile che ognuno di noi può utilizzare senza provocare squilibri al pianeta. In realtà, i consumi dell’umanità sono tali da richiederne 2,8 ettari a testa: quasi il doppio della quantità disponibile.

Ma, se possibile, la realtà è ancora peggiore, perché le medie non danno mai il vero quadro della situazione.

Analizzando le elaborazioni effettuate dalla Footprint data foundation nel 2022, scopriamo che il mondo è praticamente diviso a metà: un 50% ha un’impronta pro capite al di sopra di quella sostenibile, l’altro 50% al di sotto. Quelli perfettamente in linea con la sostenibilità non fanno numero, rappresentando appena lo 0,5% della popolazione mondiale.

Peso e colpe dei paesi

Fra le nazioni con l’impronta più bassa troviamo l’Afghanistan (0,5 ettari a testa), Haiti (0,6), Malawi (0,9) e India (1,2). Al lato opposto, l’impronta dei qatarini è di 14,3 ettari, mentre quella dei lussemburghesi è 13, degli statunitensi 8,1, degli australiani 7,9. Per l’Italia l’impronta è pari a 4,3: questo significa che, nel 2023, abbiamo raggiunto la data di esaurimento delle risorse con oltre due mesi d’anticipo rispetto a quella mondiale, il 15 maggio.

Invocando la responsabilità collettiva, i paesi ricchi sostengono che è compito di tutti risolvere la crisi ambientale che abbiamo provocato. I numeri ci dicono però che il problema non è stato creato da tutti, ma solo dalla parte più ricca, per cui tocca a lei porvi rimedio, accettando di ridurre la propria impronta ecologica. Non solo per una questione di sostenibilità, ma anche di equità. Perché i poveri potranno salire solo se i ricchi accettano di scendere. È la legge dei vasi comunicanti.

Come italiani, ad esempio, dobbiamo ridurre la nostra impronta di quasi due terzi per riportarla nel perimetro della sostenibilità. Per capire dove intervenire, dobbiamo analizzare come è composta, ossia per quali ragioni utilizziamo terra fertile. Se togliamo le esigenze legate al legname (11%) e all’edificazione (1%), rimangono l’alimentazione, che contribuisce per il 28%, e l’assorbimento di anidride carbonica che contribuisce per il 60%. Dunque, è principalmente su questi due ultimi fronti che dobbiamo intervenire.

Il peso del cibo (e quello della carne)

Rispetto al cibo, la sfida è l’eliminazione degli sprechi intesi sotto due profili: ciò che buttiamo per le nostre negligenze e ciò che buttiamo per i nostri cattivi stili di vita.

Secondo la Fao, ogni anno, a livello mondiale si perde il 31% della produzione agricola: per il 14% a causa delle inefficienze e il 17% a causa delle nostre disattenzioni. Le inefficienze riguardano le perdite che avvengono nelle fasi di raccolta, di stoccaggio, di trasporto e di lavorazione delle derrate agricole: prodotti perduti perché mal conservati, mal trasportati, mal lavorati. Secondo il Wwf, in Italia le inefficienze, comprendenti anche ciò che è buttato dai supermercati, provocano la perdita di 4 milioni di tonnellate di cibo all’anno. A cui va aggiunto ciò che buttiamo nelle nostre case. Dalle indagini condotte dal gruppo di ricerca Waste watcher, risulta che, ogni anno, fra le mura domestiche vengono gettati 27 chili e mezzo di cibo a testa. Dato che, riportato a livello nazionale, da qualcosa come 1,6 milioni di tonnellate di cibo gettato nella pattumiera.

In parte perché scaduto a causa del fatto che gestiamo male i nostri acquisti; in parte perché non mangiato a causa del fatto che non gradiamo consumare gli avanzi dei pasti precedenti. La conclusione è che, in Italia, il solo spreco domestico corrisponde ogni anno a un milione e mezzo di ettari di terra agricola. Ettari che potrebbero essere risparmiati con una gestione più accorta della nostra spesa, del nostro frigo, della nostra cucina. Molto altro terreno potrebbe essere risparmiato scegliendo di mangiare sobrio. Soprattutto riducendo il consumo di carne, in modo da recuperare cereali e leguminose per l’alimentazione umana diretta. Oggi, a livello mondiale, il 40% dei cereali e l’80% della soia sono dati in pasto agli animali. Se ci aggiungiamo i pascoli, scopriamo che l’allevamento animale utilizza quasi l’80% delle terre agricole mentre fornisce solo il 20% delle calorie consumate dall’intera umanità. In conclusione, secondo i calcoli effettuati da Our World in data, se l’umanità adottasse una dieta solo a base di vegetali, potrebbe utilizzare il 75% di terra agricola in meno rispetto a oggi.

Il peso della CO2

Veniamo ora all’aspetto più ingombrante dell’impronta ecologica, l’eccessiva produzione di anidride carbonica. Tutti concordano che la soluzione è la transizione energetica. Ossia il passaggio dai combustibili fossili alle energie rinnovabili. Ma sulle politiche da seguire ci sono due linee di pensiero. Quella del potere costituito secondo il quale il problema è solo tecnologico e quella dei critici secondo i quali il problema è anche di misura. La parola d’ordine del pensiero dominante è cambiare tecnologia e continuare a vivere nel consumismo. La parola d’ordine dei critici è cambiare tecnologia e, al tempo stesso, ridurre i consumi. Una posizione, quest’ultima, derivante da una constatazione e una convinzione.

La constatazione che i limiti del pianeta non riguardano solo la terra fertile, ma anche l’acqua e i minerali. La convinzione che a questo mondo non esistiamo solo noi opulenti ma anche una sterminata umanità che ha diritto a vivere meglio e una vasta progenie che ha diritto a ereditare una terra vivibile.

Due diritti che possono essere garantiti solo se gli opulenti smettono di dedicarsi al saccheggio in un pianeta dai contorni molto fragili.

Le strade da intraprendere

Di qui la necessità di passare non solo dai fossili alle rinnovabili, ma anche dallo spreco alla sobrietà. Obiettivo che si raggiunge in parte convertendosi al riciclo e al recupero, ma anche limitando i nostri consumi e cambiando modo di soddisfare i bisogni.

Parlando di mobilità, ad esempio, se da una parte dovremo accettare di muoverci di meno con andatura più lenta, dall’altra dovremo rinunciare al mezzo privato, anche se elettrico, e sviluppare al contrario una forte rete di mezzi pubblici.

Fino ad ora la discussione è stata fra sviluppo sostenibile e insostenibile e ne abbiamo fatto solo una questione di tecnologia. Ma la vera scelta è fra sviluppo egoistico e sviluppo altruistico ed è anche una questione di quantità.

Francesco Gesualdi

 

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