Tanzania. Tutte le sfide della presidente


Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

Dal marzo dello scorso anno, il Tanzania ha una nuova presidente della repubblica, Samia Suluhu Hassan, subentrata d’ufficio al presidente John Magufuli, scomparso improvvisamente il 17 marzo 2021.

Magufuli era stato eletto nel 2015 e, completato un primo mandato presidenziale, era stato rieletto nell’ottobre 2020, quando aveva scelto la Suluhu come vicepresidente. Magufuli aveva gestito male l’emergenza della pandemia da Covid-19, dichiarando eradicata la malattia dal paese già nell’aprile 2020. Quando è morto, a 61 anni, è stato ufficialmente dichiarato deceduto per crisi cardiaca, ma la sua scomparsa, tuttavia, è avvolta nel mistero. Di fatto non appariva in pubblico da oltre due settimane.

Abbiamo parlato del paese con padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata e giornalista (già direttore di MC), che ha vissuto due diversi periodi storici nel paese.

Il peso del presidente

«Il Tanzania è una repubblica presidenziale, e questo vuol dire che il presidente ha un peso enorme. Ad esempio, i governatori delle regioni sono nominati direttamente da lui, che può anche rimuoverli. Così come tutti i ministri. È inoltre capo delle forze armate, garante della Costituzione, e molto altro ancora.

Secondo la carta costituzionale non è facile criticare il presidente. È possibile, ma occorrono elementi sicuri per farlo. Questo sistema può dar adito a un presidente autoritario, addirittura dittatore».

«Da circa un anno abbiamo come nuova presidente Samia Suluhu Hassan, donna, musulmana, terza moglie di un tanzaniano. Si presenta bene, parla bene l’inglese, a differenza di Magufuli, e ha un linguaggio molto accessibile. Quando ha preso il posto di Magufuli ha detto: “Le cose non cambiano, continueremo come prima”. In realtà le cose sono molto cambiate. A cominciare dall’atteggiamento nei confronti del Covid. Una delle prime cose che la presidente ha fatto, è stata di vaccinarsi, invitando tutti i cittadini tanzaniani a fare altrettanto. È stata fatta una campagna con manifesti per le strade. Ma la gente non si vaccina. A differenza del Kenya dove il vaccino si è diffuso».

La President del Tanzania Samia Suluhu Hassan Drew Angerer/Getty Images/AFP

Padre Francesco sulla misteriosa morte di Magufuli dice che «è stato ammalato per 17 giorni, durante i quali c’è stato un blackout di notizie. Il primo ministro Kassim Majialiwa diceva di non preoccuparsi, non prendere notizie dai social media. Invece Samia, che era vicepresidente, pochi giorni prima che il suo predecessore morisse, ha detto: “Il presidente Magufuli è un uomo come tutti, e come tutti può anche ammalarsi”. La versione ufficiale è che sia morto per problemi cardiaci, ma qualcuno dice che sia morto per Covid, e altri addirittura per avvelenamento, e che ci sia stato un complotto nel quale c’entra Jakaya Kikwete, il presidente suo predecessore. Ma sono solo voci».

La cosa più eclatante è il cambiamento di politica che la nuova presidente ha messo in atto. In uno dei suoi primi interventi, parlando al giudice federale, garante della Costituzione, ha chiesto di elencare tutte le cose che nel paese non funzionavano. Padre Francesco racconta che il giudice ha iniziato l’elenco partendo da alcuni scandali relativi al lavoro: «Magufuli si vantava dei lavori infrastrutturali che si stavano facendo. È vero che ha realizzato diverse azioni di ammodernamento, di sviluppo, come il progetto di ferrovia ad alta velocità da Dar-es-Salaam a Morogoro. Ma si è scoperto che c’erano un migliaio di operai assunti non registrati. Tutti cinesi e coreani».

Austerità e manganello

Il presidente Magufuli aveva imposto un clima di austerità abbastanza rigido, ad esempio aveva proibito a tutti i ministri di viaggiare all’estero. E lui stesso è andato pochissimo in visita ufficiale. Aveva inoltre eliminato alcune feste nazionali, per risparmiare soldi da investire in opere pubbliche, come risistemare e costruire strade. «Era un intervento populista, però era positivo. Lui si proclamava difensore dei poveri, e in un certo senso lo era. D’altro lato però era una persona autoritaria, come lo è anche Suluhu, ma in termini più sfumati. Ad esempio, se parliamo della polizia, non si sa fino a che punto sia autonoma o sia alle dipendenze del presidente.

Per ogni manifestazione di piazza occorre avere il permesso, ma raramente viene concesso; quindi, non ci sono molti scioperi o dimostrazioni e, se si verificano, la polizia può intervenire anche in maniera molto pesante. Se ci sono dei morti, difficilmente la polizia viene inquisita, c’è una certa impunità».

In Tanzania il parlamento ha un ruolo secondario. Ha prerogative di controllo sul presidente, ma in termini molto blandi. Una delle richieste dell’opposizione è di rivedere la Costituzione. Magufuli si era opposto e anche la Suluhu ha rimandato.

«Il parlamento è sovrano, ma non si sa di cosa – afferma padre Francesco -. Le leggi devono essere controfirmate dal presidente. Ci sono poi casi eclatanti di mancanza di giustizia. Ad esempio, quando le opposizioni sono troppo forti o violente, gli interessati vengono presi e poi scompaiono».

Un paese ricco

Il momento attuale, secondo il nostro interlocutore, è segnato da un’impasse grave: «Il Tanzania è un paese ricco, a differenza di quello che diceva il presidente Julius Nyerere i primi tempi del suo mandato (1964-1985). Ha grandi giacimenti di oro, i maggiori dopo Sudafrica, Ghana e Congo. Ha la tanzanite, che si trova solo sul suo territorio. Ha molto gas naturale».

