Visitando recentemente i locali utilizzati da san Giovanni Bosco a Valdocco (Torino) all’inizio dell’opera salesiana, mi sono interrogato sull’impronta che il santo educatore dei giovani può aver lasciato sul nostro Giuseppe Allamano che trascorse ben quattro anni nell’Oratorio salesiano (1862-1866). Erano gli anni della giovinezza dell’Allamano, il quale, infatti, per tutta la vita avrebbe ricordato il tempo trascorso vicino a don Bosco.
Lo stile educativo di don Bosco si basava fondamentalmente su tre capisaldi: «Ragione, religione, amorevolezza». Per «ragione» egli intendeva la formazione umana e civile dei giovani, tesa a prepararli ad affrontare il futuro come cittadini responsabili. «Religione» significava formazione religiosa, senza forzature, impartita con nozioni di catechesi e soprattutto con l’esempio di vita dei formatori. L’«amorevolezza» era da lui considerata l’elemento caratteristico che doveva accompagnare ogni aspetto della formazione dei giovani. Vicinanza e accompagnamento paterno e affabile nei riguardi dei giovani – asseriva – servono più di ogni altra componente formativa.
Questi tre aspetti sono diventati, a mio parere, parte irrinunciabile del bagaglio personale dell’Allamano, tanto da essere poi da lui utilizzati sia con i sacerdoti del Convitto che con i membri dei suoi due istituti missionari. Egli esortava i suoi giovani missionari non solo allo studio serio ma anche all’esercizio del lavoro manuale. Scriveva a quelli che già lavoravano in territori di missione: «Nelle località in cui sia possibile iniziare a promuovere colture di prodotti necessari od utili al proprio sostentamento, i missionari si adoperino a darvi sviluppo. Il che sarà pure una buona scuola per far apprezzare agli indigeni i benefici di una vita laboriosa e stabile».
Il beato Allamano visse tutta la sua vita nell’impegno senza riserve per diventare santo e ai suoi missionari amava ripetere sovente: «Prima santi poi missionari». Ciò che lui viveva lo volle instillare nei suoi figli e figlie. Diceva loro: «Condizione assolutamente necessaria per tutti e in ogni tempo, è il desiderio, la volontà di santificarsi. Si fa santo colui che lo vuole. Questo si richiede: avere fame e sete della santità».
Ciò che tutti hanno sempre ammirato nell’Allamano era, infine, la sua dolcezza e amorevolezza. Se egli era fermo nei principi, era umanissimo nell’applicarli agli altri. Il forte senso di
paternità ne era il segreto. Il prossimo, prima di essere considerato un individuo da istruire o correggere, doveva essere amato. Verso tutti, soprattutto i giovani, si sentiva veramente un «padre».
padre Piero Trabucco
Murang’a 2
Dal 13 al 16 giugno 2022 si è svolto online il Convegno internazionale della famiglia Consolata «Murang’a 2», un evento per fare memoria della «Conferenza di Murang’a»: la missione del Kenya dove dal primo al tre marzo 1904, i primi missionari della Consolata, pieni di problemi all’inizio della loro esperienza in una terra sconosciuta, avevano deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro (vedi il dossier «Il sogno concreto» in MC 10/2022).
Un sogno realizzato
La Conferenza di Murang’a rappresenta una pietra miliare nella storia degli istituti dei missionari e missionarie della Consolata, in quanto ha elaborato una metodologia che costituisce le basi dello «stile consolatino» fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione, caratterizzato dalla formazione ed educazione tramite le scuole, il catechismo, i catechisti; sulla cura delle persone con i dispensari e gli ambulatori; sull’incontro interpersonale con la visita ai villaggi, lo studio delle lingue locali, la vicinanza ai popoli e alle persone, la formazione all’ambiente.
Murang’a 2 ha visto la partecipazione di 656 persone tra missionari, missionarie e laici della Consolata, e si è svolto nello spazio di quattro giornate imperniate ciascuna su una parola chiave: comunione, carisma, missione e sogno.
Come superiore generale, nel tirare le conclusioni di quel convegno, ne ho parlato come di «un sogno realizzato» che ci aiuta a riscoprire, quasi a reinventare, il carisma della vita consacrata rispondendo più direttamente ai bisogni e alle aspirazioni del nostro tempo pur restando fedeli al carisma del padre Fondatore.
