Cinquant’anni di relazioni Italia Vietnam. Stabilità e crescita


Le relazioni con l’Italia risalgono ai primi missionari. Ma l’amicizia è stata rinnovata durante la Guerra contro gli Usa. E poi si è sviluppata sui piani economico e culturale. Ce ne parla la console a Torino.

Civiltà quadrimillenaria, «paese del mito», il Vietnam è rimasto nel cuore e nelle coscienze di più di una generazione di italiani che, al tempo dell’invasione Usa, sono scesi nelle piazze e hanno manifestato per l’indipendenza di quel piccolo, lontano Paese aggredito dalla maggior potenza militare del mondo. Al Vietnam del resto, tutti noi siamo debitori perché il suo popolo ci ha insegnato che «indipendenza e libertà non sono mai merci barattabili».

L’evangelizzazione, primi contatti

Le relazioni dell’Italia con il Paese del Sud Est asiatico hanno radici antichissime. Dal XVII secolo, periodo in cui la Chiesa romana estese l’opera di evangelizzazione al Vietnam meridionale, in particolare, presero avvio rapporti sempre più intensi: nel 1695, Francesco Buzomi, religioso italiano della Compagnia di Gesù, residente nella concessione di Macao, dopo aver udito le impressioni di un viaggiatore portoghese di ritorno dal Vietnam, chiese e ottenne il permesso di stabilirsi in quel luogo per diffondervi le parole del Vangelo.

Nacque così la «Missione cocincinese», la cui data di fondazione può essere identificata con il giorno in cui Buzomi e il suo confratello portoghese, Diego Carvalho, sbarcarono al Porto di Kean, nella regione di Da Nang e celebrarono la loro prima messa. Undici anni dopo, sarebbe sorta, nel Nord del Paese, la «Missione del Tonchino» per opera di un altro italiano, padre Giuliano Baldinotti e di un francese, Alexandre de Rhodes che sarebbe diventato in seguito una figura di grande rilievo nella storia del Vietnam.

A differenza del suo confratello portoghese, che rimase in Vietnam per un solo anno, Buzomi visse nel Paese per oltre vent’anni; fondò numerose parrocchie e si dedicò all’opera di conversione ottenendo la fiducia degli Nguyen, i signori del Sud.

Sebbene all’epoca i religiosi stranieri presenti nell’area fossero per la maggior parte portoghesi – in ragione di una precisa ripartizione della sfera di influenza ecclesiastica che assegnava come territorio di evangelizzazione l’emisfero orientale al Portogallo – Alexandre de Rhodes individuò proprio in padre Buzomi, «il vero apostolo della Cocincina».

Nei primi dieci anni di attività della missione cocincinese, fra i ventuno componenti del clero presenti, si potevano contare dieci portoghesi e cinque italiani. Essi «inventarono» e diedero forma ad una nuova scrittura, il Quoc ngu, trascrizione fonetica della lingua vietnamita in caratteri latini, ancora oggi scrittura nazionale del Vietnam unificato, libero e indipendente.

Tra le figure di maggior spicco nel panorama ecclesiastico troviamo: Francesco de Pina, portoghese giunto nel Sud Vietnam nel 1617, il già citato Alexandre de Rhodes, francese, giunto nel 1624 – che apprese la lingua vietnamita proprio da de Pina – e l’italiano Cristoforo Borri (1583-1632), originario di Milano, che si stabilì nel Paese nel 1618 e visse prevalentemente a Nuoc Man (Regione di Binh Dinh).

A quanto pare, quest’ultimo aveva una particolare attitudine allo studio delle lingue. Contrariamente a de Rhodes che confessava di essere particolarmente scoraggiato di fronte alla complessità della fonetica vietnamita, simile al «cinguettio degli uccellini», Borri entrò in immediata sintonia con i toni e le ricche sonorità della lingua locale. Scriveva infatti: «La lingua vietnamita, con le sue numerose vocali, è soave e dolce ed essendo altresì ricca di toni e suoni, è melodiosa e armoniosa. Ritengo che, per tutti coloro che possiedono orecchio musicale e riescono a distinguere la differenza di toni e suoni, la lingua vietnamita sia in assoluto la più facile da apprendere».

Evidentemente, i missionari occidentali, nell’inventare il Quoc ngu, perseguivano il fine dell’evangelizzazione; tuttavia questa scrittura in caratteri latini avrebbe assunto un ruolo determinante nella storia e nella vita culturale del Vietnam. Ancora oggi, a oltre quattro secoli dal suo impiego in seno alla comunità vietnamita, non ci si è ancora resi pienamente conto del grande significato e della portata storica di tale evento. Occorre dire che, nel momento in cui la Chiesa portoghese non poté più assicurare la «propaganda» religiosa in Asia orientale, in seguito alla creazione della Société des missions étrangères, sorta nel 1668, furono i missionari francesi a concentrare nelle proprie mani la gestione dell’evangelizzazione in Vietnam, opera che assunse di fatto il significato di attività preliminare alla dominazione coloniale francese.

Modernità

Oggi, nel centro del Sud Est asiatico, il Vietnam è in rapido sviluppo economico. Uno sviluppo, anche culturale e umano, che il Paese vuole durevole e sostenibile. Prosegue un’esperienza sociale ed economica di grande interesse, con la crescita delle sue variabili macroeconomiche (dai flussi di import export all’attrazione di investimenti stranieri). A fronte di un avanzamento della sua popolazione, è divenuto un partner ambito e affidabile dell’Occidente. Ha senso pertanto oggi avvicinarsi, conoscere e visitare questo Paese per cercare di cogliere la sempre più articolata complessità di questo universo in transizione, poiché le impressioni vaghe e talvolta pregiudizievoli – di cui, da sempre, questo Paese è oggetto -, non si addicono al Vietnam, né alla sua gente, un popolo, come recita un antico adagio vietnamita, «che non smette di crescere». E, per avvicinarci a questo affascinante e orgoglioso Paese è inevitabile risalire al passato, per scovare le radici lontane di quella realtà che, di mutamento in mutamento, ha costituito, seppure sotto diverse denominazioni, l’odierno Vietnam.

Il cinquantenario

Quest’anno si celebra il 50° anniversario delle relazioni Italia-Vietnam. La ricorrenza segna un nuovo, importante tassello nella storia del rapporto fra i due Paesi. Le relazioni diplomatiche vivono oggi una stagione di grande intensità. L’Italia fu uno dei primi Paesi europei a stabilire relazioni diplomatiche ufficiali con il Vietnam (23 marzo 1973), nonostante l’orientamento della politica americana – volta allora a isolarlo dal contesto internazionale -, così come, nei lunghi anni dell’embargo statunitense, fu tra i primi Paesi a fornire aiuti.

Negli anni della cosiddetta «guerra americana», l’Italia fu protagonista di una vasta ondata di solidarietà a favore della popolazione vietnamita; il sostegno di quel tempo ha forgiato i sentimenti di amicizia e la volontà di scambio e cooperazione che ancora oggi legano la penisola italiana al Vietnam.

Nel corso dei cinquant’anni trascorsi, le relazioni si sono costantemente sviluppate e sono giunte oggi al culmine del consolidamento. Il partenariato strategico siglato nel 2013, ha sancito una nuova fase del comune percorso e ha determinato non solo il punto d’arrivo di un rapporto antico e fecondo, ma altresì l’esordio di nuovi scenari nelle relazioni bilaterali. Nel quadro della cooperazione economico-commerciale bilaterale, le istituzioni vietnamite hanno avviato efficaci collaborazioni con vari ministeri, enti e istituzioni italiane.

Accanto all’intensificazione delle relazioni diplomatiche ed economiche, nel corso di questi 50 anni, si è assistito, inoltre, allo sviluppo delle relazioni culturali e scientifiche fra i due Paesi.

In questo contesto, nel 2013, furono siglati memorandum d’intesa e programmi di azione in materia di cooperazione tra i due governi, nell’ambito dell’istruzione, della formazione e della ricerca scientifica. Negli ultimi anni, questi settori, hanno registrato importanti sviluppi e lo scambio in ambito accademico, scientifico e culturale, si è fortemente incrementato.

Tali risultati sono frutto di visite istituzionali, missioni ufficiali e tavoli di lavoro che i due Paesi hanno messo in atto dando prova di una cooperazione ad ampio raggio e di un dialogo costruttivo.

Gli aspetti più importanti di questo comune percorso hanno riguardato altresì la sicurezza: la collaborazione tra i rispettivi ministeri della Difesa, ad esempio, si è incentrata anche sull’elaborazione di strategie per garantire la sicurezza marittima, mantenere la pace e la stabilità nella regione Asean (Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico).

Si tratta, per il Vietnam, di una questione antica, ma di grandissima attualità dal punto di vista geopolitico, strategico, e giuridico. Il Mare orientale (Mar cinese meridionale, ndr) – quel «Mediterraneo d’Oriente» su cui si affaccia il Vietnam – è divenuto infatti uno dei grandi polmoni dell’economia mondiale.

Nazione in crescita

In un contesto di crisi globali, sfide climatiche e ambientali, epidemie e guerre, il Vietnam continua a mantenere la sua crescita grazie al rispetto dei principi essenziali del diritto internazionale, della carta delle Nazioni Unite, degli interessi nazionali e del suo popolo. È oggi un paese che mantiene una certa stabilità macroeconomica e promuove la crescita della nazione, aumentando le esportazioni e sostenendo nel contempo lo sviluppo a lungo termine.

Il Vietnam intende oggi preservare un ambiente pacifico, proteggere la sua indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale e migliorare la sua posizione internazionale.

Il 2022 è stato un altro anno di successo per il Vietnam che, negli ultimi trent’anni, ha ottenuto notevoli risultati, permettendogli di costruire una rete diversificata di partenariati globali e strategici per mantenere un alto livello di sviluppo socio-economico e guadagnare prestigio a livello regionale e internazionale. Fra questi, il partenariato siglato dall’Italia e altre nazioni. Oggi il Vietnam continua a promuovere la sua partecipazione attiva e responsabile e a offrire i suoi contributi a importanti organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite, l’Asean, l’Apec (Asia-Pacific economic cooperation).

Nel corso del 2022, il Paese è stato eletto a molti incarichi da importanti organizzazioni internazionali, tra cui quelli di vicepresidente della 77a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e di membro del Comitato intergovernativo dell’Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale per il mandato 2022-2026.

La diplomazia economica da parte del Vietnam ha contribuito a mantenere la stabilità macroeconomica promuovendo la crescita economica della nazione, aumentando le esportazioni e attingendo a varie risorse esterne, sostenendo nel contempo la riforma economica e lo sviluppo a lungo termine.

La società vietnamita del terzo Millennio

Il Vietnam è poco più grande dell’Italia ma ha una popolazione di circa cento milioni di abitanti. Un popolo giovane, colto e laborioso. La società vietnamita è estremamente aperta e ricettiva al cambiamento; è inoltre la più ottimista del mondo (secondo la Gallup international). Sono oggi emerse nuove classi e nuovi ceti e il contrasto tra città e campagna ha assunto moderni connotati. Nonostante i risultati raggiunti, sono numerose le sfide che il Paese deve ancora affrontare, come ad esempio nel campo della qualificazione professionale. È pur vero che il partito comunista vietnamita, evitando di contrapporre modernità e tradizione ed evocando la società civile in ragione della sua conclamata coesione, insiste su temi come la «socializzazione culturale», la solidarietà, il comune interesse nel contesto dello sviluppo economico della nazione e, così facendo, per certi aspetti, solletica l’orgoglio nazionale.

I principali tratti del discorso ufficiale, pur nell’interesse della collettività, puntano sulla promozione dell’individuo e sulla sua unicità: per mantenere l’alto grado di fiducia che la popolazione gli riserva, lo stato-partito deve oramai recepire e adattarsi alle nuove aspettative e alle nuove costruzioni identitarie e simboliche della comunità nel suo insieme. Il Paese è destinato a divenire il centro di gravità nell’Asia del sud est, hub strategico per commercio e business nonché punto nevralgico delle relazioni internazionali. Posta di fronte a precise scelte, pur nell’attuale prosperità, la nazione vietnamita (che con l’adozione della politica del Doi Moi ha mostrato di saper affrontare le incognite dello sviluppo), deve inoltre confrontarsi con una congiuntura mondiale particolarmente complessa. Del resto, è difficile mettere in discussione la leadership del partito che è riuscito a ridare dignità internazionale, indipendenza, unità e crescita al paese.