Rispetto a quest’ultimo, è stato valutato che il Tanzania abbia giacimenti offshore di oltre 1.600 miliardi di metri cubi. È stato recentemente firmato un primo accordo tra la Tanzania petroleum development corporation, l’ente statale di gestione, e alcune multinazionali europee e statunitensi per la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas naturale che permetterà di trasportare la materia prima, tramite navi, in qualsiasi parte del mondo. L’investimento sarà di circa 30 miliardi di dollari e dovrebbe dare lavoro a circa 5mila persone. L’impianto entrerebbe in funzione tra 4-5 anni e farebbe diventare il Tanzania uno dei maggiori esportatori di gas naturale al mondo. Con la crisi energetica in corso, a causa della guerra in Ucraina, questo tipo di impianti diventa sempre più interessante. Attualmente il paese ha già tre giacimenti in funzione con una produzione di circa tre miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.

Il paese è inoltre ricco di acqua. È circondato dai grandi laghi: Vittoria, Tanganika, Niassa, e percorso da grandi fiumi.

Potenzialmente è un paese con enormi possibilità agricole, a differenza del Kenya che importa derrate alimentari proprio dal vicino. Non si tratta però di un’agricoltura meccanizzata, ma svolta a livello famigliare, artigianale.

Un’altra risorsa, poi, è rappresentata dalle bellezze naturali che alimentano una florida industria del turismo: «Il Tanzania è il più grande giardino zoologico del mondo», ricorda padre Francesco.

La popolazione

«La ricchezza maggiore del paese è la popolazione – aggiunge padre Francesco -: pacifica, tranquilla scevra da ogni tribalismo, a differenza di tanti paesi africani, come, ad esempio, Kenya, Uganda, Burundi. È un vantaggio, questo, dovuto alla lingua swahili che unisce.

Inoltre, il Tanzania ha avuto il pregio di raggiungere l’indipendenza in maniera pacifica, senza guerre civili.

I primi missionari, i benedettini, hanno insistito sullo swahili. Poi è venuto in presidente Nyerere, che ha dato un grande impulso a questa lingua, anche dal punto di vista religioso. Lui ha tradotto i quattro Vangeli in un suo swahili particolare, molto popolare.

L’aspetto negativo può essere che si sta indebolendo l’inglese, che è parlato pochissimo e male. Questo è un impoverimento. In parlamento si parla swahili, all’università di parla inglese, ma è un inglese molto povero.

Al contrario di quello che sta avvenendo in Kenya, dove lo swahili sta crescendo ed è di buon livello, in Tanzania si sta mischiando con l’inglese e altre lingue. Le lingue locali, che sono tante, non hanno peso. I giovani delle diverse etnie, parlano tutti swahili, non parlano le loro lingue. In particolare a Dar-es-Salaam, città di sei milioni di abitanti, dove non c’è tanzaniano che non vi abbia un parente».

Livello di vita

Padre Francesco ha il privilegio di poter fare il confronto di due periodi su un arco di mezzo secolo: dalla sua prima esperienza alla sua vita nel paese oggi. Ci conferma che in città la vita è molto cambiata, mentre in campagna un po’ meno.

«La prima volta sono arrivato in Tanzania nel 1973 e vi sono rimasto tre anni. Nel ‘74 lavoravo in un villaggio con un altro padre più anziano. Il giudice del luogo ci ha chiamati a osservare un processo. Al termine avevamo capito tutte le parole, ma non l’argomento. Si trattava di una violenza di un padre su una figlia, un caso nuovo per la società di allora. La parola “violentare”, in quei quattro anni non l’ho mai sentita.

Oggi, invece, il tema è all’ordine del giorno, giornali, televisione, radio. Violenza domestica e sessuale sono diffusissime».

Padre Francesco ci dice che sta avvenendo un cambiamento culturale importante, specialmente tra i giovani. Non sopportano più di stare zitti: «Io sono a contatto con ragazzi e ragazze universitari e laureati che dicono: “Non si può andare avanti così, se vedo cose che non vanno, specialmente per quanto riguarda la giustizia, non sto zitto”».

I giovani sono attratti dalla città, perché sperano di divertirsi e di acquisire una certa istruzione, se sono ammessi all’università, cosa che dipende da come si sono qualificati alle superiori. «Molti studiano informatica e marketing. Ma una volta terminati i tre anni, ci sono ragazzi e ragazze che si danno al commercio di strada, per racimolare qualcosa. Oppure fanno i mototaxi, che provocano tanti incidenti. Ma il guadagno è molto povero. Se riescono a ricavare 3-4 euro al giorno va bene. Lo fanno per sopravvivere».

C’è dunque un livello di reddito molto basso, non c’è fame, ma non c’è circolazione di denaro. Se una famiglia ha un’emergenza, cure mediche da affrontare, o andare a un funerale a molti chilometri di distanza, non ha i soldi per affrontarla. «Molto spesso le persone che lavorano con me, a metà mese mi chiedono un anticipo, perché non hanno abbastanza soldi per pagare il trasporto pubblico e venire al lavoro».

La disoccupazione, specie giovanile, è altissima. La gente si arrangia. Ma non c’è la tendenza a migrare, neppure tra i giovani.

Per chi ha un lavoro, il problema grosso sono i salari bassi. Di solito al primo maggio di ogni anno venivano aumentati, ma la presidente l’anno scorso e quest’anno non lo ha fatto. Oggi lo stipendio medio è di circa 80 euro al mese.

Ma tutti i prezzi stanno aumentando, anche a causa della guerra in Ucraina. Non se ne parla molto, ma l’influenza si vede già. Il costo della benzina e dei generi di prima necessità, come la farina, sono aumentati, anche del 70%. Così pure i mezzi di trasporto».

Alle Nazioni Unite, nella mozione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il Tanzania si è astenuto, mentre il Kenya ha votato contro la Russia. C’era una certa alleanza, molti studenti sono passati da Mosca.

