Ogni anno, negli splendidi ambienti di Villa d’Este di Cernobbio, sul lago di Como, si svolge il Forum internazionale Ambrosetti dedicato ai grandi temi globali e all’economia. Da tempo (la prima edizione fu nel 2003), la campagna «Sbilanciamoci!» organizza in contemporanea un forum alternativo, chiamato «contro Cernobbio» o «altra Cernobbio», in cui i temi dell’economia sono affrontati da punti di vista «altri», diversi, quando non opposti, da quelli del Forum Ambrosetti.
Tutto normale fino allo scorso 28 luglio quando gli organizzatori di Sbilanciamoci! hanno saputo che il loro controforum («La strada maestra. Ambiente, diritti, lavoro, pace: la nostra Costituzione»), in calendario per l’1 e 2 settembre, è stato vietato dal comune di Cernobbio per «motivi di ordine pubblico». Come se economisti, attivisti, volontari di Sbilanciamoci! fossero dei pericolosi sovversivi.
«È una decisione gravissima: lede l’articolo 17 (diritto di riunione) e l’articolo 21 (diritto d’espressione) della Costituzione repubblicana», ha scritto Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci!, la campagna che raggruppa 51 organizzazioni e reti della società civile italiana – tra esse Pax Christi, Mani Tese, Nigrizia, Altreconomia, Emergency, Medicina democratica, Legambiente, Wwf – impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica.
Quest’anno Cernobbio ospiterà – come sempre – il Forum Ambrosetti, ma non quello di Sbilanciamoci!, che dovrà spostarsi a Como. Una brutta pagina per la democrazia italiana si sta però trasformando in una pubblicità gratuita, benvenuta e – soprattutto – meritata per Sbilanciamoci!, che dal 1999 si impegna a favore di un’economia di giustizia e di un nuovo modello di sviluppo fondato sui diritti, l’ambiente, la pace.
La campagna Sbilanciamoci! produce studi alternativi, accurati e affidabili che sono scaricabili gratuitamente dal sito web dell’associazione (sbilanciamoci.info). Questa è l’occasione giusta per visitare quel sito, scaricare quei lavori (ad esempio, la Controfinanziaria 2023), leggerli con attenzione e, possibilmente, aiutare a diffonderli o a migliorarli. Perché forse, un giorno, quei sogni diverranno realtà.
Paolo Moiola
La missione sfida i missionari
Dal 22 maggio al 20 giugno 2023 quaranta rappresentanti eletti dei Missionari della Consolata sono stati riuniti a Roma nel XIV capitolo generale dell’istituto, un evento che avviene ogni sei anni. Il suo risultato più immediato è l’elezione del nuovo superiore generale e del suo consiglio, ma il frutto più sostanziale sono le scelte che vengono fatte, a partire dal carisma originale dell’istituto, per dare una risposta creativa alle sfide che il mondo contemporaneo pone all’evangelizzazione.
Mentre mi leggete il capitolo è già terminato, ma ho scritto queste righe quando stava per cominciare e, quindi, posso solo provare a condividere con voi alcuni degli elementi che hanno stimolato la riflessione e la ricerca dei capitolari prima di riunirsi.
Il punto di partenza è stato una constatazione: stiamo tutti vivendo un tempo della nostra storia che chiede nuove attenzioni e nuove risposte.
Ad esempio, il mondo occidentale non è più cristiano, la famiglia tradizionale è in crisi e in alcuni paesi come il nostro si registra un declino demografico.
Esiste poi, nell’Occidente, un’ostilità neanche troppo nascosta contro la Chiesa e la religione cristiana, con attacchi che vanno dalla denigrazione alle notizie inventate o enfatizzate, dalle battute apparentemente spiritose agli insulti, strumentalizzando proverbi stantii come: «Quando nasci alimenti il prete, quando vai a nozze inviti il prete, quando muori il prete gode», o luoghi comuni di stampo anticlericale ottocentesco.
Il futuro della Chiesa e dell’evangelizzazione è una sfida a tutto campo per la quale non servono risposte preconfezionate e che obbliga a guardare avanti con creatività, lungimiranza, tanta fede e umiltà. È un tempo che richiede un profondo discernimento per andare al cuore dei problemi e capire quello che davvero Dio vuole. Non è l’ora del fare, ma dell’ascolto, per una vera conversione.
Sono quattro le aree dell’ascolto: la Parola di Dio, per andare alle radici della vocazione missionaria e del suo stile; il carisma trasmessoci dal nostro fondatore, il beato Allamano; la realtà viva, sofferta e sfidante del mondo di oggi; l’Istituto stesso, fatto di persone concrete con le loro potenzialità ma anche le loro fragilità.
Oggi i Missionari della Consolata sono ben coscienti di non essere più un corpo monolitico come erano fino agli anni Settanta. Gli italiani sono ormai una minoranza, più anziani che giovani. Il cuore della forza missionaria oggi viene dall’Africa: uno scenario bellissimo che vede protagoniste delle Chiese giovani, aperte e generose, pur nella loro povertà, però anche pieno di incognite e nuovi problemi.
Il capitolo si è, quindi, messo in ascolto del nostro mondo con un’attenzione speciale ai poveri, ai popoli indigeni, agli sfruttati, ai marginali della storia, alle periferie e a quelle aree, soprattutto in Asia, mai raggiunte dal Vangelo. I capitolari hanno anche fatte proprie le sfide della comunicazione, della cura del creato, della promozione della pace, delle migrazioni. C’è poi una situazione nuova, che richiede risposte nuove: quella dell’Europa che tradizionalmente mandava missionari, ma oggi li richiede con urgenza.
Dall’ascolto viene poi la conversione per vivere le dimensioni più autentiche dell’identità dei Missionari della Consolata: «Prima santi, e poi missionari», diceva il beato Allamano, affinché ogni missionario diventi testimone e costruttore di gioia, libertà, fraternità, pace e giustizia là dove la Madonna Consolata ha voluto mandarlo.
Una delle caratteristiche dei Missionari della Consolata, fin dalle origini, è stata proprio quella di ascoltare le realtà che man mano andavano a incontrare, mettendo al centro del loro interesse la persona, ogni persona, con una predilezione per i poveri, i lontani, gli emarginati, quelli che la società considera di meno. Come ha fatto Gesù, il primo vero missionario del Padre.
Non abbiamo ancora in mano i documenti finali del capitolo. Non ci aspettiamo proposte spettacolari. La missione più vera si realizza di solito nel silenzio e nell’umiltà, in un dono di vita concretizzato in piccole cose fatte con amore in un quotidiano lontano dal clamore.
Che davvero ogni missionario possa essere strumento di consolazione nelle mani di Dio.
Gigi Anataloni
XIV Capitolo generale dei Missionari della Consolata
MESSAGGIO FINALE
Gratitudine, passione e speranza
Trentatre giorni vissuti insieme, un corpo solo! Missionari giunti dai diversi luoghi della Missione, impegnati a conoscersi, attraverso il racconto personale proprio e dei tanti che hanno rappresentato, attraverso la condivisione dei cammini belli e dei percorsi che ancora sfidano a camminare per andare “oltre”. La diversità delle provenienze ha, però, lasciato presto spazio a quella capacità di riconoscersi, tutti, Missionari della Consolata.
Sì, è stato facile riconoscersi e dirsi che siamo fratelli oltre ogni differenza: fratelli nell’ispiratrice, la nostra madre Consolata; fratelli nell’ispirato, il nostro padre e fondatore, Beato Giuseppe Allamano; fratelli nell’ispirazione, quel carisma ad gentes, novità che non tramonta.
Il Capitolo, infatti, ha voluto confermare ancora una volta la scelta della missione ad gentes, nella sua specificità e nella molteplice fantasia dell’amore che si dona.
Ad gentes che in questi giorni abbiamo accolto con commozione dalle parole e testimonianza di chi, tra le lacrime, ci raccontava della sua gente in Venezuela che non ha di che mangiare o di chi nel Congo, in Mozambico e in Ucraina continua a morire e a subire violenza a causa di guerre di cui non si vede mai la fine. Di chi, come profugo, arriva in Marocco stanco, ferito e sfinito dopo un lungo cammino. E, come queste, tante altre sofferenze tra le quali siamo presenti essendo chiamati a fermarci per ascoltare, per sederci accanto, per servire con semplicità ed essere presenza che annuncia Gesù con gesti di vita, con l’ascolto e la parola.
Più volte ci siamo detti che dobbiamo anche “prenderci cura” di ogni missionario in tutto l’arco della sua vita con un progetto di formazione continua. Occorre aiutare ognuno a camminare verso la sua pienezza di vita e di donazione, partendo da una relazione viva con Cristo, per “essere” prima che “per fare”, dove santità e missione si fondono ed esprimono la nostra identità e carisma.
Con gratitudine abbiamo volto lo sguardo al passato della nostra vita e della nostra storia scritta con la dedicazione ed il sacrificio di tanti nostri confratelli e di quelli che oggi continuano ed essere per noi di stimolo ed esempio “completando nella loro carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Con voi, guardiamo al presente con passione e con quella gioia nella quale il Papa ci ha chiesto di camminare, in comunità chiamate ad essere in uscita e in mezzo alla gente con la forza del nostro carisma e la ricchezza delle nostre culture e in comunione con le Missionarie della Consolata ed i Laici.
Guardiamo, inoltre, al futuro con speranza al vedere ancora tanti giovani che vogliono dare la loro vita per l’annuncio del vangelo e tanti altri dei quali vogliamo prenderci cura nel servizio pastorale e di animazione missionaria e vocazionale.
La Solennità della nascita di S. Giovanni Battista, il precursore, è occasione propizia a conclusione di questo nostro XIV Capitolo Generale. Con lui e come lui sappiamo accogliere il Vangelo perché desiderosi di giustizia e di libertà. Con lui e come lui non ci poniamo come l’esempio perfetto da seguire, ma rimaniamo aperti al futuro, indicandolo, Gesù Cristo.
I capitolari
Roma, 24 giugno 2023
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
«Grande cuore» è andata in Cielo
«Ltau sapuk» (cuore grande), questo il nome dato dai Samburu a Mirella Menin (1941 – 2023), la laica missionaria di Collegno (Torino) che in tanti abbiamo conosciuto nei suoi viaggi in Kenya per oltre quarant’anni e per il suo infaticabile lavoro e dedizione per aiutare i più poveri e i bambini in particolare. Il Signore l’ha chiamata a sé il 29 maggio 2023 in modo inaspettato.
La sua vita è stata un vulcano di iniziative, attività, incontri, viaggi. Tutto fatto con passione, dedizione missionaria e spirito profetico. Oltre all’esperienza del Kenya aveva vissuto anche quella in El Salvador negli anni in cui era vescovo san Oscar Romero che lei accompagnava nei villaggi dei campesinos e che ha visto morire, ucciso, mentre celebrava l’Eucarestia.
Mirella tante volte era scomoda perché diceva la verità senza mezze misure e con coraggio. Aveva «fame e sete di giustizia» come è scritto sul ricordino del suo funerale.
Durante il rosario che si è pregato nella sua parrocchia di Collegno (To), la sera prima del funerale, il parroco, don Teresio Scuccimarra, ha voluto fermarsi su quattro misteri e momenti evangelici vedendone la realizzazione nella vita di Mirella: il suo amore ai bambini, la cura e assistenza delle persone con handicap psichici, il suo desiderio di giustizia ricordando la sua esperienza in El Salvador e la dedizione alla sua comunità.
Mirella, nel suo «darsi da fare» per la missione, ha raccolto e donato molto. Come dice l’Allamano, è stata un canale che ha fatto sempre scorrere ciò che riceveva senza trattenere nulla per sé, vivendo la sua vita nella semplicità ed essenzialità. Ha compiuto le «opere più grandi» (Gv 14,12) che Gesù ha promesso ai suoi discepoli perché era una donna di fede, una fede non bigotta, ma tenace e concreta. La fede che sa vedere Gesù in ogni persona, che ha compreso e vissuto il «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Per tutto questo, e per quello che lei è stata, le siamo grati.
Completiamo queste note con due testimonianze significative che sono state lette al suo funerale: quella di Agata Lekimencho, già catechista a Maralal, e quella di mons. Virgilio Pante, vescovo emerito di Maralal.
padre Michelangelo Piovano, Torino 03/05/2023
Omaggio alla nostra amata mamma Mirella
È con profondo dolore e tristezza che abbiamo appreso la notizia della scomparsa della nostra grande amica e madre.
Per noi Mirella è stata una madre amorevole che ha condiviso con noi tutta la sua vita qui nel Samburu: soldi, tempo, vestiti, e persino il sapone e prodotti di igiene personale.
Molti hanno potuto studiare grazie al sostegno economico che proveniva dal suo grande cuore. Si occupava delle spese ospedaliere ed era sempre preoccupata per il benessere delle persone bisognose.
Ha sostenuto le spese per l’educazione di oltre 250 bambini che, grazie a quello, hanno poi aiutato a migliorare il tenore di vita delle loro famiglie. Alcuni ora sono insegnanti, dottori, meccanici, falegnami, ecc. Ha anche aiutato i loro genitori che hanno potuto iniziare attività che hanno permesso loro di avere una vita dignitosa.
Mirella ha davvero toccato vite e le sue azioni si vedranno per sempre nelle nostre comunità. È stata mandata dal cielo e nessuna parola può descrivere appieno il suo amore per l’umanità.
Nonostante le condizioni ambientali qui da noi siano molto dure, il suo grande cuore compassionevole la faceva camminare instancabilmente per visitare i malati, gli anziani e le persone meno fortunate e i bambini nei villaggi e nelle scuole.
Le piaceva passare il tempo con i bambini, giocare e scattare foto insieme con loro. Mirella era una specie di figura che senti di volere sempre vicino.
Abbiamo davvero visto come Dio usa le persone per aiutare gli altri, Mirella era davvero una sua serva.
Ltau sapuk, riposa in pace. Ci mancherai senza dubbio. Mentre riposi, prega per noi di emulare il tuo cuore in modo che possiamo anche noi aiutare gli altri nel modo in cui tu hai amato.
da Agata Lekimencho tutore dei bambini Maralal, Samburu, Kenya
Ciao, Mirellona
Mirella, che io chiamavo Mirellona, è entrata nella mia vita una quarantina di anni fa, durante i suoi viaggi in Kenya. Un dono di Dio per me e per tanti altri, specialmente i più poveri della società. Aveva un cuore grande, sempre al servizio degli ultimi.
Per me prete missionario e poi vescovo, era una sfida e una voce profetica, molto scomoda. Sia in America Latina che in Africa ha mandato «milioni» per sfamare e per far studiare i più svantaggiati del mondo.
Sapeva anche essere affettuosa, sotto una scorza dura, e si commuoveva per i piccoli, i disabili mentali (ne sanno qualcosa quelli della casa di Collegno che ha servito con amore per tanti anni).
Mirella non sapeva misurare le parole contro le ingiustizie e le falsità nella società e, talvolta, nella chiesa stessa.
Ciao Mirellona. Grazie di avermi incontrato nella vita. Ci ritroveremo in Paradiso circondati dal sorriso dei piccoli.
+ Virgilio Pante 01/05/2023, Maralal, Kenya
Creazione da reinterpretare?
Leggo sempre con molto interesse la rubrica «Camminatori di speranza» del biblista Angelo Fracchia. Mi sembra di capire che egli tenti di spiegare la maggior parte dei cosiddetti miracoli in chiave naturalistica, essendo il primo aspetto frutto della mentalità del tempo di redazione. Alla luce dell’accettazione sempre più profonda delle coppie omogenitoriali da parte di varie correnti cristiane, della Chiesa Valdese e della stessa Chiesa cattolica, dobbiamo forse aspettarci una rilettura dell’atto di creazione della donna come atto di creazione di una persona a cui ciascuno attribuisce il sesso che desidera?
Grato dell’attenzione porgo cordiali saluti.
Saverio Compostella 01/04/2023
Abbiamo girato la domanda ad Angelo Fracchia. Ecco la sua risposta.
Ringrazio intanto della generosa attenzione. Provo a rispondere in tre punti.
1) La lettura «naturalistica» dei miracoli è in effetti quella preferita oggi, per ragioni anche culturali, in quanto fatichiamo ad ammettere la presenza di eventi inspiegabili, laddove l’antichità era molto più pronta ad accoglierli. L’interpretazione preferita dall’approccio storico critico è tuttavia quella che cerca di cogliere che cosa un testo antico volesse effettivamente significare, al di là delle interpretazioni e premesse culturali di chi scriveva.
2) Leggere in questo modo il racconto della creazione della donna in Gen 2 porta a cogliere che il cuore di quell’episodio è individuare come fondamentale per gli esseri umani non solo un rapporto verso l’alto (con Dio) e il basso (con gli animali, la creazione), ma anche alla pari, in una relazione che è segnata dall’affinità («osso delle mie ossa, carne della mia carne») e insieme dalla chiara differenza (a essere chiamati a diventare «una carne sola» sono «i due»).
3) Restando dentro la logica del testo, a porre come differenti e complementari i due è l’opera divina, ossia qualcosa che gli esseri umani non decidono. Ci sono molti aspetti della nostra esistenza che semplicemente ci troviamo a gestire (dove e da chi nasciamo, il nostro aspetto, persino il nostro carattere…) senza averli scelti.
Consapevolezza culturale e ascolto di situazioni umane complesse portano anche le chiese, sempre più, a rendersi conto che la stessa condizione omosessuale, o come ci si percepisce, sono un «dato» non scelto da chi la vive. Per questo si sta uscendo dalla condanna di persone che sono autenticamente in questa realtà, perché se non c’è scelta non c’è colpa. Non è però che queste persone abbiano «deciso» di essere come sono. Piuttosto, si tratta di riconoscere chi siamo e decidere come gestire questa nostra esistenza che non abbiamo stabilito noi.
Poi, dal rispetto e accoglienza piena di una persona omosessuale e della sua dimensione di compimento di sé non consegue per forza accettare l’omogenitorialità. È altra cosa che merita di essere rimeditata con calma, ricordandoci che nel generare, il centro non sono i genitori, ma i figli.
Angelo Fracchia 13/05/2023
È chiaro che la questione dell’omogenitorialità è tutt’altro che semplice, con differenze profonde a seconda che si tratti di una coppia gay o lesbica. La posizione della Chiesa, ribadita sia nel Catechismo che nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa cattolica, è che le unioni di fatto (tra persone omosessuali) non sono equiparabili al matrimonio tra uomo e donna.
Ovvio che non è questo il luogo per approfondire il tema. A noi sta certamente a cuore il rispetto e l’amore per ogni persona, contro ogni discriminazione di sesso, etnia, cultura, posizione sociale o colore della pelle.
Assalto all’occidente?
Buon giorno,
qualche parolina su cosa dobbiamo imparare dagli indigeni oceanici. Il timore reverenziale verso la natura era terrore degli spiriti che popolavano le foreste i fiumi le montagne. Ma ciò non impediva loro di praticare l’infanticidio quando la foresta aveva esaurito i frutti, di torturare i nemici o stranieri, straziandoli in modo indicibile (i sopravvissuti rimanevano terrorizzati per giorni e giorni), e non diciamo degli stupri, incesti, cannibalismo, promiscuità, ecc. comuni a tutti i primitivi, compresi i popoli amazzonici, campioni di orrori anche peggiori.
Se l’uomo bianco non avesse lavorato modificando la natura infida del caos primordiale, non ci sarebbe nulla sulla terra, né case confortevoli, né elettrodomestici, e cibo ogni giorno dell’anno, scuole, ospedali, strade, neanche i giornali da cui parlate, ecc.
Tutto ciò che chi non è occidentale invidia vorrebbe possedere senza aver mai lavorato, e tenta di depredare insozzando i luoghi in cui vengono accolti per amore fraterno, ma i fratelli uccidono e restano impuniti, vedi Caino.
La povertà materiale si combatte col lavoro, attività sconosciuta per gran parte di africani, indios, asiatici i quali sono ai primi posti per omicidio, stupro, spaccio di droga violenza contro le donne e i bambini, abbandono dei deboli e malati, terrorismo, conflitti tribali, ecc., bei regali del terzo mondo che non si sviluppa soprattutto in etica.
La natura non ha moralità (papa Wojtyla) e chi vive in armonia con essa diventa una bestia. A questa bestia si stanno avvicinando gli europei. Da quando amano la natura infatti sono diventati animalisti, sodomiti legalizzati (pratica diffusa tra i selvaggi), abortisti gratuiti e altre aberrazioni tipiche di questi individui non certo buoni, miti e innocenti.