Prospettive di cooperazione

La salda amicizia che lega Italia e Vietnam è cresciuta sia sul piano della cooperazione sia sul piano istituzionale, sino alla ratifica del partenariato strategico nel 2013. Essa si è via via intensificata sino a coprire, accanto ai tradizionali ambiti economici, turistici e culturali, nuovi settori: dall’economia verde a quella digitale e altro ancora. Nel corso di questi cinquant’anni sono stati raggiunti numerosi traguardi al punto che, oggi, il Vietnam è il principale partner commerciale dell’Italia tra i Paesi dell’Asean mentre l’Italia è il quarto partner commerciale del Vietnam tra i Paesi Ue. Basti soltanto considerare che nel 2022, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, l’interscambio commerciale bilaterale ha raggiunto quota 6,2 miliardi di dollari, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente.

Il Vietnam è un Paese che non evoca più soltanto la memoria di una lunga guerra ma si compone di una realtà complessa, affascinante e dinamica.

Sandra Scagliotti*

 *Docente di storia e letteratura del Vietnam all’Università di Torino, e visiting professor presso università in Canada, Francia e Vietnam; cofondatrice del «Centro studi vietnamiti», cofondatrice della «Camera di commercio Italia-Vietnam»; cofondatrice della «biblioteca di studi vietnamiti Enrica Collotti Pischel»; è console onorario del Vietnam a Torino.


Nota: in un prossimo numero, approfondiremo con il contributo di un collaboratore dal Paese.

 

 




Nigeria. Perseguitati, uccisi, ignorati


Da anni in Nigeria, soprattutto dove vige la Sharia, le milizie di Boko Haram, gli estremisti fulani e, sempre più, generici predoni, compiono violenze, stragi, rapimenti. Spesso contro le comunità cristiane. Centinaia di migliaia di sfollati interni vivono nella paura. Tutto nell’indifferenza della comunità internazionale.

Il gruppo di pastori fulani, popolazione nomade di fede islamica, è arrivato nella notte da diverse direzioni. È entrato nel campo per sfollati gestito da padre Remigius Ihyula nello Stato di Benue, nel centro nord della Nigeria, e ha sparato all’impazzata: 38 morti e 51 feriti. Tra loro diversi cristiani.

È successo lo scorso aprile, durante la Settimana santa: «Un sabato santo nero», afferma il religioso che dirige la sezione di Benue della Commissione per la giustizia, lo sviluppo e la pace (Jdpc), organizzazione cattolica nigeriana che cerca di rendere meno difficile la vita delle persone scacciate dalle loro terre.

Pochi giorni prima, la Domenica delle palme, era stata assalita la chiesa pentecostale di Akenawe, sempre nello Stato di Benue.

Gli assalitori, anche in questo caso si sospetta una banda di pastori fulani, avevano ucciso un uomo, ferito diverse persone e rapito il pastore della chiesa con alcuni fedeli.

Sono solo alcuni degli ultimi episodi di violenze e persecuzioni in Nigeria, uno dei paesi più pericolosi al mondo per i cristiani.

Children and friends gave Amina these colourful bracelets. “It cheers me up to wear them and look at them, they remind me of Nigeria when it was peaceful,” she confides. UNHCR / H. Caux / January 2014

Le cifre della persecuzione

Secondo uno studio del 2022 di Genocide watch, intitolato Nigeria is worst in the world for persecution of christians, tra gennaio 2021 e giugno 2022, in Nigeria oltre 7.600 cristiani sono stati uccisi e più di 5.200 sequestrati. Nel 2021 si sono registrati più di 400 attacchi a luoghi cristiani.

In base ai dati Onu, si stima che 36mila persone siano morte e due milioni sfollate a causa di due decenni di violenze da parte di Boko Haram.

Il Comitato internazionale della Croce Rossa ha riferito che la metà delle oltre 40mila persone scomparse in tutta l’Africa in questi anni, provengono dalla regione nord orientale della Nigeria, teatro di attacchi e rapimenti da parte di Boko Haram.

Se da una parte ci sono i terroristi di Boko Haram, jihadisti che nel 2015 hanno giurato fedeltà allo Stato islamico, dichiarando di fatto guerra a tutte le comunità cristiane, dall’altra i villaggi soffrono quotidianamente l’incursione dei pastori fulani, popolazione nomade appartenente alla comunità islamica. Alcuni fattori, tra i quali i cambiamenti climatici, hanno spinto questi allevatori a cercare nuovi terreni per i loro pascoli. Di fatto si impossessano, a mano armata e perpetrando ogni genere di violenza, dei terreni degli agricoltori appartenenti per lo più alla comunità cristiana. Omicidi, devastazioni, rapimenti di sacerdoti e cristiani, sono all’ordine del giorno nel paese affacciato sul Golfo di Guinea. Nonostante la gravità della situazione, però, le notizie riguardanti questi eventi faticano a trovare spazio nel circuito dell’informazione internazionale.

La Via Crucis delle donne

Ci sono storie di violenza contro i più indifesi, a partire dalle donne, che per la loro efferatezza sembrano inverosimili, ma che invece sono reali e lasciano ferite difficili da rimarginare.

Lo sanno bene al Trauma center della diocesi di Maiduguri, Stato di Borno, nato grazie al sostegno della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs).

«Arrivano qui dopo aver subito le violenze più terribili, dopo essere state anche torturate», dice padre Joseph Fidelis, responsabile del centro che offre cure e sostegno psicologico, e che vaglia, caso per caso, se sia necessario un supporto più specialistico, a livello psichiatrico e ospedaliero.

Quando hai visto qualcuno uccidere davanti a te un figlio, un fratello o un padre, quando sei stata violentata e torturata, quando hai vissuto in una gabbia come un animale per mesi, fai fatica anche a trovare le parole.

Per questo al Trauma center opera personale formato ai massimi livelli in grado non solo di accogliere le donne che hanno subito violenze, la maggior parte delle quali cristiane, ma anche di indicare un futuro di speranza.

This photo taken and handout on March 8, 2023 by The Vatican Media shows Pope Francis blessing Janada Marcus, a young Nigerian victim of Islamist group Boko Haram, during the weekly general audience on March 8, 2023 at St. Peter’s square in The Vatican. (Photo by Handout / VATICAN MEDIA / AFP)

Maria e Janada

Arrivano proprio dal Trauma Center di Maiduguri le storie di Maria e Janada, due giovani donne vittime di Boko Haram che, nel marzo scorso, sono state in Italia. Esse hanno incontrato papa Francesco per fare conoscere al mondo che cosa significhi essere cristiane oggi in Nigeria, quale scelta difficile sia resistere alle violenze per mantenere la propria fede in Cristo e non abbracciare, come i terroristi chiedono, quella islamica.

Le abbiamo incontrate a Roma, in occasione dell’8 marzo, la giornata internazionale della donna. Minute, con lo sguardo triste, una voce flebile che si sentiva a fatica. La testa bassa per il dolore e la paura delle violenze subite, e anche la vergogna.

Nei loro occhi abbiamo visto soprattutto le lacrime che, a distanza di mesi dalla loro liberazione, Maria e Janada non riescono ancora a trattenere.

Maria Joseph, 19 anni, e Janada Markus, 22, sono state vittime di Boko Haram, il gruppo jihadista che imperversa in Nigeria grazie anche alla sostanziale inerzia delle autorità locali.

Maria ha vissuto nel bosco con i terroristi per nove anni: «Avevo sette anni – ci ha raccontato -. Sono arrivati nel nostro villaggio in silenzio, senza sparare, e ci hanno catturati tutti. Io sono stata messa in una gabbia. Poi ci hanno insegnato a leggere il Corano». Le hanno dato un nome islamico e hanno anche provato a farla sposare con uno dei capi del gruppo terrorista, ma lei si è rifiutata. Dopo nove anni di prigionia, violenze e torture è riuscita a scappare.

Janada Markus aveva invece 17 anni quando è stata rapita da Boko Haram: era in ospedale, dove aveva appena subito un intervento. «Mi hanno portata via dall’ospedale che non mi ero neanche ripresa dall’anestesia. Mi sono risvegliata nelle loro mani». Dopo un po’ è riuscita a scappare, ma in seguito è stata di nuovo catturata. È scappata un’altra volta ed è stata ripresa.

Ci ha raccontato che il secondo rapimento l’ha subito mentre era nella sua fattoria con la famiglia: «All’improvviso siamo stati circondati dagli uomini di Boko Haram. Hanno puntato un machete contro mio padre e gli hanno detto che ci avrebbero rilasciati se lui avesse fatto sesso con me davanti a tutti. Lui si è rifiutato, e loro gli hanno tagliato la testa». La terza volta è accaduto a novembre del 2020, quando i miliziani di Boko Haram l’hanno rapita e torturata per sei giorni.

Campo UNHCR per sfollati interni. Maiduguri, Stato del Borno, Nigeria. novembre 2020

Segni di rinascita e speranza

Entrambe, Maria e Janada, ora sono accolte dal Trauma Center di padre Fidelis. «Quando sono arrivate non riuscivano neanche a parlare», racconta il sacerdote.

Ma anche lui, a volte, davanti alle storie che incontra, resta senza parole e si chiede: «Perché l’uomo è diventato un lupo, un animale? Questi terroristi fanno violenze in nome di una religione? Non è possibile: la religione ci aiuta ad avvicinarci a Dio, non a infliggere sofferenze. È il male, questo, non è Dio».

Il sacerdote nigeriano, che dopo avere studiato alla Pontificia Università Gregoriana a Roma, ha deciso di tornare nella sua terra proprio per aiutare i cristiani perseguitati, ammette: «La mia fede è stata provata. A volte mi chiedo dove sia Dio. In quei momenti, però, cerco di avere fiducia e gli chiedo aiuto. E Lui, nel silenzio e nella sofferenza, mi risponde attraverso le persone che cerchiamo di aiutare».

Le ragazze accolte del Trauma Center, infatti, tornano un po’ per volta, cura su cura, a riprendere in mano la loro vita.

Alcune vengono anche aiutate a trovare un lavoro: imparano a cucire, a cucinare, a realizzare cosmetici con prodotti locali.

«Piano piano i segni del trauma cominciavano a sparire – ci ha detto Maria -, e ho iniziato a relazionarmi con gli altri. Potevo parlare, e quello che i terroristi mi avevano inculcato nella testa ha cominciato a sparire».

Janada, invece, dopo aver lentamente superato il trauma, ha chiesto di andare a scuola: oggi studia al college e sogna di diventare un medico specializzato in medicina tropicale.

da un campo per sfollati nel nord est della nigeria. Novembre 2020

Rapimenti e indifferenza

In Occidente, il tema della persecuzione dei cristiani fatica a entrare nel dibattito generale, «come se la libertà religiosa fosse un diritto di serie B», argomenta Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) Italia. In Nigeria ci sono violenze, ma anche frequenti sequestri di religiosi e cristiani che poi, in molti casi, finiscono in omicidi. Secondo i dati diffusi a fine marzo dalla Conferenza episcopale nigeriana, dal 2006 al 2023 nel paese sono stati rapiti 53 sacerdoti, dodici aggrediti e sedici uccisi: un totale di 81 sacerdoti in diciassette anni.

È il nord della Nigeria l’area dove i rapimenti sono legati alla presenza di varie formazioni terroristiche, a iniziare da Boko Haram. Da questo gruppo jihadista, a causa di diverse scissioni, ne sono nati altri, il più importante dei quali è l’Islamic state of west Africa province (Iswap).

Il fenomeno dei rapimenti, però, negli ultimi anni si è esteso a diverse altre zone della Nigeria, compreso il sud (a maggioranza cristiana, ndr).