Il Tanzania ha relazioni con la Cina sul piano economico, da sempre. Il Tanganyka (il primo nome del paese, ndr) è stato forse il primo paese che ha avuto rapporti con il gigante asiatico. Durante la guerra fredda, Nyerere ha scelto la Cina. I cinesi hanno costruito la ferrovia che collega il Tanzania con lo Zambia. Oggi la grande maggioranza dei prodotti circolanti sul mercato sono cinesi. La gente li compra perché il prezzo è basso, anche se la qualità è scadente. Ci sarebbero anche prodotti buoni: «Una tanzaniana che conosco stava per aprire un’attività commerciale ed è andata in Cina per vedere cosa importare. Mi ha poi raccontato: “In Cina mi hanno fatto una domanda: signora vuole prodotti scadenti, copie o originali? E mi hanno fatto tre prezzi”».

Bambini scomparsi

Un altro fenomeno di cui ci parla padre Bernardi è quello dei bambini che scompaiono. «Si cercano anche con annunci in chiesa. Cosa c’è dietro? Sono bambini che magari non sopportano l’ambiente famigliare. Alcuni scappano. Altri vengono rapiti, specie le ragazze di 10-15 anni.

Una mamma un giorno mi ha detto: “Mia fglia non c’è più. L’ho mandata da una zia che abita a 600 km ed è scomparsa. Potrebbe essere stata rapita, essere al servizio di una signora o del marito di questa”. La mamma voleva andare a vedere ma non aveva i soldi per pagare il viaggio».

«Quando Nyerere divenne presidente, nel 1961, disse: “Il Tanzania ha tre nemici: povertà, ignoranza, malattia”. Si sono fatti dei passi, ma oggi sono ancora i tre nemici principali. E oggi vedo un quarto nemico: la corruzione.

Io personalmente ritengo che il paese farà strada. Ero in Tanzania 50 anni fa e non c’era nulla. Oggi è cambiato, è andato avanti. Ha delle potenzialità. In quei tempi le persone qualificate erano molto poche. Nel ‘61 quando il Tanganika divenne indipendente, c’erano due studenti, uno di medicina e uno di ingegneria. La qualità però è ancora bassa».

Parliamo di terrorismo islamista, ricordando l’attentato del 1998 all’ambasciata Usa. «In Tanzania non c’è. L’unica incertezza è Zanzibar. Ci sono state, negli anni passati, alcune uccisioni, tra cui un prete, e dei ferimenti. Ma il governo centrale ha il pugno di ferro. Quando ci sono giovani sospetti vengono eliminati. È sempre stato così. Dicono che ai primi tempi di Nyerere ci siano stati due tentativi di colpi di stato, sventati dai servizi segreti, che funzionano molto bene».

La Consolata in Tanzania

«Noi missionari della Consolata abbiamo compiuto 100 anni di presenza in Tanzania (cfr. MC gennaio 2019). Arrivammo nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi furono sconfitti e i missionari tedeschi, benedettini, vennero cacciati. A mio parere abbiamo compiuto una grande opera. In particolare, di educazione scolastica: gli stessi figli di Nyerere hanno studiato da noi. Abbiamo costruito missioni con un impegno notevole. Quell’epoca è passata, ora l’Istituto è africanizzato e noi stranieri siamo una minoranza, e siamo anziani.

Oggi abbiamo un’eccellenza che è il centro di Bunju a 35 chilometri da Dar-es-Salaam (cfr. MC luglio 2020). È un centro di formazione culturale missionaria, “un centro per pensare, per far pensare i giovani”. È stato creato per dare una formazione approfondita ai giovani e ai catechisti. Questi sono la forza principale della chiesa.

Allo stesso tempo il centro raccoglie tante persone, di estrazione diversa: i luterani sono i nostri “clienti” migliori, gli anglicani, le Ong vengono a fare incontri. Lo frequentano anche i musulmani, presenti, ad esempio, nei gruppi governativi. E tutti restano molto soddisfatti.

Questo è un punto qualificante che l’Istituto ha in Tanzania oggi. Non è facile portarlo avanti, perché la formazione culturale approfondita non è un’esigenza molto avvertita. Il Tanzania è un paese dove la gente legge pochissimo. Esiste un detto: “Hai un segreto e vuoi che resti tale? Scrivilo, perché nessuno ti legge”. Questo è l’insulto peggiore che possano fare ai tanzaniani! Ma questa è anche la grande sfida: cominciare a far pensare la gente. Io leggo romanzi locali per avere un’idea della società. C’è un abisso tra quello quello che la gente vive nel quotidiano e quello che scrivono i romanzieri, i quali propongono idee anche nuove, magari critiche verso il potere, la tradizione, la cultura. Anche dal punto di vista religioso, non basta avere il rosario al collo, bisogna avere la Bibbia in mano. Leggere e pensare. Come cristiani è la Parola di Dio che deve essere il nostro libro e non i libercoli.

I vescovi tanzaniani, ogni anno, in occasione della Quaresima, scrivono una lettera. Di solito è molto bella, critica. Ma viene ignorata dagli stessi preti. Manca un senso critico verso società, politica, chiesa. Il centro di Bunju vuole preparare la gente a pensare con la propria testa. Per questo motivo abbiamo fondato la rivista Enendeni, che vuol dire Andare, l’unica a carattere missionario, anche un po’ critica. Fa fatica a diffondersi.

Abbiamo poi tante altre opere, come l’ospedale di Ikonda, l’accoglienza dei bambini abbandonati, vicino a Iringa. Ma la novità è questo centro».

Chiediamo a padre Francesco qual è il suo impegno oggi. «Sono ripartito nel 2011 dopo 38 anni a Torino nella redazione di questa rivista. Avevo 68 anni. Ho trovato questo grande paese cambiato. Per prima cosa ho fatto un patto con me stesso: per tre anni non leggere una riga di italiano, non parlarlo, ma solo swahili. E l’ho fatto. Oggi me la cavo. Il mio swahili non è quello della gente, ma più letterario, secondo le regole e la grammatica.