I volontari continuano ad essere uccisi. Nonostante il Vangelo la luce è ancora lontanissima. Se scompare la cultura occidentale (ancora in maggioranza buona) sarà la fine per tutti, ma siamo a buon punto verso l’abisso grazie alla vile sovrappolazione di Africa, Asia, America Latina, ricchi di risorse ma non di gente che lavora cioè i maschi le donne sono oberate di tutto e nessuno le protegge. Saluti.
Gli occidentali email di L.V., 29/04/2023
Forse lo spunto di questa email è stato il nostro articolo sul Pacifico come Territorio di caccia (MC 4/2023, p. 10). Sarebbe stato un testo da ignorare, ma non è stato possibile visto che assurdità simili sono oggi anche sulla bocca di politici con responsabilità di governo.
Molte delle accuse fatte ai popoli indigeni sono quelle che, nei secoli, hanno giustificato il colonialismo e anche la cosiddetta «civilizzazione cristiana». In realtà oggi possiamo tranquillamente dire che sono pure fandonie per giustificare una pseudo superiorità culturale e morale che, di fatto, noi occidentali non abbiamo.
Primo. Cocktail di etnie.
Noi occidentali (e noi italiani, in particolare) esistiamo perché siamo il risultato di un’incredibile mescolanza di etnie diverse: dagli indoeuropei agli schiavi nordafricani, asiatici e nordici che i Romani importavano a migliaia; dai popoli dell’Est (Unni, Longobardi, Mongoli, Slavi e affini), che hanno invaso o trovato casa nelle nostre pianure, ai «mori» che hanno scorazzato per anni nelle nostre valli e razziato le nostre coste.
Secondo. Violenze.
Quanto a violenze ed efferatezze non siamo secondi a nessuno. Basta ricordare l’Olocausto, la bomba atomica, la schiavitù praticata per secoli e che, pur ufficialmente abolita, continua di fatto in tantissime fabbriche delocalizzate e con la tratta di persone per lavoro nero, prostituzione e pornografia, il colonialismo che ha espropriato tanti popoli delle loro terre e delle loro risorse, il cambiamento climatico in corso causato dal nostro stile di vita, il traffico di armi, le guerre dirette e per procura, fino all’attuale follia in Ucraina.
Terzo. Lavoro.
Siamo davvero sicuri che il nostro modo di lavorare sia il migliore e il più umano? Lavoriamo davvero per vivere meglio e creare un mondo più bello o per avere sempre di più anche sulla pelle degli altri e a spese dell’ambiente?
Quanto a tutto il resto: davvero possiamo vantare superiorità su altri popoli e culture? E circa la fola della sovrappopolazione come minaccia per la nostra etnia, siamo seri per favore. Siamo noi che stiamo scegliendo di morire, rifiutandoci di fare figli.
Senza dire del presunto piano di islamizzazione dell’Europa tramite l’invasione degli immigrati. Fosse vero, basterebbe che i cristiani nominali dell’Occidente tornassero a praticare una fede sincera.
Julius Robert Oppenheimer. Anche i fisici hanno conosciuto il peccato
Direttore del «Progetto Manhattan», fu uno dei padri della bomba atomica. Mente geniale e controversa, cercò nei testi sanscriti della «Bhagavad Gita» risposte ai suoi interrogativi etici. Tuttavia, il fisico statunitense tenne sempre separato il ruolo della scienziata da quello del politico che della bomba decide l’utilizzo.
G ià prima della sua uscita (21 luglio 2023), il film Oppenheimer del regista inglese Christopher Nolan ha incuriosito non soltanto il mondo dello spettacolo ma anche quello della scienza. Descrivere una figura così problematica e discussa come il fisico statunitense di origini ebree non è facile, specialmente quando si deve condensare la sua vita in poco più di due ore.
La «Bhagavad Gita»
Dopo il 6 e il 9 agosto 1945, quando le due bombe nucleari furono lanciate su Hiroshima e Nagasaki, Julius Robert Oppenheimer (1904-1967), mente tanto geniale quanto incostante e per molti versi ambigua, fu sempre travagliato da rimorsi e domande etiche sulla sua responsabilità nel «Progetto Manhattan» (riquadro a pag. 17).
Uno degli aspetti forse meno dibattuti nel tentativo di capire questo tormento morale è il rapporto che ebbe con un libro a lui particolarmente caro: la Bhagavad Gita («Canto del Divino»), il poema epico sanscrito che, sin dagli anni Trenta, lo aveva aiutato a trovare risposte alle sue domande esistenziali.
Intendiamoci, Oppenheimer non era una persona religiosa. Infatti, fu sempre attento a non farsi coinvolgere dalla comunità ebraica, non professò mai alcun tipo di fede, ma il testo indiano -assieme ad altri, come l’Amleto, la Divina Commedia, o i libri della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield – segnò profondamente parte della sua vita.
Dopo un primo superficiale approccio con la Gita nel 1931, Robert Oppenheimer iniziò a studiarla in modo analitico a partire dal 1933 con Arthur W. Ryder (1877-1938), professore di sanscrito all’Università della California di Berkeley, dove Robert insegnava fisica teorica.
«Ryder – ha scritto William Leonard Lawrence (l’unico giornalista a cui fu consentito di seguire il «Progetto Manhattan», ndr) – sentiva, pensava e parlava come uno stoico… una sottoclasse speciale delle persone che hanno un senso tragico della vita, in quanto attribuiscono alle azioni umane un ruolo decisivo nella differenza tra salvezza e dannazione. Ryder riteneva che un uomo poteva commettere un errore irreparabile e che, di fronte a questo fatto, tutti gli altri erano secondari. Aspramente intollerante verso la pigrizia, la stupidità e l’inganno, Ryder pensava che “Ogni uomo che fa bene una cosa difficile è automaticamente rispettabile e degno di rispetto”».
Forse queste parole furono di parziale conforto per il fisico quando, dopo il 1945, iniziò ad avere dei rimorsi di coscienza per aver dato il suo decisivo contributo allo sviluppo della bomba nucleare.
Con Ryder, Oppenheimer iniziò a leggere la Bhagavad Gita in versione originale trovandola, oltre che «molto facile e meravigliosa», anche «la più bella canzone filosofica esistente in ogni lingua conosciuta». Da allora ne tenne sempre una copia a portata di mano vicino alla sua scrivania e spesso ne regalava una ai suoi amici.
I dilemmi del principe Arjuna
Il racconto indiano inizia con il principe Arjuna impegnato in una battaglia sul suo carro. Vedendo che, nelle file avversarie, militavano parenti, familiari e amici, decise di rifiutarsi di combattere, chiedendo nel contempo consiglio al suo amico e confidente, il cocchiere Krishna, avatar1 di Vishnu.
I successivi capitoli vedono dipanarsi le argomentazioni di Krishna che cerca di convincere Arjuna a non sottrarsi al combattimento perché, essendo un soldato, è suo dovere entrare in battaglia. Inoltre, non sarà Arjuna con il suo arco a determinare chi deve vivere o morire, ma Krishna stesso, in quanto manifestazione di un dio. La morte è solo apparente, perché l’anima continua a sopravvivere e, anche se le frecce del guerriero porranno fine alla vita terrena del corpo dei nemici, la loro anima vivrà in eterno. È la devozione di Arjuna verso Krishna che lo salva dalle sue azioni peccaminose.
Alla fine, il principe Arjuna chiede a Krishna di manifestarsi nella sua forma divina. Questi lo avverte che «con i tuoi occhi non sei in grado di vedermi in questa Forma universale. Ti darò allora degli occhi divini: ora contempla pure la mia Divina Potenza» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 8)2.
È in questo contesto che è contenuta la frase che Oppenheimer citò il 16 luglio 1945 durante il primo test nucleare ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Usò la traduzione fatta da Ryder che, per alcuni versi, non coincide con le traduzioni tradizionali.
La prima si riferisce allo sbigottimento di Arjuna di fronte alla manifestazione divina di Krishna: «Se la luce di mille soli si levasse simultaneamente nel cielo, essa sarebbe simile all’effulgenza di questo Supremo Signore» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 12).
Lo stesso avatar spiega, alla fine, il motivo per cui lui si è incarnato nel mondo degli uomini proferendo la seconda frase poi passata alla storia come quella espressa dal capo del Progetto Manhattan subito dopo l’esplosione nucleare: «Io sono il tempo che quando giunge a maturazione distrugge l’universo. Qui mi vedi impegnato ad annientare queste stirpi umane. Anche senza di te, tutti questi guerrieri schierati su fronti opposti non sopravvivranno» (Bhagavad Gita, Capitolo 11, verso 32).
I versi ricordati da Oppenheimer furono poi riproposti per la prima volta da William Leonard Laurence che affermò di aver sentito la frase dallo stesso fisico a Los Alamos, dove era rientrato poche ore dopo il Trinity Test.
L’intera storia venne in seguito descritta nel libro dell’austriaco Robert Jungk3.
Secondo questo autore, la prima frase che Oppenheimer pronunciò appena vide il Trinity Test fu un’altra: «Se la luce di mille soli erompesse d’un tratto nel cielo nello stesso momento, essa sarebbe pari allo splendore del Magnifico». Solo in seguito, quando in distanza la nube si levò, pronunciò la frase più celebre: «Sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi».
La maggior parte delle traduzioni del libro induista interpretano la parola kālaḥ (कालं) come «tempo», mentre Arthur W. Ryder, nella sua edizione del 1929, probabilmente quella da cui Oppenheimer aveva studiato e, successivamente, ne aveva tratto la citazione, la rende come «Morte».
Oppenheimer potrebbe essersi identificato con Arjuna, con tutti i suoi dubbi e le incertezze sulla moralità di partecipare o meno ad una battaglia che lo avrebbe costretto a uccidere non solo i suoi stessi amici, ma anche i familiari. In quanto soldato, Arjuna aveva un compito ben preciso da compiere, esattamente come il fisico Oppenheimer.
Avrebbe potuto trovare le stesse giustificazioni in altri pensatori occidentali (pensiamo, ad esempio, a Dietrich Bonhoeffer secondo il quale, a volte, per combattere il male maggiore era necessario compiere un male minore), ma per il fisico statunitense era più facile trovare una redenzione in un testo orientale (pur sapendo che l’Oriente indiano non era certo simile a quello giapponese) piuttosto che in un testo della sua cultura di provenienza.
Scienziati e politici
Secondo Oppenhemeir, gli scienziati avevano il dovere di scoprire i segreti dell’universo e – nel suo caso – del nucleo atomico e su come realizzare la bomba, mentre era dovere della classe politica e diplomatica decidere che uso farne.
Questa distinzione di ruoli fu sempre posta in evidenza da Oppenheimer in ogni suo intervento pubblico. Nel 1946, mentre era direttore della Comitato di consulenza (General advisory committee) della Commissione per l’energia atomica affermò che il comitato da lui presieduto non aveva consigliato la Commissione su quante bombe avrebbero dovuto realizzare, «dato che non era un nostro lavoro, ma una decisione che doveva essere presa dall’apparato militare. Noi abbiamo solo evidenziato quali erano i limiti su quante bombe potevano realizzare in base al materiale reso disponibile».
A differenza di Einstein, Oppenheimer non credeva in un dio panteista: l’umanità era fatta da popoli di diverse culture, credi, indirizzi politici e filosofici. I giapponesi non erano suoi fratelli, questo lo aveva bene in mente, eppure, nonostante questi distinguo, dopo gli anni della guerra si sentì responsabile per quello che aveva fatto.
Le notizie dei kamikaze giapponesi che si immolavano per il proprio Paese lanciandosi verso le navi della flotta statunitense nel Pacifico dovevano avergli fatto venire in mente altri versetti del testo indiano: «Colui che pensa che il sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce, poiché esso non può uccidere né essere ucciso.
Esso non è nato né morirà, non è mai iniziato e non cesserà di esistere; non nato, eterno, immutabile e primordiale, non viene ucciso quando un corpo viene ucciso. Colui che conosce il Sé come indistruttibile, eterno e inalterabile, come e che cosa potrebbe mai uccidere? […] Le armi non lo feriscono, il fuoco non può bruciarlo, l’acqua non può bagnarlo e il vento non può seccarlo. Egli è eterno, immutabile, onnipervadente e sempre identico a sé stesso» (Bhagavad- Gita, Capitolo 2, 19-24).
Quindi, se gli stessi giapponesi credevano nella vita immortale, se gli stessi giapponesi uccidevano e si uccidevano con la convinzione che non si viene uccisi quando un corpo viene ucciso, doveva esistere una sorta di filo rosso che giustificava azioni-doveri. In questo senso, Oppenheimer doveva aver trovato nella Gita più spunti di consolazione non solo per i risultati dei suoi studi sulla bomba atomica, ma anche per i dubbi, le delusioni e i dolori che conobbe nel corso della vita.
Nel 1954 arrivò anche ad affermare che far esplodere una bomba dimostrativa in un luogo disabitato, come avevano proposto alcuni suoi colleghi, non avrebbe sortito nessun effetto sui giapponesi. E, ancora, nel 1957, spiegò che non vi era altra possibilità che lanciare la bomba su Hiroshima e Nagasaki perché, dopo il Trinity Test, il meccanismo si era messo in moto ed era impossibile fermarlo .
Come si legge nella Gita (Capitolo 11, verso 34): «Colpisci dunque Drona e Bhisma, Jayadatha e Karna, e similmente tutti gli altri potenti guerrieri. Essi sono già stati uccisi da Me. Combatti senza paura, e sarai vittorioso nella battaglia».
Nella visione di Oppenheimer uno scienziato deve essere il più neutrale possibile: «Egli siede nella neutralità senza essere turbato dall’agire delle tre qualità. Costui rimane sempre saldo e non vacilla, sapendo che
sono soltanto gli elementi fondanti della natura a modificarsi. Per quell’uomo gioia e dolore sono la stessa cosa, egli non è condizionabile e considera di pari valore la zolla di terra, il sasso e l’oro. Egli rimane uguale nell’onore come nel disonore, uguale con l’amico come con il nemico, e ha abbandonato ogni desiderio personalistico. Questo è l’uomo che ha trasceso i tre guna» (Bhagavad Gita, Capitolo 14, versi 23-25).
La lettera mai firmata
Anche la lettera di Leo Szilard, firmata da sessantasette altri scienziati, in cui chiedeva a Truman (successore di Roosevelt dall’aprile 1945, cioè pochi mesi prima del lancio dell’atomica) di non lanciare la bomba su un centro abitato, non venne firmata da Oppenheimer .
Non sappiamo se questi suoi atteggiamenti furono determinati dall’ignavia o dal fatto che l’amore per la fisica e per la ricerca prevaleva sulla morale umana. Più volte, il direttore di Los Alamos spronò i suoi colleghi a non distrarsi dal lavoro utilizzando un passaggio che nella Bhagavad Gita leggeva spesso: «il frutto del lavoro» o il «frutto dell’azione» . Il messaggio che il fisico voleva inviare a chi lo accusava di collaborazione morale con il genocidio nucleare era chiaro: gli scienziati non potevano orientare il mondo della politica su come utilizzare i risultati delle loro ricerche.
«Non è con l’astenersi dal compiere ogni agire che l’uomo può liberarsi dai legami dell’azione e dalle loro conseguenze. E nemmeno la semplice rinuncia ai suoi frutti può innalzare l’uomo alla perfezione» (Bhagavad Gita, Capitolo 3, verso 4).
Pur essendo un assiduo lettore della Gita, Robert non fu mai portato a diventare un devoto induista e non diede mai a vedere in pubblico che quel libro lo avesse particolarmente influenzato nelle decisioni della sua vita.
Per una persona erudita come Oppenheimer gli interessi spaziavano anche oltre l’universo indiano. Eppure, utilizzò spesso i versi della Gita per interventi pubblici. Durante il ricordo funebre per la morte di Franklin Delano Roosevelt, tenuto a Los Alamos nell’aprile 1945, citò un verso (Bhagavad Gita, Capitolo 17, verso 3) che amava ripetere spesso e che avrebbe ripetuto anche in seguito, quando sentirà che la sua vita stava ormai giungendo al termine a causa di un tumore alla gola: «L’uomo è una creatura la cui sostanza è la fede. Come è la fede dell’uomo, così egli è».
PiergiorgioPescali
Note
(1) L’avatar è la manifestazione di una divinità sulla Terra.
(2) I versi riprodotti in questo articolo sono trascritti dalla traduzione in italiano de La Bhagavad-Gita, il canto del beato, dal sito www.labhagavadgita.it.
(3) «Brighter than a Thousand Suns: A Personal History of Atomic Scientists», pubblicato per la prima volta in lingua tedesca nel 1956 e poi tradotta in inglese nel 1958.
La risposta Usa alla Germania nazista
1942-1947, il Progetto Manhattan
Il Progetto Manhattan fu conseguenza della scoperta nel 1938 della fissione nucleare da parte degli scienziati tedeschi Otto Hanh e Fritz Strassmann. Timorosi che gli sviluppi potessero portare alla preparazione di una bomba nucleare da parte della Germania nazista, Leo Szilard e Eugene Wigner scrissero una lettera, firmata anche da Albert Einstein, in cui si chiedeva al presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt di avviare un programma che anticipasse la ricerca tedesca. Mentre il coinvolgimento di Einstein nel progetto si fermò qui, nel giro di qualche anno migliaia di altri scienziati nel campo della fisica, chimica, tecnici, ingegneri e impiegati amministrativi vennero coinvolti nel più ambizioso programma di ricerca mai avviato sino ad allora.
Il 19 gennaio 1942, Roosevelt avviò lo Sviluppo dei materiali surrogati (Development of substitute materials), e nel giugno dello stesso anno, presso il diciottesimo piano di un edificio al 270 di Broadway, a Manhattan, New York, venne fondato il Manhattan engineering district, l’ufficio militare in cui si imbastirono i primi piani di quello che, in seguito sarebbe stato conosciuto con il nome di «Progetto Manhattan».
Per mantenere l’assoluta segretezza dell’operazione, che in una città come New York avrebbe potuto essere compromessa, si spostarono laboratori e uffici in vari piccoli e isolati centri degli Stati Uniti: Oak Ridge, Hanford e il sito di Los Alamos, nel New Mexico, alla cui guida venne posto Robert Oppenheimer, furono i principali, ma nel corso degli anni la ragnatela si arricchì di un’altra quindicina di siti, alcuni dei quali in Canada.
Il 2 dicembre a Chicago, Enrico Fermi riuscì a compiere la prima reazione di fissione nucleare al mondo e nel 1944, dopo aver studiato vari tipi di materiali da utilizzare, venne scelto di sviluppare i disegni delle due bombe «Little Boy» e «Fat Man».
Il 16 luglio 1945 venne svolto il Trinity Test, che vide esplodere «Gadget», la prima bomba nucleare. Tutto ormai era pronto per l’operazione sul campo: il 6 agosto 1945 Hiroshima venne bombardata e tre giorni dopo fu la volta di Nagasaki.
Il 1° gennaio 1947 il Progetto Manhattan venne ufficialmente chiuso. L’intera operazione era costata 1,9 miliardi di dollari (equivalenti a 23 miliardi attuali) e aveva impiegato 120mila persone.
P.P.
Bombe a fissione e bombe all’idrogeno
Da «Little Boy» a «Ivy Mike»
La bomba nucleare a fissione ha portato a uno sviluppo della stessa verso la bomba termonucleare, o bomba a idrogeno, inventata da Edward Teller e Stanislaw Ulan. Il primo test del genere venne svolto il 1° novembre 1952 sull’atollo di Eniwetok, nelle Isole Marshall, con la «Ivy Mike». La potenza sprigionatasi dallo scoppio, pari a 10,4 milioni di tonnellate di tritolo, fu circa 700 volte superiore a quella della bomba di Hiroshima.
Mentre la bomba nucleare a fissione basa la potenza distruttiva solo sull’energia sprigionatasi dalla parziale fissione dell’uranio o del plutonio (solo una piccola parte del combustibile nucleare si fissiona), la bomba termonucleare addiziona alla scissione nucleare la fusione di due isotopi dell’idrogeno, il trizio e il deuterio incapsulato in un involucro di uranio. Nelle bombe moderne, il deuterio, facile ed economico da ottenere, ma problematico da utilizzare perché deve essere raffreddato in forma liquida a circa 250°C sotto lo zero, è sostituito dal deuterio di litio che, essendo un solido, è più facile da maneggiare.