In tutti i casi non è facile distinguere tra i sequestri compiuti dai terroristi e quelli compiuti da gruppi criminali che cercano solo un ritorno economico. Terroristi e banditi hanno modi simili di operare: assaltano villaggi saccheggiandoli alla ricerca di cibo e bestiame, e rapiscono le persone. L’unica differenza è che i banditi comuni non rivendicano le loro azioni su basi ideologiche.

Sta di fatto che la comunità cristiana, a partire dai sacerdoti, è la più bersagliata dai sequestri. «Ma su queste vicende impera il silenzio – osserva Monteduro -. Non sono considerate meritevoli di attenzione da parte della comunità internazionale e della maggior parte dei media occidentali. Ma soprattutto sono ignorate dalle autorità civili, politiche e militari della stessa Nigeria. A urlare il proprio dolore, a chiedere aiuto, è solo la Conferenza episcopale della nazione».

Che siano estremisti appartenenti all’etnia dei fulani, o terroristi aderenti a gruppi jihadisti come Boko Haram, oppure semplici gruppi criminali interessati al riscatto, importa poco. Ciò che importa, spiega Monteduro, è che «in Nigeria oggi è terribilmente pericoloso professare la propria fede. Importa la sostanziale incapacità e inadeguatezza delle autorità e istituzioni federali e locali. Importa l’altrettanto sostanziale disinteresse che registriamo in Europa.

Ora, poiché non possiamo e non dobbiamo considerarlo un fenomeno irreversibile, abbiamo il compito far sentire in Occidente, in quell’Europa dalle radici cristiane, la nostra indignazione. Certamente sarà un modo sincero per esprimere la nostra vicinanza alle vittime».

Burned villages and fields, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps, from the UNHAS helicopter transporting humanitarian workers to the camps

Al top della classifica

Nel gennaio 2023 Porte aperte (un’organizzazione evangelica, www.porteaperteitalia.org ndr) ha pubblicato il suo ultimo dossier sulla libertà religiosa nel mondo. La Nigeria risulta al sesto posto nella classifica dei paesi che negano questo diritto umano fondamentale, soprattutto per i cristiani, dopo la Corea del Nord, la Somalia, lo Yemen, l’Eritrea e la Libia. «La Nigeria sale ancora nella classifica – si legge -, confermandosi la nazione dove si uccidono più cristiani al mondo: 5.014, mai così tanti».

Nonostante i cristiani siano quasi metà dei circa duecento milioni di abitanti del paese, ci sono zone, come ad esempio lo Stato di Kaduna nel Nord, dove è impossibile costruire nuove chiese o insegnare il catechismo.

«I cristiani vivono sotto schiavitù», dice l’arcivescovo di Kaduna, Matthew Manoso Ndagoso.

In alcuni stati a maggioranza musulmana vige la Sharia (la legge islamica), ed è sempre più difficile costruire chiese o altre strutture per i cristiani negli stati settentrionali di Kano, Sokoto, Katsina e Zamfara.

«Da oltre sessant’anni – aggiunge l’arcivescovo – non viene rilasciato ufficialmente nessun certificato alle comunità cristiane per costruire una chiesa. Solo nei primi anni Novanta, quando ci fu un governatore cattolico, venne rilasciato un singolo permesso.

In questa parte del nostro paese, nonostante le garanzie della Costituzione, i cristiani non sono liberi di praticare la loro fede. Perché se non posso costruire una chiesa, se non posso comprare un terreno, non potete dirmi che sono libero. Ai bambini cristiani non si può insegnare la loro religione. Nelle scuole non vengono assunti insegnanti cristiani, ma nelle stesse scuole il governo non solo permette l’insegnamento dell’islam, ma vengono anche utilizzati fondi pubblici per assumere insegnanti per insegnare la fede islamica. C’è una chiara discriminazione e persecuzione», conclude.

“Sono venuti a bussare molto forte alla nostra porta. Ero così spaventato che stavo tremando troppo per aprire la porta. Alcuni di loro sono entrati con la forza e hanno fatto irruzione in casa mentre gli altri hanno scavalcato la recinzione ed sono entrati. Hanno ucciso mio marito e tutti i miei figli tranne uno”.
Asma, 45 anni, trema ancora mentre ricorda quello che ha subito due anni fa. Dopo il brutale attacco, è fuggita dal suo villaggio nel nord-est della Nigeria ed è diventata una delle 1,7 milioni di persone sfollate all’interno del paese a causa della violenza. Classificata come molto vulnerabile, Asma riceve un sostegno finanziato dall’UE dall’NRC – Norwegian Refugee Council per aiutarla a sbarcare il lunario. © Unione europea 2018 (foto di Samuel Ochai)

Un grido inascoltato

A lanciare il proprio grido di aiuto è, ogni volta che si verifica un crimine contro la comunità cristiana, la Conferenza episcopale nigeriana.

Come il 5 giugno di un anno fa, quando un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco e lanciato ordigni contro i fedeli riuniti nella chiesa di San Francesco a Owo, nello stato di Ondo, mentre si celebrava la veglia di Pentecoste. Una cinquantina i morti, tra i quali diversi bambini.

Il presidente dei vescovi cattolici nigeriani, monsignor Lucius Ugorji, sottolineava dopo quell’attacco che «nessun luogo sembra essere al sicuro nel nostro paese, nemmeno entro i sacri recinti di una chiesa. Condanniamo con la massima fermezza lo spargimento di sangue innocente. I criminali responsabili di tale atto sacrilego e barbaro dimostrano la loro mancanza del senso del sacro e del timore di Dio».

«Il governo – ha aggiunto ancora – dovrebbe assumersi la sua responsabilità primaria di garantire la vita e la proprietà dei suoi cittadini. Il mondo ci sta guardando. Soprattutto, anche Dio ci guarda».

Papa Francesco, il giorno dopo, ha inviato un messaggio ai vescovi: «Prego per la conversione di coloro che sono accecati dall’odio e dalla violenza e perché possano scegliere la strada della pace e della giustizia».

Appelli che si ripetono ciclicamente dopo ogni massacro o rapimento. Ma restano di fatto inascoltati, non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale.

Manuela Tulli*

 *Giornalista dell’Ansa, si occupa di Vaticano e informazione religiosa. Autrice, tra gli altri, di Eroi nella fede (Acs), sui cristiani in Egitto, e de Il grande tema del senso della vita (Shalom), per la collana dei Quaderni del Giubileo del Dicastero vaticano per l’Evangelizzazione.

Binta Ali is a beneficiary of emergency relief items to displaced families hosted at a camp in Borno State, in north-east Nigeria. © 2018 European Union (photo by Samuel Ochai)




La fine dell’acqua


Consumi eccessivi, inquinamento, cambiamenti climatici. L’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Già oggi, oltre due miliardi di persone non ne dispongono a sufficienza. Senza immediati cambi di direzione la situazione è destinata ad aggravarsi.

Fino a ieri ci preoccupavamo per la fine del petrolio, oggi ci preoccupiamo per la fine dell’acqua. Con una differenza: i servizi resi dal petrolio possono essere sostituiti da altre risorse, quelli forniti dall’acqua sono unici.

Secondo il World resources institut (wri.org),17 nazioni, ospitanti un quarto della popolazione mondiale, si trovano in una condizione di altissimo livello di stress idrico, in quanto agricoltura, industria e abitazioni assorbono ogni anno più dell’80% dell’acqua disponibile. Fra essi la Tunisia, la Turchia, perfino la Spagna. Altri 40 paesi, che ospitano un altro terzo della popolazione mondiale, sono ad alto livello di stress idrico, in quanto consumano più del 40% delle loro disponibilità di acqua. Fra essi anche l’Italia, gli Stati Uniti, l’Australia, la Cina, l’India. In conclusione, metà della popolazione mondiale vive una severa scarsità d’acqua per almeno una parte dell’anno.

Visibile o nascosta

Di per sé l’acqua è una risorsa rinnovabile che, in teoria, non dovrebbe scarseggiare. Ma, come ogni altra risorsa, ha anch’essa i suoi ritmi e le sue regole che, se violate, mandano in crisi l’intero equilibrio. Quando parliamo di acqua dolce il nostro immaginario corre ai fiumi e ai laghi, ma il 99% dell’acqua dolce presente sul nostro pianeta è nascosta: per il 69% si trova nelle calotte polari e nei ghiacciai di montagna, ed è praticamente inutilizzabile. Un altro 30% si trova nel sottosuolo, ed è da lì che estraiamo gran parte dell’acqua che consumiamo. Ad esempio, le acque sotterranee forniscono il 49% di tutta l’acqua impiegata a livello mondiale per usi domestici e il 25% di quella utilizzata per l’irrigazione dei campi. Anche in Italia le acque del sottosuolo giocano un ruolo fondamentale, dal momento che forniscono l’85% dell’acqua potabile.

Anche sotto il Sahara esistono vaste riserve di acqua fino a ora inutilizzate perché poste a grande profondità. La loro formazione risale a migliaia di anni fa quando, per varie ragioni, rimasero intrappolate in mezzo a strati di materiali impermeabili. Per questo sono dette falde fossili che né crescono né diminuiscono di livello in quanto prive di comunicazione con la superficie terrestre. Quelle che invece utilizziamo per i nostri consumi, oltre a trovarsi a minori profondità, hanno una conformazione geologica che permette il loro continuo ricarico con acque di superficie, siano esse piogge o acque percolanti da fiumi e laghi. Ma i tempi di ricarica solitamente sono piuttosto lenti, per cui bisogna fare molta attenzione a quanta acqua si preleva. Quanto ai fiumi e ai laghi, i tempi di ricarica sono più veloci ma, in caso di fenomeni meteorologici avversi, la loro situazione può farsi critica da un mese all’altro perché il loro livello è direttamente dipendente dalla quantità di piogge che cadono e da come si comportano le nevi.

Oggi la sete di acqua da parte dell’umanità è più che raddoppiata rispetto agli anni Sessanta come conseguenza dell’aumento della popolazione e del desiderio di crescita economica. E mentre l’agricoltura assorbe il 70% di tutta l’acqua prelevata, e l’industria il 19%, anche l’acqua consumata in ambito domestico sta crescendo considerevolmente.

Secondo il World resources institut dal 1960 al 2014 l’aumento sarebbe stato del 600%, pur registrando ancora due miliardi di persone senza accesso ad acqua sicura e quattro miliardi di individui senza adeguati servizi igienici. Foto di un mondo attraversato da disuguaglianze a ogni livello. Tant’è che, mentre in America il consumo medio di acqua in ambito domestico è di 370 litri pro capite al giorno e in Europa di 124 litri, in Africa subsahariana arriva a malapena a 15 litri.

La siccità si espande e aggrava. Foto Jody Davis-Pixabay.

Inquinamento e clima

Il consumo è solo uno degli aspetti che incidono sulla disponibilità di acqua. Un altro è l’avvelenamento di fiumi, laghi e falde. Al primo posto sul banco degli imputati c’è il nostro assetto produttivo, sia di tipo industriale che agricolo. Un dossier pubblicato nel 2020 da Legambiente, dal titolo «H2O la chimica che inquina l’acqua», rivela che, dal 2007 al 2017, in Italia è stato immesso nei corpi idrici un totale di ben 5.622 tonnellate di sostanze chimiche riconducibili a metalli pesanti, sostanze organiche clorurate e pesticidi. Non c’è regione d’Italia che non abbia da raccontare la propria storia di avvelenamento. Il rapporto di Legambiente ne cita 46 relative agli ultimi 30 anni. Di particolare peso l’inquinamento da pesticidi (erbicidi e antiparassitari) che, essendo cosparsi direttamente sui suoli e nell’aria, finiscono più facilmente nei corsi d’acqua e nelle falde, grazie alla percolazione e all’effetto dei venti.

L’indagine condotta dall’Ispra nel 2020 su 4.388 punti di campionamento, ha trovato la presenza di pesticidi nel 55,1% delle acque superficiali monitorate e nel 23,3% delle acque sotterranee. Le sostanze rinvenute sono 183, rappresentate per la maggior parte da erbicidi. Fra essi anche l’atrazina, proibita già dal 1992, a dimostrazione di come gli inquinanti persistano a lungo nell’ambiente.