Dopo 11 anni a Bunju, ho preparato il mio successore alla rivista Enendeni, lavorando con lui un anno. Quindi sono andato a fare il viceparroco in una parrocchia di missione, nella parte centrale di Dar. È una zona degradata, una semi favela. Dar ha poche strade di accesso grandi, solo due. Lasci la strada principale, ti metti dentro e sono strade in terra battuta. Vicoli. Ma la gente esce vestita bene».

Marco Bello

 




Camerun. La speranza è nella scuola


A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.

Nel mio viaggio precedente sono stato a Yaoundé, la capitale, e Douala (vedi Mc 04/2020). Questa volta la mia destinazione è il villaggio di Batack nell’Ovest del paese, nella provincia di Bafang, nell’area francofona, a un’altitudine di circa 1.500 metri, in una regione montuosa dalla vegetazione lussureggiante. Andando per qualche chilometro più a Ovest mi sarei addentrato nell’area anglofona della regione, epicentro di conflitti e di violenza etnica. Visitando i villaggi, incontro molte famiglie di lingua inglese, spesso costituite solo da donne e bambini. Fuggite dalle aree di crisi, hanno trovato rifugio nelle province confinanti. Molte di queste madri mi riportano racconti di distruzione dei loro villaggi e di violenze fisiche di cui portano spesso i segni. Segni che per alcune di loro e per i loro bambini, saranno permanenti.

Cameroon – Aprile 2022 – Nord-Ovest – Batack – Bafang District

La crisi umanitaria

Nove regioni su dieci del Camerun sono colpite da crisi umanitarie ormai croniche, causate dalle violenze nel bacino del lago Ciad e nelle regioni del Nord Ovest, aggravate delle azioni di Boko Haram, e nel Sud Ovest, dove perdura il conflitto nella zona anglofona.

A complicare tutto questo si aggiunge anche la presenza, nelle regioni orientali del paese, di oltre 300mila profughi provenienti dalla Repubblica Centrafricana. Il tutto aggravato dal deficit di sviluppo strutturale e da vulnerabilità che sfidano costantemente la popolazione.

Anche la pandemia ha contribuito a complicare la situazione colpendo la popolazione con circa 120mila casi confermati e quasi due mila decessi alla fine di maggio 2022. Numeri lontani da quelli a cui siamo abituati in Europa e nel resto del mondo, ma anch’essi influenti sul peggioramento della generale condizione sanitaria del paese.

La Repubblica del Camerun è al 153° posto su 189 nella classifica dei paesi per l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (che misura, oltre al Pil, le disuguaglianze di istruzione, la speranza di vita e altri indicatori).

In questo contesto, il supporto umanitario delle Ong internazionali e, tra esse anche quelle italiane, è determinante.

Natura incontaminata e piste rosse

La difficoltà maggiore nel visitare l’area di Batack è quella degli spostamenti tra i villaggi. Una volta lasciata la strada principale, le uniche vie di comunicazione sono le piste di terra rossa che si snodano nel mezzo della vegetazione. A causa delle piogge intermittenti, queste piste diventano difficili e faticose da percorrere. I nuclei familiari vivono sparsi e isolati in quelli che si definiscono compound (pezzo di terra di proprietà di una famiglia dove sorge la casa, ndr) e quindi visitarli significa percorrere in ogni direzione tutto il versante della montagna. Muoversi con un mezzo diverso da una motocicletta è impensabile. Ringrazio Elysée, uno dei maestri della scuola elementare di Batack, che si è offerto di accompagnarmi con la sua moto.

La scuola materna di Batack

A Batack c’è una scuola materna realizzata grazie alla collaborazione tra la Ong Movimento Sviluppo e Pace e l’organizzazione locale Covideba, il Comitato per lo sviluppo del villaggio di Batack. Il progetto della scuola vuole dare una risposta concreta, anche se parziale e locale, a una situazione di necessità o, meglio, d’emergenza.

Questa situazione è causata principalmente dalla scarsa capacità del sistema scolastico nazionale di creare infrastrutture per l’istruzione e di provvedere insegnanti qualificati sul territorio. Inoltre quelli assegnati dal governo a queste aree disagiate non trovano stimoli né strumenti per  svolgere il loro lavoro.

La mancanza di scuole e di insegnanti non aiuta certo i bambini nella loro formazione, anche perché le famiglie spesso non hanno la capacità di sostenere le spese dell’istruzione a causa della povertà. I minori sono esposti all’abbandono scolastico e, di conseguenza, costretti a lavorare per aiutare la famiglia.

I matrimoni precoci, la delinquenza giovanile, il consumo di droga, la prostituzione ne sono alcune delle conseguenze.

La spesa statale per l’istruzione in Camerun è relativamente bassa rispetto ad altri paesi africani, e la situazione di conflitto degli ultimi anni ha portato alla chiusura, alla distruzione o all’abbandono di molte scuole.

Nonostante questi problemi che affliggono la vita dei piccoli camerunesi, c’è speranza. I tassi di iscrizione all’università in Camerun sono aumentati del 22% negli ultimi 20 anni e l’alfabetizzazione media degli adulti è in costante crescita. Ne è un esempio l’Università di Bafang, che ho avuto modo di visitare, nella quale grazie al supporto di alcune Ong, verranno avviati progetti di formazione e innovazione tecnologica e di sviluppo sostenibile in ambiti come agricoltura, sanità, istruzione e formazione.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it  Camerun /1 – continua)

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Più cuore e più spazio


L’ospedale di Neisu, in Congo, si è arricchito di un reparto di cardiologia, mentre in Costa d’Avorio il centro di salute di Marandallah avrà presto una nuova farmacia e il centro di Dianra potrà contare su un reparto per il ricovero di pazienti.

Le malattie cardiovascolari (Mcv) sono la principale causa di morte sul pianeta: secondo i dati riferiti al 2019 dello studio Global burden of disease (Gbd) dell’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington (Usa). Queste patologie hanno, infatti, provocato 18,5 milioni di decessi su un totale mondiale di 56,5 milioni, un decesso su tre. Si tratta di cardiopatie ischemiche nella metà dei casi, di ictus in un caso su tre e di altre patologie nel restante 17% dei casi. Oltre l’80% di queste morti avvengono in paesi a basso e medio reddito.

