Soft & green è l’attrattivo titolo sotto il quale una delle principali aziende italiane di produzione di carta per uso igienico e domestico presenta il proprio piano per la sostenibilità. L’azienda ha scelto di appoggiare una serie di iniziative di educazione e comunicazione ambientale sia a livello nazionale (tra cui il «Pianeta Terra Festival», che si tiene a Lucca dal 2022) che internazionale, come quella che la vede impegnata in un progetto di conservazione ambientale e sviluppo socioeconomico in un’area «a ridosso» della foresta amazzonica. Il nome del progetto, Together we plant the future (Insieme piantiamo il futuro), ricalca lo slogan dell’azienda partner, leader in America Latina della produzione di carta e cellulosa.
L’obiettivo è ambizioso: «Creare corridoi di biodiversità tra aree di foresta intatte a cavallo tra gli stati brasiliani di Pará e Maranhão», in cui la percentuale della cosiddetta floresta em pé (foresta in piedi, ovvero sopravvissuta) è rispettivamente del 23% e del 20%, e «contribuire a togliere dalla povertà circa 200mila persone entro il 2030 grazie a progetti di generazione di reddito».
In Brasile, le Ong ambientaliste si schierano su due fronti opposti, ovvero tra chi si associa ad un’azienda entrata nel gotha della finanza verde per il contributo al sequestro di carbonio tramite piantagioni monocolturali di eucalipto (di cui, però, resta ancora da valutare l’effettiva efficacia) e chi non esita a tacciarla di greenwashing (adottare pratiche green più di facciata che di sostanza).
Le comunità locali – indigene, quilombolas (nome con cui, in Brasile, si definiscono i discendenti degli schiavi), di piccoli agricoltori o raccoglitori e raccoglitrici dei frutti della foresta – interessate dall’espansione delle coltivazioni tradizionali nelle loro terre (cocco babaçu, acai, buriti, bacuri, castanha) sono, invece, unanimi nel collegare il nome del colosso brasiliano a una serie di violazioni dei loro diritti: dalla contaminazione dei corsi d’acqua con pesticidi al prosciugamento delle sorgenti, dalla costruzione di strade senza consultazione previa, fino all’esproprio vero e proprio.
Di fatto, il processo di acquisizione fondiaria da parte dell’azienda viene da lontano e presenta molte ombre. Già nel lontano 1985, nel sud est del Maranhão, l’impresa aveva acquistato piantagioni di eucalipto da una succursale della compagnia mineraria Vale do Rio Doce con l’intento di fornire combustibile vegetale all’industria siderurgica come parte del programma Grande Carajás [1]. Grazie a concessioni statali e prestiti bancari, nel corso degli anni ’90 l’azienda brasiliana si estende verso ovest, fino al confine con il Pará, dove, nel 2008, rileva circa 80mila ettari di terra già piantata a eucalipto da un’altra succursale della compagnia per installare una nuova fabbrica di cellulosa a Imperatriz. Fino a qualche tempo, la città vantava il titolo di «porta dell’Amazzonia», vista la sua ubicazione nella regione dove il cerrado (un habitat costituito di praterie e alberi da frutto nativi) cede il posto alla foresta.
Un processo così rapido ed esteso di concentrazione fondiaria – si stima che ora l’impresa possegga migliaia di ettari nello stato – ha fatto sospettare che dietro atti di compravendita apparentemente regolari tra privati, ci sia in realtà l’accaparramento di terre pubbliche o appartenenti alle comunità locali che si sono viste sottrarre, con la frode o con la forza, gli spazi di produzione a cui è intimamente legata la loro sopravvivenza come identità culturali collettive.
Non sappiamo quanto l’omologa azienda italiana che promuove iniziative di ampio respiro educativo e culturale sia a conoscenza delle controversie che pesano sul partner oltreoceano, né quanto gli organizzatori di tali iniziative abbiano interesse a ricostruire le «relazioni pericolose» dei loro sponsor.
L’invito è, dunque, a vigilare su un settore come quello della finanza verde che cresce a dismisura – la Banca mondiale stima che beneficerà di finanziamenti per 30 trilioni di dollari entro il 2030 -, di pari passo però con fenomeni come quelli in atto nell’Amazzonia brasiliana dove l’espansione delle monocolture spinge sempre più le popolazioni tradizionali a riversarsi nelle periferie delle città tra le più violente del Paese (nel 2018 Imperatriz figurava tra le 50 città più violente del Brasile). Qui si trovano costrette a contendersi impieghi precari con le classi urbane più svantaggiate o a dipendere dai sussidi elargiti dai loro stessi carnefici.
Silvia Zaccaria, antropologa
[1] Il programma «Gran Carajàs» è tristemente noto per aver portato sull’orlo del genocidio il popolo Awà Guajà le cui terre sono state attraversate da una strada e dalla linea ferroviaria omonima. Recentemente la Vale S.A., nome della compagnia dopo la privatizzazione, si è aggiudicata il titolo di peggiore multinazionale del mondo (cfr. Vale remporte le Public Eye Awards, le prix accordé à la pire entreprise du monde / Habitants des Amériques / Nouvelles / Home – International Alliance of Inhabitants).