Intanto nuove minacce si affacciano all’orizzonte. In particolare la contaminazione da microplastiche che non riguarda solo i mari, ma anche i fiumi e le falde sotterranee. A questo riguardo la legge non ha ancora assunto iniziative significative forse perché non sa cosa fare.

Tuttavia, la minaccia di ultima generazione che più preoccupa si chiama cambiamenti climatici. Com’è noto, a causa dell’accumulo di anidride carbonica in atmosfera provocato dal nostro consumo eccessivo di combustibili fossili e dal numero spropositato di allevamenti animali che rilasciano enormi quantità di metano, negli ultimi 100 anni si è avuto l’aumento della temperatura terrestre di 1,1 gradi centigradi con ripercussioni sui venti, sugli spostamenti di aria fredda e aria calda e quindi sulle piogge. Nel 2015 tutti i paesi del mondo firmarono lo storico accordo di Parigi per impegnarsi ad agire per non fare crescere la temperatura terrestre oltre il grado e mezzo centigrado. Ma, a distanza di sette anni, non si vedono ancora passi significativi ed è alta la paura che il limite venga oltrepassato facendo avverare ciò che i climatologi hanno sempre pronosticato. Ossia il verificarsi di eventi estremi con zone del mondo che andranno incontro a inondazioni per eccesso di piogge e zone che invece andranno incontro a processi di desertificazione per assenza di precipitazioni. La zona del Mediterraneo, assieme all’Africa subsahariana e a vaste aree delle Americhe, sono le aree in cui le piogge si diraderanno sempre di più, come del resto l’Italia sta già sperimentando.

Senza pioggia, senza neve

L’Istat certifica che, nel 2020, la precipitazione totale annua nei capoluoghi di provincia è stata pari a 769 mm, in media 94 mm in meno sul valore medio 2006-2015. Differenze negative si registrano in 79 città con in testa Napoli (meno 423,5 mm), Catanzaro (meno 416), Pordenone (meno 401,3).

Sull’arco alpino, sopra il nord est e sulla pianura Padana, non cade seriamente acqua da oltre due anni. Nell’inverno appena trascorso la neve si è ridotta del 75% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Le temperature medie si sono alzate di oltre tre gradi e i ghiacciai si stanno squagliando.
Secondo il Comitato glaciologico italiano, negli ultimi 50 anni la superficie dei ghiacciai del nostro paese ha registrato una perdita del 30% con gravi conseguenze per la ricarica dei fiumi, soprattutto durante la stagione estiva. In questo 2023, già a febbraio, il Po ha registrato un calo della portata del 70% a causa della riduzione massiccia di piogge.

Di fronte ai problemi di difficile soluzione, la politica ha la tendenza a mettere la testa sotto la sabbia e, quando proprio deve fare qualcosa, si limita ad aspetti contingenti. Ad esempio, nell’aprile 2023, di fronte a una crisi idrica che aveva già procurato milioni di euro di danni all’agricoltura, il governo italiano ha deciso di intervenire nominando un commissario straordinario fondamentalmente incaricato di aumentare le riserve ripulendo dighe e invasi di acqua. E volendosi spingere un po’ più in là, attivando altri desalinizzatori oltre quelli già esistenti. Ma basterà? E soprattutto: funzionerà? La ripulitura degli invasi non aumenta la disponibilità di acqua, piuttosto cerca di evitare carenze catastrofiche durante i mesi più siccitosi. Quanto ai desalinizzatori, essi aumentano senz’altro la disponibilità d’acqua, ma a quale costo? Per togliere il sale dall’acqua marina ci vuole energia elettrica, una risorsa energetica a cui si fa sempre più riferimento per qualsiasi tipo di attività: non solo l’illuminazione, l’alimentazione di elettrodomestici e delle attività industriali, ma anche il funzionamento dei computer, il riscaldamento, la mobilità. Un’energia elettrica che dovremo ottenere esclusivamente da fonti rinnovabili, ossia sole e vento, se non vorremo finire travolti dai cambiamenti climatici o vivere nell’incubo degli incidenti nucleari. Ma riusciremo a produrne abbastanza per un fabbisogno che cresce?

In Europa l’energia elettrica da sole e vento rappresenta appena il 22% del totale, dunque c’è ancora molta strada da fare anche solo per sostituire i consumi attuali. E quanti pannelli e quante pale eoliche serviranno quando l’energia elettrica dovrà sostituire anche il gas e la benzina che utilizziamo per il riscaldamento domestico e per i motori delle nostre auto? Nel caso dei desalinizzatori, poi, c’è anche il problema dei sali che accumulano dietro di sé. Dove buttarli? In mare è la prima risposta. Ma per quanto tempo vorremo continuare a fare scelte di cui non conosciamo gli effetti nel lungo periodo? Evidentemente, la lezione dei cambiamenti climatici non ci ha ancora insegnato nulla.

Il ghiacciaio del Denali in Alaska. Anche qui i ghiacciai sono in ritirata. Foto Joris Beugels-Unspash.

L’acqua persa per strada

In ogni caso, prima di scomodare il mare, faremmo bene a recuperare l’acqua che perdiamo. Quella delle tubature idriche, prima di tutto. L’Istat certifica che, a causa di tubature fatiscenti, in Italia perdiamo il 42,2% di tutta l’acqua immessa in rete. Il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno. Secondo studi citati dall’Istituto Ambrosetti, l’ammodernamento del sistema idrico italiano richiede investimenti per 65 miliardi di euro, ma il Pnrr ne ha stanziati solo 2,9.

Fra le acque che perdiamo non dobbiamo dimenticare quelle piovane che scivolano sui nostri tetti e finiscono nelle fogne. Si tratta di enormi masse di acqua che potremmo recuperare dotando le case di cisterne. Una pratica che sta tornando in uso in vari paesi europei come mostrano i casi di Germania, Francia, Austria. Acqua utilizzata per annaffiare i giardini, per lavare le auto, ma anche per gli scarichi dei Wc.

Va comunque tenuto conto che nessun rimedio rispetto all’acqua può prescindere da un altro imperativo che è quello di ridurre, ricordandoci che consumiamo acqua non solo quando ci laviamo o cuciniamo, ma anche quando ci nutriamo, ci vestiamo, ci illuminiamo. Ci vogliono 1.500 litri di acqua per ottenere un etto di carne di manzo, 2mila litri per una maglietta di cotone, 14mila litri per un paio di stivali in cuoio. Se mettiamo insieme tutta l’acqua che sta dietro a ciò che consumiamo viene fuori una media giornaliera di 5mila litri al giorno pro capite per noi abitanti dell’emisfero benestante.

Il dopante della tecnologia

Dunque, l’acqua si salva anche accettando di produrre e consumare di meno in ogni ambito del nostro vivere civile. Ma da quest’orecchio non ci sentiamo, non solo perché siamo attaccati a un’idea di benessere che si misura solo in termini di consumi, ma anche perché la crescita è il motore di questo sistema, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale come mostra il tema dell’occupazione.

Non volendo affrontare il vero nocciolo della questione, ci arrampichiamo sugli specchi della tecnologia ormai elevata a livello di idolo: desalinizzare l’acqua marina, sequestrare l’anidride carbonica, riprodurre il sole in laboratorio.

Ma la tecnologia da sola non ci salverà. Al contrario, rischia di diventare il dopante che ci conduce alla morte. Meglio accettare il senso del limite e cominciare a chiederci come riorganizzarci in modo da garantire una vita dignitosa a tutti utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando quanto basta. Dobbiamo affrettarci, il tempo stringe.

Francesco Gesualdi

In Italia, le tubature idriche sono un anello debole della distribuzione dell’acqua: troppo perdite. Foto Daniel Kirsch-Pixabay.

 




«La fotografia della Consolata»


Dal bollettino del santuario condividiamo – nello stile originale – il racconto di come sia stata realizzata la prima «esatta riproduzione» del quadro della Madonna tanto amata a Torino e poi considerata fondatrice dei missionari e missionarie che da lei prendono il nome.

Coll’animo pieno di gioia diamo ai nostri lettori la bella notizia, e la stampiamo in capo al periodico: ben presto, fra una quindicina di giorni al più, i divoti di Maria potranno contemplare, ammirare, possedere la vera fotografia della Madonna della Consolata.

– Oh come mai! – chiederà taluno stupito a quest’annunzio – non esisteva già la riproduzione esatta della cara e venerata Immagine? A centinaia, a migliaia corrono tuttodì i lavori litografici, eliotipici, fotografici con l’epiteto di vera effigie di Maria SS. della Consolata: tra tutti questi non avremo la copia genuina del quadro miracoloso? –

Domanda naturalissima, alla quale rispondiamo: – Esisteva e non esisteva. – Un po’ di storia spiegherà per noi. Il desiderio di avere riprodotta, di portar via con sé la soave figura della Vergine Consolatrice è antico, crediamo, quanto antica è la divozione alla Celeste Patrona di Torino e del Piemonte. Ma parecchi erano gli ostacoli che si opponevano al compimento del pio desiderio. L’antichità del quadro, il conseguente affievolimento dei colori, la sua posizione, la gelosa custodia in che era tenuto, tutto si opponeva, tutto concorreva a renderne difficile, quasi impossibile la esatta riproduzione a mano libera. Ma non per questo ristavano i divoti dal provare e riprovare. L’invenzione ed il primo perfezionarsi dell’arte fotografica parvero schiudere finalmente l’adito alle speranze più fondate, e non mancò chi tosto s’accingesse all’opera.

Nel 1872 il Direttore dell’Ospizio delle Suore Cieche di S. Paolo a Parigi, ottenuta una grazia segnalatissima ad intercessione di Maria Consolatrice (Vedi N. 6 del Periodico), ne fa fotografare, col permesso dell’Arcivescovo di Torino, la divota Immagine dall’avv. Pietro Ferdinando Giani; porta una copia della fotografia con sé a Parigi; un’altra è umiliata ai piedi di S. S. Pio IX, che, graditala, di suo pugno vi scrive su parole di benedizione e di lode agli autori. Di questa prima prova, quantunque infelicissima, a migliaia andarono a ruba le copie.

Nel 1879 il Rettore del Santuario, Canonico Bartolomeo Roetti di v. m., per ottenere un risultato migliore, dà incarico di un nuovo tentativo di riproduzione al fotografo distintissimo signor Berra, che, quantunque armato di apparecchi buoni e di migliore volontà e valore artistico, non riesce purtroppo nell’intento. L’antichità, come dicemmo, del quadro, la debolezza delle tinte, i colori antifotogenici che abbondano nel dipinto, il poco o nessun distacco dei panneggiamenti dallo sfondo, fecero sì che nel fototipo (lastra negativa) non si ebbe che una figura molto indeterminata, disturbata da una grande quantità di macchie e macchiette tanto da parere, diremmo una ragnatela. Furono perciò necessari molti ritocchi, i quali resero la riproduzione fotografica, che è quella attualmente in commercio, molto lontana dal vero.

Il desiderio dei divoti rimaneva perciò vivissimo ed a soddisfarlo finalmente ha pensato e provvisto l’attuale Rettore, invitando a ritrarre la taumaturga effigie l’egregio avvocato Secondo Pia, che i numerosi e insuperabili lavori artistici e l’insperata riproduzione della SS. Sindone resero conosciutissimo ed ammirato dagli intelligenti e dal popolo.

Ed egli vi si accinse con tutto l’amoroso zelo e l’accurato studio che la nobiltà e la difficoltà dell’impresa richiedevano, e, come già per la SS. Sindone, senza altro corrispettivo che la riconoscenza dei divoti, le cui preghiere gli attireranno, siam certi, le più elette benedizioni della Consolata.

Di due sorta erano le difficoltà che gli stavano di fronte: l’illuminazione conveniente del quadro; le tinte poco fotografabili.