Una bomba termonucleare è formata da due parti: la parte primaria, che è il detonatore (uranio o plutonio che viene fatto fissionare) e la parte secondaria, che è la sezione che contiene il materiale di fusione.
La fissione del nucleo di uranio o plutonio sprigiona raggi X che comprimono il deuterio o il deuterio di litio, che produce trizio. La compressione riscalda il combustibile nucleare sino a una temperatura (circa 100-150 milioni di gradi) tale da provocarne la fusione del deuterio e del trizio che libera energia fissionando anche l’intero involucro in cui è contenuta, formato da uranio, responsabile dello sviluppo dell’energia distruttiva liberata durante la detonazione.
In questo modo l’energia rilasciata dal processo di fissione-fusione-fissione è maggiore di quella della sola fissione. A parità di massa, la bomba termonucleare sprigiona circa dieci volte l’energia prodotta da un ordigno a fusione, ma negli ordigni moderni la potenza può essere anche migliaia di volte superiore.
P.P.
Il ruolo della religione nell’India di Modi
l’intolleranza dell’induismo nazionalista
Nel più popoloso paese del mondo, con la presidenza di Modi, è tornata prevalente l’ideologia «hinduvta» che predica la superiorità degli hindù sulle altre comunità. A farne le spese sono soprattutto musulmani e cristiani.
Con il termine «induismo» si è soliti indicare l’insieme di credenze e pratiche religiose nate e sviluppatesi nella vasta regione del fiume Indo (Sindhu, in sanscrito). Storicamente, soltanto nel 1893, a Chicago (nel primo «Parlamento mondiale delle religioni»), il termine iniziò a essere utilizzato come identificativo confessionale specifico della maggior parte delle popolazioni (che oggi contano oltre un miliardo di persone) che abitano l’India. Tuttavia, già tra il VI e il V secolo a.C. gli abitanti del territorio bagnato dalle acque dell’Indo, ad est dell’Impero achemenide, venivano identificati con il termine di hindù (o indù), passato poi nella terminologia greca e latina.
Oltre che una religione, possiamo definire l’induismo come una serie di stili di vita e di pratiche etiche che costituiscono contemporaneamente un sistema sociale.
Per parte loro, gli hindù definiscono la propria religione come sanatana dharma, «legge eterna» o «morale eterna», anche questa espressione recente, visto che ha iniziato a essere utilizzata solo nel secolo scorso.
Premesso che miti, credenze, fedi dell’induismo si sono sedimentate in oltre tremila anni di storia, è possibile descrivere questa confessione seguendo quattro grandi ere storiche:
il periodo vedico (1500-500 a.C.);
il periodo del brahmanesimo, o induismo antico (500 a.C.-500 d.C.);
il periodo induista recente (500 – fine XIX secolo);
il periodo induista attuale (dal XIX secolo a oggi).
È essenzialmente questa la linea comune che lega le varie forme di induismo presenti nel subcontinente indiano dato che la mancanza di dogmi e di una figura religiosa che sovrasta le altre rende difficile una definizione univoca della religione.
Alcune delle idee inserite in epoca tarda (IX-IV secolo a.C.) nei Veda (testi sacri) tramite le Upanishad (commentari dei Veda), portarono all’idea della reincarnazione e che questa sia governata dalla legge del karma, che il samsara, il ciclo delle rinascite, dovesse essere interrotto tramite una serie di azioni che portavano a dissipare l’ignoranza verso la nostra vera essenza raggiungendo il moksha, la salvezza.
Il modo per rompere il ciclo di rinascite è l’osservazione del dharma, una serie di comportamenti morali e rituali che porta l’atman, l’anima individuale, a unirsi alla divinità.
Dal punto di vista cosmologico, l’induismo accetta dunque l’universo proposto dai Veda, dove diversi regni sovrapposti uno sull’altro rappresentavano svariati gradi di esistenza e di sviluppo in cui gli esseri si reincarnavano.
Le divinità induiste, pur essendo molteplici, si possono raggruppare nelle Trimurti che vedono in Brahma, il creatore, Vishnu, il conservatore e Shiva, il distruttore, i principali dèi. Altri esseri soprannaturali abitano il pantheon induista, ma per la maggior parte questi sono emanazioni delle Trimurti, o i loro avatar (ad esempio Krishna, avatar di Vishnu).
Oggi il movimento induista si è incarnato in un movimento nazionalista, l’hindutva («induità»), nato negli anni Venti del XX secolo, che predica la superiorità etnica, morale, religiosa e culturale degli hindù sulle altre comunità presenti in India. Sviluppatosi per opera del bramino Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), l’hindutva ha come suo fondamento la distinzione tra le religioni nate all’interno dell’India (come il giainismo, l’induismo, il buddhismo e il sikhismo) e quelle nate fuori dall’India (islam e cristianesimo, in particolare), definendo queste ultime come estranee al corpus indiano. Fu però solo con il colonialismo britannico che si tracciò un netto spartiacque tra le fedi: nei censimenti voluti dalla Corona inglese nella colonia asiatica, gli indiani dovevano scrivere a quale religione appartenessero. Fino ad allora, la mentalità indiana non trattava giainismo, induismo, buddhismo e sikhismo (le quattro religioni dell’hindutva) come separate tra loro: l’appartenenza a una tradizione non escludeva l’altra.
Oggi l’ideologia hindutva è rappresentata da un ombrello di partiti raggruppati nel Sangh Parivar (famiglia del Rss, Rashtriya swayamsevak sangh, l’Organizzazione nazionale di volontariato) di cui fa parte il Bharatiya janata party (Bjp) di Narendra Modi, dal 2014 primo ministro della nazione.
Durante il suo mandato sono state emanate diverse leggi atte a opprimere le comunità musulmane e cristiane. Quattro Stati dell’Unione indiana (Karnataka, Haryana, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh) hanno vietato le conversioni all’islam attraverso il matrimonio (secondo il diritto islamico una donna musulmana non può sposare un uomo di altra religione se prima questi non si converte), mentre la stampa di destra indiana continua a dare resoconti (molte volte non verificati) di islamici che uccidono vacche (sacre per l’induismo), stuprano donne, violano le leggi induiste.
Con il nuovo governo, denominato Modi 2.0, l’hindutva sembra aver preso una piega ancora più radicale, soprattutto con la nomina di Amit Shah a ministro dell’Interno. La proposta di legge sulla cittadinanza avanzata da Shah intende dare la cittadinanza solo a quei profughi provenienti da Nepal, Bangladesh, Pakistan e Afghanistan che non siano musulmani.
L’hindutva rivolge le sue attenzioni anche al cristianesimo, che ha una doppia colpa: quella di essere una religione straniera e di avere come fedeli i «fuoricasta». L’80% dei cristiani appartiene, infatti, alla casta dei dalit (un tempo si diceva «intoccabili»), in particolare nell’Orissa. Anche se non raggiungono ancora i livelli di odio e violenza a cui sono sottoposti i musulmani, gli episodi di intolleranza verso i cristiani si stanno moltiplicando: cappelle date alle fiamme, autorità che impongono alle comunità di non mostrare in pubblico i simboli della fede. I dalit che si convertono al cristianesimo o all’islam perdono ogni forma di protezione sia nazionale che locale, trasformandosi in potenziali bersagli dell’intransigenza hindutva.
Tutti i rapporti concordano sulla pericolosa deriva di intolleranza intrapresa sia da organizzazioni che si rifanno al Sangh Parivar, sia dalle stesse istituzioni statali che dovrebbero garantire la salvaguardia dei diritti umani di tutti i cittadini indiani senza distinzione di appartenenza etnica, culturale, linguistica e religiosa. Per esempio, è significativo che lo scorso 28 maggio il premier Modi abbia inaugurato la nuova sede del parlamento indiano con una cerimonia religiosa induista.
Missionario argentino, ha lavorato lungamente tra i Warao, popolo indigeno del Delta Amacuro, in Venezuela. Da qualche mese opera a Boa Vista, Roraima, dove molti indigeni sono immigrati, spinti dalla necessità e per iniziare (o provare a iniziare) una nuova esistenza. In queste pagine, padre Juan Carlos Greco ricorda gli anni trascorsi nelle loro terre.
Da quest’anno sono a Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima. Nei precedenti nove anni ho vissuto tra i Warao del Venezuela, quasi sempre nel loro habitat tradizionale: i canali del rio Orinoco, nello stato del Delta Amacuro. Oggi, i Warao si possono incontrare in paesi inaspettati – da Cuba a Trinidad e Tobago -, luoghi spesso raggiunti dopo viaggi avventurosi.
Gli anni trascorsi in mezzo a loro mi hanno lasciato un piacevole ricordo e molteplici insegnamenti che sarebbero sufficienti per scrivere un libro. In queste pagine, però, mi limiterò a evidenziare alcuni pensieri e sentimenti legati a quelle che io chiamo «le tre “o”» dei Warao: oralidad, oyentes y orgullo, che, in italiano, diventano «oralità, ascoltatori e orgoglio».
Il «quaderno dei ricordi»
La vita di un Warao tradizionale – «morichalero», come dicono alcuni – si svolge nell’immediatezza, il che implica un modo di concentrarsi sul lavoro di coltivazione dell’ocumo cinese1, sull’estrazione dei prodotti del moriche2, sull’uscita in canoa a pescare. Tutto ciò potrebbe sembrare qualcosa di paradisiaco. Tuttavia, la realtà dei Warao non è così idilliaca, visto che i problemi da affrontare sono tanti.
La distanza che separa un villaggio dall’altro, l’assenza di acqua non contaminata (potabile), la carenza di cibo, sono solo alcune delle difficoltà che essi devono affrontare.
Qualcuno ha detto che è molto difficile ascoltare una storia o raccontarla quando si ha fame, e la fame, purtroppo, riguarda tante comunità warao del Venezuela.
Sono sempre meno gli anziani che, al mattino o alla sera, si siedono per raccontare storie ai loro figli o nipoti. Alcuni ricordano i miti solo quando arrivano persone non indigene che li stimolano a ricordare. Sicuramente, alcuni aidamos (anziani, soprattutto uomini) e i wisiratu (figure simili agli sciamani) sono ancora attenti a mantenere viva la tradizione perché sono consapevoli che è l’unico modo per i Warao di conservare la propria memoria: il pensiero è come un quaderno, dove la storia può essere «scritta» in modo che sia costantemente ricordata. Insomma, nonostante l’oralità stia perdendo terreno di giorno in giorno, essa rimane ancora un elemento centrale della cultura warao.
Nel nostro contesto postmoderno l’oralità passa attraverso l’uso dei media (whatsapp, messaggi, zoom, ecc.) e, soprattutto dopo la pandemia, è diminuita quella «faccia a faccia». Quanto investiamo in questo tipo di scambio di conoscenze? Quanto le nuove generazioni apprezzano questa modalità di comunicazione? L’uso che facciamo dei media, il tempo che dedichiamo a essi, il mondo dell’intelligenza artificiale, ci stanno rendendo più cibernetici ma meno civilizzati. Imparando dall’oralità tradizionale warao una persona viene arricchita e si mette in discussione.
L’orgoglio dei Warao
Il Warao è orgoglioso della sua capacità di ricordare cose ed eventi attraverso la ripetizione di storie e miti. Compone narrazioni, le varia, per comprendere e dare un significato «logico» all’esistenza e alle sue esperienze. Le storie raccontano il moriche (albero madre), il morocoto (pesce preferito per il cibo), la janoko (la palafitta, la casa del Warao), il giorno, la notte e gli altri elementi della vita di ogni giorno. Ma storie e miti servono anche a comprendere la causa dei bisogni attuali, oltre a confrontare il mondo warao nei tempi antichi con quello presente, pieno di cambiamenti e circostanze avverse che essi attribuiscono a eventi soprannaturali, a punizioni divine, conseguenze della disobbedienza di qualche individuo o famiglia.
I miti parlano di personaggi fantastici che sono reali per il narratore, così come perfetti sono il tempo e lo spazio che, nella suspense della narrazione, paiono infiniti.
Il clima di attenzione che si crea quando la persona sta narrando è straordinario: gli ascoltatori rimangono attenti alla storia vivendo ogni suo dettaglio.
Il silenzio circostante è rotto soltanto dalla voce del narratore, attraverso la quale ciascuno dei personaggi prende vita, mentre il pubblico immagina volti, voci, gesti, azioni.
I bambini sono attenti, alcuni seduti sul pavimento, altri sulle amache, mentre le donne allattano i più piccoli cullati dal suono morbido della voce.
Mi è capitato che un’unica storia, di quelle che venivano narrate a messa dopo la comunione – specialmente in comunità come Muhabaina de Araguao – durasse il doppio della mia omelia.
Ascoltatori
Quando visitavamo le comunità ed esprimevamo il desiderio di ascoltare i loro miti, coloro che sapevano mostravano con orgoglio le loro conoscenze. La janoko dove si svolgeva l’incontro si riempiva con decine di bambini, giovani e persino anziani che ascoltavano attentamente la storia raccontata. Alla fine gli ascoltatori rimanevano a riflettere su quanto appreso, altri sorridevano a qualcosa di umoristico, altri si rattristavano per una storia pietosa. Miti o racconti educativi (deneabu) non vengono spiegati e finiscono quando lo stabilisce l’oratore. Sono i creoli (jotarao) a pretendere che, dopo la storia, essa sia ampliata, spiegata o che continui in un’altra forma.
Per i Warao, invece, termina lì, ma tornerà nella loro mente in un altro momento per trarre conclusioni o applicazioni pratiche (il saggio è colui che tira fuori dal baule dei ricordi ciò che è utile per la sua sopravvivenza).
Sono innumerevoli le esperienze che si vivono ascoltando i miti dalla voce di uomini e donne saggi che ancora li ricordano, portando quegli eventi nel qui e ora, come se li facessero rinascere.
Paternalismo versus compassione
Alcune frasi di Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguaiano, mi hanno fatto riflettere.
«C’è chi crede che il destino poggi sulle ginocchia degli dèi, ma la verità è che agisce, come una sfida ardente, sulle coscienze degli uomini».
Parte della missione sarà cercare di pensare, nello stile warao, che il nostro futuro dipende soprattutto dal nostro sforzo, non dal caso o dall’intervento divino e non si può sempre aspettare passivamente le azioni paternalistiche dello Stato o delle Ong.
«C’è solo un luogo – ha scritto sempre Galeano – dove ieri e oggi si incontrano, si riconoscono e si abbracciano. Quel posto è domani». Occorre ampliare la visione del futuro, che, in generale, nella maggior parte delle popolazioni indigene, è piuttosto breve, ancora di più nel contesto dell’immigrato o del rifugiato.
Partendo dalle tre «o», occorre aiutare a capire che «colto non è colui che legge libri. Colto è colui che è in grado di ascoltare l’altro», di unire comunità e famiglie warao negli insediamenti, occupazioni, rifugi e ovunque essi si siano spostati.
A livello missionario, occorre comprendere sempre di più che, come ha sentenziato lo scrittore uruguaiano, «la carità è umiliante perché si esercita verticalmente e dall’alto; la solidarietà è orizzontale e implica rispetto reciproco». Essere di supporto implica aiutare l’altro considerandolo un pari. Donare in una prospettiva di vera carità è guardarlo negli occhi, con compassione che non genera paternalismo ma consolazione.
«La mia sfida»
Sono arrivato in Venezuela nel 2012. Sono «emigrato» in Brasile, nello stato di Roraima, nel 2023, per accompagnare i Warao in questo nuovo paese. Dal 2016 a oggi, infatti, circa il 15% di essi è emigrato dalle proprie terre. Molti altri sono in viaggio o ci stanno pensando seriamente o sono in attesa delle risorse per un’avventura che non tarderà. Non posso classificare tutti come «immigrati venezuelani», dal momento che, tra i Warao presenti qui, il 18-25% sono già nati in Brasile3.
In questa terra s’intravede che per loro c’è speranza, e l’intenzione è di rimanere qui. Solo una minoranza di Warao vuole tornare a vivere in Venezuela. Quelli che ci vanno, di solito lo fanno per visitare i propri familiari.
Personalmente, io sono ancora ai miei primi passi, ma intuisco che, tra le esigenze di queste persone, c’è quella di salvaguardare i ricordi. Tra gli studiosi di culture indigene, si sottolinea l’importanza dell’oralità nei processi di ricostruzione della memoria etnostorica, antica o contemporanea, perché attraverso di essa si può conoscere ogni giorno qualcosa di più su una comunità, una regione, o una certa famiglia.
Non è un compito facile. Se per il cibo e i rimedi si possono trovare fondi e solidarietà, per i processi culturali è tutto molto difficile. E senza la loro cultura, senza i loro valori, i Warao finiranno per essere manodopera a basso costo o lavoratori schiavi.
Tra i compiti che ci prefiggiamo, c’è quello di far crescere la loro autostima, in modo che riescano a farsi riconoscere come una ricchezza che il Venezuela sta esportando. Occorre, poi, cercare di integrarli nella nuova terra che presenta situazioni e contesti molto diversi da quelli a cui i Warao sono abituati. Accogliere, proteggere, promuovere e integrare sono, secondo papa Francesco, atteggiamenti fondamentali per garantire che i diritti umani dei migranti siano rispettati e le persone trattate con dignità. E questa è la nuova missione che mi sfida.
Juan Carlos Greco
Note
(1) Pianta della famiglia delle Aracee, con un gambo corto, foglie triangolari, fiori gialli e un rizoma contenente amido usato come alimento.
(2) Buritì, canangucha, mirití, palma real, aguaje, la palma moriche cambia nome a seconda dell’area in cui cresce. S’incontra nelle zone umide dell’America Latina. Dal suo tronco pendono migliaia di frutti rossi e carnosi.
(3) Le cifre indicano un totale di settemila indigeni di cui l’80 per cento sarebbe warao. Il numero di figli nati in Brasile si aggira sulle mille unità.
Breve storia del Venezuela
Da Chávez a Maduro
Indipendente dal 1811, il Venezuela è un paese con molte esperienze di regimi autoritari. Negli anni Cinquanta attraversa una dittatura militare – quella del generale Marcos Pérez Jiménez -, ma la democrazia torna un decennio dopo. La politica, tuttavia, contina a essere dominata da partiti legati agli interessi dell’élite. Negli anni Novanta nasce una fase di liberalizzazione dell’economia, una situazione che, nel febbraio 1992, spinge un gruppo di militari di sinistra a tentare un colpo di Stato. Il suo fallimento porta Hugo Chávez Frías, leader del Movimento rivoluzionario bolivariano, in carcere. Un anno dopo, il presidente Carlos A. Pérez riceve un impeachment e viene destituito dall’incarico.
Nel 1994, Hugo Chávez è graziato e rilasciato dal presidente Rafael Caldera. Quattro anni dopo, viene eletto presidente, avviando immediatamente quella che chiama la «rivoluzione bolivariana», con riforme della costituzione e della struttura dello stato. Durante i suoi 14 anni di governo, si presenta come difensore dei poveri destinando miliardi di dollari – originati dalle vendite di petrolio – in programmi sociali (las misiones). Nell’aprile 2002 viene sventato un golpe contro di lui e nel 2012 vince ancora le elezioni.
Pochi mesi dopo, la morte di Chávez coglie di sorpresa il paese e il mondo. Il governo del suo successore (ad interim, al momento della sua morte), Nicolás Maduro, deve inaspettatamente affrontare varie difficoltà a causa della riduzione del valore del petrolio, i debiti in sospeso, un’escalation della corruzione e il peso della sostituzione di un leader carismatico come Chávez. La crisi economica e politica porta il Venezuela vicino al collasso.
Nel 2015 si tengono le elezioni parlamentari per rinnovare tutti i seggi dell’Assemblea nazionale. I deputati eletti dovrebbero servire per 5 anni. Sono le prime elezioni parlamentari tenute dopo la morte di Hugo Chávez e si tramutano nella prima – umiliante – sconfitta del chavismo. Le elezioni portano alla vittoria della tavola rotonda dell’Unità democratica (Mud), con 112 dei 167 deputati dell’Assemblea nazionale (56,2% dei voti), e la prima grande vittoria elettorale per l’opposizione in 17 anni. A differenza del suo predecessore (che, dopo aver perso un plebiscito, aveva accettato la decisione popolare),
Maduro rifiuta la sconfitta creando un’Assemblea costituente che eclisserà quella democraticamente eletta.
Nel maggio 2018, viene rieletto per un secondo mandato di sei anni, in una elezione segnata dal boicottaggio dell’opposizione e da accuse di frode.