Il paese numericamente più colpito è la Cina, con oltre 4,5 milioni di decessi, che rappresentano però il 43% del totale dei decessi nel paese. Ad avere il primato in termini percentuali è l’Ucraina, le cui 449mila morti causate da malattie cardiovascolari sono il 64% del totale nazionale@.

In Africa subsahariana, nel 2019 le morti per Mcv sono state un milione, quasi raddoppiate rispetto alle 564mila del 1990. Anche a livello globale si è verificato un aumento, ma è pari a circa il 50%, dai 12 milioni del 1990 a 18,5 milioni attuali, mentre nell’Unione europea vi è stata una lieve diminuzione, passando da 2,3 milioni a due.

Un rapporto pubblicato nel 2014 dall’Organizzazione mondiale della sanità sottolineava come una delle cause dell’aumento di queste patologie in Africa subsahariana fosse l’invecchiamento della popolazione. La regione aveva anche la più alta prevalenza – cioè persone malate sul totale della popolazione – di ipertensione al mondo: 38,1% tra i maschi, 35,5% tra le femmine con alcuni paesi – Capo Verde, Mozambico, Niger, São Tomé e Principe – che riportavano tassi di prevalenza del 50% o superiori.

C’erano circa 80 milioni di adulti con ipertensione nell’Africa sub-sahariana nel 2000, si legge ancora nel rapporto, e le proiezioni del 2014 suggerivano che questa cifra salirà a 150 milioni entro il 2025. Fra le cause che il rapporto indicava, vi era la frequente assunzione di sale a dosi elevate: il sale viene infatti utilizzato per conservare gli alimenti ma anche aggiunto per rendere più gustosi i cibi@.

La situazione in Congo

Nel 2019 in Repubblica democratica del Congo sono morte 564mila persone, di cui quasi 90mila – il 16% – per malattie cardiovascolari. Per 31mila e settecento persone – circa una su tre – si è trattato di cardiopatie ischemiche e 33mila – di nuovo un terzo – sono state colpite da ictus, mentre delle restanti 25mila, oltre la metà è deceduta a causa di una cardiopatia ipertensiva.

Vale per la Rd Congo la stessa tendenza segnalata sopra per l’Africa subsahariana: le morti da malattie cardiovascolari sono raddoppiate, da poco più di 45mila del 1990 alle attuali 90mila.

A complicare le cose vi è la scarsa disponibilità di personale sanitario nel paese che conta 30.768 medici generalisti e 778 specialisti per una popolazione di quasi 90 milioni di persone, un rapporto di 0,4 medici ogni mille abitanti, che sale a 1,5 ogni mille se si considera anche il personale infermieristico@. Per avere un termine di paragone, secondo i dati Istat più recenti, del 2019, in Italia il rapporto è di 4 medici ogni mille abitanti considerando generalisti e specialisti insieme, e sale a 10 ogni mille abitanti se si aggiunge il personale infermieristico@.

All’ospedale Notre Dame della Consolata (Hndc) che i missionari Imc gestiscono a Neisu, provincia dell’Alto Uélé, Nordest della Rd Congo, nel 2020 le malattie cardiovascolari sono state la causa di otto su 49 decessi (16%) fra i ricoverati in terapia intensiva, sette per insufficienza cardiaca e uno per ipertensione, mentre in medicina generale 20 delle 39 morti (51%) sono state causate da insufficienza cardiaca.

Quanto ai ricoverati, sui 908 ricoveri in medicina interna, 193 avevano patologie cardiovascolari – circa un paziente su cinque – nella maggior parte dei casi (174) un’insufficienza cardiaca, mentre in terapia intensiva, su 309 ammessi, 32 avevano una Mcv, circa uno su dieci. In 29 casi si trattava ancora una volta di insufficienza cardiaca.

Un reparto cardiologia per Neisu

L’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu è nato all’inizio degli anni Ottanta come dispensario, per iniziativa di padre Oscar Goapper, medico e missionario poi scomparso nel 1999. Oggi la struttura sanitaria consiste di un ospedale centrale e 12 centri periferici, di cui il più lontano si trova a 55 chilometri dalla struttura centrale, in una zona che può richiedere un’intera giornata per essere raggiunta perché le strade non sono asfaltate e spesso sono dissestate: durante la stagione delle piogge, infatti, acqua e fango le rendono impraticabili.

L’ospedale ha oggi 210 posti letto e il personale è composto da 5 medici generalisti, 46 infermieri all’ospedale più 11 nei centri periferici, e 32 dipendenti tra impiegati dell’amministrazione, inservienti e addetti alla manutenzione. Nel 2021 i parti sono stati 599 e le visite esterne quasi 6.200.

La struttura, fino a pochi mesi fa, non disponeva di un reparto di cardiologia, né poteva riferire i pazienti ai centri sanitari del capoluogo provinciale, Isiro, non solo per le distanze, ma soprattutto perché nemmeno in città esisteva un reparto in cui assistere le persone con Mcv. «Ricoveriamo i malati in medicina interna o terapia intensiva», spiegava Ivo Lazzaroni, missionario laico responsabile dell’ospedale, «causando loro ulteriore stress e disagio alla vista di altri ammalati in condizioni difficili o, a volte, già in stato terminale. Era chiaro che serviva un nuovo padiglione solo per malati cardiaci, dove potessero essere loro garantite cure adeguate e riposo. Per questo abbiamo pensato di costruire un reparto con due stanze da dieci posti letto l’una, un ambulatorio e due stanze private con toilette».

Grazie alla generosità di diversi donatori privati e aziende, i lavori strutturali sono iniziati nella primavera del 2021 e si sono conclusi nei primi mesi di quest’anno, mentre è ora in corso l’acquisto di equipaggiamento, attrezzature e arredamento: ecografo o ecodoppler, letti e altro mobilio essenziale. Era inoltre necessario formare il personale sanitario in modo che si specializzasse sulle Mcv: grazie a un’altra donazione privata è stato possibile inviare la dottoressa Michèline e le infermiere Mariamo e Marie Noelle a Kinshasa, capitale del paese, a frequentare un corso di formazione di tre mesi.