A vincere la prima, col permesso di S. E. l’Arcivescovo, rotti i sigilli alla presenza dei testimoni, la miracolosa effigie fu tolta dalla sua cornice d’argento e posta in un ambiente ad arte illuminato, inondato di luce gialla. Chi non è dentro le segrete cose dell’arte fotografica non potrà mai immaginarsi quante cure e minuziose attenzioni siano richieste per evitare su di un quadro antico da ritrarre i riflessi, le luci false, la disuguaglianza d’illuminazione che si deve produrre sulle sue diverse parti.

A vincere la seconda, invece delle lastre fotografiche ordinarie (sulle quali certi colori producono effetti esagerati, altri troppo deboli, altri contrari affatto all’impressione che fanno nell’occhio) furono adottate quelle di invenzione recentissima dette ortocromatiche, le quali ricevono l’impressione delle tinte con la stessa intensità graduale e con la stessa tonalità con cui l’occhio le percepisce, non dànno assolutamente, per questo lato, effetti falsi, non richiedono ritocchi lunghi e delicati sul fototipo.

Con la stessa macchina che servì per la SS. Sindone, producente fotografie di cm. 60 x 50, si fecero parecchie pose, nessuna delle quali richiese meno di quattro ore di esposizione; e finalmente, dopo un assiduo lavoro di più giorni, si riuscì ad ottenere una copia fotografica così buona da superare le aspettative degli intelligenti. L’avvocato Secondo Pia, fotografo della Sindone, sarà anche d’ora innanzi il fotografo della Consolata!

Tra l’una posa e l’altra la cara effigie venne sempre ricollocata alla venerazione dei fedeli, che con le loro preghiere, senza saperlo, hanno certamente concorso alla felice riuscita del difficile lavoro.

Ed ora, data la bella notizia, non ci rimane che coronarla con un augurio.

La figura, fedelmente ritratta della nostra dolce e soave Consolata, presto entri in tutte le case, in tutti gli istituti, in tutte le famiglie, in tutte le camere della città e della campagna, nel Piemonte, nell’Italia, e porti seco la benedizione materna di Maria. Affissandosi in Lei ritrovi ciascuno la forza del bene, la consolazione nel dolore, la speranza vivace del Paradiso!

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Abbiamo riportato alla lettera il testo come pubblicato sul periodico «La Consolata» nel numero di dicembre del suo primo anno di vita, il 1899.
È una pagina davvero speciale di storia della fotografia, ma soprattutto di amore alla
Consolata.

Il testo non è firmato, ma il direttore della rivista è il canonico Giacomo Camisassa, con l’aiuto di Gilardi Antonio, gerente responsabile.

a cura di Gigi Anataloni

 




Un missionario medico per amore


Dopo due anni di attesa e rinvii a causa della pandemia, il missionario comboniano è stato finalmente riconosciuto beato il 20 novembre scorso, durante una celebrazione eucaristica nella sua missione di Kalongo, nel nord dell’Uganda. Il suo nome compare ora nella schiera di Santi e di Beati che la Chiesa già venera.

Medico missionario comboniano, spese la sua vita a servizio degli ultimi facendosi interprete del Mandatum novum conferito da Nostro Signore agli Apostoli duemila anni fa. Fonte inesauribile di idee e di iniziative, padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), oltre che interlocutore mai banale e generoso di spunti e suggestioni, non temeva di parlare della morte, ma lottava per tenerla lontana dai suoi pazienti, sfidando ogni sorta di malattia. Per lui la medicina era un modo concreto per rendere intelligibile la Buona Notizia e, da questo punto di vista, la testimonianza da lui manifestata in sala operatoria o in corsia era, a dir poco, strabordante.

Appassionato del Regno di Dio, era pienamente consapevole delle proprie responsabilità. Emblematico è quanto egli scrisse ai suoi cari: «Le persone devono sentire l’influsso di Gesù che porto con me; devono sentire che in me c’è una vita soprannaturale espansiva ed irradiantesi per sua natura».

Il servizio agli ammalati per lui era una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione. Come ha scritto pertinentemente di lui padre Arnaldo Baritussio, postulatore della sua causa: «Padre Ambrosoli ha certamente contribuito a inserire a pieno titolo il servizio medico nella prassi evangelizzatrice, che allora era soprattutto intesa come annuncio attraverso la Parola e i sacramenti in vista della fondazione di una Chiesa locale. Pur senza mettere in discussione questa opzione di fondo, ha contribuito con l’offerta della sua professionalità medica ad allargare il concetto e la realtà dell’annuncio. Il servizio agli ammalati è una modalità di annuncio altrettanto nobile e necessaria quanto quella della predicazione».

Medico e missionario

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, in provincia di Como, era uno dei figli del fondatore dell’omonima azienda del miele. Dal 1942 al 1950, il giovane Ambrosoli completò la sua formazione classica e professionale e pose le basi di una solida spiritualità che aveva già avuto modo di manifestarsi nell’apostolato tra i giovani dell’Azione Cattolica.

Con grande zelo, si iscrisse alla facoltà di medicina con il desiderio di partire per la missione: «Dio è amore, c’è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore»,  spiegò ai propri familiari.

Nel 1949 fece visita al superiore dei Comboniani di Rebbio (Como) con l’intento di mettere a servizio della missione ad gentes la sua qualifica di medico. Ricevuto l’assenso, chiese un periodo di riflessione prima di decidere definitivamente di entrare nella congregazione. Conseguita la specializzazione in medicina tropicale al «Tropical Hygiene» di Londra, con entusiasmo e senza rimpianti, si lasciò alle spalle l’agio della condizione familiare e una carriera medica che si prospettava brillante in patria.

Fece il suo ingresso nel noviziato comboniano di Gozzano, in provincia di Novara, il 18 ottobre 1951, e quattro anni dopo, il 17 dicembre 1955, venne ordinato sacerdote dall’allora arcivescovo di Milano e futuro papa Giovanni Battista Montini. Questo periodo segnò propriamente il completamento della formazione religiosa e teologica di padre Ambrosoli.

Uganda

Il 10 febbraio del 1956 partì per l’Uganda, con destinazione Gulu, capoluogo dei territori nord del Paese. Da qui si trasferì a Kalongo nell’East-Acholi, mentre seguiva e terminava gli studi dell’ultimo anno di teologia al seminario intervicariale di Lachor a Gulu. Il suo servizio missionario si svolse in quella porzione del popolo Acholi che occupava l’estremo Est dell’attuale arcidiocesi di Gulu.

La geografia di quelle terre, è bene rammentarlo, è anni luce distante dal nostro immaginario non foss’altro perché rappresenta un unicum all’interno della stessa Africa subsahariana. Stiamo parlando dell’Uganda settentrionale, un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.

L’altitudine media di questo territorio si aggira attorno ai mille metri sul livello del mare, ma questo non impedisce che sia una delle zone più calde dell’Uganda. A settentrione la pianura s’innalza leggermente verso le montagne di Ogoro e di Paloga, che servono come confine naturale con il Sudan meridionale; si tratta di alture che un tempo venivano utilizzate come rifugio dai ribelli. Il paesaggio è comunque seducente agli occhi di qualunque viaggiatore. Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge, dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.

Kalongo

È proprio nel settore orientale di questo territorio, a valle di un’enorme e suggestiva spina vulcanica di granito con un dislivello di 500 metri, il monte Oret, che si erge la piccola e ospitale cittadina di Kalongo. è qui che padre Ambrosoli trascorse il resto della sua vita, esattamente 31 anni, dal 19 febbraio 1956 al 13 febbraio 1987.

Quando vi giunse, trovò un piccolo centro di maternità e un dispensario che trasformò in un vero e proprio ospedale. Nel 1959 fondò, sempre a Kalongo, con l’aiuto della consorella comboniana suor Eletta Mantiero, la Scuola per ostetriche e infermiere. Nel 1972 poi, si fece carico anche dei lebbrosari di Alito e Morulèm.

Gli unici intervalli in cui si assentò da Kalongo, furono i brevi periodi rappresentati dalle vacanze, spesso trasformate in autentici tour de force per accrescere le sue molteplici competenze nel campo chirurgico e procurare fondi per il complesso ospedaliero. La comboniana suor Caterina Marchetti descrive così una giornata di lavoro di padre Ambrosoli: «Incominciava con la sala operatoria verso le 7.30 del mattino e finiva alle 13.30 e a volte anche oltre. Rientrava per il pranzo; poi una breve pausa di riposo e quindi in dispensario a visitare gli ammalati fino alle 8 di sera. Subito dopo rivedeva gli operati della mattina e poi andava a cena. In seguito lo si vedeva recitare il rosario camminando nel cortile della missione, poi andava in chiesa dove rimaneva parecchio tempo. Prima di andare a letto rivedeva i conti o scriveva lettere. Le sue ore di sonno erano molto poche. Spesso di notte lo chiamavamo in maternità per emergenze di ostetricia. Uno si domanda come facesse, anche perché molto tempo lo dedicava alla preghiera».

Aneddoti

La fama di questo medico missionario si diffuse un po’ ovunque, non solo in territorio Acholi, ma anche tra altri gruppi etnici della regione come i Lango, i Kuman e i Teso. A questo proposito sono numerosi gli aneddoti che ne descrivono la popolarità.

Chi scrive, ad esempio, una volta ricevuta l’ordinazione diaconale, nel maggio del 1985, un giorno si recò per impartire i battesimi in un villaggio, nei pressi del lebbrosario di Alito, a un folto gruppo di catecumeni. Il primo di loro pretese di essere battezzato con il nome di «Doctor Ambrosoli». All’obiezione se non fosse più conveniente essere chiamato «Giuseppe», si oppose strenuamente perché era stato il «Doctor Ambrosoli» a salvargli la vita nel suo ospedale. Sta di fatto che da quelle parti sono molti coloro che portano quel nome.

Ciò che colpiva maggiormente i pazienti di Kalongo era la straordinaria capacità di padre Ambrosoli di infondere speranza. Non si trattava di semplice coerenza professionale, ma di una partecipazione totale, dal profondo del proprio essere, a quello che stava testimoniando, tanto da suscitare nella gente un religioso rispetto nei suoi confronti. D’altronde era un contemplativo con l’anima e con il cuore.

«Ajwaka Madid»

Inizialmente venne soprannominato «Ajwaka Madid», lo «stregone bianco». Poi, per la sua carica spirituale, venne chiamato «medico della carità».

Il servizio missionario di padre Ambrosoli venne scandito da diversi avvenimenti che segnarono positivamente e anche tragicamente la storia d’Uganda della seconda metà del Novecento. Visse infatti la parte finale della stagione coloniale britannica, a cui seguirono l’indipendenza, l’ascesa al potere di Milton Obote, l’avvento del dittatore Idi Amin Dada, il ritorno di Obote e l’ascesa dell’attuale presidente Yoweri Museveni.

Gli ultimi anni della sua vita furono segnati in particolare dalla guerriglia di cui ancor oggi il nord Uganda conserva profonde ferite.

Proprio in seguito ai ripetuti scontri tra forze governative e fazioni ribelli, il 13 febbraio 1987, fu costretto a evacuare l’ospedale di Kalongo. Si pose allora per lui la questione più spinosa: quella di trovare un posto conveniente alla sua creatura più amata: la scuola per ostetriche e infermiere. Sottopose così la sua salute, già gravemente compromessa, a sforzi enormi che, alla fine, lo condussero alla morte per insufficienza renale.

Il pomeriggio del 27 marzo 1987 si spense a Lira, 44 giorni dopo essere stato costretto ad abbandonare la sua Kalongo.

1958, Kalongo, padre Giuseppe Ambrosoli con le allive della scuola infermiere e suore Comboniane

Il miracolo

Com’è noto, per la beatificazione è necessario il miracolo, vale a dire il sigillo che la Chiesa affida a Dio per proporre il suo servo come intercessore ed esempio per la sua congregazione, per la Chiesa locale che l’ha visto nascere, e poi per quella comunità che l’ha accolto nell’adempimento della sua missione, l’ha visto morire e ne ha poi conservato il corpo e la memoria.