Colpita dal crollo dei prezzi del petrolio e dalle severe sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti, l’economia venezuelana cade in profonda recessione con i prezzi di tutte le merci alle stelle e una grave scarsità di prodotti. La situazione provoca un enorme esodo di venezuelani principalmente verso i paesi vicini (Colombia, Perù ed Ecuador).
All’inizio del 2019, il leader dell’opposizione Juan Guaidó si dichiara presidente ad interim e si appella (senza successo) alle forze armate per rovesciare Maduro. L’Unione europea, gli Stati Uniti e molti altri paesi riconoscono Guaidó come presidente. Tuttavia, visti gli scarsi risultati ottenuti, a dicembre 2022, la stessa opposizione venezuelana decide di porre fine all’esperimento dell’interinato a far data dal 5 gennaio 2023.
J.C.Greco
La migrazione venezuelana
Fuga da Súper Bigote
Lo scorso maggio a Brownsville, in Texas, un suv ha investito un gruppo di persone in attesa dell’autobus fuori da un rifugio per migranti. Tra gli otto morti e i dodici feriti, la maggioranza era venezuelana.
L’emigrazione dal paese latinoamericano è iniziata poco dopo la prima presidenza di Nicolás Maduro, mediocre successore di Hugo Chávez, ma si è intensificata a partire dal 2016, in concomitanza con l’aggravarsi della crisi economica. Sui numeri non c’è certezza, ma la fuga dal paese è certamente imponente.
Secondo R4V (Plataforma de coordinación interagencial para refugiados y migrantes, che comprende anche le agenzie dell’Onu), i venezuelani usciti dal paese sarebbero oltre sette milioni, di cui oltre sei sarebbero andati verso paesi latinoamericani, in particolare in Colombia (2,5 milioni) e in Perù (1,5), seguiti a distanza da Ecuador, Cile e Brasile.
Come accade sempre e ovunque, questa emigrazione di massa genera molti problemi. I venezuelani arrivano in paesi già di loro problematici con uno stato sociale (sanità, istruzione, ecc.) debole e un mondo del lavoro dominato da impieghi informali. Questa situazione origina reazioni xenofobe da parte della popolazione residente e misure populiste da parte dei governi. In mezzo, ci sono i migranti – oltre la metà sono donne con bambini – che necessitano di tutto: cibo, alloggi, lavoro, assistenza.
A fine aprile, per frenare l’immigrazione illegale, il governo peruviano di Dina Boluarte ha decretato lo stato d’emergenza ai confini del paese. I più recenti episodi di intolleranza si sono verificati in Cile (che ospita circa 450mila venezuelani), nella regione desertica di Arica, alla frontiera con il Perù. Qui i due paesi andini si rimpallano la responsabilità di risolvere la questione dei migranti venezuelani bloccati al confine.
Nell’ultimo anno, la situazione economica del Venezuela è leggermente migliorata. L’inflazione rimane iperinflazione, ma pare stabilizzata: 471 per cento all’anno, secondo l’Observatorio venezolanos de finanzas. Da tempo, per uscire dall’isolamento internazionale, il paese intrattiene rapporti di collaborazione con le dittature, in particolare con l’Iran, la Russia e la Cina, paesi con cui Caracas condivide l’avversione verso gli Stati Uniti (combattuti anche da Súper Bigote, Super Baffo, il cartone animato venezuelano che esalta un Maduro dotato di superpoteri).
In aprile, ha fatto tappa a Caracas il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, per ribadire la vicinanza di Mosca. Tuttavia, queste alleanze in chiave anti americana sono del tutto insufficienti per uscire dalla crisi. Più utile si sta dimostrando il riavvicinamento alla Colombia. Sempre in aprile, in un incontro a Washington, il presidente colombiano Gustavo Petro ha chiesto a Biden di ripensare le sanzioni contro il Venezuela. Il presidente Usa ha chiesto garanzie per le prossime elezioni del 2024. Elezioni alle quali l’opposizione si dovrebbe presentare con un candidato unitario che sarà eletto nelle primarie previste per il 22 ottobre 2023. Nel frattempo, il governo Maduro ha preso atto delle gravi difficoltà di Pdvsa, la compagnia petrolifera statale, un tempo vanto (e cassaforte) del Venezuela. Anche per questo ha recentemente concluso accordi con alcune compagnie petrolifere occidentali per esportare il proprio gas: con l’italiana Eni, la spagnola Repsol e la statunitense Chevron (tutte già presenti nel paese ma da tempo ferme a causa dell’embargo imposto dagli Usa). Soltanto con un miglioramento delle condizioni materiali della popolazione venezuelana Súper Bigote potrebbe riuscire a porre un freno alla fuga dal paese.
La sua posizione geografica e un territorio in gran parte desertico ne fanno un paese tra i più poveri del mondo. I gruppi armati e l’instabilità politica degli ultimi anni hanno aggravato la situazione. La crisi climatica fa aumentare la fame e i conflitti intercomunitari. Se la capitale resiste, l’interno del paese è abbandonato a se stesso.
La stagione delle piogge è alle porte. O almeno dovrebbe. In Ciad, come in gran parte dell’Africa, non ci sono più le stagioni di una volta. E non è una banale frase fatta. I cambiamenti climatici, in regioni fragili come quella del Sahel e in paesi aridi come il Ciad, dove ogni goccia d’acqua è preziosissima, hanno stravolto tutto: piove molto meno o piove troppo violentemente; non piove quando dovrebbe o si scatenano diluvi che devastano campi e allagano villaggi. Insomma, non si tratta solo dell’innalzamento delle temperature, dell’avanzata del deserto e della siccità che attanagliano questa regione, ma anche di eventi meteorologici estremi che si accaniscono contro territori e popolazioni già molto poveri ed estremamente vulnerabili. Che lo diventano ancora di più.
Il Ciad è l’emblema di tutto questo: qui i fattori ambientali e climatici – che hanno portato anche alla quasi scomparsa del Lago Ciad, un tempo uno dei bacini idrici più vasti dell’Africa – si intrecciano a situazioni conflittuali dovute alla presenza di gruppi terroristici e ribelli, agli scontri sempre più frequenti tra pastori e agricoltori, a un contesto di instabilità politica e a una grandissima povertà e insicurezza alimentare. Una crisi complessa e prolungata di cui, oggi, ne pagano le conseguenze intere popolazioni. Nel bacino del lago sono più di 24 milioni le persone a rischio fame e quasi tre milioni gli sfollati, secondo quanto emerso dalla terza Conferenza su questa regione, che si è tenuta a fine gennaio a Niamey, in Niger, e che ha delineato un quadro drammatico, che rigurada anche i paesi limitrofi.
La fame si diffonde
Il Ciad, in particolare, sta vivendo una situazione catastrofica in termini di sicurezza alimentare: è uno dei paesi africani in cui la fame è a livelli allarmanti, insieme a Repubblica democratica del Congo, Centrafrica, Madagascar e ai paesi del Corno d’Africa. Per non parlare del Sudan, che lo scorso 15 aprile è sprofondato nuovamente nel conflitto civile, con inevitabili ripercussioni anche al di qua della frontiera ciadiana, dove, dopo un mese di guerra, si erano già riversati oltre 60mila profughi che sono andati ad aggiungersi a quelli fuggiti negli anni scorsi dal conflitto in Darfur.
Anche il Ciad, tuttavia, si regge su un equilibrio molto delicato e instabile. L’uccisione del presidente Idriss Déby, il 20 aprile 2021 – ufficialmente mentre guidava un’offensiva contro i ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad (Fact) – ha aperto una nuova fase politica, tanto opaca quanto quella che lo aveva visto protagonista (indiscusso e controverso) per ben trent’anni. Le redini del potere sono state immediatamente trasferite – per «successione dinastica», secondo gli oppositori – al figlio Mahamat Deby Itno, nominato a capo del Consiglio militare di transizione (Cmt), che avrebbe dovuto portare, nel giro di 18 mesi, alle elezioni e a un governo civile. Per farlo, è stata creata una piattaforma di dialogo nazionale che si è tenuta da agosto a ottobre 2022 con risultati piuttosto deludenti e inconcludenti, e con l’unica certezza che la transizione sarebbe stata prolungata di altri 24 mesi, guidata sempre da Déby junior.
Anche la Chiesa cattolica, che era stata associata al dialogo, ha deciso di sospendere la sua partecipazione, nel settembre dello scorso anno, ritenendo che mancasse una reale volontà di ascolto reciproco e di inclusività. Per la Chiesa, «il dialogo, che è al tempo stesso politico e sociale, deve mettere insieme gli attori politici e quelli della società civile, molti dei quali sono stati esclusi». Ovvero, gran parte dell’opposizione, diverse espressioni del tessuto sociale e alcuni gruppi armati.
Proteste popolari
Il senso di frustrazione, soprattutto di molti giovani, è sfociato nell’ottobre del 2022 in numerose manifestazioni e proteste sia nella capitale N’Djamena che in altre città del Paese.
Un movimento popolare brutalmente represso dalle forze di sicurezza, che hanno provocato una cinquantina di morti e più di trecento feriti.
Nel frattempo circa 400 ribelli sono stati condannati, lo scorso marzo, al carcere a vita per l’uccisione di Idris Déby, dopo un processo nella prigione di Klessoum, vicino alla capitale, durato circa un mese e a porte chiuse. L’accusa parla di «atti di terrorismo, arruolamento di bambini e attentato alla vita del capo dello Stato», ma la condanna assomiglia molto a un regolamento di conti specialmente con il Fact, uno dei gruppi più attivi e minacciosi presenti nel nord del Paese, dove è implicato anche nello sfruttamento delle miniere d’oro.
La capitale e l’interno
Oggi la situazione è apparentemente calma. E non è solo il caldo soffocante, con le temperature che si aggirano attorno ai cinquanta gradi, che azzerano ogni tipo di iniziativa, facendo sembrare città e villaggi, nelle ore centrali della giornata, dei luoghi fantasma. La capitale N’Djamena è costantemente «blindata» dalle forze di sicurezza ciadiane.
A scoraggiare possibili attacchi e incursioni è anche la presenza di considerevoli contingenti stranieri, in primis, quello francese che, «cacciato» dal resto del Sahel, ha consolidato in Ciad un’importante presenza militare per controllare – dal cuore dell’Africa e al crocevia tra mondo arabo musulmano e regione subsahariana – anche quello che succede tutt’intorno.
Fuori da N’Djamena, però, il Paese sembra abbandonato a se stesso. Strutture e infrastrutture sono quasi inesistenti o ridotte in uno stato pietoso, comprese le due strade principali, quella che costeggia il fiume Logone al confine con il Camerun e che scende verso sud, e quella che taglia il Paese da ovest a est: due assi viari strategici che, per lunghi tratti, sono impraticabili a causa delle enormi buche che obbligano a percorrere piste sabbiose ai lati.
Per non parlare dei sistemi educativo e sanitario. Nel Paese, solo un quarto della popolazione è scolarizzato e appena il 14% delle donne. Gli unici ospedali degni di questo nome sono nella capitale, mentre nella maggior parte dei dispensari c’è a malapena personale infermieristico. Più del 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
E i prezzi di cibo, carburante, beni di prima necessità continuano a crescere, anche in conseguenza della guerra in Ucraina.
Il Paese è sull’orlo del fallimento a causa del debito estero e si piazza al penultimo posto (seguito solo dal Sud Sudan) nell’indice dello sviluppo umano dell’Undp. Quanto a vulnerabilità climatica – ovvero alla capacità di resistere e di reagire all’impatto del clima – è il peggiore al mondo.
Equilibri precari
Ad aggravare la situazione contribuiscono anche le molte fratture interne e le tante situazioni potenzialmente esplosive. Sono, infatti, presenti – e a volte si intrecciano – diversi livelli di conflitto. Fino dagli anni Novanta, il Nord del Paese è stato interessato da varie ondate di ribellioni da parte di gruppi che spesso mantengono basi logistiche in Libia. A partire dalla 2015, sono stati soprattutto i terroristi nigeriani di Boko Haram a rendersi responsabili di attacchi, violenze, saccheggi e rapimenti in tutto il bacino del Lago Ciad, coinvolgendo anche il sud est del Niger, l’estremo nord del Camerun e, appunto, il nord ovest del Ciad, fino ad arrivare a colpire, a metà del 2015, persino la capitale N’Djamena. Alla fine del 2019, invece, sono state le regioni del Sila e dell’Ouaddai al confine con il Sudan e quella del Tibesti alla frontiera con il Niger a essere interessate da scontri tra gruppi etnici rivali. Ancora oggi la presenza di formazioni terroristiche islamiste rappresenta una sciagura per la popolazione e mette a dura prova l’esercito che è attivamente impegnato anche nella lotta antiterrorismo nell’ambito del G5 Sahel (coalizione regionale di lotta al terrorismo, composto da Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, ndr).
Ma un altro livello di scontro, sempre più diffuso e preoccupante, è quello tra pastori e agricoltori in diverse regioni del Paese, esacerbato dai cambiamenti climatici che rendono sempre più difficile l’accesso all’acqua e ai pascoli. Le violenze intercomunitarie stanno provocando moltissimi morti, feriti e sfollati.
La voce dei vescovi
Una situazione sempre più drammatica, su cui sono intervenuti recentemente anche i vescovi ciadiani che hanno chiesto di non strumentalizzare le rivalità etniche e soprattutto religiose per mettere le comunità una contro l’altra. È un tema estremamente delicato e critico, anche perché in Ciad – come in tutto il Sahel – le popolazioni nomadi dedite alla pastorizia sono generalmente musulmane, mentre gli agricoltori sono cristiani o seguaci delle religioni tradizionali. Secondo molti, tuttavia, compreso il vescovo Martin Waïngué Bani di Doba, nel sud del Paese, non è solo una questione di cambiamenti climatici e di strumentalizzazioni politiche: «C’è stato – dice – un cambiamento nel modo di praticare l’allevamento. Tradizionalmente, le popolazioni vi si dedicavano per la loro sopravvivenza. Ma oggi parliamo di nuovi pastori, a cui facoltosi impiegati statali e ufficiali dell’esercito affidano il loro bestiame». Si tratta di migliaia di vacche e di cammelli che, ancora oggi, non rappresentano solo – o non tanto – una fonte di nutrimento, ma sono simbolo di patrimonio e prestigio, un bene in cui investono uomini di potere e alti quadri dell’esercito. Sono proprio loro a fornire le armi ai pastori, i quali si sentono così «autorizzati» a invadere e devastare impunemente i campi degli agricoltori, che, a loro volta, tendono a farsi giustizia da sé.
Le notizie di scontri sono quotidiane in diverse regioni del Paese, nelle quali le spirali di vendette e ritorsioni provocano spesso più morti dei gruppi jihadisti.
Secondo il vescovo di Doba, questi conflitti intercomunitari vengono presentati come religiosi, ma è solo un modo per non affrontare il problema alla radice. A fine aprile, la questione è stata esaminata anche dal primo ministro Saleh Kebzabo, che ha convocato una riunione interministeriale in seguito alla quale il ministro dell’Amministrazione territoriale è stato incaricato di creare un comitato con lo scopo di organizzare degli incontri «per arginare tali ricorrenti conflitti».
Lo scorso 18 maggio, in seguito all’ennesimo massacro nella provincia del Logone orientale, nel sud del Paese, anche l’Unione dei movimenti e delle associazioni dei laici della Chiesa cattolica (Umalect) ha diffuso un comunicato per chiedere «l’immediata cessazione dei massacri e una migliore sicurezza per le popolazioni in tutto il territorio».
Infine, si combatte anche per il controllo delle risorse, soprattutto oro e uranio nel Nord del Paese, tra diversi gruppi armati che si contendono il controllo della regione, tra cui il Fact. E si combatte per il potere tra vari clan dell’etnia zagahwa, quella a cui appartiene la famiglia Déby, che non manca di profonde divisioni al suo interno. Il tutto avviene in un contesto di diffusa corruzione, scarsa libertà di stampa e scarso ricambio politico, violazione dei diritti umani e un sistema giudiziario precario.
Migrazione disperazione
In una situazione segnata da così tante criticità e spesso da violenze, le popolazioni del Ciad si dibattono tra mille difficoltà con il poco, anzi pochissimo, che hanno. La povertà è talmente diffusa e spesso estrema che si fatica a capire come le famiglie riescano a sopravvivere. Molti giovani non vedono altra alternativa che recarsi nel vicino Camerun, dove vengono sfruttati per i lavori più umili, faticosi e pericolosi. Le donne, costrette esse stesse a lavori pesanti oltre che alla cura dei figli e della casa, percorrono ogni giorno molti chilometri per trovare un po’ d’acqua, magari scavando nell’alveo disseccato di piccoli ruscelli. Tutti mostrano un’incredibile capacità di resistenza e resilienza. E sono straordinariamente aperti all’accoglienza: nonostante le difficoltà e le miserie, l’ospite è sempre sacro, sia che si tratti del viaggiatore di passaggio che dei profughi in fuga dai Paesi limitrofi, in particolare, in queste ultime settimane, quelli provenienti dal Sudan.
Anna Pozzi
Oltre un milione i profughi di altri paesi in Ciad
In arrivo gente in fuga dal Sudan
Il Ciad è un paese di 18,5 milioni di abitanti, tra i più poveri al mondo. Fra le molte sfide che deve affrontare c’è anche quella di una presenza molto significativa di sfollati e profughi. I primi fuggono soprattutto dai conflitti interni o sono costretti a lasciare le loro case e villaggi a causa delle ricorrenti e devastanti inondazioni. Quanto ai profughi, provengono dai Paesi vicini, essi stessi interessati da situazioni di conflitto o instabilità. Secondo l’Alto commissariato Onu per i profughi (Unhcr), già prima della crisi in Sudan, scoppiata lo scorso 15 aprile, erano più di un milione, tra cui 580mila rifugiati provenienti soprattutto dalla Repubblica Centrafricana e dal Camerun, oltre che dalla precedente guerra in Darfur.
Lo scoppio di nuove ostilità nel vicino Sudan tra l’esercito governativo e i paramilitari delle Rapid Support Forces (Rsf), ha provocato un nuovo massiccio spostamento di popolazione dentro e fuori il Paese. Nel giro di poche settimane centinaia di migliaia di persone si sono riversate in Egitto, Repubblica Centrafricana e Ciad. In quest’ultimo, sono oltre 60mila quelle che hanno passato il confine dopo il primo mese di conflitto. Secondo l’Unhcr, «quasi il 90 per cento è composto da minori e donne, tra queste molte di loro sono incinte. Un quinto dei bambini tra i 6 e i 9 mesi sottoposti a screening è risultato gravemente malnutrito».
Anche fratel Fabio Mussi, missionario del Pime in Ciad e responsabile dei progetti sociali del vicariato di Mongo, che si è recato sul posto, testimonia di una situazione disperata: «Le persone sono accampate in campi di fortuna sotto misere tende in attesa degli aiuti umanitari. Aiuti che faticano ad arrivare perché si tratta di zone remote che diventano inaccessibili non appena inizia la stagione delle piogge».
Fratel Mussi si è già attivato insieme alla Caritas di Mongo per far arrivare cibo e beni di prima necessità e ha inviato due camion per realizzare dei pozzi e garantire acqua potabile prima che le piogge rendano le strade impraticabili.
Anna Pozzi
Il Ciad in cifre
Superficie: 1.284.00 km2 (4,3 volte l’Italia)
Popolazione: 18,5 milioni (2022)
Indice di sviluppo umano (posto nella classifica): 190/191 (2021)
Pil procapite annuo [PPP$]: 1.364.
(PPP$: dollari in parità di potere d’acquisto, tiene conto dei livelli dei prezzi nel paese).
Le banche e la lezione dimenticata
Non si è verificato un crollo come quello del 2008, ma la paura c’è stata. Oggi come allora, il terremoto è partito dal fallimento di alcune banche Usa, arrivando fino al cuore della «mitica» Svizzera. Ed è facile prevedere che non sarà l’ultima volta, a meno che…
Nel marzo 2023, il sistema bancario è tornato a fare parlare di sé mettendo tutti in fibrillazione. Il pensiero è andato immediatamente alla crisi che, nel 2008, fu causata dallo stesso comparto e che rapidamente si propagò al mondo intero. Come allora, anche questa volta lo scossone è partito dagli Stati Uniti e, di nuovo, è stato generato da errori bancari amplificati dalle logiche di mercato e dalle speculazioni finanziarie.
