Il litio della Serbia: Un rio rosso sangue

foto José Mari D. Barba
Serbia
Daniela Del Bene

La multinazionale mineraria Rio Tinto ha una lunga storia di conflitti ambientali e sociali. Uno degli ultimi riguarda la valle del Jadar in Serbia, dove, insieme al governo, ma senza consultare le popolazioni locali, vuole estrarre litio per la «transizione energetica».

Qual è il filo che unisce un villaggio spagnolo dell’Andalusia latifondista di fine Ottocento, una caverna nello Juukan Gorge dell’Australia occidentale e il fiume Jadar in Serbia?

La multinazionale mineraria anglo australiana Rio Tinto. Una delle più grandi al mondo, con 150 anni di storia, tutti tristemente macchiati da conflitti e ripetute violazioni di diritti umani e ambientali.

Rio Tinto rosso sangue

La storia dell’impresa iniziò a Londra nel 1873. Già pochi anni dopo, in Andalusia, Spagna, dove l’azienda estraeva la pirite da cui si ricavava il rame con un processo chimico che avvolgeva la zona di fumi tossici, fu coinvolta in una strage.

Il 4 febbraio 1888, infatti, dodicimila lavoratori manifestarono con le loro famiglie nella piazza del municipio di Rio Tinto, provincia di Huelva, al grido di «Abajo los humos» (abbasso i fumi), incontrando l’esercito che uccise, si stima, 200 persone.

Per quel massacro l’impresa non riconobbe mai nessun tipo di responsabilità e continuò a operare, esportare materiali e fare profitti in Spagna, anche durante la dittatura franchista, fino al 1954, quando ritirò i suoi investimenti e li rivolse altrove, in particolare nell’attuale Zambia, in Canada e Australia.

© Mars sa Drine e Earth Thrive2021

Alti profitti (e debiti ecologici e sociali)

Così inizia il curriculum di quella che è oggi un gigante minerario presente in almeno trentasei paesi, e con un fatturato, al netto delle tasse, da 10,4 miliardi di dollari nel 2020.

Durante i suoi 150 anni, la Rio Tinto è stata accusata di corruzione, violazione dei diritti umani e delitti ambientali.

L’EjAtlas (l’Atlante globale di giustizia ambientale) raccoglie almeno trenta casi di conflitti di questa azienda con popolazioni locali e organizzazioni sociali in tutti i continenti.

Sull’isola di Bougainville, in Papua Nuova Guinea, ad esempio, la miniera di rame di Panguna è stata la causa di una guerra decennale contro la popolazione che protestava per gli impatti negativi della sua attività estrattiva sulla salute umana e sull’ecosistema, e per l’accaparramento indebito dei benefici. Le vittime si stimano nell’ordine di 20mila. Rio Tinto ha beneficiato di connivenze con l’esercito e non ha mai riconosciuto nessuna responsabilità.

In Australia, nel 2020, Rio Tinto ha fatto esplodere una caverna nella gola dello Juukan, un sito archeologico di più di 4.000 anni, considerato un luogo sacro dagli aborigeni locali.

In Mongolia, l’acquisizione di terre e la contaminazione di riserve idriche sono al centro delle preoccupazioni in Oyu Tolgoi, dove ai pastori nomadi è impedito l’accesso a terra e acqua a favore della più grande miniera di rame e oro al mondo.

In Madagascar si accusa Rio Tinto di rilasciare acque contaminate, e persino materiale radioattivo, nella zona costiera.

La multinazionale ha un bilancio da capogiro, ma anche il suo debito ecologico e sociale lo è.

foto Nina Djukanovic

La jadarite di Serbia

Negli ultimi anni, come tutte le grandi aziende, anche Rio Tinto cerca di affermarsi nell’estrazione di materiali «critici» per la transizione energetica e digitale. Ed eccoci, dunque, giunti in Serbia: nel 2004, mentre la società conduceva nella valle del Jadar, culla del grano serbo, ispezioni geologiche alla ricerca di borati, usati nei fertilizzanti, trovò un nuovo minerale, fino a quel tempo sconosciuto, una combinazione di borati e litio, cui fu dato il nome jadarite.