Di guarigioni e cure straordinarie padre Ambrosoli ne aveva ottenute in vita, ma quella che canonicamente è stata riconosciuta come un vero e proprio miracolo dalla Chiesa è quella avvenuta nel 2008 nell’ospedale di Matany, nella regione del Karamoja, nell’estremo nord est dell’Uganda, che ha coinvolto una giovane mamma di 20 anni, Lucia Lomokol di Iriir.

La donna, perso il figlio che portava in grembo, stava per morire di setticemia. Dal punto di vista clinico, non c’erano più speranze di salvarla. Ma il medico che la stava seguendo, Eric Dominic, di origini torinesi, le mise sul cuscino l’immagine di padre Ambrosoli e chiese ai familiari di invocare «il grande dottore». La mattina dopo Lucia apparve come rinata.

L’allora vescovo di Moroto, monsignor Henry Apaloryamam Ssentongo, sotto la cui giurisdizione si trovava la parrocchia di Matany, venuto a conoscenza del fatto, volle che si raccogliesse tutta la documentazione per sottoporla allo studio della Congregazione delle cause dei santi.

Così il 17 settembre 2010 iniziò il processo del presunto miracolo. Vennero convocati i testimoni presenti al fatto, oltre a due medici specialisti e due periti. Raccolta anche tutta la documentazione clinica, il processo si concluse positivamente quasi un anno dopo a Moroto, il 21 giugno 2011. Successivamente, questa guarigione venne decretata come «straordinaria e inspiegabile» dalla commissione medica istituita dalla Congregazione per le cause dei santi.

Una scelta d’amore

Un medico che lavorò fianco a fianco con padre Ambrosoli, ha scritto questa testimonianza: «Egli può essere considerato una figura radicalmente esemplare: non tanto per la sua bravura e polivalenza chirurgica, né per la sua capacità organizzativa e gestionale, e neppure per la scelta degli “ultimi”, come si usa dire oggi. Nonostante tutto ciò rimanga innegabilmente vero, è soprattutto per aver fatto una scelta di servizio e quindi di amore, supportata da una forte capacità organizzativa, che la sua figura diviene esemplare. La sua fu una scelta operata non per vanagloria o smania ascetica e autorealizzativa, quanto invece per rispondere, in umiltà e ubbidienza, quindi “negando se stesso”, a un invito di amore e di servizio basato sulla fede che è come attuazione del comandamento divino di “amare il prossimo”». Questo è l’elemento fondamentale che, secondo il postulatore della causa, padre Baritussio, conferisce all’opera di padre Ambrosoli un significato universale: «Accessorio e accidentale è il fatto che tutto questo egli lo abbia realizzato in un ospedale della savana africana. Essenziale invece, è che tale scelta di servizio “tecnico”, basata sulla fede come adesione operativa al Padre celeste, egli l’abbia realizzata integrandola direttamente in una prospettiva pastorale: carità al servizio del Vangelo ossia al servizio di un “annuncio di salvezza”. Questa è la ragione per cui padre Ambrosoli, nel suo operare, non è rimasto succube di una contraddizione tra sacerdozio e professione, ma ha saputo utilizzare l’una a vantaggio dell’altra realizzando tra le due una perfetta integrazione al servizio dell’uomo in un’ottica di fede».

L’ospedale vive

L’opera del beato Ambrosoli ha trovato un felice prosieguo nell’impegno profuso da un altro medico missionario, padre Egidio Tocalli (che riaprì l’ospedale nel 1990) e dalla Fondazione Ambrosoli, costituita nel 1998 dai suoi familiari e dai comboniani. Motivo per cui ancora oggi i pazienti di Kalongo non possono fare a meno di dire: «Apwoyo, Brogioli», grazie padre Ambrosoli. Una testimonianza, la sua, di fedeltà all’ideale comboniano di «salvare l’Africa con l’Africa».

Giulio Albanese

Tomba del beato nel cimitero di Kalongo




Scuola, ancora un sogno per troppi bambini


L’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 4 non sarà raggiunto entro il 2030. Questa è la conclusione a cui si giunge consultando i più recenti dati Unesco. La pandemia ha rallentato l’impegno per assicurare la scuola a tutti, ma di fatto il calo era già in atto.

Secondo le più recenti stime delle Nazioni Unite@, sono 244 milioni i bambini e ragazzi di età compresa fra i 6 e i 18 anni che non vanno a scuola. Il numero più alto di questi, circa 98 milioni, è in Africa subsahariana, mentre altri 85 milioni vivono in Asia centrale e meridionale. I quattro Paesi con i dati più negativi sono Pakistan e Nigeria, ciascuno con circa 20 milioni di bambini e adolescenti non scolarizzati, seguiti dall’Etiopia, con 10,5 milioni, e dalla Repubblica democratica del Congo, con 6 milioni.

Rispetto ai cicli di studi, la mancata scolarizzazione interessa 67 milioni di bambini della primaria (di età fra i 6 e gli 11 anni), 56 milioni della secondaria di primo grado (12-14 anni) e 121 milioni della secondaria di secondo grado (15-17 anni).

La prima scuola operata dai missionari della Consolata a Tuthu, Kenya, nel 1902 (AfMC/Filippo Perlo).

La situazione è senza dubbio migliorata rispetto all’inizio del millennio, quando i bambini che non andavano a scuola erano oltre 400 milioni, ma gli studi più recenti dell’Unesco@ rilevano che, di questo passo, nel 2030 ci saranno ancora 84 milioni di bambini e ragazzi non scolarizzati, il 5% del totale. Lo studio, che si basa sui dati forniti dagli Stati e sugli indici di riferimento che essi si sono dati in modo volontario per misurare il loro avvicinamento agli obiettivi, riporta anche che meno di due bambini su tre finiranno la primaria e raggiungeranno il livello minimo di competenze nella lettura: in altre parole, 300 milioni di bambini non sapranno leggere come dovrebbero alla fine del ciclo primario di studi. Secondo questi dati, è chiaro che l’umanità mancherà il quarto obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che mirava a «garantire un’istruzione di qualità inclusiva ed equa e promuovere opportunità di apprendimento continuo per tutti».

Covid, collasso nascosto ma enorme

La pandemia da Covid-19 ha avuto un ruolo sia nel rallentare i progressi sia nell’impedire la raccolta dei dati per monitorarli. Secondo un rapporto della Banca mondiale di febbraio scorso@, nei paesi a basso e medio reddito, 1,3 miliardi di bambini hanno perso almeno sei mesi di scuola, 960 milioni hanno saltato almeno un anno intero e 711 milioni un anno e mezzo o più.

Le scuole sono state chiuse più a lungo in America Latina, nei Caraibi e in Asia meridionale, ma ci sono state notevoli variazioni nella durata della chiusura da un Paese all’altro all’interno della stessa subregione. Ad esempio, tra aprile 2020 e marzo 2022 le scuole sono state chiuse per 61 giorni in Tanzania, ma per 448 giorni in Uganda; per 107 giorni in Marocco, ma 326 giorni in Arabia Saudita; e 47 giorni in Vietnam, ma 510 giorni nelle Filippine.

Una volta entrata in vigore la chiusura delle scuole, quasi tutti i sistemi educativi sono passati alla didattica a distanza; ma, a livello globale, più di due terzi dei bambini di età compresa tra 3 e 17 anni (1,3 miliardi di persone) non hanno internet a casa.

Effetti da valutare

Arvaiheer, Mongolia (AfMC)

L’impatto sull’istruzione del Covid-19 e delle restrizioni collegate richiederà ancora anni per essere completamente valutato; tuttavia, avverte la Banca mondiale nel rapporto, alcuni danni sono già evidenti. Oltre a riportare 70 milioni di persone sotto la soglia della povertà, la pandemia ha determinato un collasso tanto nascosto quanto enorme nel capitale umano delle persone più giovani, colpendole in un momento cruciale del loro sviluppo. Milioni di bambini non hanno ricevuto adeguata assistenza sanitaria, ad esempio mancando gli appuntamenti per le vaccinazioni più importanti.

Hanno poi dovuto affrontare maggiore stress negli ambienti e contesti che sarebbero deputati alla loro cura, subendo a volte anche abusi domestici e vedendo peggiorare la loro nutrizione. Tutto questo ha comportato una diminuzione nel rendimento scolastico e un rallentamento dello sviluppo sociale ed emotivo: un mese di chiusura si è tradotto in un mese di conoscenze perdute, in alcuni casi anche di più, come è successo nel Bangladesh, dove 14 mesi e mezzo di chiusure si sono tradotti in 26 mesi di apprendimento perso.

Per dare una misura concreta di questi dati, il rapporto cita l’esempio di una bambina di 10 anni che all’inizio della pandemia sapeva fare somme e sottrazioni e avrebbe poi dovuto imparare moltiplicazioni e divisioni. A causa dei mesi di scuola persi, non solo non ha imparato queste nuove abilità, ma ha anche dimenticato come si somma e sottrae.

È difficile prevedere come questa mancata formazione, se non recuperata, si ripercuoterà sulle vite dei bambini; tuttavia, basandosi sull’analisi degli effetti di precedenti eventi catastrofici, la Banca mondiale stima che i ritardi nell’apprendimento, una volta che questi bambini entreranno nel mercato del lavoro, potrebbero tradursi per loro in redditi fino a un quarto più bassi di quanto sarebbero stati in assenza della pandemia.

Scuola per bambini yanomami al Catrimani, Roraima (AfMC/foto C. Giovetti)

Non solo pandemia

Eppure, dicono ancora le stime dell’Unesco@, i progressi verso l’obiettivo 4 erano già rallentati prima della pandemia, e questo soprattutto riguardo agli adolescenti. Utilizzando un modello che combina i dati amministrativi forniti dagli Stati con indagini a campione presso i nuclei familiari, l’agenzia Onu conclude che la riduzione dell’abbandono scolastico fra i ragazzi della scuola secondaria inferiore (più o meno le medie italiane) è stata del 9% nel primo decennio di questo secolo e solo del 2% dal 2010 al 2020.

L’Africa subsahariana non è solo la regione con il più alto numero di bambini non scolarizzati, ma anche l’unica regione in cui questo dato è in crescita. Dal 2009 la quota di bambini che non fre­quenta la scuola è aumentata di 20 milioni, raggiungendo i 98 mi­lioni nel 2021, e sfiora i 100 mi­lioni nelle proiezioni per il 2023.

La disparità di genere è quasi scomparsa a livello globale e, anzi, rispetto al dato della mancata scolarizzazione ora le proporzioni sono invertite: 125 milioni di bambini non vanno a scuola, a fronte di 118 milioni di bambine.

Ma gli ostacoli verso il raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo sostenibile sull’istruzione continuano a essere molti, ad esempio i disastri legati al clima, che nel 2021 hanno causato 23,7 milioni di sfollati. Gli studi sull’accesso all’istruzione per gli sfollati a causa del clima, lamenta l’Unesco, sono ancora molto pochi e rendono queste persone una categoria invisibile@, nonostante affrontino difficoltà molto simili a quelle dei rifugiati.

Lo scorso aprile, per i paesi a basso e medio reddito, il deficit di finanziamento per raggiungere l’obiettivo 4 era di poco meno di 100 miliardi di dollari. Anche ipotizzando che i Paesi donatori onorassero la promessa di destinare all’aiuto allo sviluppo lo 0,7% del Pil e dessero priorità agli interventi nell’ambito dell’istruzione, due terzi di questo deficit resterebbero comunque scoperti. Per questo, ha precisato la vicedirettrice dell’Unesco, Stefania Giannini, è necessario lavorare con le realtà fiscali dei vari Paesi@.

Chiara Giovetti


Come cooperavamo

Mgololo, giugno 1973

Mgololo si trova nella Tanzania centromeridionale, quasi al confine fra le regioni di Iringa e Morogoro, e nel giugno del 1973 era una delle ventotto missioni della diocesi di Iringa. Ci lavorava padre Francesco Cravero, nato nel 1923 a Cavallermaggiore, Cuneo, e fondatore nel 1968 della missione di Mgololo. La scuola, come dice l’«Appello dal fronte»@ qui sopra, era una sua idea fissa. «Le lavagnette e i gessetti sono giunti sin qui prima del mio arrivo», scriveva nell’articolo che accompagnava l’appello, ed erano anche «nate alcune scuolette: un capannone, o il più delle volte un albero frondoso sotto il quale si teneva la lezione. Il maestro era un giovanotto munito di licenza elementare». Con il tempo, le scuole cappelle e altre strutture di fortuna si erano moltiplicate e, constatava il missionario, occorreva «fare un passo avanti».