Se una piccola banca
Nel 2008, la bufera era partita da un intero comparto: quello specializzato nei mutui sulla casa. Questa volta l’epicentro è stato una banca di dimensioni modeste dedicata alle imprese ad alta tecnologia. Non a caso il suo nome è Silicon Valley Bank (in sigla Svb), ricordando che Silicon Valley è il nome dell’area industriale della California che ospita tutte le principali imprese specializzate nell’economia digitale.
Fondata nel 1983 per iniziativa di un paio di esperti bancari, Svb era nata con lo scopo di concedere prestiti alle start-up, ossia alle aziende di nuova formazione dedite alla produzione di tecnologie e servizi innovativi. Una delle regole imposte dalla banca alle imprese a cui concedeva prestiti, era l’obbligo di aprire un conto corrente. Questa regola, associata alle politiche perseguite dalla Banca centrale statunitense, aveva favorito una crescita importante dei depositi di Sbv, che però, in seguito, come vedremo, si sarebbero trasformati in un boomerang.
Il punto da cui partire è che il ricorso al debito da parte delle imprese non segue le stesse logiche di quello delle famiglie. Nelle famiglie il debito è sempre finalizzato a una spesa specifica: l’acquisto di una casa, di un’automobile, di mobili o elettrodomestici. Nelle imprese, invece, l’indebitamento segue anche logiche finanziarie come l’obiettivo di assicurarsi della liquidità da mettere da parte o la tentazione di speculare sull’esistenza di tassi di interesse diversificati.
La speculazione sui tassi d’interesse
Fatto sta che, dopo il 2008, quando le banche centrali di tutti i più importanti paesi industrializzati abbassarono i tassi di interesse e aumentarono la massa di denaro in circolazione, molte imprese ne approfittarono per accumulare riserve monetarie. In altre parole, si indebitavano, approfittando delle condizioni favorevoli, non per affrontare spese specifiche, ma per incamerare denaro da mettere da parte o per effettuare investimenti finanziari che garantissero un tasso di interesse più alto di quello pagato. E, per assicurarsi lunghi tempi di restituzione, non rastrellavano i prestiti tramite il sistema bancario, ma quello finanziario, ossia il sistema delle borse che permette di ottenere prestiti dalla vendita di obbligazioni che generalmente prevedono tempi lunghi di restituzione. Così si sono avuti anni in cui le imprese prendevano soldi dai soggetti che operavano nelle borse e ne depositavano una buona parte nelle banche. Il che spiega perché, fra il 2010 e il 2020, il sistema bancario ha conosciuto un boom di depositi, come conferma il caso Svb che li ha visti passare da 4 miliardi di dollari nel 2006, a 189 miliardi nel 2021. Come tutte le banche, anche Svb ha usato parte dei soldi ricevuti per concedere prestiti alle imprese. Ma un’altra parte la investiva, ossia la dava in prestito a grandi entità, ad esempio lo stato, tramite l’acquisto di obbligazioni. Una forma di investimento molto praticata dal sistema bancario, non solo perché ritenuta sicura in quanto i colossi, specie gli stati, difficilmente falliscono, ma anche perché, in caso di bisogno, permette di rientrare facilmente in possesso del proprio denaro. Le obbligazioni, infatti, hanno la caratteristica di poter essere cedute ad altri in qualsiasi momento, secondo il prezzo corrente. Per di più quelle emesse da entità particolarmente forti come gli stati, hanno il vantaggio di poter essere utilizzate come collaterale, ossia come garanzia, nel caso in cui si abbia bisogno di ottenere un prestito. Evenienza, questa, che ricorre di continuo nel caso delle banche, che si fanno costantemente prestiti fra loro per esigenze di cassa. Ma solo dietro fornitura di garanzie ossia depositando obbligazioni o altri titoli che la banca creditrice può vendere nel caso in cui quella debitrice non restituisca le somme nei tempi pattuiti.
Anche Svb aveva fatto il pieno di titoli emessi dal governo statunitense e tutto è andato bene finché le banche centrali hanno continuato con la loro politica di bassi tassi e alta quantità di moneta in circolazione. Nel corso del 2022 il vento è, però, mutato a causa dell’inflazione tornata a fare capolino. Per arginarla, le banche centrali, prima fra tutte quella statunitense, hanno deciso di frenare l’emissione di denaro e, soprattutto, di innalzare i tassi di interesse. È stata proprio questa nuova politica a provocare la frana che ha travolto Svb, tramite una serie di effetti paradosso.
Quando una banca fallisce
In via di principio l’aumento dei tassi di interesse è conveniente per le banche perché permette di concedere prestiti a tassi più elevati. Ma il rovescio della medaglia è che, contemporaneamente, si attivano fenomeni che possono ledere la loro stabilità. Nel caso della Svb i fatti avversi sono stati due: l’aumento dei prelievi da parte dei correntisti e la svalutazione dei titoli detenuti. Il primo fenomeno è stato provocato dal fatto che l’aumento dei tassi di interesse non stimolava più i correntisti di Svb a indebitarsi in borsa per ottenere liquidità. Ora preferivano affrontare le proprie esigenze prelevando i soldi che avevano accumulato in banca sui propri conti correnti. In effetti, già nel 2022 Svb aveva subito un calo dei depositi del 5%. Contemporaneamente, la banca californiana cadeva vittima del secondo fenomeno: l’aumento dei tassi di interesse aveva, infatti, costretto il governo degli Stati Uniti ad applicare rendimenti più alti sui titoli di nuova emissione. Il che faceva perdere valore ai titoli in circolazione che garantivano tassi di interesse più bassi. Un po’ come succede nel mercato dell’auto: quando compaiono modelli nuovi, quelli vecchi perdono immediatamente valore perché più nessuno li vuole. Lo stesso è successo a Svb che si è ritrovata nel cassetto una montagna di titoli svalutati. Tant’è che l’8 marzo 2023, nel tentativo di fare cassa, ha venduto titoli di stato precedentemente acquistati per 21 miliardi di dollari incassandone però solo 19. È stato l’inizio della fine perché i titoli rappresentano il capitale di una banca: se si svalutano questi, l’intera banca perde valore. Una situazione che mette in moto un meccanismo fallimentare che si autoalimenta. Sentendo che la propria banca non se la passa bene, i correntisti si affrettano a ritirare i propri depositi temendo di perderli. Ma così facendo accelerano il rischio di fallimento, perché nessuna banca è in grado di rifondere i propri correntisti se si presentano in massa. Così, il 9 marzo, quando è stata presa d’assalto dai suoi correntisti, intenzionati, in una sola mattina, a prelevare qualcosa come 42 miliardi di dollari, Svb è stata costretta ad abbassare la saracinesca. Il 10 marzo le autorità finanziarie hanno decretato il suo fallimento e l’hanno messa in vendita.
Il 27 marzo è stata acquistata da First Citizens Bank e il caso si è chiuso. Anche se, nel frattempo, anche Signature Bank, un’altra banca regionale statunitense, è fallita.
Intanto, in Svizzera…
Il problema, però, era che anche al di qua dell’Atlantico si stavano accumulando nubi sul sistema bancario. Di scena era niente po’ po’ di meno che Credit Suisse, un colosso da 50mila dipendenti che gestiva una ricchezza valutata attorno ai 1.300 miliardi di dollari. Purtroppo per questa, stavano venendo al pettine una serie di scandali e notizie di mala gestione che minavano la sua reputazione fino ad indurre un numero importante di clienti a ritirare i propri depositi. Già negli ultimi mesi del 2022 le ricchezze affidate alla banca si erano assottigliate di 119 miliardi, tant’è che attorno al 10 marzo 2023, al fine di tamponare le perdite, il colosso era stato costretto a rivolgersi alla Swiss National Bank per ottenere un prestito da 54 miliardi di dollari. Se dagli Stati Uniti non fossero arrivati segnali inquietanti riguardanti il sistema bancario, forse le autorità svizzere avrebbero preso altro tempo per vedere se Credit Suisse ce l’avesse fatta da sola a superare le proprie difficoltà. Ma il fallimento delle due banche americane aveva creato nervosismo nel mondo finanziario e c’era il timore che si potessero verificare iniziative di rappresaglia capaci di far traballare l’intero sistema bancario. È risaputo, infatti, che il mondo della speculazione dispone di mezzi per guadagnare anche sul crollo dei prezzi e quando decide di farlo mette in atto una serie di operazioni che creano sfiducia attorno alla preda designata, condizione per ottenere il crollo dei prezzi su cui è stato scommesso. Più tardi si sarebbe saputo che manovre del genere erano avvenute perfino attorno a Deutsche Bank, ed è stato così che, per evitare il divampare di un fuoco indomabile in un settore chiave della propria economia, il 19 marzo le autorità svizzere hanno preferito agire d’anticipo facendo acquistare Credit Suisse dal colosso Usb, la più grande banca del paese. Poche settimane dopo, nel mese di aprile, negli Stati Uniti un’altra banca regionale, la First Republic, ha alzato bandiera bianca, ma senza effetti di sistema perché nel giro di poco è stata acquistata da JP Morgan, una delle più grandi banche al mondo. E poiché non sono seguiti altri fallimenti, si è considerato concluso il mini terremoto bancario della primavera 2023.
I motivi delle crisi bancarie
Gli analisti si stanno ancora confrontando sulle cause delle crisi bancarie, riconducibili, schematicamente, a tre grandi ambiti. Il primo riguarda le lacune legislative. Secondo molti esperti, i controlli sulle banche non sono abbastanza stringenti, mentre sono ammesse forme di gestione azzardate che amplificano il rischio di bancarotta. Il secondo aspetto è l’eccessiva libertà lasciata alla speculazione di fare il bello e il cattivo tempo, attraverso manovre che, a seconda delle convenienze, fanno oscillare artificiosamente il valore delle banche ora verso l’alto, ora verso il basso, condizionando il clima di fiducia nei loro confronti. Il terzo aspetto riguarda le politiche delle banche centrali. Secondo molti analisti, le banche centrali non avevano motivo di alzare i tassi di interesse in maniera così repentina ed elevata. L’intento dichiarato è stato la lotta all’inflazione, ma secondo il pensiero di molti si è trattato di una misura sbagliata. L’aumento dei tassi di interesse trova giustificazione quando i prezzi sono spinti verso l’alto da un eccesso di domanda di beni. In tal caso la manovra può funzionare perché l’aumento del costo del denaro riduce gli acquisti a debito. Ma l’inflazione di oggi è dovuta all’aumento di prezzo dei prodotti energetici, per cui non serve a niente frenare la domanda. L’effetto che ne può derivare è la stagflazione, un male addirittura peggiore di quello che si intende combattere perché la stagflazione è la persistenza dell’inflazione con l’aggiunta della recessione.
La funzione delle banche
Verosimilmente si può concludere che l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali è stato l’aspetto contingente che ha fatto da detonatore a una situazione perennemente a rischio di esplosione. Oggi le banche non sono più pensate come soggetti che fanno da tramite fra chi risparmia e chi ha bisogno di soldi, ma come macchine congegnate per permettere ai loro azionisti e agli speculatori di potersi arricchire con qualsiasi mezzo. La soluzione sarebbe il ritorno alla funzione sociale delle banche, ma a quel punto dovremmo rimettere in discussione tutto: compiti, vigilanza e proprietà.
Menzogne, attori e comparse delle «nostre» guerre tutto sarà dimenticato?
Sono passati vent’anni dall’invasione degli alleati in Iraq. Una guerra giustificata con una menzogna, e alla quale si opposero milioni di pacifisti in tutto il mondo. Ma a nulla valse. Meccanismi che si sono ripetuti in molte guerre volute dall’Occidente. Mentre i paesi che cercavano una soluzione negoziale (spesso possibile), venivano messi all’angolo.
Venti anni fa, nel mese della guerra, l’offensiva anglo-statunitense «Iraqi Freedom» contro l’Iraq iniziava con una campagna di bombardamenti aerei. Malgrado tutto. Malgrado l’inedito rifiuto popolare espresso nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo (il New York Times parlò di «seconda superpotenza mondiale», a indicare la prima manifestazione planetaria contro un conflitto). Malgrado l’opposizione di importanti paesi anche in Occidente e nel mondo arabo. Malgrado, infine, l’evidente falsità del pretesto bellico: il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime iracheno. Eppure, il Paese fu bombardato, invaso, occupato. E nessun capo politico militare fu in seguito punito per questo. Meccanismi molto simili (senza però la presenza di milioni di pacifisti nelle strade) si sono verificati nelle altre guerre mosse dall’Occidente e alleati a partire dal 1991. Per un totale (vedi scheda a pag. 41) di 6 milioni di morti. Più la distruzione dei paesi nel mirino, gli spostamenti di popolazioni, il dilagare del terrorismo.
La storia dovrebbe essere maestra. Quali lezioni trarre da quella vicenda?
Di fronte alla guerra in Ucraina e al dibattito sull’invio di armi, una riflessione sulle guerre condotte dall’Occidente (e alleati) può dare spunti? O tutto è già stato dimenticato?
Ossimori e menzogne nelle guerre di aggressione
Proteggere i civili, evitare genocidi, cancellare i dittatori, sconfiggere il terrorismo, portare la democrazia. E possibilmente avvolgendosi nei panni dell’Onu. Questa narrazione serviva a spacciare per umanitarie e giuste le guerre infinite portate avanti o aiutate dall’Occidente democratico.
Gennaio 1991: contro l’Iraq viene scatenata «Desert Storm» (Tempesta nel deserto), in Italia battezzata «operazione di polizia internazionale» per via dell’articolo 11 della Costituzione. Così, l’Onu sdogana la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti.
Marzo 1999: campagna di attacchi aerei della Nato contro la Jugoslavia, «Allied Force» (Forza alleata); detta anche «operazione umanitaria per fermare la pulizia etnica in Kosovo».
Ottobre 2001: «Enduring Freedom» (Libertà duratura), intervento bellico di Stati Uniti e alleati contro l’Afghanistan.
Marzo 2003: «Iraqi Freedom», «guerra preventiva» degli Usa e alleati (senza autorizzazione Onu) contro l’Iraq.
Marzo 2011: bombardamenti occidentali e petromonarchici sulla Libia, con semiautorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza Onu; per alcuni giorni chiamata «Odissey Dawn» (Alba dell’Odissea), diventa «Unified protector» (Protettore unificato) quando coinvolge altri attori dell’Alleanza. Dal 2011, guerra per procura in Siria, con Occidente, monarchie del Golfo e Turchia uniti nell’appoggiare, in molti modi, gruppi armati jihadisti.
Dal 2015, operazione «Decisive Storm» (Tempesta decisiva), condotta contro lo Yemen dall’Arabia Saudita con una coalizione di nove paesi arabi e armi soprattutto occidentali.
Per legittimare operazioni di aggressione di tale portata e renderle «giuste» e «umanitarie» i belligeranti hanno fatto ricorso a menzogne o a notizie non verificate. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 sottolinea, all’articolo 20.1, che qualsiasi propaganda in favore della guerra dovrebbe essere vietata per legge. Ma questo invito ai paesi è rimasto lettera morta. E in guerra, sembra non operare il rasoio di Hitchens: cioè il principio metodologico secondo il quale «ciò che viene affermato senza prove può essere smentito senza prove».
Le tattiche della propaganda in tempo di guerra – fatta di notizie non verificabili, cause occultate, fonti di parte, omissioni, demonizzazione dell’avversario – non sono appannaggio dei soli governi belligeranti e dei media mainstream che li seguono. Vengono usate, e sempre di più, da diversi altri attori. Il caso del 2003 è peculiare perché ben pochi credono alla famosa provetta mostrata dallo statunitense Colin Powell all’Onu come prova della presenza di armi di distruzione di massa in Iraq. Nel libro Guerra all’Iraq, del 2002, William Rivers Pitt intervista l’ispettore dell’Onu Scott Ritter, il quale spiega che «la minaccia dell’Iraq in termini di armi di distruzione di massa è zero». Tutto l’arsenale è stato distrutto sotto il controllo Onu. E il 5 febbraio 2002 il New York Times rivela che la Cia non ha prove che l’Iraq sia impegnato in operazioni terroristiche contro gli Usa ed è convinta che Saddam non abbia fornito armi chimiche o batteriologiche ad al Qaeda.
Fake news mondiali
Per la precedente operazione contro l’Iraq, nel 1991, un’efficace finzione contribuisce a convincere il Congresso Usa.
Novembre 1990, la giovanissima «infermiera volontaria» Nahyrah riferisce in lacrime al Congresso Usa che a Kuwait City i soldati iracheni occupanti strappano i neonati dalle incubatrici e li gettano per terra. Ci credono – con tutte le conseguenze del caso – i congressisti, i media, l’opinione pubblica, ma anche organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International. A guerra fatta, l’ammissione: non era vero niente. La volontaria risulta essere la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill&Knowlton.
Anche nel caso della guerra della Nato contro la Serbia e delle bombe sull’Afghanistan si rivelano determinanti le accuse a senso unico di crimini efferati.
Con le guerre in Libia e Siria, al consolidato corto circuito di attori militari e mediatici (media embedded) si aggiungono, volontariamente o ingenuamente, altri soggetti. Insospettabili e prestigiosi. Organizzazioni umanitarie e per i diritti umani, regionali e internazionali, commissioni e gruppi speciali della stessa Onu, reti sociali, «attivisti» armati e non. E, come ha rilevato Alessandro Marescotti, che nel 1991 fondò Peacelink-Telematica per la pace, lo stesso ruolo di Internet è cambiato: «da attore di controinformazione ad arma di distrazione» (citazione dal documentario Tutto sarà dimenticato?, reperibile su Youtube).
Il fondo viene toccato in Libia, con la rivolta armata del 2011, ben presto appoggiata dalla Nato. L’Italia partecipa a una guerra per il controllo del petrolio e dell’Africa, giustificata con la «responsabilità di proteggere i civili libici dal massacro da parte del dittatore». Piccolo particolare: il massacro («diecimila morti») è inventato sulla base di notizie false, come ben presto accertato. La stessa Onu avalla di fatto un intervento militare senza fare alcuna verifica.
Dopo alcuni mesi, Maximilian Forte, docente di antropologia all’università di Montreal e autore del libro The scourging of Sirte, passa in rassegna le principali fake news della guerra in Libia: bombardamenti aerei contro i manifestanti, Bengasi a rischio genocidio, fosse comuni, mercenari africani, stupri. In realtà, prima delle bombe della Nato, i morti erano stati pochi, e le città ricatturate dal governo non avevano registrato massacri.
La regola della propaganda bellica consistente nel «nascondere le vittime e i crimini fatti dai nostri alleati» opera in pieno anche in Siria, dove dal 2011 il conflitto non è ancora concluso: l’area di Idlib è controllata da forze islamiste derivate da al Qaeda e l’esercito turco e le sue milizie continuano a occupare intere zone. Il coro è così sbilanciato sulle accuse di massacri compiuti dal solo regime di Damasco, che a metterlo in discussione è il sito Syria Truth, gestito da un veemente e storico oppositore di Bashar al-Assad, rifugiato all’estero da decenni, ma sconvolto dalle manipolazioni finalizzate a giustificare l’ingerenza occidentale, turca e delle petromonarchie nel suo paese. Allo stesso tempo, la commissione ad hoc dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, con base a Ginevra (la Coi, Commissione indipendente sulla Siria), compilava rapporti ascoltando al telefono i resoconti dell’opposizione armata e visionando video nei quali l’attribuzione delle responsabilità era lungi dall’essere chiara.
Gli schieramenti di guerra dal 1991
Quel che è certo è che l’Italia non si fa mancare nessuna delle guerre fatte sulle teste altrui, a partire dal 1991. L’invasione dell’Iraq nel 2003 è una iniziativa anglo-statunitense, senza l’Onu. I paesi arabi non si oppongono in modo deciso, ma non partecipano con proprie truppe come invece avevano fatto nel 1991. Fra i paesi importanti nella Nato, a opporsi decisamente sono Francia e Germania.
Bush e Blair vanno a caccia di alleati raccogliticci fino in Micronesia. Il 18 marzo 2003, il Dipartimento di stato Usa rende pubblico un elenco di 31 paesi che – sulla carta – partecipano all’autonominata «coalizione dei volenterosi» guidata dagli Stati Uniti: Afghanistan, Albania, Australia, Azerbaigian, Bulgaria, Colombia, Repubblica Ceca, Danimarca, El Salvador, Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Ungheria, Islanda, Italia, Giappone, Corea del Sud, Lettonia, Lituania, Macedonia, Paesi Bassi, Nicaragua, Filippine, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Turchia, Regno Unito e Uzbekistan.