Costa d’Avorio: piccoli centri, grandi servizi

In Costa d’Avorio i Missionari della Consolata gestiscono due centri sanitari nel Nord del paese: il Centre de santé Joseph Allamano (Csja) a Dianra e il Centre de santé Notre Dame de la Consolata (Csndc) a Marandallah.

A Dianra, ai servizi già presenti – dispensario, maternità, farmacia, laboratorio analisi – si sono aggiunti a partire dal 2019 un servizio odontoiatrico, un programma nutrizionale e un servizio di accompagnamento alle persone affette da patologie mentali. Grazie al sostegno di un donatore privato, si è poi avviato il servizio trasfusioni, con l’installazione di un frigo per la banca del sangue, portato avanti nel quadro della fruttuosa collaborazione con le autorità sanitarie locali.

Il servizio trasfusioni, rivolto specialmente a bambini affetti da anemia grave, ha ricevuto più richieste di quanto il responsabile del Csja, padre Matteo Pettinari, si aspettasse, e il numero di posti a disposizione nelle sale degenza si è presto rivelato troppo basso. Padre Matteo ha aggiunto materassi posati al suolo nelle sale degenza, ma è stato subito chiaro che non poteva trattarsi di una soluzione né sufficiente né definitiva. Per questo si sta ora completando la costruzione di un’ulteriore sala per l’ospedalizzazione, che permetterà di accogliere in spazi adeguati i pazienti che necessitano di una trasfusione tenendoli separati da quelli ospedalizzati.

Un altro intervento in corso a Dianra è quello della messa a norma del centro come richiesto dalle autorità sanitarie locali: si sta dunque provvedendo a tinteggiare o piastrellare le sale di visita e attesa, a dotare il centro di pattumiere a pedale, a sostituire le tende di stoffa con altre di un materiale plastificato per poterle più facilmente disinfettare e altri accorgimenti di questo tipo.

Presso il centro di salute di Marandallah, invece, grazie a diverse donazioni di privati e aziende, si sta procedendo alla costruzione di una farmacia più grande, poiché quella attuale – spiegava a inizio 2021 il responsabile padre Alex Likono – non aveva più spazio sufficiente né per lo stoccaggio dei medicinali né per permettere al personale di muoversi in modo agevole e trovare con rapidità i farmaci. Si stanno inoltre acquistando e installando ventilatori in ogni reparto – durante la stagione più calda, in questa zona della Costa d’Avorio si arriva a temperature intorno ai 40° – in modo da garantire una degenza il più possibile confortevole ai pazienti e un ambiente di lavoro gradevole al personale.

Chiara Giovetti


I numeri degli ospedali e dei centri sanitari:

Anno 2021                         consulti       parti         posti letto       personale

Hndc Neisu                       6.191            599          210                  94

Csja Dianra                       3.850           175           8                      25

Csndc Marandallah          3.286          91             18                     25


Vaccino malaria, a che punto siamo

Lo scorso aprile l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riportava che era arrivato a un milione il numero di bambini fra Kenya, Malawi e Ghana che avevano ricevuto una o più dosi di RTS,S (noto come Mosquirix), il vaccino attivo contro il Plasmodium falciparum, il più letale dei parassiti che causano la malaria e quello più diffuso in Africa. Il vaccino non offre protezione contro il Plasmodium vivax, parassita diffuso invece in molti paesi non africani. L’efficacia del vaccino era stata confermata nello studio di fase 3 della sperimentazione clinica, avvenuta fra il 2014 e il 2019: tra i bambini di età compresa tra 5 e 17 mesi che hanno ricevuto tre dosi di RTS,S somministrate a intervalli di un mese, seguite da una quarta dose 18 mesi dopo, il vaccino ha ridotto la malaria del 39%, cioè l’aveva prevenuta in quasi quattro casi su dieci. Le quattro dosi hanno anche ridotto del 31,5% la malaria grave in questa fascia di età, riducendo i ricoveri e la necessità di trasfusioni di sangue. Tra i bambini che all’età di 5-17 mesi hanno ricevuto le prime tre dosi senza poi ricevere la quarta, il beneficio protettivo contro la malaria grave è andato perso, evidenziando l’importanza della quarta dose.
Tra i bambini più piccoli, invece, il vaccino contro la malaria non ha funzionato abbastanza bene da giustificarne l’ulteriore utilizzo in questa fascia di età.
Il programma vaccinale pilota è stato lanciato nell’aprile 2019 e si prevede finisca nel 2023: allora saranno disponibili i dati più consolidati sulla fattibilità della somministrazione, sul ruolo del vaccino nel ridurre le morti e sulla sua sicurezza nell’uso di routine. Questi risultati, spiega l’Oms, informeranno le future decisioni circa la possibilità di somministrazione su larga scala@.

Chi.Gi.




Il Padre mio è differente


Photo by Jason Leung on Unsplash

Non manda al massacro i suoi figli contro l’aggressore perché difendano la sua casa.
Si presenta egli stesso, inerme, di fronte all’uomo imbestialito. Per riportarlo a umanità. Ben sapendo che il suo intento, in gran parte, fallirà. In gran parte, ma non in tutto.
Perché, se la sua casa è assaltata e devastata, la vera casa dei suoi figli è l’umanità stessa. E non c’è umanità che possa rimanere tale mentre organizza e mette in atto la morte dell’avversario, sia pure egli l’aggressore.

La Madre mia è differente. Non usa mai la parola vittoria, a meno che non sia vittoria sulla morte. Accoglie anche chi vuole toglierle la vita e i figli dal grembo. D’altro canto, se togliesse lei stessa la vita a chi la minaccia, toglierebbe anche il respiro ai propri figli.