Al momento dell’appello, padre Cravero aveva già messo in piedi due aule scolastiche grazie alla collaborazione di un gruppo di Torino e l’attività didattica si svolgeva da quattro anni. Ma lo spazio era insufficiente: occorrevano al più presto altre aule, per evitare che i ragazzi della quarta elementare fossero costretti ad abbandonare gli studi. Per l’ampliamento, scriveva il missionario, «è sufficiente presentare un piccolo progetto, assicurare la decisa volontà di cooperazione da parte della popolazione e il governo darà il suo benestare, inviando sul posto un maestro diplomato».

La popolazione avrebbe collaborato procurando le travi per il tetto e la legna per la cottura dei mattoni, mentre ai suoi benefattori il missionario chiedeva tre milioni di lire per costruire tre aule e una casa per gli insegnanti.

«Nel Tanzania di oggi», scriveva, «l’indirizzo programmatico dell’Ujamaa, che vuole fondare la vita del villaggio […] sulla corresponsabilità fattiva di tutti i membri, non può non concordare con il missionario che, mediante la scuola, si fa promotore del progresso comunitario. La scuola non sarà del missionario, come avveniva nel passato, ma del villaggio, ed i primi responsabili saranno i genitori degli allievi e tutta la comunità».

La scuola di Makungu a Mgololo, riporta padre Erasto Mgalama dalla Tanzania, fu poi ceduta dai missionari della Consolata al governo tanzaniano ed esiste ancora. È ora in costruzione un altro edificio, che sorge dove prima c’era quello eretto da padre Cravero, che era in cattive condizioni e purtroppo non è stato possibile ristrutturare per conservare la memoria storica: si è preferito demolirlo e costruirne uno nuovo. La scuola ha 569 studenti, che agli esami risultano sempre fra i migliori della zona.

Chi.Gio.

Mgololo 2023


20 giugno: Giornata mondiale dei rifugiati

Dei 20,7 milioni di rifugiati seguiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), 7,9 milioni sono bambini in età scolare. Di questi, quasi la metà non va a scuola.

Due terzi dei rifugiati vengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Oltre otto rifugiati su dieci sono ospitati da Paesi a basso e medio reddito, e in tre casi su quattro si tratta di Paesi confinanti con quello dai quali i rifugiati sono fuggiti.

Al 25 aprile 2023 il numero stimato di singoli rifugiati che sono fuggiti dall’Ucraina dal 24 febbraio 2022 ed erano presenti nei Paesi europei, era pari a poco meno di 8,2 milioni.

Considerando anche i 53,2 milioni di sfollati interni nel mondo, i 4,6 milioni di richiedenti asilo (cioè coloro che stanno aspettando una risposta alla loro richiesta di essere riconosciuti come rifugiati) e i 4,4 milioni di sfollati venezuelani, il totale delle persone che hanno dovuto lasciare le loro case superava alla fine del 2021 gli 89 milioni. Le cause dell’allontanamento sono persecuzioni, conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani o eventi che turbano gravemente l’ordine pubblico@. Questo 20 giugno sarà la 22a giornata mondiale dei rifugiati, che fu celebrata per la prima volta nel 2001, anno del 50o anniversario della Convenzione sullo statuto dei rifugiati, o Convenzione di Ginevra del 1951@.

Chi.Gio.

Il mondo visto dala scuola di Iguachanya, Tanzania (AfMC)




Giuseppe Allamano e la guerra


Un libro di recente pubblicazione, dal titolo «Un’enciclica sulla pace in Ucraina», (Terra santa edizioni, 2022) raccoglie gli appelli accorati e gli inviti alla pace rivolti da papa Francesco nell’ultimo anno ai responsabili delle nazioni e a tutta l’umanità. Il testo richiama tutti, particolarmente i cristiani, a essere donne e uomini di pace, a supplicare il Dio della pace, dell’amore e della speranza affinché illumini i governanti e questi si impegnino a fare cessare la guerra nel cuore dell’Europa e in ogni altra parte del mondo. Più volte il Papa si chiede a quante tragedie l’umanità deve ancora assistere prima che si convinca che ogni guerra è soltanto una strada di morte e che attraverso di essa si hanno soltanto vinti e vittime e nessun vincitore.

Sappiamo che la guerra è un male che accompagna il cammino dell’umanità dai tempi più antichi. Giuseppe Allamano e il suo collaboratore Giacomo Camisassa hanno partecipato indirettamente alle nefaste vicende della guerra del 1915-1918, sia in Italia come in Africa, attraverso le peripezie dei loro missionari e missionarie. I prodromi della Grande guerra iniziarono già nel 1914 e si manifestarono pienamente l’anno successivo nelle gravi ristrettezze economiche e poi nel richiamo alle armi di molti studenti missionari e giovani sacerdoti. Nel 1915 complessivamente 38 missionari vennero chiamati alle armi. Confessò l’Allamano stesso, parlando confidenzialmente alle missionarie: «Dopo la partenza del primo scaglione stavo discorrendo con il can. Camisassa, ed egli, tanto più sensibile quanto meno lo dimostrava all’esterno, esclamò: “Povero Istituto!” e proruppe in pianto».

L’Allamano seguì i suoi giovani «militari» con una corrispondenza fitta, calda e paterna. Consigliò loro di arruolarsi nella sanità, offrì suggerimenti pratici per la loro vita spirituale, infuse in loro fiducia e coraggio. La nuova casa delle missionarie, non ancora totalmente terminata, venne sequestrata come deposito di medicinali per i soldati in guerra. La prima vittima del conflitto fu lo studente Baldi (+1917), costretto a combattere in prima linea. Anche tra le missionarie si ebbero alcune vittime a motivo delle ristrettezze nel vitto, per il freddo invernale e a causa delle continue trepidazioni. In Kenya, dove c’era una mortalità altissima tra gli oltre 300mila portatori locali (carriers) arruolati a forza dagli inglesi per sostenere le loro truppe contro i tedeschi del Tanganyka, i missionari e le missionarie offrirono la loro prestazione spirituale e medica a favore degli africani nei molti ospedali da campo. Ne partirono circa una quarantina, tra cui suor Irene Stefani, ora beata. Erano accompagnati anche da alcuni dei primi cristiani offertisi come volontari.

Nel novembre1918, con un solenne Te Deum cantato al Santuario della Consolata, i fedeli di Torino poterono ringraziare il Signore che l’orrenda follia della guerra era terminata. Anche l’Allamano, con cuore riconoscente, poté finalmente riabbracciare i suoi missionari ritornati dalle armi.

padre Piero Trabucco

Le spiritualità dell’Allamano

La spiritualità dell’Allamano può essere paragonata alla casa di un fabbricante di tamburi africano. In essa si trovano tamburi realizzati con diverse pelli di animali. Ogni tamburo produce un suono diverso con un proprio significato e una propria funzione.

Spirito di comunità

Definita in termini molto semplici, la spiritualità si riferisce al modo con cui viviamo la nostra vita. Essa è composta da diversi elementi che corrispondono ad altrettante scelte consapevoli fatte da individui o gruppi per vivere la propria vita in modo più profondo. Quindi la spiritualità riguarda la vita vissuta in profondità.

Se la spiritualità riguarda le scelte consapevoli, allora possiamo parlare di spiritualità al plurale perché scegliamo di vivere la nostra vita secondo vari stili.

Sulla base di quanto detto, possiamo parlare della spiritualità di Giuseppe Allamano?

Il padre fondatore parla frequentemente dello spirito di comunità. Lo faceva, per esempio, quando diceva: «Dimostri di essere veramente un missionario della Consolata se hai lo spirito della comunità e regoli la tua vita quotidiana secondo esso»; e poi ancora: «Lo spirito dà vita alle singole comunità così come a ciascun membro»; e in un’altra occasione: «Devi possedere lo spirito dei Missionari della Consolata nei tuoi pensieri, parole e azioni».

Spiritualità al plurale

Leggendo gli scritti spirituali dell’Allamano e considerando che la spiritualità ha a che fare con i modi in cui viviamo la nostra vita, possiamo riconoscere diverse spiritualità ben articolate ed espresse nella sua vita:

  1. la spiritualità mariana, che pone Maria al centro del nostro apostolato missionario come nostra madre;
  2. la spiritualità eucaristica, che ci ricorda la centralità dell’Eucaristia come fonte e culmine della nostra vita cristiana;
  3. la spiritualità missionaria che è la caratteristica distintiva di un vero missionario della Consolata;
  4. la spiritualità dell’autorità che parla del ruolo dei superiori come padri spirituali e pastori di anime;
  5. la spiritualità femminile, che sottolinea il ruolo della donna nel lavoro missionario di evangelizzazione, con Maria come modello;
  6. la spiritualità economica, che parla dell’uso corretto dei beni temporali, dei possedimenti e della loro amministrazione, basata sul voto di povertà.

Spiritualità ecologica

Un cenno particolare per la sua attualità merita la spiritualità ecologica dell’Allamano (la numero 7): essa si intravede nei suoi scritti per l’uso frequente che fa di immagini che appartengono alla natura; per lui esiste uno stretto legame fra la vita della natura e la vita delle persone e dei missionari. Così come la natura sostiene la vita nel mondo, allo stesso modo la missione sostiene la vita di un missionario della Consolata. Poi, così come la natura ha la sua origine in Dio, lo stesso succede con la missione di un missionario della Consolata.

Questo linguaggio ha profonde radici bibliche che possiamo trovare in alcune analogie proprie di San Paolo, ad esempio nella Lettera ai Romani quando, scrivendo della relazione fra Ebrei e Gentili, Paolo afferma che «se tu, infatti, dall’olivo selvatico che eri, secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!» (Rm 11,24).

Giuseppe Allamano, per esempio, applica questo linguaggio ecologico paolino quando parla dei doveri dei superiori e della necessità della formazione. Per lui i Missionari della Consolata sono come «piante tenere o delicate» nel giardino della chiesa. Ai superiori spetta allora il ruolo del «taglio e potatura» perché il Signore desidera che loro crescano bene, retti e prosperi; «tagliano tutto ciò che è difettoso» nei missionari affinché un giorno possano produrre abbondanti frutti di santificazione e lavoro apostolico.

La stessa allegoria la troviamo con l’immagine, anche questa molto biblica, della vite. «Prima che cominci la primavera, è opportuno che il contadino poti la vite. La vite piange, ma pensa ai bei rami che cresceranno, e allora lui non si pente».

Oggi, quando l’umanità sta affrontando una grave crisi ecologica, questi dettagli della spiritualità di Giuseppe Allamano sono importanti perché, anche se Dio ha creato tutto da sé, ci ha lasciato in eredità la missione della cura della Casa comune. Questa visione è pienamente in linea con l’ecologia integrale proposta da papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’.

Come il suono di tamburi diversi

La parola «Spirito» non è sinonimo di spiritualità: lo spirito è ciò che è nel profondo, il principio vitale, ciò che definisce un’identità particolare. La spiritualità si riferisce alla nostra relazione con questo spirito, come riconosciamo e siamo aperti a uno spirito particolare. In questo senso, la nostra spiritualità si riferisce a come viviamo in relazione allo spirito che Dio ha ispirato al padre Allamano quando questi ha fondato la sua comunità.

