Ventimiglia. Hamza Alami, 17 anni del Marocco, è seduto nel dehor del bar Anthony di fronte alla stazione di Ventimiglia. È appena arrivato con un treno da Torino insieme a un amico. Scorrono gli orari del treno sul cellulare e ogni tanto danno uno sguardo al grande orologio della stazione. Poi provano ad avvicinarsi all’ingresso presidiato da un’agente della polizia e due militari dell’esercito italiano che controllano i documenti. Con fare preoccupato si allontanano e si siedono su un muretto, in attesa del momento propizio per attraversare il confine in treno, così come decine di altre persone migranti sedute tra i bar e i gradini della stazione. Hamza sa che, per arrivare in Francia, la sua meta definitiva, mancano solamente 17 minuti di treno e 3,50 euro di biglietto. Troppo poco per desistere ora. Soprattutto se alle spalle si ha un viaggio di oltre un mese. Partiti da Fez, in Marocco, il 17 agosto, con il loro passaporto hanno viaggiato in aereo fino in Turchia. Da lì è iniziata la risalita lungo la rotta balcanica, attraverso la Bulgaria, Serbia, Ungheria, Austria per poi arrivare in Friuli da cui hanno preso diversi treni fino a Ventimiglia. Una via inusuale in questo periodo in cui la maggioranza di persone, principalmente di origine sudanese, eritrea, e dell’Africa francofona, arriva nella città ligure dalla rotta del Mediterraneo centrale via Lampedusa.
«Abbiamo camminato notte e giorno per un mese. Siamo esausti e feriti. Passando la frontiera tra Bulgaria e Serbia mi sono squarciato la mano con il filo spinato. Ora siamo determinati a passare e ci proveremo in tutti i modi anche se sappiamo che la gendarmerie è ovunque e proverà a respingerci in Italia», spiega Hamza, prima di tornare verso la stazione e salire sul primo treno per Mentone, dopo averci dato il suo numero di WhatsApp. «Vi farò sapere se arrivo dall’altra parte», dice con sorriso convinto.
E la gendarmerie effettivamente c’è, più agguerrita che mai. Durante la sua visita a Mentone del 13 settembre scorso, il primo ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, aveva annunciato una chiusura pressoché totale della frontiera con Ventimiglia, in seguito all’aumento esponenziale degli arrivi a Lampedusa nei mesi di agosto e settembre.
«Abbiamo visto in queste ore un maggior dispiegamento delle forze francesi sulla linea ferroviaria e sui valichi di frontiera di ponte San Luigi e ponte San Ludovico. Inoltre, sono stati impiegati reparti dell’esercito per intercettare i migranti sui sentieri di montagna sulla parte della frontiera della val Roja verso Sospel e Breil, cosa che non avevamo mai visto» spiega Jacopo Colomba, project manager di We World che, insieme a Diaconia Valdese, fornisce orientamento legale ai migranti a Ventimiglia.
La Francia, che ha sospeso gli accordi di Schengen e ripristinato le frontiere interne dal 2015 dopo l’attentato del Bataclan, ufficialmente per ragioni di sicurezza, ufficiosamente per limitare l’accesso dei migranti, in realtà è da otto anni che prova a respingere tutti, anche i minorenni, che, secondo la Convenzione di Ginevra, hanno il diritto di essere presi in carico in qualsiasi paese di arrivo.
In queste ore però i controlli sono a tappeto, e se fino a giugno si verificavano circa 80 respingimenti quotidiani, secondo il recente report «Vietato passare» di Medici senza Frontiere, ora vengono «rimbalzate» a Ventimiglia tra le 100 e le 150 persone ogni giorno. La gendarmerie ferma qualsiasi auto in arrivo dall’Italia. Controlla gli abitacoli e ne apre i bagagliai. Alla frontiera marina di San Ludovico sono presenti decine di mezzi e verrà costruito un nuovo centro di identificazione, oltre a quello esistente alla frontiera di San Luigi. Il punto più inespugnabile però è la ferrovia. La stazione di Menton Garavan, prima fermata dopo Ventimiglia, è un posto di blocco quasi invalicabile. La gran maggioranza dei treni provenienti dall’Italia vengono setacciati in lungo e in largo da circa sette agenti della gendarmerie. Seduti in stazione, aspettano il treno, si mettono i guanti e il gilet antiproiettile ed entrano. Dopo pochi minuti, ne escono con tutti coloro che non hanno i documenti.
Lo sa bene Isaac. Si copre la testa con il cappuccio della felpa e si stringe nelle spalle seduto sul muretto sul lato italiano della frontiera di ponte San Luigi. Guarda il mare e pensa al da farsi insieme ad altri ragazzi che, come lui, sono stati fermati sul treno e respinti dalla Paf, la polizia di frontiera francese.
Isaac ha 14 anni. Pochi metri più in là ci sono Haroun e Hamed entrambi di 16 anni. Sono tutti e tre del Darfur, nel Sud Sudan, e in mano hanno un refus d’entreé che gli ha consegnato la polizia prima di rilasciarli. Sulle carte sono segnati come maggiorenni, anche se basta guardarli in faccia per capire che alla maggiore età mancano alcuni anni. Sul foglio di via di Isaac c’è una data di nascita falsa: primo gennaio 2005, quando lui è del 2009. «Questi ragazzi sono stati registrati come maggiorenni a Lampedusa, dove non gli è stata data la possibilità di auto dichiararsi minorenni – spiega Adoum Ismael, mediatore culturale di Diaconia Valdese che ogni giorno raggiunge i ragazzi respinti in frontiera – Si tratta di una pratica molto frequente. La Francia non fa che notificare la maggiore età e li respinge». A volte sono i funzionari francesi a falsificare la data per evitare di accogliere i minori che vengono respinti allo stesso modo degli adulti. Non prima però di aver trascorso una notte nei container di identificazione a lato dell’edificio della polizia di frontiera francese, destino che tocca a tutti coloro che vengono fermati in tarda serata.
«Ci hanno messo in una stanza piccola e sporca. Ci hanno dato da bere, ma niente da mangiare – racconta Haroun – Avevamo paura che fosse un carcere come quelli della Libia e quindi non ci siamo lamentati. Fortunatamente ci hanno rilasciato stamattina. Vogliamo andare in Inghilterra per cui riproveremo a passare o in treno o in un altro modo». (fine prima puntata, continua)
di Simona Carnino