Lei suggerisce che il prezzo della sua vita non può essere la vita di nessun altro. Di nessun altro. Che la vita è abbondanza traboccante, non tesoro da chiudere in un forziere in fondo a un bunker. Quel bunker, dopo la battaglia, facilmente rimarrebbe seppellito sotto le macerie e il suo fragile contenuto verrebbe scordato.

Mio fratello è differente. Non mi mostra tecniche per eliminare il nemico, mi mostra come disarmarlo a mani nude, aprendole, offrendo ciò di cui l’altro ha bisogno, donando la sua vita per farselo fratello.

Mio fratello sa che, facendo così, finirà in croce, ma sa anche che è l’unico modo per salvare l’altro, per salvare tutti, perché non sia la morte a mangiarsi la vita, ma la vita a digerire la morte. Perché se vuoi conservare la tua vita, la perderai, ma se perderai la tua vita per amore, allora non morirai in eterno.
Morirai. Ma non in eterno.

Quanta vita, quante vite, salva ogni fratello che rifiuta la logica della mors tua vita mea, quella del vinca il più forte, il più grosso, il più scaltro, il più ricco, il più armato.

Ogni atto di disarmo è un atto di libertà, è una porta che si apre in un vicolo che pare cieco.

Buoni esercizi di umanità anche durante l’estate, da amico
Luca Lorusso

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Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Sommario MC luglio 2022


Questo numero di luglio di MC è disponibile online dal 16 luglio 2022

Editoriale

Dossier

Articoli

Rubriche

Amico

 

Editoriale

Sussurrare

Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro
che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».

Dossier

Cambogia 1985-2022, nulla di nuovo al potere
Ancora pochi sorrisi per i Khmer

Dispotismo (per il bene del popolo)

La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico
cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.

 

Articoli

Murale per la visita di papa Francesco a Baghdad (2021). Foto Angelo Calianno.

Iraq. La situazione dei cristiani – Una fuga che non si arresta

Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.

 

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

Messico. «Desaparecidos» e «buscadores» – Per un nome, un volto, una storia

Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

 

La scultura “Non-Violence” o “La pistola annodata” dell’artista svedese Carl Fredrik Reutersward.

50 anni dall’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza – Tu non uccidere

L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.

 

 

(Photo by Sam Yeh / AFP)

Taiwan. Se la guerra in Ucraina influenza le tensioni tra Pechino e Taipei – Vento europeo sullo stretto

La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?

 


Tanzania. Conversazione con padre Bernardi, missionario e giornalista – Tutte le sfide della presidente

Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

 

Rubriche

Noi e Voi

Dialogo lettori e missionari.

  • Di Ucraina.
  • Un Cammino di libertà.
  • Grazie Annalisa Vandelli.
  • Monsignor Giorgio Marengo cardinale

 

Criptovalute, il denaro invisibile

Alcuni tipi di criptovalute. Foto WorldSpectrum – Pixabay.

Create dai computer, circolanti soltanto via internet, figlie della tecnologia: sono le criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Litecoin, ecc.), la nuova forma del denaro. Un denaro elettronico che circola senza intermediazione bancaria,
ma che non si salva né dall’economia illegal né dalla speculazione.

 

 

Un Dio amuleto (Es 32)

L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.

Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.

Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.

I Viaggi di Dan. Camerun. Conflitti, povertà e crisi umanitaria

– La speranza è nella scuola

A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.

 

 

Coopera.

Più cuore e più spazio

L’ospedale di Neisu, in Congo, si è arricchito di un reparto di cardiologia, mentre in Costa d’Avorio il centro di salute di Marandallah avrà presto una nuova farmacia e il centro di Dianra potrà contare su un reparto per il ricovero di pazienti.

 

Amico

Photo by Jason Leung on Unsplash

Il Padre mio è differente.

Non manda al massacro i suoi figli contro l’aggressore perché difendano la sua casa. Si presenta egli stesso, inerme, di fronte all’uomo imbestialito. Per riportarlo a umanità. Ben sapendo che il suo intento, in gran parte, fallirà. In gran parte, ma non in tutto.
Perché, se la sua casa è assaltata e devastata, la vera casa dei suoi figli è l’umanità stessa. E non c’è umanità che possa rimanere tale mentre organizza e mette in atto la morte dell’avversario, sia pure egli l’aggressore.

 

Librarsi. Tre libri per parlare di conflitto, dialogo, fraternità e guerra – Fratelli di guerra

Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

 

 




Festa della Consolata da Kiełpin


Carissimi un caro saluto a tutti voi.
Vi invito domenica 19 giugno alla festa della Consolata, nostra patrona tenerissima.
La festa di quest’anno che terremo a Kiełpin avrà un significato speciale.

Alcuni gruppi di ucraini desiderano ringraziarvi per la solidarietà che avete dimostrato.

Per questo organizzeremo una diretta su youtube (qui sotto trovate il link), attraverso il quale potrete collegarvi e seguire la santa Messa dal nostro giardino presieduta dal Nunzio apostolico S.E. Salvatore Pennacchio il quale alla fine benedirà i nostri volontari che questa estate partiranno per il Tanzania.

Appena finita la Messa, il coro di musica sacra ucraino (gli Angeli) terrà un concerto di ringraziamento per tutti voi, per il bene che avete condiviso.

All’inizio del concerto proverò a leggere in italiano  una lista dei gruppi o dei volontari che in questi mesi hanno aiutato la causa ucraina attraverso la nostra comunità, sperando di non dimenticare nessuno di voi.
Un caro saluto a tutti. Buona festa con un ricordo.

padre Luca Bovio

Appuntamento alle ore 10.15 su YouTube

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=KNvq0bXxC7w?feature=oembed&w=500&h=281]




Brasile. Fuori Bolsonaro, fuori i «garimpeiros»


Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.

Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.

Bingo, feste di carnevale, internet caffè sarebbero attività normali in un qualsiasi centro abitato. Non lo sono quando si trovano in piena foresta amazzonica e addirittura in una terra in cui l’ingresso sarebbe vietato a chiunque non sia indigeno.