Quindi a cosa possiamo paragonare la spiritualità dell’Allamano? Può essere paragonata alla bottega di un fabbricante di tamburi africano. Nel suo laboratorio si trovano tamburi fatti con pelli di animali diverse. Ogni tamburo produce un suono diverso con significati e funzioni diverse: c’è quello che avvisa la gente della morte di un membro importante della comunità; c’è quello che chiama a un raduno urgente e quello che annuncia il principio o la fine di un conflitto. Anche se questi tamburi sono differenti, tutti, in diverso modo, contribuiscono alla vita della comunità.

padre Charles Orero


Disponibilità, Presenza, Carità

Padre Franco Gioda, missionario per trent’anni in Mozambico dove ha conosciuto la povertà, la fame e la guerra civile che ha devastato quel paese per lunghi anni, era un grande innamorato della Consolata e del fondatore. Riportiamo alcuni suoi pensieri espressi nell’ultima omelia pronunciata poco tempo prima della sua morte avvenuta il 17 ottobre 2021.

Due icone mariane

Nel Vangelo abbiamo due icone che ci parlano della Madonna che consola: Maria che va da Elisabetta a portare Gesù, e Maria ai piedi della croce. Le contempliamo in relazione a Giuseppe Allamano, rettore del santuario della Consolata per 46 anni e formatore del clero della diocesi a cui trasmetteva «la spiritualità della Consolata», cioè non solo una devozione, ma uno stile di vita da imitare.

Questo stile di vita si caratterizza per disponibilità, presenza e delicatezza nella carità. Troviamo queste tre caratteristiche molto ben scolpite in Maria di Nazaret e anche nell’Allamano.

L’annunciazione

Maria di Nazaret nell’annunciazione vive un’esperienza profonda di Dio che si inserisce nella sua vita e dà la sua disponibilità piena alla sua richiesta. Capisce ben poco di quanto le viene chiesto, ma una cosa la intuisce e cioè che deve mettersi nelle mani di Dio e fidarsi completamente di lui.

Con la forza dello Spirito parte, quindi, e va a incontrare Elisabetta. Non va semplicemente a salutarla, ma ad aiutarla per tre mesi finché si compie la sua maternità. Ecco la disponibilità di Maria.

Poi Maria ritorna nel suo mistero di Nazaret. E qui immaginiamo il suo colloquio con Gesù, fatto di delicatezza, di carità e di dolcezza. Notiamo bene che Maria ha capito chi fosse veramente Gesù solo nella Pentecoste.

Maria sotto la croce

Nella seconda icona contempliamo Maria nel Calvario: cosa fa Maria sotto la croce? Umanamente niente. Non estrae i chiodi dalla croce, ma è presente. Lì possiamo vedere anche spiritualmente il nostro cammino di missionari: chi può cammina, va, non si ferma, e chi è anziano e non può andare rimane fermo ai piedi della croce, rimane vicino a Cristo che sta soffrendo. Cosa fa? Niente e tutto. A una persona che sta morendo si tiene la mano affinché senta che qualcuno le vuole bene. Questo è quello che fa Maria.

Disponibilità

Disponibilità, presenza e carità: tre caratteristiche che sono espressione di una spiritualità allamaniana e nostra. Innanzitutto, la disponibilità a compiere la volontà di Dio con ottimismo sapendo che è lui che dirige tutto, e lui «ha scelto te che sei peccatore, quindi fidati del Signore!».

Ci sono molte difficoltà nella vita missionaria, ma non bisogna essere pessimisti dicendo che «tutto va male», dimenticando la parabola del seminatore che «esce» non per seminare, ma per «gettare» il seme e dove cade fruttificherà, oggi e domani forse no, ma il terzo giorno forse sì.

Io stesso ho constatato in Mozambico che, dopo tanti anni, si ricordavano di «quel missionario» che era stato «in quella missione» solo poche volte e poi avevano dovuto chiuderla per la guerra… il seme è rimasto. Non giudichiamo il seme, ma affidiamoci alla forza di Dio.

Ricordiamo la comunità di Efeso che nel digiuno e nella preghiera ha sentito la voce dello Spirito: «Riservate per me Barnaba e Paolo». Quella era una comunità ottimista che riteneva valido il partire per annunciare Cristo a popoli che non lo conoscevano.

E così oggi: vale ancora il fatto che persone lascino tutto e vadano a incontrare i miliardi di persone che non conoscono Cristo.

Presenza

In tempo di guerra in Mozambico molti missionari sono andati via. Noi della Consolata siamo rimasti: è un orgoglio religioso giusto. Ed è anche grazie a questa presenza che in quel paese è nata una Chiesa nuova fondata sul lavoro dei catechisti, una Chiesa che nasce dalla base e che sta portando molti frutti di vita cristiana. Il missionario, quindi, non dice: «Qui non c’è nessuno, qui non vale la pena lavorare». La sua presenza viva, attiva, positiva è seme di nuovi frutti.

Carità

Da giovane ho parlato con alcuni preti del mio paese che avevano conosciuto l’Allamano e mi raccontavano che lui, quando in chiesa vedeva un po’ di gente, aspettava e poi si accostava a questa e a quella persona e le chiedeva se avesse bisogno di qualcosa, se voleva che pregasse per lei. Emerge, cioè, la sua dimensione personale che era «il fiore della carità», stare vicino, accompagnare, aiutare. Una dimensione che trasmetteva ai missionari con il «comando» di amare gli africani.

Le tre perle dell’evangelizzazione

Ecco, dunque, l’importanza di vivere l’icona di Maria che va a portare Gesù a Elisabetta e quella di Maria che sta ai piedi della croce. Se siamo giovani, chiediamo la grazia dell’ottimismo che cancella la sedentarietà e, se siamo anziani, chiediamo la grazia di essere come Maria ai piedi della croce che fa tutto anche se sembra che faccia niente.

In questa prospettiva noi viviamo le tre perle dell’evangelizzazione. La disponibilità: «Fai di me ciò che vuoi»; la presenza: il samaritano che si fa carico dell’uomo che giace mezzo morto lungo la strada, e il fiore della carità che lo spinge a pagare per lui.

padre Franco Gioda

 




Atomica e nonviolenza


L’attualità di un pensatore cristiano e nonviolento

Lanza Del Vasto, scrittore, artista e attivista, morto nel 1981 ma molto attuale, fu tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica. Nel nostro tempo l’umanità si trova di fronte a un bivio: la via irrazionale della guerra, quella efficace della nonviolenza.

È stato di recente pubblicato, per le Edizioni La Meridiana, Le due potenze. L’atomica e la nonviolenza, un agile libro che raccoglie due testi di Lanza Del Vasto, tra i primi a denunciare i pericoli dell’atomica.

Poeta, filosofo, pellegrino, profeta della nonviolenza, intellettuale e artista cristiano, Lanza Del Vasto nacque a San Vito dei Normanni (Br) nel 1901 e morì a Murcia, in Spagna, nel 1981. È ricordato, tra le altre cose, per aver dato vita in Francia nel 1948 alla Comunità dell’Arca, una realtà di vita comunitaria fondata sul modello degli ashram gandhiani che egli aveva conosciuto in India tra il 1937 e il 1938 presso il Mahatma Gandhi e in pellegrinaggio alle sorgenti del Gange.

Della bomba e della Chiesa

Nel primo dei due testi, intitolato Della bomba, l’autore afferma che, di fronte alla concatenazione delle violenze legittime (quelle che trovano giustificazione nei torti dell’avversario), e nel nuovo contesto creato dall’avvento dell’atomica, l’umanità si trova di fronte a un bivio: o la guerra perpetua che porta alla distruzione, oppure la nonviolenza che porta alla rottura della catena e alla liberazione.

La prima strada è irrazionale: si può capire, infatti, che un uomo si sacrifichi per la sua terra, per il suo focolare, ma non che sacrifichi allo stesso tempo ciò per cui egli si sacrifica. Nell’era atomica, non vi è più sacrificio, ma suicidio e crimine imperdonabile.

Nel secondo testo, intitolato La Chiesa di fronte al problema della guerra, Del Vasto argomenta come la nonviolenza sia mezzo di difesa e di salvezza ben più di ogni arma, perché l’evangelico non opporsi al malvagio non è arrendersi, ma non opporre cattiveria alla sua cattiveria, e colpi ai suoi colpi. Non significa non difendersi, ma rifiutare di offendere con il motivo di difendere, di rendere il male, raddoppiandolo, con il pretesto di fermarlo, giacché, così facendo, si entra nella catena il cui ultimo anello è la morte.

Più avanti l’autore delinea quali sono i tratti del conflitto nonviolento quando, affermando che la nonviolenza è lotta per la giustizia con le armi della giustizia, scrive: «Se il mio nemico è un uomo come me, io sono un uomo come lui, e posso sbagliare. Ed è pure probabile e, per parte, certo. Devo dunque scoprire la mia parte di torto nell’affare e se, per fortuna, vi riesco, devo riconoscerla davanti a lui e offrire riparazione. Sarà un passo verso la verità e verso la pacificazione, poiché questo finirà per inclinarlo a seguirmi nella medesima direzione». E ancora: «Se restituisco lo schiaffo, giustifico il suo; il suo spirito di giustizia continuerà a deviare nel giustificarsi, perché lo spirito di giustizia è quell’istinto che fa ricercare l’equilibrio. L’equilibrio è la giustizia, ma quando si devia, si cerca un punto di appoggio che è, appunto, la giustificazione».

La soluzione del «non uccidere»

A corredo dei due testi di Lanza Del Vasto, il volume offre una prefazione di Daniel Vigne, presidente dell’Association des amis de Lanza Del Vasto, e i contributi di Antonino Drago – che analizza la storia dell’atomica e la proposta della nonviolenza -, del teologo Giovanni Mazzillo – sulle linee portanti del Magistero ecclesiale sulla pace dopo il fondatore delle Comunità dell’Arca -, di Maria Albanese ed Enzo Sanfilippo – sull’eredità del pensatore pugliese- e di Frederic Vermorel – che cura una parziale ma preziosa biobibliografia.

Il testo di Antonino Drago, che commenta il saggio di Lanza Del Vasto I quattro flagelli, di cui il volume riporta alcuni estratti, si articola in tre parti: una storia delle armi atomiche; l’analisi della posizione di Lanza Del Vasto che decostruisce la razionalità degli stati nucleari; la proposta di una razionalità alternativa nelle politiche di difesa che parta dal Trattato Onu di messa al bando delle armi nucleari (Tpnw) e arrivi ad affermare la novità epocale della nonviolenza.

La nonviolenza è la vera alternativa storica alla guerra, perché ripropone la millenaria sapienza sociale del «non uccidere», non intesa, però, come semplice rifiuto passivo della violenza, ma come strumento di risoluzione dei conflitti, come dimostrato dall’efficacia delle tecniche adottate da Gandhi in India.

Di fronte all’infinita potenza tecnologica della bomba, la nonviolenza è anch’essa potente, perché recupera l’infinita forza interiore di ogni persona.

Davanti ai conflitti, il metodo nonviolento è più della razionalità, perché alla ragione aggiunge l’etica. Dunque se, come afferma Del Vasto, le due grandi scoperte del secolo sono la nonviolenza e la bomba atomica, si tratta di scegliere tra questi due poli.

Oggi è in atto un braccio di ferro tra i 46 paesi favorevoli alle bombe atomiche (le nove potenze nucleari e i cinque paesi ospitanti gli ordigni, più altri 32), e i 122 favorevoli al Tpnw (i 65 che l’hanno ratificato, più i 57 che l’hanno approvato nel 2017).

Solo l’azione dei popoli motivati eticamente farà bandire le armi nucleari dalla coscienza dell’umanità. Solo dopo di ciò queste armi potranno essere eliminate anche formalmente da provvedimenti giuridici della comunità internazionale.

Le gocce del colibrì

Se fosse evidente a tutti la catena che collega la vittima innocente di un qualunque paese in guerra all’operaio che ha costruito la bomba, all’ingegnere che l’ha progettata, alle banche che ne hanno sostenuto la produzione, al ragioniere che ha emesso le fatture, ai lavoratori dei porti che l’hanno imbarcata, e così via, scopriremmo che in essa è coinvolta qualche persona che conosciamo, magari un nostro parente o un nostro vicino di casa.

Se ciascuno di noi ne fosse consapevole, potrebbe fare come il colibrì che, in una favola africana, fa la sua parte portando nel suo minuscolo becco due gocce d’acqua per spegnere l’incendio.

Angela Dogliotti