Il 20 marzo 2003, la Casa Bianca pubblica un elenco con le seguenti aggiunte: Costa Rica, Repubblica Dominicana, Honduras, Kuwait, Isole Marshall, Micronesia, Mongolia, Palau, Portogallo, Ruanda, Singapore, Isole Salomone, Uganda, Panama. Nell’aprile 2003 si aggiungono Angola, Tonga e Ucraina. In tutto 49, Usa compresi.
Nel 1991 – un caso che fa scuola – tutto si è invece giocato, formalmente, all’Onu. «Se avremo successo, le Nazioni Unite ne usciranno rafforzate», disse George Bush nei mesi precedenti l’attacco non chirurgico all’Iraq. Sfacciata la compravendita statunitense del consenso, nei lunghi mesi di preparazione della guerra, per trasformare in una «coalizione dell’intero mondo libero coraggioso» (più la declinante Urss) quella che era invece un’azione bellica necessaria alla continuità di Washington come superpotenza e al controllo Usa sul vitale Medioriente petrolifero.
Nei mesi dell’escalation prima delle bombe, gli Usa si impegnano in un pressing a 360 gradi, in particolare sui membri permanenti e non permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ai quali vengono offerte prebende, soprattutto se poveri come Etiopia, Colombia e Zaire.
In Consiglio di sicurezza, al voto clou sull’ultimatum all’Iraq si registrano solo due «no», decisi ma marginali: quelli di Cuba e Yemen. La Cina si astiene (deve legittimarsi a livello internazionale). L’Urss in via di scioglimento non pone il veto (dipende dagli aiuti occidentali). Fino all’inizio della crisi, la Lega araba, su intensa pressione Usa e delle petromonarchie, si divide (cercano di opporsi all’escalation solo Libia, Algeria, Giordania e Yemen), dimostrandosi incapace di proporre una soluzione nonviolenta.
A cavallo del nuovo millennio, all’operazione bellica della Nato in Serbia partecipano 13 paesi membri (Turchia compresa); la Grecia rifiuta. Dopo due anni, attaccano l’Afghanistan sette paesi occidentali più Nuova Zelanda e Australia.
Nel 2011, l’operazione militare Nato-petromonarchica in Libia viene legittimata a livello Onu dalla risoluzione 1.973 in Consiglio di sicurezza, che passa senza veti e con 5 astensioni: Brasile, Cina, Germania, India, Federazione Russa. I bombardamenti non aspettavano altro, e iniziano subito, a cura di 14 Stati occidentali, più Qatar, Turchia, Giordania ed Emirati arabi. Fra le petromonarchie, il Qatar si era guadagnato credibilità presso l’opinione pubblica araba con la sua tivù al-Jazeera, la quale in Iraq nel 2003 aveva mostrato una certa indipendenza dalla posizione Usa-Uk. Nel caso libico il media dell’emirato è, invece, in prima linea nella propaganda pro-intervento.
Nel caso siriano, gli undici paesi autoproclamatisi «Amici della Siria» (cinque occidentali – Usa, Francia, Germania, Regno Unito, Italia – e sei della macroregione intorno alla Siria – Emirati Arabi uniti, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, Egitto, Giordania) sono per diversi anni in prima linea nell’alimentare il conflitto, finanziando apertamente gruppi jihadisti e ostacolando ogni negoziato in sede Onu.
Paesi non belligeranti e negoziatori boicottati
Le guerre, come la geopolitica, hanno geometrie variabili. Via via, dal 1991, alcuni paesi si sottraggono alle avventure militari avviate dal loro blocco di appartenenza; altri mostrano una vocazione pacifista; altri si espongono in sforzi negoziali. Senza successo, ma onore al merito.
Il 29 novembre 1990, solo Yemen e Cuba in Consiglio di sicurezza (di cui sono membri per caso) votano no alla risoluzione definitiva, la 678 che fissa un ultimatum per il 15 gennaio 1991. Lo Yemen, il paese più povero della regione, ha resistito a ricatti e lusinghe, ma paga la sua indipendenza con la cancellazione di un pacchetto di aiuti occidentali e l’espulsione di centinaia di migliaia di lavoratori dall’Arabia Saudita. L’Urss agonizzante di Mikhail Gorbacev non riesce a porre un risolutivo veto all’ultimatum, ma tenta poi, per mesi, di mediare, inviando come negoziatore Evghenij Primakov, soprattutto nelle capitali arabe e a Baghdad. Era possibile, annoterà poi il negoziatore russo, ottenere un ritiro in dignità dell’Iraq dal Kuwait offrendo a Baghdad un pacchetto di garanzie. Sarebbe stato il modo per affermare il rispetto delle risoluzioni Onu senza la guerra.
Dopo la risoluzione 678 che autorizza l’uso della forza, il Consiglio di sicurezza non si riunisce più. Cercano ancora di negoziare l’Iran, sostenuto dall’Urss, e un gruppo di leader non allineati guidati da India e Nicaragua, insieme a Willy Brandt. Gli Usa rigettano ogni proposta. Il mondo si accoda.
Quanto all’invasione dell’Iraq nel 2003, vede l’opposizione attiva ma inefficace di molti paesi: in Europa Francia, Belgio, Germania. Poi Russia e Cina, Cuba (che mantiene l’ambasciata aperta sotto le bombe), Venezuela, Siria e altri paesi arabi. La Francia di Jacques Chirac si frappone in Consiglio di sicurezza, non accettando alcuna risoluzione contenente un ultimatum.
Invece, nel caso della crisi libica nel 2011, fra i membri eminenti della Nato solo la Germania, membro di turno del Consiglio di sicurezza, non dice sì alla no-fly zone che da lì a poco si trasformerà nella distruzione per via aerea della Libia (la Norvegia, se non altro, si ritira dai bombardamenti su Tripoli dopo pochi mesi). Ma è soprattutto il presidente venezuelano Hugo Chávez, appoggiato da Fidel Castro (che invano chiede alle popolazioni occidentali di sostenerlo), a cercare di coinvolgere diversi Stati in uno sforzo negoziale tempestivo, ben architettato, mai interrotto nelle successive fasi del conflitto. Nell’ambito dell’Alleanza Alba (alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, ndr), il Venezuela propone all’Onu la «costituzione di una Commissione internazionale di buona volontà per la ricerca della pace in Libia, mediante la promozione del dialogo fra le parti». La Commissione potrebbe annoverare rappresentanti di Unione africana, Lega araba, Conferenza islamica, Movimento dei non allineati, Unasur e Alba.
Chávez ripete invano il suo appello ai paesi non belligeranti che non possono «stare inerti» e appoggia senza riserve la proposta dell’Unione africana (ma il Sudafrica, unico paese africano che all’epoca è membro non permanente del Consiglio di sicurezza Onu, vota a favore della no-fly zone). Come scriverà anni dopo su Le Monde diplomatique il suo ex segretario Jean Ping, l’Unione africana elabora una road map, adottata il 10 marzo 2011. Ma paesi Nato e monarchie del Golfo ignorano la mossa iniziando i bombardamenti pochi giorni dopo. Nondimeno il 10 aprile, rappresentanti dell’Ua arrivano a Tripoli per incontrare Gheddafi, che accetta la proposta. Ma non la accettano le milizie armate dell’opposizione appoggiate dalla Nato. E la guerra continua fino alla distruzione di Sirte e al linciaggio di Gheddafi.
I popoli, il pacifismo e quel che non si fece
Che fare, si possono chiedere i popoli, quando i governi avviano guerre che sfasciano paesi, ammazzano centinaia di migliaia di civili e militari, fanno milioni di rifugiati e immani distruzioni e non finiscono mai, si trasformano soltanto?
Obiettori delle industrie d’armi e attivisti contro le basi militari spiegano da sempre che il conflitto armato è il naturale sbocco del complesso militar-industriale, al quale occorre opporsi ogni giorno, e non solo a ridosso delle bombe. E poi, dicono in tanti, contro i conflitti per ragioni geostrategiche e per le materie prime, bisogna puntare a un modello economico equo ed ecologico. Certamente, «ci salverà il pilota che non volerà» e «ci salverà il soldato che non sparerà» (citando Girotondo di Fabrizio De André). Ma con gli eserciti professionisti dispiegati dall’Occidente non ci sono chance di diserzioni di massa.
Diverso è il caso nell’attuale guerra russo-ucraina: non per nulla si moltiplicano gli appelli all’obiezione, alla diserzione e all’accoglienza all’estero dei disertori di entrambe le parti.
E le popolazioni? Nel 2003 il popolo della pace fu dovunque, mondiale, visibilissimo, soprattutto nei paesi che andavano a bombardare l’Iraq.
Anche nelle altre avventure militari internazionali, dalla guerra del Golfo di trentadue anni fa in poi, le attività dei pacifisti in dissenso rispetto ai loro governi (e anche nei paesi non belligeranti e contrari) coinvolsero minoranze rilevanti. Ma con limiti invalidanti. Troppo poche le azioni dirette nonviolente contro le basi militari. Inutili le presenze, sotto le bombe, di cittadini dei paesi occidentali e arabi: non erano numericamente tali da poter fungere da deterrente o forza disarmata di interposizione. Non abbastanza forti le proposte di eventuali tribunali internazionali.
Negli ultimi anni, poi, con la guerra Nato alla Libia, e con la guerra per procura in Siria non si è mosso nessuno o quasi. Perfino rispetto alla guerra saudita in Yemen l’indignazione è stata limitata. Per quale motivo nessuna delle grandi organizzazioni della società civile, né i pacifisti, né gli ecologisti, né i progressisti, né i movimenti per un altro mondo ha fatto nulla?
Forse ha giocato la forza del circolo vizioso di attori menzogneri, o forse la disillusione: nel 2003 la seconda superpotenza mondiale (i pacifisti di tutto il mondo, come citato sopra) non aveva fermato Bush e alleati. Il presidente repubblicano statunitense doveva rispondere solo ai neoconservatori, ai potentati economici e al suo elettorato indifferente.
Dunque, non si può fare nulla di efficace per prevenire e fermare le guerre?
Lezioni per l’attualità
La guerra russo-ucraina poteva essere evitata «ma i piani e le azioni per allargare la Nato fino ai confini russi hanno provocato i timori di Mosca», sottolinea l’appello di 15 statunitensi, ex militari, ex diplomatici, esperti di politica estera e sicurezza, promosso dall’Eisenhower Media Network. Un appello a sostituire l’invio delle armi a Kiev con un vero negoziato senza precondizioni. Di che farne una campagna. Paesi terzi, non schierati, come alcuni paesi africani e il Vaticano, tentano la via del negoziato fra Mosca e Kiev. Ma nel contempo, altri alimentano la guerra.
Manca nel mondo un pool negoziale di paesi neutrali o comunque meno allineati e non fautori di guerre negli ultimi decenni. Un gruppo incaricato stabilmente dall’Onu – indipendentemente dai governi del momento – di disinnescare i conflitti prima che scoppino, o di negoziare a danno fatto. Una forza negoziale con la quale i movimenti pacifisti potrebbero agire. In fondo le Nazioni Unite, lo dice la loro Carta, nacquero proprio per questo scopo: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra».
Marinella Correggia
Baghdad, diario di una pacifista
Anno 2003: il racconto dei primi mesi di guerra
L’autrice è stata nell’«Iraq peace team», un Gruppo internazionale di pacifisti che ha cercato di opporsi all’invasione Usa. È entrata in Iraq il 24 marzo dalla Siria e uscita il 3 maggio 2003 dalla Giordania. In queste pagine, ripercorre quei giorni, non senza delusione, e con una certa autocritica.
«‘Ayn ‘insaanyia?» (Dov’è l’umanità?). Era la retorica domanda che gli iracheni ripetevano, in quelle settimane di bombardamenti aerei, apripista per l’occupazione anglo-statunitense dell’Iraq. Per fortuna non chiedevano «ma cosa siete venuti a fare?» a noi dell’Iraq peace team, alcune decine di pacifisti autogestiti di vari paesi arrivati nella capitale irachena poco prima dell’inizio della guerra o poco dopo, come erano arrivati gli «scudi umani» (andati a presidiare infrastrutture civili) e un gruppo di attivisti spagnoli. Ciascuno di noi con le proprie motivazioni. Il tentativo di testimoniare e comunicare al mondo (reso quasi impossibile dall’immediato bombardamento della rete telefonica e dall’assenza di internet salvo tramite l’utilizzo di telefoni satellitari e l’aiuto dei media). L’impegno a cercare prove sui crimini di guerra. Il desiderio di «stare con loro» dissociandoci anche fisicamente dalle malefatte di Usa e governi alleati.
Pagando pochi euro al giorno, dormivamo (più o meno) e mangiavamo all’albergo familiare al-Fanar, sulle sponde del Tigri. Lì vicino, l’hotel dei giornalisti, il Palestine, costoso e pieno di comfort finché – per via delle bombe – non se ne andò la luce e con quella l’acqua ai piani alti. Così alcuni venivano a mendicare all’al-Fanar, dove il tuttofare Mohamed detto «Karaba» (elettricità) riusciva a gestire un approvvigionamento saltuario idrico ed elettrico grazie al generatore.
Quando il letto nelle nostre stanze si scuoteva troppo, come una culla impazzita, scendevamo chi nel rifugio sottoterra chi nell’atrio a tenere compagnia a forza di tè nero a Mohamed e a Cocco, scimmietta portata lì chissà da dove e amica solo sua. Il personale dell’albergo non andava più a casa per non rischiare troppo. Era diventata una famiglia. Abu Ali, cameriere e cuoco, aveva perso il figlio nella guerra con l’Iran. Quando, ben presto, per la vegetariana della situazione erano rimasti solo pane e marmellata di datteri, lui premuroso mi garantiva di soppiatto qualche ortaggio, qualche frutto.
Paura? No. Come in altre (inutili) delegazioni di pace, prima in Afghanistan e in Serbia, e anni dopo in Libia, si sviluppa la fatalistica sensazione che non ti toccherà. Ma c’era il dolore per chi moriva, veniva ferito, perdeva casa e ogni cosa. Civili e militari. Firos, che era stato soldato, ci diceva: «I militari sono nel mirino. Se si salvano è solo per miracolo». Non posso dimenticare l’immagine, in un ospedale di Hilla raggiunto nella seconda metà di aprile, di un soldato ustionato, avvolto completamente nelle bende. «Non sappiamo come chiamare il centro ustioni a Baghdad, i telefoni non funzionano», dicevano sconsolati i medici. Al ritorno nella capitale mi precipitai a segnalare l’urgenza, molto probabilmente senza speranza. Tutto è così in guerra. Appeso a un filo.
«La guerra non ci sarà»
Nessuno dell’Iraq Peace Team si illudeva di poter fermare nemmeno un missile minore. L’interposizione e la deterrenza civile avrebbero richiesto decine di migliaia di persone dal mondo. Tariq, veterinario improvvisatosi tassista, ci aveva comunicato il suo stupore: «Quando alla tivù ho visto, settimane fa, tutte quelle manifestazioni in giro per il mondo, anche nei vostri paesi, mi sono detto no, la guerra non ci sarà, i governanti potrebbero temere per le prossime elezioni. Invece a quanto pare non vi hanno dato retta». I governi sanno che la maggioranza dei cittadini non nega il proprio voto a chi ha deciso di fare le guerre, finché sono fatte a casa di altri popoli.
Allora, cosa riuscivamo a fare? Andavamo a vedere i feriti negli ospedali e i bambini nell’orfanotrofio, custoditi dal personale che non andava più a casa e nutriti dalle persone del quartiere. Parlavamo con gli iracheni, tanto. Cercavamo di capire se fosse possibile mettere insieme una conta delle vittime (almeno quelle civili) per future denunce internazionali. Ci recavamo, su segnalazione della Mezzaluna rossa, a vedere i crateri delle bombe finite per errore (ma finite comune) sui mercati o sulle case civili. Cercavamo di portare ai media del vicino mega-hotel appelli inutili o segnalazioni che credevamo d’impatto; come questa: «A Hilla sotto le bombe un uomo ha perso moglie e tutti i sei figli». A volte, con un altro gruppo, il Christian peace team, passavamo la notte nella capannetta dell’impianto idrico dell’ospedale al Mansour, dove l’ingegnere Leyla e il suo personale temevano il peggio in caso di bombardamento.
Leggevamo l’Iraq Daily, pochi fogli miracolosi. Un giorno risultò stampato alla rovescia, stile Leonardo da Vinci. Vi si dava conto di notizie tremende, i civili colpiti da una qunbula (bomba), da un sarukh (missile), morti in una anfijor (esplosione). Lo stesso termine usato dagli sminatori afghani. Ma il Daily dava risalto anche a surreali news incoraggianti: un agricoltore che era riuscito ad abbattere un elicottero yankee nel Sud, la tempesta di sabbia rallentava – benedetta – le operazioni aeree dei nemici. Un giorno, era il 5 aprile, accorremmo in strada al suono di clacson e di un carosello di auto della polizia o simili, con le bandiere irachene, a festeggiare una (ipotetica) manovra militare riuscita da parte degli iracheni. Sì, per i pacifisti l’asimmetria di potenza e di colpe fra i contendenti era tale che parteggiare per gli aggrediti era davvero normale. Un conforto, ma di breve durata.
Confortante anche il caffè fatto e servito dal viceambasciatore di Cuba, una delle pochissime ambasciate rimaste aperte sotto le bombe (naturalmente quella italiana era chiusissima, perché rischiare?). Diceva l’ambasciatore Ernesto Gomez Abascal, con il suo berrettino, a me e a Pietro Gigli (fotogiornalista, ma in Iraq in veste di operatore umanitario, autore di alcune delle foto di questo dossier): «Andremo via se e quando arriveranno i carri armati yankee».
E il momento arrivò. L’8 aprile, Talib disse a noi increduli: «Sono qui vicino». Guardandoci negli occhi, capì che doveva ripetere: «Vi dico che sono qui, a due passi». Gli scorpioni del deserto, i carri armati. Li vedemmo, eccoli. Tutto precipitava. Intorno a noi gli iracheni sembravano essere invecchiati in un giorno. I funzionari del governo sparirono per non essere arrestati dai militari invasori. Il viceambasciatore cubano ci offrì l’ultimo caffè, stavano partendo.
Messaggio in una bottiglia
Intanto civili e militari, ci veniva riferito, morivano come mosche nelle zone periferiche dove gli scontri di terra erano più intensi; qualcuno era invece riuscito a portare in ospedale la giovane e bella Dina Sahran, senza più una gamba quando la incontrammo nel letto, sguardo vuoto. Pensai allora di lanciare un appello approfittando dell’indignazione causata nei giornalisti internazionali dall’attacco al loro hotel Palestine da parte di un carro armato (prima di sapere dei morti, vedemmo il fuoco che usciva da quella finestra a un piano alto). Scritto a mano (non c’era modo di stampare alcunché), il povero testo recitava più o meno: «Noi pacifisti assistiamo alle distruzioni e alle morti provocate da una guerra immorale. Chiediamo a popoli e governi del mondo di fare ogni pressione su Usa e alleati». Per un disguido nella comunicazione con due scudi umani che avevano contatti precisi con i media, il messaggio non arrivò. Un altro fallimento. Essere là e non riuscire a lanciare nemmeno un messaggio in bottiglia contro la propaganda. La stessa che, davanti al fatto altamente simbolico dell’abbattimento della statua di Saddam, la spacciò per un segno di giubilo da parte della popolazione irachena. Falso: c’eravamo. La piazza Firdaus era vicina al nostro hotel e vedemmo: erano pochi a manovrare intorno alla statua; e determinante fu un marine agilmente arrampicato.
Arrivano i giornalisti embedded
Comunque, lo scambio con i media occidentali, quasi inesistente nelle settimane dei bombardamenti, diventò imbarazzante quando, al seguito dei carri armati, arrivarono i giornalisti embedded. Si impadronirono del piccolo al-Fanar (dove comunque pagavano per la stanza molto più di noi), sapevano fare fotoshop, avevano il satellitare thuraya, andavano in giro a caccia di news d’effetto ma non scomode. «Cos’è successo al manicomio?». Oppure: «Dove possiamo trovare bambini poverissimi, tipo un orfanotrofio?». Alla nostra offerta: «Sì, glielo possiamo indicare, ma lei deve dire che i lavoratori sono rimasti in servizio sempre, che la gente portava aiuti, e che embargo e bombe hanno immiserito questo paese», il fotoreporter canadese rispose che non poteva fare «politica pacifista».
