«Culture e missione»
A Torino la missione si fa comunicazione. I Missionari della Consolata inaugurano un polo culturale missionario che vuole essere un ponte tra le loro attività nei quattro continenti e la città, ma non solo. Un punto di incontro tra culture, religioni e territorio.
Questo mese è stato inaugurato il polo culturale dei Missionari della Consolata a Torino, in un’ala della Casa Madre. Il centro è stato chiamato Cultures and mission (Cam), culture e missione. Chiediamo il perché del nome a padre Ugo Pozzoli, coordinatore di Missioni Consolata onlus (Mco), che gestisce il polo. «Il nome Cultures and mission (Cam) è stato scelto perché rappresenta un ponte tra il passato il presente e il futuro. Come Centro di animazione missionaria, il Cam è stato un luogo che per circa 40 anni ha accompagnato i cammini di formazione e di animazione missionaria giovanile a Torino. Con il nuovo significato, la sigla rimane la stessa ma assume uno spirito più ampio che vuole raccontare la missione di oggi e di domani».
Ma di cosa si tratta esattamente?
Padre Ugo ci spiega: «Il nuovo Cam nasce con l’intento di essere un polo di cultura, informazione e comunicazione, un ponte fra i missionari, la loro storia, il loro lavoro in quattro continenti, e la città di Torino, il luogo dove siamo nati e siamo tuttora presenti a vari livelli. Vorremmo che fosse una vetrina che parli del mondo alla nostra città e che parli della nostra città al mondo. Credo infatti che in passato si sia messo troppo l’accento, parlando di cooperazione missionaria, su quanto potevamo “dare” a chi presumibilmente aveva meno. Con questo progetto vorremmo raccontare anche il tanto, sia quantitativamente che qualitativamente, che noi possiamo ricevere dagli altri».
E continua: «Con la gestione di questo progetto, Mco desidera creare un laboratorio in cui far convergere il mondo della comunicazione, che fa capo alla redazione della rivista Missioni Consolata, le attività di animazione e formazione con cui cerchiamo di sviluppare temi come quelli legati alla mondialità, all’intercultura, al dialogo e, ultima ma non ultima, la spiritualità, che anima la nostra missione e senza la quale non saremmo qui a continuare la nostra opera. Penso alle cose belle che si potranno creare mettendo in sintonia il Cam e il nostro centro di spiritualità alla Certosa di Pesio».
La genesi
«Sono diversi anni che parliamo di recuperare la memoria dell’istituto – ci dice padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata -. Ci sono i giovani missionari che arrivano, nuove storie, e si sta dimenticando il passato. Secondo noi un gruppo che dimentica il proprio passato, non può costruire il futuro». E continua: «L’idea è dunque di recuperare il materiale che abbiamo per presentare la memoria e raccontare la nostra missione agli altri. Oggi il racconto di qualcosa di vissuto vale di più delle prediche.
Ci siamo chiesti: fare un museo classico? No, un museo è un po’ conservare il passato, ma non basta. Qualcosa che serva per l’animazione missionaria. Non qualcosa da ammirare, ma un discorso che deve provocare, fare capire alcune realtà e spingere a domandarsi: io che cosa posso fare? Come posso collaborare? Come posso costruire missione nel mio oggi?». Così il superiore generale e i suoi consiglieri hanno pensato che fosse un bene valorizzare le collezioni etnografiche e naturalistiche e gli archivi (foto, video, manoscritti) che l’istituto ha accumulato in 121 anni di esistenza, per realizzare qualcosa.
«Lo chiamo polo, perché non è museo, non è centro culturale, ma vuole raccogliere tante persone che, cristiane e non, si ritrovino intorno ai valori dell’umanità, e si vogliano incontrare in uno spazio fisico dove raccontarsi, parlare, ascoltare, e conoscere altre storie.
Abbiamo la fortuna, come istituto, di essere internazionali e interculturali: di cose da raccontare ne abbiamo. Ma vogliamo anche ascoltare le storie del territorio».
Continua padre Stefano: «Usando tecniche moderne, i materiali che abbiamo, e mettendo a disposizione missionari con le loro storie, ci presentiamo alla gente, non per farci vedere, ma per raccontare questa memoria storica. Con l’idea di presentare il passato, raccontando il presente e pensando al futuro».