Il litio è un minerale centrale per il modello energetico attuale e, in specifico, per le batterie delle auto elettriche.

Quello del Jadar fu destinato in gran parte all’industria tedesca. La sua domanda mondiale è raddoppiata negli ultimi tre anni e le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia ne indicano per il 2040 una crescita di tredici volte l’attuale.

I piani Next generation e di ripresa dell’economia post pandemia dell’Unione europea incalzano tale tendenza lasciando poco spazio al dibattito. Sarebbe, infatti, necessario ripensare la transizione energetica in termini diversi da quelli della crescita economica attraverso l’aumento di tecnologie. Invece, per ripartire, continuiamo a insistere sulla stessa ricetta che ha portato alla crisi.

foto Nina Djukanovic

La «miniera verde»

Rio Tinto ha costruito gran parte delle sue fortune sul carbone e sull’uranio. Ha venduto le sue ultime partecipazioni nel carbone nel 2018 e ha chiuso l’ultima miniera di uranio all’inizio del 2021.  Tuttavia, l’azienda è ben lontana dal diventare un’«impresa verde». Le sue operazioni per l’estrazione di ferro, rame e alluminio causano enormi emissioni di gas serra, e, come detto, molte sono oggetto di critica per l’impatto ambientale e le violazioni dei diritti umani. Inoltre, è accusata dall’opinione pubblica e dai suoi azionisti di ritardare l’azione contro il cambiamento climatico rifiutando di fissare obiettivi di riduzione delle emissioni Scope 3 (quelle indirette derivanti dalle sue attività).

Progetto Jadar

Torniamo alla valle del fiume Jadar: nel 2017 il governo serbo e la Rio Tinto hanno firmato un memorandum d’intesa, considerato dai due cofirmatari come uno dei progetti minerari più innovativi del mondo, che avrebbe fatto della Serbia un paese leader nella «transizione verde».

La costruzione degli impianti sarebbe dovuta iniziare nel 2022, ma a gennaio dello stesso anno, la prima ministra serba Ana Brnabic ha annunciato la cancellazione del progetto da 2,4 miliardi di dollari a causa delle proteste che aveva generato. Va notato, per inciso, che il governo serbo, mentre sostiene gli investimenti privati nel litio, continua a sovvenzionare le operazioni di estrazione del carbone, una politica criticata dalla Energy community e denunciata dalla Ong serba Renewables and environmental regulatory institute (Reri) per il superamento dei livelli di inquinamento.

foto Stuart Rankin_flickr

Le premesse dello stop

L’azienda è presente nell’area del Jadar da quasi due decenni, ma le informazioni cruciali sul progetto sono state divulgate solo quando il governo ha pubblicato una bozza del nuovo Piano territoriale che, nel novembre 2019, ha definito l’area come destinata all’esplorazione mineraria. Dopo 30 giorni di «approfondimento pubblico» senza alcuna modifica significativa, il Piano è stato approvato nel marzo 2020.

Le organizzazioni locali hanno sottolineato che la popolazione non era stata coinvolta nel processo di consultazione.

Da allora, le voci del malcontento si sono fatte più forti e si è assistito a una mobilitazione aperta a livello locale e nazionale. Il Piano territoriale, secondo i critici, presentava molteplici e gravi difetti che lo rendevano «illegittimo».

La Rio Tinto aveva commissionato la stesura del Piano territoriale al ministero delle Costruzioni, dei Trasporti e delle Infrastrutture, ma la bozza del Piano è stata prodotta, presentata e approvata dal Governo prima di una serie di altre procedure che l’azienda avrebbe dovuto seguire: ad esempio, la valutazione di impatto ambientale.

Nel frattempo, la società ha portato avanti i lavori di esplorazione fino al 2020.

La quantità e il volume di minerale da estrarre e lavorare non sono stati dichiarati in modo definitivo nel Piano. Esso, infatti, cita una stima, prodotta dalla società nel 2017, di 136 Mt (136 milioni di tonnellate). Successivamente, nel dicembre 2020, la società ha invece dichiarato che le risorse erano pari a 155,9 Mt.