Una volta ci fecero vergognare perché, mentre eravamo andati in un ospedale a donare il sangue (e avremmo dovuto sapere che era inutile, non avrebbero potuto usarlo senza avere la certezza del nostro stato di salute), arrivarono due cineoperatori giapponesi e ci ripresero. Il volto del medico si fece duro; di certo pensò che stavamo tutti prendendo in giro il suo popolo. Gli stessi media diedero molto risalto all’evacuazione in Kuwait del piccolo Ali Ismail, della sua famiglia unico sopravvissuto (ma non le sue braccia, amputate). In precedenza, lo avevo cercato e trovato all’ospedale al Kindi. Lo stesso nel quale un medico barbuto mi diede la prima avvisaglia – che allora mi parve farneticante – della futura rivolta contro gli occupanti statunitensi: «Li saboteremo, renderemo loro la vita impossibile».
La Baghdad a ferro e fuoco sorvolata da rumorosi elicotteri Apache, con il rumore delle ambulanze superstiti, i muri pieni di rettangoli neri di stoffa con le scritte bianche a ricordare i morti, entrò nel caos dei saccheggi. Vedemmo quelli di negozi e magazzini, ci sfuggì quello del museo archeologico, ma perfino gli ospedali venivano depredati, alcuni dati alle fiamme. Tutti raccontavano: «È stato derubato e i marines lì vicino non facevano nulla, dicevano di non avere abbastanza personale, eppure sulla strada verso il Nord c’è la coda di carri armati!» (pensai anche allo spreco immane di combustibili fossili, prima per gli aerei, ora per i mezzi a terra); «Sono i kuwaitiani a vendicarsi portandoci via i nostri tesori antichi»; «Distruzioni e incendi dappertutto»; «Alcuni ospedali sono presidiati da civili per evitare il peggio».
Del resto, anche negli anni dell’embargo, stranieri presenti in Iraq a vario titolo «arrotondavano» vendendo tappeti antichi e vecchi argenti che gli iracheni ormai in miseria quasi regalavano.
«Siamo qui per la democrazia»
Un cavallo che si agitava a terra, non soccorso da nessuno e nemmeno dal tassista che non volle fermarsi, mi ispirò l’idea di andare a capire che cosa accadesse allo zoo. Si era sparsa la voce orrenda che a leoni e altri grandi carnivori erano stati dati in pasto asinelli vivi. Però, impossibile avvicinarsi. I soldati stranieri bloccavano il passo. Allo zoo come altrove. Con loro si cercava di comunicare (seppure in modo secco e ostile), per comprendere motivazioni e informazioni. Limitatissimo il loro repertorio di risposte: «Siamo qui per la democrazia»; «Portiamo la libertà». Qualcuno però a domanda rispondeva che sì, si era arruolato per poter studiare gratis nelle costosissime università degli Usa.
Il 15 aprile, la pacifista statunitense Cinthya Banes era fra i pochi rimasti (gli altri già andati via, arresi, per manifesta inutilità). Prendendo a prestito l’email da un giornalista, si mise a mandare messaggi a diverse personalità nel suo paese denunciando i crimini dell’invasione, saccheggi compresi. Poi, dopo la lettura indignata di uno dei volantini che gli occupanti distribuivano in inglese e arabo per l’edificazione dei cittadini di Baghdad, decidemmo una manifestazione, con cartelli: uno chiedeva l’impossibile (Stop occupation), l’altro evocava le responsabilità disattese della potenza occupante, sulla base della Convenzione di Ginevra. L’idea era di piazzarci davanti a un carro armato e attirare l’attenzione di qualche media. Un flash mob ante litteram. Entrate come clandestine nello spazio esterno dell’hotel Palestine, i marines ci lasciarono stare per un po’, poi, «adesso via, sennò vi cacciamo in malo modo».
A Baghdad resistemmo ancora qualche settimana, volevamo raccogliere prove sulle vittime civili. Una sera di fine aprile Omar, ex operaio in una industria chiusa, un fratello soldato morto poche settimane prima a Bassora, ci raccattò e ci accompagnò all’al-Fanar: «Non è più tempo di girare da sole. È il caos. L’Iraq è come questa polvere. Facciamo solo attenzione quando ci avviciniamo ai reticolati, nel buio se gli americani ci prendono per fedayin ci sparano subito».
Fedayin? Combattente. Ce ne sarebbero stati molti, nei mesi e anni successivi. In una guerra infinita.
Marinella Correggia tratto da «Si ferma una bomba in volo?», Terre di mezzo edizioni, Milano 2003, Premio Pieve «Diario del presente»
Le guerre spostano i popoli
Gli sfollati e profughi a causa dei conflitti
Incontri di donne e uomini scappati dalle guerre. Profughi in fuga, da Iraq, Siria, Libia, Kosovo. Sono milioni, destinati a passare la vita tra un campo di sfollati e un altro. Anche loro vittime, spesso dimenticate, delle guerre causate dall’Occidente. Ecco alcune storie, emblematiche, e quanto mai attuali.
La sera, nel quartiere di Jaramana, gli iracheni si ritrovavano a giocare a scacchi e bere tè sotto una grande tenda. Jaramana è a Damasco, in Siria. Era il maggio 2013. Dopo l’invasione «Iraqi Freedom» guidata da Bush e Blair nel 2003, moltissimi abitanti dell’Iraq avevano lasciato il paese per sfuggire al caos dell’occupazione e al conflitto settario. Oltre un milione di loro aveva trovato ospitalità nella capitale siriana, all’epoca un approdo tranquillo. Permessi di soggiorno rinnovabili anche a chi non aveva uno status di rifugiato vero e proprio. Costo della vita basso (allora). Aiuti pubblici e internazionali (allora). La stessa lingua e in parte le stesse tradizioni. La vicinanza con la terra d’origine.
Ma nel 2011 è iniziata la guerra anche in Siria. Incredulo per la sua sfortuna, Saad, che aveva lasciato anni prima il quartiere Karrada di Baghdad, sotto la tenda degli scacchi ci diceva: «Temiamo un intervento armato esterno anche qui, ad appoggiare i gruppi di terroristi come quelli che ci hanno fatti partire dall’Iraq». Quanto a Majid, arrivato a Damasco nel 2007 con moglie e due figli (altri tre erano stati uccisi, uno durante un rapimento, due gemelle in un’esplosione), ribadiva: «Siamo venuti qua per il pericolo di attentati, le violenze settarie, i rapimenti. Adesso molti iracheni stanno cercando di ripartire. Ma per dove?».
Iracheni erranti
A partire dal 2014, un milione e 800mila persone hanno lasciato le loro case in Iraq e in Siria di fronte all’avanzata del cosiddetto Stato islamico (Isis, o Daesh in arabo). «Fa un caldo infernale sotto queste tende», diceva a un giornalista una donna sfollata, nell’estate torrida del 2015. A Mosul (Iraq) nel luglio 2014, Abu Bakr al Baghdadi annunciò l’instaurazione del califfato: lo Stato islamico era entrato in città.
E nel 2023, dove sono gli iracheni che erano emigrati in Siria, adesso che la situazione economica difficilissima è peggiorata a causa del terremoto di febbraio scorso, sale sulle ferite di tanti anni di conflitto? «Una parte è tornata a casa, altri sono rimasti qui», risponde Salam, giornalista siriano rimasto a Damasco, un caso quasi raro: la Siria, per una guerra fomentata da paesi Nato, petromonarchie e Turchia, conta dal 2011 oltre 6,8 milioni di sfollati interni su una popolazione di 21 milioni, e oltre cinque milioni all’estero – secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati.
Iracheni erranti, come Elias, yazida, che non vedendo futuro nel suo Iraq, nel 2010 era partito attraverso Turchia e Grecia con il saggio figlio dodicenne, per raggiungere parenti in Germania e poi chiamare il resto della famiglia. Incagliatosi in Italia per questioni burocratiche, alla fine, esasperato, aveva chiesto e ottenuto il rimpatrio. Nel 2013 scriveva, dalle sue terre: «Sono contento, un po’ contento e un po’ triste, forte e debole, ma ho grandi speranze. Auguri di pace al pianeta». Ma ecco che nel 2014 l’Isis, infernale frutto delle guerre, ha spazzato via la regione degli «infedelissimi» yazidi. Un olocausto. Elias si ritrova in un campo di sfollati. Poi abbiamo perso le sue tracce.
Libia 2011: fuga dalle bombe Nato e dagli integralisti
Fino al 2011 lavoravano nel paese petroliero nordafricano oltre due milioni di stranieri, regolari o irregolari, fra nordafricani (in primis egiziani), africani subsahariani e asiatici (70-80mila dal solo Bangladesh).
Con le bombe della Nato e la concomitante «caccia al nero» da parte di gruppi armati integralisti, ai quali l’Alleanza atlantica ha fatto da forza aerea, hanno lasciato la Libia 800mila lavoratori migranti. Altri se ne sono andati dopo la caduta del governo di Tripoli (settembre) facendosi rimpatriare dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).
Mohamed, del Niger, aveva resistito nella capitale malgrado la chiusura della ditta per la quale lavorava. Nell’agosto 2011, preoccupato, ci diceva: «So che questa guerra è una tragedia. Se non si ferma farà tanti danni anche nel nostro Sahel. Quanti ne ha già fatti, con il rientro in patria di quasi tutti i lavoratori stranieri». È tornato ad Agadez (Niger). Ha provato a coltivare arachidi. Magrissimi introiti. Poi è stato assunto in un hotel a Niamey.
Dove sei andato, insegnante del Darfur che dopo tanti anni a Tripoli, nel maggio 2011 te ne stavi buttato con tutti gli altri sotto il sole al confine tunisino, a Ras Jedir, aspettando non si sa che?
Dove sei finito, Johnson del Ghana, già muratore in Libia, poi ferito durante la guerra, e nel 2012, arrivato da mesi in Italia con un barcone, per poi ritrovarti a vagare con la tua stampella intorno alla stazione Termini a Roma, con continui sfratti dai centri di accoglienza e un asilo umanitario traballante?
E dove sei tu, Abu, che fino a poco prima del crollo di Tripoli facevi il custode e giardiniere in una villa nel quartiere Tajoura? Fuori dal tuo bugigattolo pulito offristi cerimonioso alla pacifista, inutilmente presente da quelle parti, una cena a base di miglio e di un’erba del Niger che compravi al mercato. Ammiravi Thomas Sankara (un mot de passe per tanti saheliani) e anche altri eroi africani. Era stato surreale rievocarli in quel tardo pomeriggio, sotto le bombe.
Mortali effetti collaterali nel Sahel
I lavoratori tornati nei loro paesi dell’Africa subsahariana sono ben presto andati incontro a un’altra guerra, quella dei jihadisti, con il suo strascico di massacri e spostamenti di popolazioni. Questo effetto collaterale, per l’intero Sahel e non solo, della crescita dei gruppi estremisti in Libia a partire dal 2011, veniva sottolineato già nel 2013 da un negletto studio per l’Europarlamento. In esso si faceva notare come molte delle armi fornite dalle petromonarchie ai ribelli in Libia fossero finite nelle mani di gruppi terroristici sotto il deserto.
Stragi di civili e di soldati, spostamenti di centinaia di migliaia di persone. Così è andato avanti, dunque, dagli inizi del 2012 il terrorismo nella fascia del Sahel, a iniziare dal Mali, poi Niger e dal 2016 in Burkina Faso.
Tawergha, deportazione del XXI secolo
Per fuggire dalla guerra e dall’avanzata delle milizie, anche tanti libici nel 2011 si sono riversati in Egitto o in Tunisia, o in altre aree del paese bombardato. Ma i circa 40mila residenti della città di Tawergha, cittadini libici di pelle nera discendenti degli schiavi africani, non sono partiti volontariamente: sono stati cacciati dalle milizie armate della vicina città di Misurata (cfr. MC giugno 2021). Tawergha è stata distrutta e saccheggiata, svuotata dei suoi abitanti accusati di essere sostenitori di Gheddafi. Il razzismo ha avuto un grande peso. Migliaia di famiglie di Tawergha sono state costrette per anni a vivere in accampamenti, ricoveri di fortuna, centri pubblici, o in aree del paese non controllate dalle milizie più estremiste. Nel 2018 gli accordi di riconciliazione conclusi sotto l’egida Onu avrebbero dovuto spianare la strada al ritorno dei tawerghesi, ma la distruzione massiccia e deliberata della città e delle sue infrastrutture e un senso di insicurezza pervasivo hanno a lungo impedito il loro ritorno in massa. Solo negli ultimi tempi il 45% della popolazione è potuta tornare anche grazie ai servizi di base ripristinati.
Migrazioni o addirittura espulsioni di massa hanno modellato anche le altre guerre calde post-guerra fredda, a partire dalla «Tempesta nel Golfo» nel 1991. Intanto, l’Arabia Saudita espulse circa 800mila yemeniti, punizione collettiva perché il loro governo – membro di turno del Consiglio di sicurezza Onu – non aveva votato a favore dell’ultimatum (risoluzione 678), tappa necessaria per timbrare come «guerra giusta dell’Onu» quell’avventura senza ritorno (per usare le parole di Giovanni Paolo II).
E abbandonarono con ogni mezzo l’Iraq, alla vigilia o dopo le bombe, circa un milione di lavoratori stranieri (bengalesi, egiziani, yemeniti, filippini, indiani, pachistani…). Folle enormi accampate in tendopoli alla periferia di Baghdad e poi al confine iracheno-giordano, cercando un modo di fuggire. Eppure, in un libro curato da giornalisti italiani, la foto di una lunga colonna di persone del subcontinente indiano in attesa di partire, veniva spacciata per «curdi in fuga da Saddam».
Inoltre, 300mila lavoratori palestinesi furono espulsi per vendetta dal Kuwait «liberato» e da altre petromonarchie, o lasciarono l’Iraq, dove rimasero ben pochi stranieri. Come Fouad, marocchino di Fez, cameriere del ristorante Shatt el Arab di Bassora, un tempo frequentato dai ricchi del Golfo. Rimasto nella città durante le due guerre, prima quella con l’Iran poi la Tempesta nel deserto del 1991, andò via alla fine degli anni 1990, per la miseria dell’embargo, non vedendo niente all’orizzonte, con uno stipendio diventato da fame.
Le guerre spostano popoli. Spesso solo nei paesi confinanti.
Tornando agli yemeniti: a partire dal 26 marzo 2015, con i bombardamenti sul paese da parte di una coalizione di monarchie arabe guidate dall’Arabia Saudita e con l’appoggio tecnologico degli Usa, oltre un milione di abitanti hanno dovuto spostarsi di area in area.
Surreale poi, che negli stessi anni, dal Corno d’Africa arrivassero ancora in Yemen via mare parecchi profughi: la loro destinazione sperata, nella penisola arabica, erano i ricchi paesi del Golfo. Molto difficile arrivarci, però, in quei viaggi degni della canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni.
Vesna, la casa in mezzo alla strada
Nel 1999, l’«Operation Allied Force», le bombe Nato su Serbia e Kosovo, provocò – invece di prevenire o arrestare – l’esodo di massa di centinaia di migliaia di kosovari. Dopo la vittoria della Nato, furono i serbi a fuggire a decine di migliaia dal Kosovo «liberato». A Belgrado si incontravano in quei mesi storie stralunate. Come quella di Vesna, suo marito Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati nella capitale serba anni prima, da Sarajevo (Bosnia). Abitavano da anni in una stanza d’hotel nel quartiere Zemun. Profughi di guerra catapultati sotto le bombe. Vesna rifletteva sulla guerra della Nato: «Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Siamo sfortunati. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada, così si dice da noi. Ma quasi sette settimane di bombe sono tante, non lo auguro a nessuno. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti, altri senzatetto, porta anche odio».
Asinelli afghani in aiuto ai fuggitivi
Nel 2001, con l’infinita «guerra al terrore» avviata dagli anglo-statunitensi, altre centinaia di migliaia di afghani ammassavano l’indispensabile sui loro asinelli e prendevano i sentieri e le strade verso il Pakistan o l’Iran. Aggiungendosi ai milioni che avevano lasciato il paese nei precedenti decenni bellici: da quando nel 1979 Usa e petromonarchie, con il sostegno determinante dei servizi segreti pachistani, avevano stretto il patto del diavolo con integralisti provenienti da vari paesi, allo scopo di rovesciare il regime afghano dell’epoca.
Marinella Correggia
Hanno firmato il dossier:
Marinella Correggia
È autrice e militante eco-pacifista. Ha scritto saggi e manuali fra i quali: La rivoluzione dei dettagli; Diventare come balsami; Si ferma una bomba in volo?; L’Alba dell’avvenire; El presidente de la paz; Alleanza per il clima; Cambieresti?. Ha sceneggiato documentari fra i quali: Le mani del futuro; Crocevia kirghiso e Tutto sarà dimenticato? . Ha scritto molti dossier nel campo eco-sociale-internazionale. Collabora con diversi media italiani ed esteri. Da decenni è attivista contro le guerre di aggressione. Come volontaria ha partecipato, e partecipa, a campagne e progetti nel campo dell’alternativa ecologica, dei rapporti Nord-Sud, del rispetto attivo dei viventi.
a cura di Marco Bello, giornalista, direttore editoriale MC.
Si ringrazia la Fondazione Lelio e Lisli Basso Onlus per avere messo a disposizione di MC alcune foto di Pietro Gigli dal suo archivio.
Rut. Amore contro ogni convenzione
Nel turbinio di dibattiti mondani di questo anno, c’è chi ha fatto notare che il legame tra Camilla Parker Bowles e Carl Windsor (anche noto come Carlo iii re del Regno Unito) avrebbe avuto tutte le caratteristiche per piacere all’industria cinematografica e alla nostra cultura romantica, eccetto una: i due innamorati, infatti, che sono legati da affinità sportive e intellettuali, ma osteggiati dalle famiglie perché lui nobile e lei no, e che, costretti a matrimoni «convenienti», non si perdono mai di vista finché un giorno finalmente coronano il loro sogno d’amore, diventando addirittura sovrani, non sono belli.
Per il nostro mondo culturale, la bellezza fisica, secondo i canoni correnti, è decisiva per far appassionare le persone alla vicenda, e per far accettare un amore non convenzionale (che causa anche gravi sofferenze ad altri).
Ogni cultura ha i suoi cliché di accettabilità. L’antica cultura biblica non fa eccezione, anche se si sforza a volte di sfidare i propri stessi criteri.
In quel mondo, infatti, le barriere da non superare nelle relazioni e nei matrimoni, erano quelle del clan, o almeno del popolo di appartenenza.
Anche quel mondo (come il nostro) era poi ben consapevole che la relazione tra suocera e nuora non era normalmente la più serena e pacifica. Ma nella Bibbia troviamo una storia che manda in crisi ogni cliché.
Una famiglia sfortunata
Un uomo di Betlemme di Giuda, spinto dalla fame, si trasferisce con la moglie Noemi e due figli nelle pianure di Moab (nell’attuale Giordania). Elimèlec deve essere veramente disperato, perché tra moabiti e giudaiti non è mai corso buon sangue, si sono combattuti in diverse guerre e si disprezzano a vicenda. Quando la tradizione di Genesi presenta Moab come il figlio di Lot nato da un incesto (Gen 19,30-37), esprime la consapevolezza di quanto i due popoli si assomiglino (Lot, padre di Moab, è nipote di Abramo), e, allo stesso tempo, quanto odio ci sia tra i due vicini al di qua e al di là del Giordano.
A Moab quell’uomo non solo trova lavoro, ma anche due mogli per i figli, e qui i benpensanti di Giuda non avrebbero potuto far altro che scuotere il capo, disapprovando la scelta. Chissà se poi avranno detto «Ben gli sta» quando sono venuti a sapere che, uno dopo l’altro, sono morti il capofamiglia e i suoi due figli senza lasciare eredi.
Il mondo antico non è tenero nei confronti di chi si trova senza protezioni familiari. La legge molto spesso non tiene conto delle persone sole. E per Noemi trovarsi vedova, senza figli né nipoti, in una terra straniera, accompagnata solo da due nuore, straniere anch’esse, è la peggiore situazione possibile. Lei, consapevole e generosa, invita le nuore a tornare alla loro famiglia di origine, sperando che possano essere nuovamente accolte, almeno loro. In quanto a lei, proverà a tornare nel proprio paese, sapendo di avere davanti una sorte di elemosina e stenti.