E anche: «La missione incontra il territorio. Non più “venite in Africa”, ma “la missione è qui”. Noi siamo disposti a incontrare tutti: cristiani, non cristiani. Raccontiamoci. Chi è alla ricerca per dare un senso alla propria vita. Venite, vediamo se riusciamo a collaborare. Questa è la novità».
Un’équipe missionaria
Il nucleo propulsore del nuovo Cam è un’équipe di tre missionari, costituita un anno fa, che curerà la gestione del polo missionario, in particolare nei suoi aspetti d’incontro con la gente. La costituiscono il kenyano John Nkinga e gli italiani Fabio Malesa e Piero Demaria.
Padre John, 36 anni, giovane ed esuberante, è l’esempio vivente del fatto che la missione oggi è anche in Italia. Lui, missionario africano a Torino, lavora con le comunità di migranti (cfr. MC marzo 2022). Ci dice sul polo: «Vogliamo fare capire alle persone e alla città di Torino che esiste una cultura missionaria, e che non è un fatto nostro. Ha origine da un fondatore, passa dai missionari per arrivare alla gente. Non ci fermiamo all’animazione e basta. Parliamo di “cultura missionaria”. Vogliamo farla conoscere. Vuol dire fare animazione in modo diverso, più moderno, più pensato sui bisogni e le aspettative delle persone che camminano con noi».
Padre Fabio, 50 anni, originario della Sardegna, ha lavorato dodici anni in Mozambico (cfr. MC marzo 2023): «Oggi, soprattutto dopo il covid, le persone, e i giovani in particolare, hanno bisogno di trovare un posto dove possano sentire che le relazioni umane vengono curate, si sviluppano. Sono rari i posti così, e la gente si trova molto sola. Avere un luogo dove, attraverso l’accoglienza, si sente accettata, magari nella propria diversità, è il primo passo per costruire qualcosa insieme».
Padre Piero, 44 anni cuneese (cfr. MC marzo 2019), ha le idee chiare sul ruolo dell’équipe missionaria: «Noi dobbiamo rendere vivo il polo culturale. Una prima dimensione è quella dell’accoglienza. Abbiamo il compito di accogliere i gruppi: giovani, scuole, famiglie, parrocchie, associazioni. Un’accoglienza che va preparata. Tutto inizia al piano terra, dove presentiamo chi siamo noi e cosa è l’istituto.
Al primo piano c’è il museo vero e proprio e al secondo piano diversi spazi per i laboratori che saranno pensati a seconda dei target. È al secondo piano che la nostra presenza sarà più importante. Faremo laboratori su diversi temi: maschere, musica, lingue, cartine geografiche. Il tutto pensato a seconda dei gruppi che vi partecipano».
Continua Piero: «Il nostro ruolo è dunque di fare incontrare chi arriva con la realtà della missione. Perché il polo vuole trasmettere questo. In seconda battuta, inviteremo le persone più interessate a partecipare, costruire una rete e collaborare.
Anche allo scopo di mettere in circolazione i temi che ci stanno più a cuore: l’incontro tra le culture, la diversità, l’accoglienza del diverso, l’ecologia. E costruire un mondo un po’ più vivibile e pacifico».
Parola chiave: incontro
John: «Direi che la parola chiave per il polo culturale è “incontro”. Vogliamo offrire uno spazio e del tempo per incontrarsi. Qualcosa che si faceva già con il Centro di animazione missionaria (anch’esso Cam, ndr), e si potrà nuovamente fare. Non è un museo o uno spazio espositivo, ma un luogo per incontrarsi. Dove la cultura incontra la missione, la migrazione incontra la cultura, e così via».
Fabio: «Inizialmente pensiamo anche di “andare all’incontro”, ovvero andare nelle scuole portando qualche pezzo di museo, per parlare del polo, farci conoscere. Fare in modo che la gente venga, e da lì aprire un ponte con la città, la popolazione e le istituzioni.
Il Cam sarà un posto dove, attraverso la testimonianza di tanti padri, di passaggio a Torino, o collegati a distanza dalle missioni, grazie alle moderne installazioni, si farà cultura missionaria. Alcuni contenuti, come video e foto, possono essere rinnovati nel tempo, garantendo così una maggiore interazione con le persone».
Piero: «Vogliamo incontrare il territorio. Siamo interessati a tutti, ma in particolare ai giovani e alle famiglie. Attraverso famiglie più sensibili, si possono fare arrivare anche altri. La visita al museo può essere un primo contatto, ma avremo molte altre attività, ad esempio quelle in collaborazione con il Centro missio nario diocesano, che organizza formazioni per chi parte in missione».