Inoltre, il Piano territoriale è stato sviluppato per un periodo di funzionamento della miniera di 30 anni, mentre il direttore di Rio Sava (la sezione serba di Rio Tinto), in una successiva intervista, ha parlato di «più di 50 anni». Difficile dunque sapere a chi e a cosa credere.

© London Mining Network Action

Coltivare o estrarre?

La valle del Jadar si estende su pianure coltivate e colline punteggiate da ventidue villaggi che vanno da un centinaio di abitanti a poco più di 2.500.

Gli agricoltori locali coltivano diversi prodotti, soprattutto lamponi e prugne, si dedicano all’apicoltura, all’allevamento di bestiame, alla pastorizia ovina e caprina. Alcune Ong locali denunciano che gli abitanti della zona hanno saputo solo nell’autunno del 2020 che i loro appezzamenti erano stati riconvertiti da lotti agricoli a edificabili (per la futura costruzione degli impianti) e che sarebbe stato, quindi, impossibile per loro richiedere prestiti agricoli, oltre al fatto che avrebbero pagato tasse più alte.

Dal giugno 2020, l’azienda ha avviato il processo di acquisizione dei terreni che continua ancora oggi, nonostante lo stop al progetto. Gli abitanti del luogo hanno riferito di aver subito pressioni per vendere.

Lo sviluppo della miniera comporterebbe l’acquisto di appezzamenti da almeno trecento proprietari privati e lo spostamento di oltre cinquanta famiglie di agricoltori, con impatti imprecisati su molte altre aziende agricole nell’area circostante.

Rio Tinto sostiene di aver sviluppato «forti relazioni» con le comunità locali. Tuttavia, le organizzazioni territoriali e gli abitanti lamentano una scarsa comunicazione con l’azienda e la mancanza di informazioni sugli impatti socio ambientali e gli aspetti tecnici del progetto. I residenti hanno riportato di sentirsi «abbandonati» dallo stato nel trattare con una multinazionale il cui capitale è più grande dell’intero Pil del Paese.

Terra: storia e biodiversità

Nella zona interessata dal Piano territoriale ci sono cinquantadue siti del patrimonio culturale, tra cui località preistoriche, siti di epoca romana, insediamenti del Medioevo.

La zona mineraria era prevista tra due importanti aree naturali: il monte Cer e le pendici dell’Iverak.

La catena montuosa è una zona importante per la biodiversità e l’avifauna. Vi sono presenti tre specie inserite nella lista rossa dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura): l’assiolo eurasiatico, il picchio verde eurasiatico e il picchio rosso medio.

Il Cer è in procinto di essere riconosciuto come Landscape of outstanding features (panorama con caratteristiche eccezionali). A poco più di 5 km a est e a sudest dall’area del progetto si trova il «paesaggio di particolare pregio Tršić-Tronoša», abitato da 145 specie vegetali e animali protette.

La rete idrografica

Una delle preoccupazioni maggiori riguarda l’inquinamento delle fonti idriche.

Nella zona di estrazione prevista scorrono i fiumi Jadar e Korenita, e il sottosuolo è ricco di acque sotterranee. Venti chilometri a valle, il Jadar confluisce nel Drina, il principale fiume che scorre tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina unendosi poi alla Sava e al Danubio. In particolare, i bacini idrografici dei fiumi Jadar e Korenita e dei loro affluenti sono soggetti a un aumento della frequenza e gravità delle inondazioni improvvise, tra cui quelle devastanti del maggio 2014 e del giugno 2020.

La Serbia occidentale sta soffrendo un impatto del cambiamento climatico superiore alla media globale, con un aumento dell’intensità delle precipitazioni e delle inondazioni, oltre che dei periodi di siccità.

La terra ferita non dimentica

La miniera di Rio Tinto non sarebbe stata l’unica nel territorio. Nella più ampia regione intorno al Jadar e alla vicina città di Loznica, non si sono dimenticate le storiche miniere di stagno e antimonio che hanno lasciato problemi di tossicità e inquinamento. Drammatica è stata la recente lotta contro l’inquinamento causato dalla fonderia e dalla discarica di Zajača, con elevati livelli di piombo rilevati nel sangue dei bambini locali.