Le nuore straniere, membri di un popolo odiato e disprezzato dal suo, in realtà, si mostrano tenerissime e delicate, in quanto, innanzitutto, rifiutano di abbandonare la suocera. Poi una delle due, piegata dalle insistenze e magari anche dalla consapevolezza di tutto ciò che avrebbe altrimenti dovuto sopportare, accetta l’offerta di Noemi. L’altra, invece no. Rut, duramente, pone fine alle discussioni: «Dove andrai tu, andrò io; dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo; il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16). Non ci viene detto il perché di questa dura presa di posizione di Rut. Noi proveremo, alla fine, a ragionarci su, sapendo però che sono ipotesi nostre, non del testo.
La ruota gira… e la si aiuta
Noemi ritorna, quindi, nella terra di Giuda, accompagnata dalla nuora Rut. Sono entrambe vedove. Come prevedibile, una volta tornate nella regione d’origine della suocera, nessuno si prende cura di loro. Certo, tutta Betlemme va in subbuglio alla notizia (Rt 1,19), ma in ultimo le due donne devono rassegnarsi ad andare a chiedere l’elemosina.
O, per meglio dire, a spigolare. Il testo precisa, infatti, che ritornano in Giudea al tempo della mietitura dell’orzo (Rt 1,22), ossia in primavera, e Rut si propone subito come spigolatrice. Nella mietitura capita che qualche spiga cada per terra, o venga lasciata indietro, soprattutto agli orli dei campi. La legge mosaica prevede che queste spighe non dovebbano essere raccolte, ma lasciate ai «poveri e forestieri», come parziale rimedio alla loro miseria (Lv 19,9; 23,22).
Il caso (o la Provvidenza?) vuole che Rut capiti a spigolare nel campo di un uomo buono, che, informatosi su di lei, e venuto a sapere del gesto di affetto che sta offrendo alla suocera, la prende sotto la sua ala protettrice.
Booz, questo è il nome dell’uomo, la invita a tornare a spigolare da lui, garantendole di aver dato ordine che nessuno la molesti (è una giovane donna vedova, senza protezione: la preda migliore) e che la lascino attingere dall’acqua dei lavoratori (Rt 2,8-9). Poi, addirittura, contro tutti i propri interessi economici, ordina ai mietitori di lasciare cadere apposta delle spighe dove lei sta raccogliendo (Rt 2,16).
In effetti, alla fine della giornata, dopo aver battuto l’orzo, Rut ne porta a casa quasi un’efa, che sono circa venti chili (Rt 2,17). Non a caso Noemi, vedendola arrivare con tutto quel peso, non può che stupirsi e le chiede che cosa le sia successo.
Alle spiegazioni, Noemi si illumina ancora di più e progetta un piano astuto e, in fondo, anche non del tutto corretto.
Il generoso padrone del campo d’orzo, infatti, è un parente del marito di Noemi, e potrebbe «riscattare» Rut prendendola come sposa e assicurando al primogenito il nome del marito defunto, cioè, in definitiva, assicurare una discendenza a Elimèlec. È la cosiddetta legge del levirato, sulla quale anche Gesù è stato questionato (Dt 25,5-6; Mt 22,25-28). Ma anziché chiedere serenamente a Booz se sia disposto a compiere questo dovere, Noemi, per garantire il successo a Rut, la spinge a un inganno.
La invita ad aspettare l’ultimo giorno di mietitura, quando gli uomini «si rallegreranno il cuore» (Rt 3,7), formula che indica chiaramente il bere fino a ubriacarsi. A quel punto Rut deve sdraiarsi accanto a Booz, «dalla parte dei piedi» (Rt 3,4). Con la parola «piedi», nella lingua ebraica, a volte ci si riferisce eufemisticamente ai genitali. Praticamente Noemi invita Rut a coricarsi davanti a Booz quando lui sarà ubriaco, confidando nel fatto che al mattino l’uomo non si ricordi di quanto accaduto nella notte e, vedendola sdraiata ai suoi piedi, deduca di aver approfittato della giovane vedova.
Le conseguenze
Le cose andranno persino meglio. Booz, svegliandosi a metà notte, si trova davanti Rut, che lo invita a «stendere il suo mantello» su di lei (Rt 3,10): Rut non si limita, quindi, a lasciar intendere a Booz che potrebbe essere successo qualcosa, ma lo invita a farlo.
Lui, in realtà, si comporta da signore: la tiene a dormire nell’aia quella notte, ma la fa alzare mentre è ancora buio, perché nessuno pensi male di lei, le riempie il sacco di orzo per la suocera e si impegna a superare tutti gli intoppi che ancora ci sono.
Alla fine, Booz sposerà Rut, e da loro nascerà il nonno del re Davide (Rt 4,17).
Per gli ebrei del tempo che leggono questa storia ritenendo fondamentale la piena purità di sangue dei membri della propria comunità, è uno shock scoprire del sangue straniero nel re perfetto. E non solo sangue straniero, ma addirittura moabita, appartenuto a una donna generosa e pronta a rischiare e pagare di persona per amore di chi, solitamente, non ci si aspetta di dover amare.
Sarà forse questo il motivo per cui Matteo, nella sua genealogia di Gesù, inserisce anche Rut (Mt 1,5): anche se attraverso modalità che possono sembrare discutibili o indecenti, infatti, lei, straniera, ha mostrato il suo affetto per la propria suocera e ha portato a termine un dovere religioso nei confronti del proprio marito morto, senza curarsi del proprio interesse o addirittura della propria formale rispettabilità.
Modello di fede?
Perché Rut compie queste scelte?
Può darsi che abbia intuito, nella spiritualità di suo marito o della suocera, un Dio che ama le persone, che si prende cura di chi non è tutelato da nessuno, che vede il fondo del cuore e non le forme esteriori?
Non lo sappiamo. Possiamo però allietarci intanto di un racconto in cui tutti i personaggi principali sembrano buoni.
Noemi vorrebbe salvare la vita delle sue nuore, pur non avendo nulla da offrire; Rut non la vuole abbandonare, emigra in esilio con lei e inizia ad andare a spigolare per garantire a entrambe qualcosa da mangiare; mette a rischio la propria incolumità e dignità, esponendosi e lavorando sodo nella spigolatura; Booz la nota e la protegge; Noemi organizza un inganno ai danni di Booz per garantire alla nuora una nuova vita; Booz, messo di fronte a un inganno, non solo non si offende ma si adopera per portare a compimento il progetto delle due donne. C’è un’umanità delicatissima, che si muove con attenzione e inventiva senza tenere conto delle leggi formali ma guardando le persone che ha davanti.
Tutti costoro si muovono senza quasi mai tirare in ballo la legge divina, ma mostrando in tutti i loro gesti di scommettere sulle persone e sul futuro. Non si preoccupano di giustificare le loro azioni con un richiamo formale a Dio, ma iniziano a muoversi agendo come Dio, mettendo al centro le relazioni e gli esseri umani più fragili.
Rut forse non conosce la legge del Dio d’Israele. Sicuramente non si affida alle sue regole da tutti accettate, che la rimprovererebbero. Si fida, invece, di una presenza viva, che sa cogliere oltre le leggi, oltre la forma, il cuore delle persone.
Se la fede fosse sapere una serie di verità, la nostra vita spirituale non sarebbe diversa dal buon rendimento di uno studente interrogato in storia.
Non si tratta però di conoscere e ricordare delle cose, ma di fidarsi, di affidarsi a Dio, e quindi, quasi senza accorgercene, all’umanità, al futuro, alla bontà delle persone. Questo è ciò che fanno Noemi, Rut e Booz, anche se tra tutte spicca Rut, giovane donna senza esperienza, che ha avuto un marito per poco tempo, senza figli, disposta ad andare in esilio per non abbandonare la propria suocera. E premiata con un marito, dei figli e un nipote re.
Angelo Fracchia (Camminatori 06-continua)
Cina: esempio per l’Africa?
La Cina ha lanciato nel 2013 la Nuova via della seta, un progetto di cooperazione economica a livello planetario. E l’Africa è un continente chiave. Sia perché ha grandi riserve di materie prime, sia perché, con la sua popolazione giovane, è un mercato in espansione e la futura fabbrica del mondo. La strategia dell’impero di mezzo sta cambiando. E un libro ci rivela come.
«Nell’ultimo anno, a causa della guerra in Ucraina, l’aspetto politico della strategia cinese è emerso in maniera preponderante, ancora più di quello economico. Quello dei rapporti tra Cina e Africa mi sembra un argomento importante, anche per l’Italia, per cui ho deciso di approfondirlo». Chi parla è Alessandra Colarizi, sinologa e analista, con una grande esperienza, tra l’altro, come autrice per testate italiane ed estere, su questioni cinesi. Alessandra ha vissuto diversi anni in Cina, dove ha iniziato, nel 2016, a fare parte del collettivo «China Files» (vedi in fondo a questo testo), per poi diventarne coordinatrice editoriale.
Si è specializzata sui rapporti tra la Cina e i paesi membri della Belt and Road initiative (Bri, detta anche la nuova via della seta), affrontando prima la questione dell’espansionismo cinese in Asia centrale e poi, in tempi più recenti, in Africa. È da questo interesse che nasce «Africa rossa», il suo ultimo libro.
Il volume presenta un vasto studio delle relazioni tra l’impero di mezzo e il continente africano, a partire da alcuni aneddoti storici, tracciando il percorso degli ultimi decenni, fino ad arrivare a descrivere come la strategia si è modificata, e si sta muovendo.
«Africa rossa» è un testo notevole, che ha il pregio di tentare un approccio a 360 gradi della questione. Si consideri, inoltre, che in Italia mancava un approfondimento sul tema da diversi anni.
Leggendolo si scopre che la Cina, dal 2009, è diventata il primo partner commerciale del continente, e che nel 2021 l’interscambio ha raggiunto i 254 miliardi di dollari. La Cina detiene il 14% del debito sovrano dell’Africa.
Abbiamo avuto un colloquio online con Alessandra Colarizi, per parlare di questo suo lavoro.
Retorica cinese
La Cina si è sempre posta, rispetto ai paesi africani, su un piano di uguaglianza: ex colonizzati, tutti paesi emergenti, sebbene sia la seconda economia mondiale. Ma il rapporto è, indubbiamente, asimmetrico.
«È una contraddizione in termini quella cinese. Il Paese compie piccoli gesti che mettono in mostra l’intenzione di porsi in modo diverso dall’Occidente. Caso simbolo è quello delle Comore, (stato indipendente composto da tre piccole isole nel canale di Mozambico, ndr), dove la Cina ha aperto un’ambasciata, e dove recentemente si è recato il ministro degli Esteri cinese.
Questo mostra una certa sensibilità della Cina. Penso, inoltre, che il comportamento dell’Occidente faccia gioco della strategia cinese. C’è molto risentimento verso alcuni paesi ex colonizzatori. Se ci fosse un comportamento diverso, l’attenzione degli stati africani verso la Cina forse sarebbe minore.
È chiaro che, nell’atteggiamento cinese, c’è molta retorica, ma allo stesso tempo, la strategia è portata avanti con i fatti. Ovvero: attenzione diplomatica, seguita da investimenti».
Alessandra ricorda che ci sono alcune questioni trascurate nel rapporto Cina-Africa: «Poi si può passare sopra ad alcune problematiche. Penso a quelle culturali, alla scarsa accettazione reciproca dal punto di vista umano, agli attacchi razzisti contro i cinesi presso alcune miniere in Africa, o dei quali sono stati vittime gli studenti africani in Cina. Sono problemi giganteschi, che però sono insabbiati a causa di un interesse maggiore».
Per decenni in Africa hanno avuto influenza quasi esclusiva i paesi ex colonizzatori (Francia, Regno Unito, Portogallo), con l’aggiunta di Usa e Urss durante la guerra fredda. Da una ventina di anni a questa parte, invece, gli attori in campo si sono moltiplicati. Oltre alla Cina, è presente con un certo peso la Turchia, e poi l’India, le monarchie del Golfo (come Qatar ed Emirati arabi uniti), e infine la Russia di Putin con una presenza di tipo militare non ufficiale (cfr. MC novembre 2022). Ogni paese con un approccio diverso.
Colarizi scrive in Africa rossa: «Per Washington l’Africa continua ad avere le sembianze di un ring da cui buttare fuori le sfidanti – Cina e Russia – accusate di agire con intenzioni predatorie». Le chiediamo se tra queste potenze straniere, che si incrociano in Africa, ci possa essere anche collaborazione, oltre che competizione.
«Ufficialmente la Cina promuove la cooperazione nei paesi terzi, come è scritto nel memorandum sulla Bri, firmato dall’Italia nel 2019. Aveva invitato Francia e Germania a portare avanti progetti insieme. La Cina collabora con realtà occidentali fino dai primi anni ‘90, in alcuni settori dello sviluppo.
Nel momento in cui gli Usa e l’Europa spingono per dei progetti che prenderebbero il posto della Cina, e non sono aperti a investimenti cinesi, allora diventa una competizione».
«Per quanto riguarda i rapporti con le potenze emergenti, come Russia ed Emirati arabi, non c’è una grossa contrapposizione ed è bassa la possibilità che gli interessi entrino in conflitto. Questi due paesi sono focalizzati sul settore della sicurezza, nel quale la Cina sta aumentando la propria presenza con l’export di armi, ma con un interesse più rivolto all’aspetto economico che a quello militare. Quando estende le sue relazioni sul piano militare, lo fa con programmi di formazione, e solo in rapporti ufficiali. Non vedo possibilità di scontro.
L’elemento Russia è particolare, perché sappiamo che opera non solo attraverso canali ufficiali. Ci sono stati episodi recenti che hanno coinvolto anche dei cinesi, come le morti nella Repubblica Centrafricana (il 19 marzo scorso, 9 cinesi lavoratori di una miniera sono stati giustiziati; ribelli centrafricani e gruppo Wagner si rimbalzano le accuse, ndr). Questi potrebbero essere un elemento destabilizzante, che la Cina non vede con favore».
Quando ci sono elementi d’instabilità, la Cina non è mai contenta. «Con la Russia ci sono anche tentativi di cooperazione a livello ufficiale (in Africa): ci sono foto ricordo di diplomatici dei due paesi in ambasciate africane. C’è poi l’altra dimensione, la questione dei mercenari russi, nella quale non è ben chiaro dove sia il confine tra lecito e illecito.
Con gli Usa, in questa fase, non mi pare ci possano essere grandi cooperazioni».
Mercenari cinesi
Parlando di sicurezza, lo studio di Colarizi riporta che l’84% dei progetti della Bri è a rischio medio alto, con attacchi di varia natura al personale, e rischi di terrorismo islamista. Gran parte dei paesi africani, infatti, ha visto negli ultimi vent’anni aumentare notevolmente la propria insicurezza interna. Tutto ciò crea grossi problemi agli interessi della Cina nel continente. Inoltre: «La vocazione cinese è mantenere la stabilità».
Scopriamo da Africa rossa che anche l’impero di mezzo ha i suoi contractors: «Secondo il
think tank americano Carnegie endowment for international peace, Beijing DeWe Security Service e Huaxin Zhong An Security Group da sole controllano 35mila contractors in 50 nazioni africane». Però, ci dice Colarizi: «I contractors privati cinesi, hanno un ruolo marginale, non possono usare armi da fuoco, sono impiegati in ruoli di consulenza, supporto tecnico e prevenzione dei rischi. Interessante è una cooperazione che si sta attivando con le forze di polizia e sicurezza, a livello di addestramento e fornitura di equipaggiamento». La sinologa ci spiega inoltre che il governo cinese ha lanciato la Global security initiative. La seconda di tre iniziative, dopo la Global development initiative e prima della Global civilization initiative di pochi mesi fa. «Si tratta di slogan, di iniziative multilaterali che vorrebbero dare un aspetto più pacifico e bonario alla Cina. Ma si basano su principi generici e sono vaghi».
Soft power dalla grande muraglia
Chiediamo all’autrice l’importanza del soft power (cioè l’abilità di guadagnare consenso internazionale grazie all’appeal culturale e valoriale, anziché attraverso la coercizione, dalla definizione del politologo statunitense Joseph S. Nye Jr., riportato da Colarizi, ndr) cinese sul continente .
La domanda che si pongono i governanti cinesi è: come accrescere il favore delle popolazioni locali nei confronti della Cina?
«Mi sembra che, al momento, il soft power sia più evidente nella sua versione tradizionale, ovvero borse di studio per attrarre giovani africani nel Paese asiatico. È il metodo migliore e più efficace per tentare di avere un impatto forte sulle generazioni future.
A livello di prodotti culturali, la Cina non ha un’industria cinematografica in grado di competere con quella statunitense o sudcoreana, anche se ci sono stati alcuni prodotti più fortunati, ma senza una grande espansione.
C’è il settore controverso della cooperazione mediatica, per la quale sono stati siglati contratti che fanno trasferire le notizie della Xinhua (agenzia stampa ufficiale di Pechino, ndr) direttamente sui media africani, senza che ci possa essere un filtro da parte di giornalisti locali. Ma non tutti i lettori sono in grado di capire qual è la propaganda».
Ci sono anche i social media, che in Africa sono molto diffusi, come ad esempio il cinese Tiktok.
«Sì, ma non so quanto impatto abbia sulla popolazione locale. C’è stato il fenomeno degli influencer cinesi che risiedono in Africa, e fanno vedere la vita dal posto sui social. In Cina sono abbastanza popolari, ma non ho un riscontro su cosa succeda in Africa».
Una nuova strategia
Si assiste, mette in evidenza Africa rossa, a un’evoluzione strategica della presenza cinese in Africa.
Fino a un decennio fa si trattava prevalentemente di costruire infrastrutture e invadere il mercato di manufatti cinesi in sovraproduzione, facendosi pagare in materie prime da portare in patria per alimentare l’industria. Questo approccio ha creato un forte indebitamento degli stati africani, che per motivi diversi, tra i quali l’instabilità sociopolitica, hanno difficoltà a pagare.
Oggi si tratta di esportare il modello cinese, che prevede, tra l’altro, la creazione di Zone economiche speciali (Zes, aree con facilitazioni legislative e fiscali, create per attrarre investimenti stranieri) come quella di Shenzhen.
Fondamentale è questo passaggio del libro: «Abbiamo visto la Cina, riconoscendo se stessa nell’Africa, tende a replicare quanto già collaudato con successo durante il proprio percorso di crescita e sviluppo. Lo ha fatto in passato con la realizzazione di infrastrutture di trasporto in cambio di materie prime. Ci ha riprovato in seguito coniugando la costruzione di aree residenziali, Zes e distretti industriali. Il tutto con l’obiettivo di creare un ecosistema urbano integrato per risolvere il grande dilemma: a differenza della versione cinese l’urbanizzazione africana non è stata accompagnata da uno sviluppo industriale in grado di sostenere la crescita economica del continente. Per porre rimedio, negli ultimi dieci anni lo sviluppo di Zes e parchi industriali è diventato uno dei pilastri della collaborazione sino africana, con un focus particolare sul settore manifatturiero e il trasferimento di tecnologia. Nel 2020 erano già 25 le zone di cooperazione economica istituite dalla Cina e potenzialmente capaci di elevare il continente da fornitore di commodities a esportatore di prodotti industriali».
La svolta
«In Africa – ci spiega Colarizi – il prezzo della mano d’opera è ancora basso, mentre in Cina è in aumento. Inoltre, nell’ultimo anno è stato firmato un accordo per abbattere le tariffe doganali di molti prodotti da diversi paesi in via di sviluppo.
I leader cinesi stanno puntando sul settore agricolo, perché sanno che l’Africa ha un grande potenziale, che si può sviluppare. Stanno investendo in formazione, export di macchinari che possono aiutare i paesi del continente a rendere più produttive le coltivazioni. È anche il settore sul quale hanno ricevuto richieste da parte degli africani».
L’export africano, soprattutto di prodotti alimentari, è dunque aumentato verso la Cina, e si tratta di un’inversione di tendenza, segno di un grande cambiamento.
Colarizi: «Recenti dati sull’export cinese verso paesi emergenti, dicono che c’è un aumento del 30% di semilavorati, che vengono poi utilizzati nel manifatturiero. Questo da l’idea che ci sia l’intenzione di rafforzare lo sviluppo industriale».
Allora la Cina è un esempio per i paesi africani? «C’è l’intenzione da parte della Cina di replicare il proprio modello, anche se io non ci vedo un tentativo di imposizione dall’alto. Piuttosto una proposta. È come se i cinesi dicessero: “il nostro modello ha funzionato da noi, però non è detto che funzionerà da voi. Seguite il vostro percorso, trovate la vostra strada, sperimentate e non è escluso che ce la farete”».
È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC.
Alessandra Colarizi, tra l’altro, cura la rubrica Africa rossa, per aggiornare sulle dinamiche tra Cina e i paesi del continente.