Alla scuola di Allamano
I primi allievi e allieve, discepoli e discepole di Giuseppe Allamano videro sempre risplendere «un alone di santità» o di straordinarietà attorno alla sua figura e ai suoi gesti, anche minimi. Sentendosi amati e amate, «coccolati e coccolate» da lui, si diedero da fare per conservare tutto di lui (anche i capelli e i bottoni della sua veste), soprattutto il suo insegnamento, le sue calde raccomandazioni, lettere o bigliettini che volentieri scriveva a molti e a molte di loro.
Più passa il tempo, più Allamano cresce. Più si scava in profondità, più lo si ritrova ingigantito e presente. Questo prete, defunto da quasi un secolo, affascina e stimola ancora. Per noi, missionari e missionarie della Consolata «fa ancora notizia», non commemorazione, non rievocazione: fa ancora scuola. È lui, anche oggi, la novità, la spiegazione, l’attrattiva. Si va da lui non per visitare un monumento, ma per frequentare una persona viva, per ascoltare «un silenzioso che ha qualcosa da dire» (come lo ha definito suor Gian Paola Mina). Per riscoprire, ogni volta che ne sentiamo il bisogno, qual è la nostra vocazione, il nostro posto nella Chiesa, la nostra presenza nel mondo.
Tre perle
Desidero mettere in evidenza tre perle, tra le tante, dell’insegnamento di Allamano che possono orientare ancora:
- «Fare bene il bene»: ossia, ricerca della qualità della vita. La qualità della vita viene indicata da Allamano, come «principio ispiratore» della nostra vita e missione. È soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
- «Nella discrezione e semplicità»: la vita più che le parole del beato Fondatore ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare centro d’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo di protagonista, che è semplice, accogliente dell’altro, aperta alla dimensione comunitaria.
Esprime questo stile allamaniano il missionario, la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretese, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità. Basta ricordare quanto di lui disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
- «L’amore alla gente»: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”» (don Dario Berruto, rettore del santuario della Consolata).
Ispirati a Murang’a
Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.
Il nostro metodo missionario è caratterizzato da vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. La missione con i poveri aiuta a superare i rischi dell’autoreferenzialità, senza mai dimenticare che la missione nasce dall’incontro con Cristo. Il missionario, la missionaria, prima di tutto deve essere audace e creativo, al punto da ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi della missione, perché è necessario ripensare tutto alla luce di ciò che esige lo Spirito.
In questo sforzo per rispondere al Signore, contempliamo Maria, missionaria dei cammini di Dio nella storia, «Vergine magnanima del Magnificat», stella dell’evangelizzazione rinnovata. Ella è per noi modello di autentica missione.
padre Stefano Camerlengo
La carità nella verità
La vita e il genio di Giuseppe Allamano si esprimono in uno zelo ardente per vivere la verità di Cristo e promuoverne la presenza nelle persone, nelle culture, nella società e in ogni aspetto della vita quotidiana.
Nella vita della Chiesa occupa un posto di rilievo la storia delle varie spiritualità che sono come dei «tesori viventi» lasciati da individui arricchiti da Dio con un dono sacro e speciale di intuizione e di convinzione.
Papa Benedetto XVI, nell’enciclica «Caritas in veritate», ha affermato che verità e carità in Gesù «si rendono reciprocamente testimonianza, perché l’una non può stare senza l’altra». Anche Allamano si era già avventurato in un’appassionata ricerca per penetrare il significato di questa relazione in ogni aspetto della vita individuale e sociale. Un profondo e incondizionato amore per la verità è divenuto come l’ancora o il fondamento della sua spiritualità. Ne sono prova le sue parole ai missionari quando ha consegnato loro le prime Costituzioni dell’istituto nel 1923: «Ricevetele, o carissimi, non come dalla mia mano, ma dalla mano del Signore e della SS. Consolata che a questo istituto vi chiamarono, con vivo spirito di fede. Questo vi posso assicurare, che ogni singola regola, e non dubito di dire ogni singola parola, fu oggetto di serio studio, di lunghe considerazioni, specialmente di molte preghiere».