Il cuore creativo
Partiti dall’idea e da un’esigenza, per arrivare a un’installazione multimediale che adotta tecniche innovative, e a spazi gestiti da un’équipe missionaria, è stato necessario un grande lavoro di una squadra di professionisti della comunicazione.
La società Mediacor, con una vasta esperienza in allestimenti multimediali, già protagonista della fortunata esposizione temporanea «Mater Amazonia» in Vaticano, è stata incaricata dai Missionari della Consolata della progettazione e realizzazione degli spazi espositivi e di quelli d’incontro. Anima di Mediacor, composta da sette soci, sono Paolo Pellegrini e Simona Borello.
Simona ci racconta: «Lo abbiamo immaginato come un luogo d’incontro. Incontro tra le culture, incontro tra i missionari e la città, incontro tra le religioni.
È stato progettato sia per vedere l’incontro che i missionari hanno avuto, e hanno tutt’ora, con le altre culture, sia per favorire l’incontro tra le persone e la missione. L’esposizione permanente è la narrazione del primo aspetto, di cosa succede quando si arriva al cospetto di una cultura e poi si cerca di entrare in essa. Si concentra sui vari aspetti che ci sono nel viaggio: le persone, la natura, la lingua, il modo di fare e di operare.
Questo fattore è stato utilizzato anche per l’approccio architettonico con il potenziamento delle aree nelle quali è possibile fare incontri, conferenze, e con la valorizzazione di alcuni ambienti che erano depositi, trasformati in salette. E poi c’è la sala dei laboratori. Il percorso è pensato per avere come parte integrante incontri con i ragazzi delle scuole, degli oratori.
Il polo vuole essere un punto di riferimento per la città, per le iniziative dei missionari o per quelle che la Chiesa locale voglia fare qui».
Simona non nasconde una certa soddisfazione per la realizzazione dell’opera e ci racconta le differenze con esperienza precedenti di Mediacor: «La cosa interessante è che si tratta di un polo culturale, per cui non c’è soltanto il discorso espositivo che abbiamo già gestito in altri casi. Qui c’era il desiderio di disegnare un luogo che poi potesse essere vivo e polifunzionale, e ospitare anche altre attività.
Un’altra differenza: visto che i missionari sono una realtà viva cui si aggiungono sempre cose nuove, alcuni spazi sono stati pensati per essere rinnovati periodicamente. Ad esempio l’ingresso dove ci sono i progetti in evidenza, o la parte di approfondimenti.
Un altro aspetto è il tentativo di far dialogare la tecnologia non solo la narrazione, ma anche con gli oggetti etnografici».
La parte d’installazione museale presenta un percorso che può essere gestito in modo completamente automatico, e condurre il visitatore o il gruppo nella visita.
C’è stata, inoltre, un’attenzione particolare alla inclusività, con l’ausilio di alcuni strumenti che utilizzano il linguaggio della comunicazione aumentata, per permettere anche ai bambini con disturbi specifici di apprendimento di beneficiare della visita. Anche la disabilità fisica è tenuta in conto, con un’architettura ad accesso totale.
Un gemello in Kenya
Padre Stefano Camerlengo ci rivela una notizia: «Un polo culturale missionario lo stiamo sognando anche a Nairobi, dove l’istituto ha cominciato la sua missione e dove ha una lunga storia. Inizia a Torino, continua in Kenya e poi va in tutto il mondo. Se oggi si vogliono capire meglio i Missionari della Consolata non basta andare a Torino, bisogna anche andare a Nairobi».
Padre Ugo conclude: «Il Cam ha rappresentato un investimento notevole, giustificato dalla volontà di valorizzare le nostre radici, dimostrando a noi stessi, e a chi collabora con noi, che, sebbene abbiano oltre 120 anni di storia, sono tuttora vive e generano missione, raccontano il Vangelo, sostengono l’umanità nelle sue stanchezze e nelle sue ferite. Speriamo che chi ci visiterà, chi accoglierà i nostri spunti e le nostre proposte, si lasci poi coinvolgere a partecipare, diventando un nostro sostenitore, tanto economicamente quanto magari mettendo a disposizione un po’ del suo tempo, collaborando in qualche attività del polo».
Marco Bello