È da otto anni che non metto piede in Perù e spesso preferisco non parlarne perché non vivo quello che accade quotidianamente. Lo guardo e lo seguo da distante.
Oggi però due parole le vorrei spendere, dopo l’autogolpe fallito del presidente contadino Castillo contro il Congresso (parlamento peruviano), la sua incarcerazione e l’ascesa al potere della vicepresidente Dina Boluarte che può annotare nel suo diario personale più morti che giorni di Governo: 47 contro 38 [dati al 14/01/2023].
Durante il suo breve mandato, l’esercito ha ucciso 47 persone di Juliaca, Puno, Cuzco e altre provincie che stavano chiedendo in piazza elezioni immediate, dopo l’ennesima crisi di governo che vive questo paese.
Ma di chi sono queste 47 vite e quanto valgono?
Sono persone delle regioni più rurali, di quelle periferie dimenticate dal governo centrale di Lima. E la cosa più triste di questo massacro non è il numero ma l’indifferenza di chi governa.
Un mio amico peruviano, e che vive a Lima, ieri mi diceva questo: «La cosa più inquietante è che non riconosco più i miei amici, i miei compagni di scuola, che si accontentano di giustificare queste morti sotto la dicitura: erano dei violenti».
Come se la morte di uno che vive in Puno, nel Sud dimenticato del paese, al confine con la Bolivia, non avesse valore. Come se 47 morti di persone delle province non valessero come 47 morti di persone del centro/Lima e quindi non fossero sufficienti al governo di Dina Boluarte per dimettersi. E di fronte a questo è caricaturale il lutto nazionale dell’11 gennaio che suona un po’ come: «S’ha da fare per evitare una figuraccia internazionale, ma non me ne frega niente».
Non intendo giustificare Castillo, primo presidente che arriva appunto dalle periferie e aveva quindi la grande responsabilità di portare la voce di queste aree del paese ai livelli apicali.
Anzi come si dice in America Latina, ha fatto davvero una mala jugada (un autogol, nda) perché invece di migliorare le condizioni delle zone più rurali e rafforzare il protagonismo politico delle persone indigene ed escluse, con la sua stessa incapacità strategica e politica inficia oggi la possibilità di una persona delle comunità di poter raggiungere alti livelli decisionali.
E questo ha reso quel conflitto antico tra centro e periferia ancora più insanabile. Quando il silenzio internazionale calerà su questa storia, tutto rimarrà uguale. Le periferie si ritroveranno a essere sempre più schiacciate da quel centro elitario, un po’ troppo bianco o un po’ meno indigeno, che azzittisce troppo spesso nel sangue la sua stessa gente, residente solamente un po’ più distante da ciò che si considera il centro.
Simona Carnino
Nota:
Alcune di queste foto, scattate 11 anni fa, sono state realizzate da una bambina a cui ho dato una macchina fotografica compatta, mentre io osservavo un tribunale comunitario che stava giudicando una persona per il reato di abigeato, ai tempi della mia vita peruviana divisa tra Centro e Periferia (2012).