Vivere la carità nella verità è saggezza
La spiritualità allamaniana è l’antitesi della mentalità del «ghetto»: essa è fatta di sorgenti e ponti, non di muri e steccati. Allamano si deliziava a invogliare i suoi missionari a contemplare il vero, a dialogare con la gente, a capire la realtà locale con le sue culture. Uno dei suoi slogan era: «Ci vuole fuoco per essere apostoli». Sicuramente intendeva un fuoco nel dialogo con l’altro, che non sia un semplice scambio di vedute, ma una ricerca appassionata della verità.
In più Allamano era convinto che la ricerca intelligente della verità, quando non è fine a se stessa o sterile soddisfazione intellettuale, si orienta necessariamente alla missione, che ha come parte integrante la formazione e promozione umana degli individui e, di conseguenza, l’autentico progresso della società.
La spiritualità nella «pubblica piazza»
Per evangelizzare le persone nella «pubblica piazza», cioè nella società, ci vuole il vero fuoco missionario, non tiepidezze o mezze verità. Oggi, il secolarismo pervade la maggior parte delle società. Esso respinge la scuola di Dio, pone il Creatore fuori gioco, mettendo al centro la creatura.
Conoscendo lo spirito di Allamano, ecco quale sarebbe la sua denuncia al riguardo: distaccata dalla verità di Cristo, la persona afferra solo mezze verità, opinioni parziali e pregiudizi travestiti da dichiarazioni importanti e imperativi categorici. Così la sua condotta scivola nel compromesso permanente, che ottunde lo spirito. Gradualmente l’autentica libertà umana, che deriva dall’amore alla verità, si riduce a «scelte» parziali compiute in modo indiscriminato, quasi obbligatorie perché in voga, subito sostituite da altre nell’insaziabile ricerca di novità.
In questa mentalità secolarizzata Allamano ci invita ad aderire con tutte le nostre forze a ciò che è vero e buono. «Tutto faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23), e Allamano aggiungeva: «Tutto, tutto! Mi spenderò e mi sacrificherò». E continuava: «Non poniamo riserve o indugi nella dedizione di noi stessi per la salvezza delle anime… Ah, non sarà mai missionario chi non arde di questo fuoco divino!».
Fare il bene bene
Come possiamo realizzare la verità unita all’amore, che si rivela essere il fondamento indispensabile per il bene di ogni famiglia e di ogni comunità? Come ridare speranza alla società perché raggiunga il suo fine?
Allamano ci può aiutare anche in questo. La sua robusta spiritualità lo ha aiutato a dare risposte a queste domande. Egli ha cercato per prima cosa la coerenza e l’integrità della propria persona attraverso ciò che definisce «la necessità della scienza», intesa come continua ricerca della verità su Dio e sull’uomo. Ha così raggiunto una grande maturità, che lo ha reso idoneo a diventare l’uomo dell’amore verso gli altri, cioè l’uomo dell’aiuto e del consiglio.
Allamano ha proposto lo stesso suo percorso anche ai suoi figli: «Essendo voi missionari, la vostra scienza è molto più ampia: dovete attendere principalmente agli studi sacri e secondariamente allo studio ed esercizio dei lavori manuali, e poi del catechismo, delle lingue e di quelle nozioni che possono aiutarvi a fare in missione maggior bene».
Quando parlava di studio, Allamano non intendeva solo un’attività intellettuale, ma un impegno di ricerca e quindi di formazione progressiva e continua, che non fosse fine a se stessa, ma in funzione del servizio del prossimo.
La vera scienza porta a Dio e all’uomo in armonia con la natura. In questa prospettiva si comprende l’importanza che l’Allamano dava anche al lavoro manuale. Educarsi alla comprensione di ciò che costituisce il vero essere spirituale e morale di ognuno entra in quell’impegno che Allamano spiegava con l’espressione «fare il bene bene», in base al quale, mentre si conosce il valore immutabile di ogni persona, la si ama in modo concreto.
Questa intuizione è di grande attualità. Infatti, oggi la questione della verità della persona umana, della sua natura e dignità, si è come eclissata; diverse espressioni dell’amore umano appaiono banali e persino distorte. Al contrario Allamano insegna che l’amore, se si illumina con la fede e la verità, conduce l’uomo a un fine «alto», che garantisce una felicità duratura e indirizza alla società, che nella sua espressione più elevata diventa missione «ad gentes».
Thomas Ishengoma