Nel bacino di Korenita, a seguito delle inondazioni del maggio 2014, 100mila tonnellate di rifiuti tossici sono fuoriuscite dalle strutture in disuso della miniera di antimonio di Stolice, contaminando 27 km di costa e 360 ettari di terreno coltivabile.

Poiché la società responsabile è fallita poco dopo (e il suo direttore è stato accusato di frode fiscale), la bonifica è stata lasciata nelle mani del governo.

La condizione problematica della democrazia, dello stato di diritto e dei media nel Paese, i numerosi problemi, soprattutto nell’ambito delle valutazioni di impatto ambientale e dei permessi di costruzione, sommati alla percezione di una mancanza di comunicazione da parte delle autorità e dell’azienda, hanno spinto i cittadini a pensare che il processo non si stesse svolgendo nel loro interesse ma a favore dell’investitore.

© Mars sa Drine e Earth Thrive

Resistenza e futuro

Con questa memoria che fa male e indigna, le Ong locali e di altre zone del Paese, hanno presentato appelli e petizioni alle autorità, organizzato dibattiti pubblici e proteste, e lavorato per attrarre l’attenzione dei media. Vale la pena di menzionare la raccolta di 38mila firme cittadine per proporre la discussione della legge che abolirebbe esplorazione ed estrazione di litio nel paese. L’iniziativa popolare è stata consegnata al governo nel maggio 2022. Un anno dopo, l’esecutivo non ha ancora inserito questo punto all’ordine del giorno, cosa che sarebbe obbligato a fare, dopo la verifica delle firme, entro trenta giorni.

Le firme paiono «scomparse» e alcuni rappresentanti dell’opposizione hanno presentato una denuncia penale contro i responsabili nel parlamento.

Azioni coordinate delle Ong locali e internazionali hanno portato rappresentanti della società civile presso l’assemblea generale annuale degli azionisti di Rio Tinto a Londra nel 2020. Diverse lettere aperte sono state inviate a dirigenti e investitori.

Le risposte, tuttavia, sono state considerate insufficienti.

Ad aprile 2023, nell’ambito della campagna internazionale «Rio Tinto: against people, climate and nature» organizzata in coincidenza con la settimana dell’assemblea generale di Londra, sono state consegnate 500mila firme contro l’estrazione del litio nella valle del Jadar, raccolte in Serbia e in altri paesi.

Questa lotta non è isolata: fa parte di un’ondata di proteste civili in tutta la Serbia contro l’inquinamento e contro la costruzione di piccole dighe.

Le recenti privatizzazioni di grandi imprese minerarie e di fonderie statali, assieme alle dinamiche non trasparenti attorno all’esplorazione geologica, hanno rafforzato la determinazione dei movimenti locali a rivendicare il loro «diritto di dire no» al progetto Jadar.

Gli abitanti dei villaggi e i loro sostenitori offrono alternative centrate sull’agricoltura diversificata e biologica, la conservazione ecologica, la cura e lo sviluppo ecoturistico del ricco patrimonio culturale, storico, naturale e paesaggistico.

Infine, ma non meno importante, chiedono il diritto all’aria, alla terra e all’acqua pulite per loro e le generazioni future.

Benché, per il momento, il progetto di Rio Tinto risulti «cancellato», l’impresa non demorde.

L’acquisto di terre non si è mai fermato e l’azienda continua a essere presente sul territorio concedendo piccoli fondi caritatevoli per ottenere consensi.

La pressione internazionale è alta, ma il presidente serbo rimpiange lo stop al progetto.

D’altra parte, il litio fa gola a molti. Se la cosiddetta «transizione energetica» non viene pensata in altro modo, la valle del Jadar diventerà un’ulteriore zona di sacrificio in nome di una illusione di sostenibilità.

Daniela Del Bene

 Si ringrazia Mirko Nikolić per il suo supporto nella revisione dei contenuti e nella ricerca di foto dai territori del Jadar.


Questo articolo fa parte di una collaborazione fra Missioni Consolata e l’Ejatlas (Environmental justice atlas) per far conoscere ai nostri lettori storie e analisi riguardanti alcuni dei conflitti ambientali presenti nell’Atlante.
• www.ejatlas.org
• www.envjustice.org
• https://cdca.it (atlante conflitti ambientali italia).

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Daniela Del Bene

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