Le foto, risalenti al marzo 2021, sono state diffuse dalla Polizia federale (Pf) brasiliana per reclamizzare una loro operazione contro i minatori illegali (garimpeiros) nella Terra indigena yanomami (Tiy), la più grande riserva indigena del paese (ben conosciuta dai lettori di questa rivista).

L’invasione è iniziata negli anni Ottanta, ma nel corso del tempo si è allargata a dismisura tanto che oggi si stimano in 20mila i garimpeiros presenti, allettati dall’altissimo valore dell’oro, il principale minerale ricercato.

Di norma, le miniere (garimpos) si trovano lungo i principali fiumi (rios) amazzonici: Uraricoera, Mucajaí, Couto Magalhães, Apiaú, Catrimani, Parima, Novo, Lobo d’Almada, Surucucu. Per raggiungerle, a parte un lunghissimo e complicato viaggio fluviale, la scelta più facile è la via aerea. L’Ibama, l’Istituto brasiliano per l’ambiente, ha individuato in terra yanomami quasi 280 piste di atterraggio clandestine.

Vista la mancanza di volontà, la corruzione o l’inefficienza delle autorità pubbliche, ormai da anni Yanomami e Ye’kuana raccontano il loro dramma in prima persona attraverso Hutukara (Hay), l’associazione indigena facente capo a Davi Kopenawa e al figlio Dario. Al loro fianco ci sono l’Instituto socioambiental (Isa) e i missionari (cattolici) del Conselho indigenista missionário (Consiglio indigenista missionario, Cimi), che proprio quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Grande eco ha avuto Yanomami sob ataque, il drammatico rapporto di Hutukara, uscito ad aprile (nello stesso periodo, ha esordito Mapa dos conflitos nell’Amazzonia legale, uno straordinario sito multimediale ideato dall’agenzia Pública e dalla Cpt, la Commissione pastorale del lavoro). Le foto pubblicate nel rapporto sono testimonianza evidente delle devastazioni prodotte dai garimpeiros, ma altrettanto e forse più terribili sono i racconti di come gli invasori, con la loro semplice presenza e i loro comportamenti, stanno distruggendo le basi sociali delle comunità indigene.

Una donna indigena usa la propria schiena per protestare contro il progetto di legge 191 che vorrebbe liberalizzare la ricerca mineraria sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Jair Bolsonaro, presidente anti-indigeno

La situazione degli Yanomami è, attualmente, la più nota, anche a livello internazionale. Tuttavia, la condizione degli oltre 300 popoli indigeni del Brasile è da sempre problematica e si è ulteriormente deteriorata sotto Jair Bolsonaro, il presidente ultraconservatore eletto nel 2018 e ricandidato per le elezioni del prossimo ottobre.

L’atteggiamento anti-indigeno dell’attuale governo brasiliano si è manifestato fin dall’inizio e prosegue senza ripensamenti, con azioni, iniziative legislative e dichiarazioni.

Nell’aprile del 2020, Abraham Weintraub, economista e all’epoca ministro dell’educazione, disse di odiare il termine povos indígenas (popoli indigeni) perché non esistono popoli indigeni, ma soltanto un popolo brasiliano.

«Quelle dichiarazioni – ci spiega dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondônia), raggiunto via WhatsApp – dimostrano il pregiudizio e la discriminazione che vige nei confronti dei popoli autoctoni. Evidenziano l’ignoranza sulla diversità di popoli, lingue e culture presenti nel nostro paese. Negare questa diversità significa negare l’esistenza di un paese multiculturale e democratico, come garantito dalla Costituzione federale del 1988, quella che gli attuali governanti sono tanto ansiosi di fare a pezzi».

«Gli articoli 231 e 232 della Costituzione federale – continua il prelato – rompono con una tradizione secolare d’esclusione riconoscendo ai popoli indigeni il mantenimento della loro organizzazione sociale e della propria cultura. Divenendo essi soggetti di diritto, la mentalità integrazionista e assimilazionista viene superata».

Nonostante la sua politica anti-indigena, lo scorso 18 marzo il presidente Bolsonaro è stato insignito con la Medalha do mérito indigenista.

Dom Roque si esprime senza remore. Probabilmente, il suo essere presidente del Cimi, organismo molto combattivo e inviso al governo Bolsonaro, lo ha reso indifferente a critiche e attacchi.

«È stata vergognosa – osserva – la mancanza di rispetto per l’obiettivo del premio concesso a persone che si distinguono nella protezione delle popolazioni indigene. L’attuale presidente sta facendo il contrario: un disservizio al Brasile e alle popolazioni indigene. Con il suo governo non sono state delimitate terre indigene e sono state incoraggiate le invasioni. Si è registrato il maggior numero di conflitti e morti di difensori dei diritti. Questo premio è un affronto ai popoli indigeni. Sembra un brutto scherzo visto che questo presidente è stato denunciato (per sei volte, ndr) alla Corte penale internazionale dell’Aia per genocidio».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra Indígena Yanomami

Il «pacchetto della distruzione»

L’offensiva del governo Bolsonaro e dei suoi alleati nei confronti dei popoli indigeni e delle loro terre poggia anche su strumenti legislativi che mirano a scardinare i principi stabiliti dalla Costituzione del 1988. Tanto che le organizzazioni indigene hanno coniato un termine ad hoc: pacote da destruição. Nel «pacchetto della distruzione» si trovano almeno due progetti di legge (Pl) che, ove approvati, avranno conseguenze devastanti per i popoli indigeni: il Pl 490 (o del marco temporal) e il Pl 191.

Secondo il progetto di legge 490, saranno considerate «terre indigene» soltanto quelle effettivamente occupate al 5 ottobre 1988, data di promulgazione della nuova Costituzione. Senza questa prova temporale le richieste di demarcazione saranno respinte. Sul marco temporal dovrebbe decidere il Supremo tribunal federal (Stf) questo 23 giugno.

«Il “marco temporal” – spiega dom Roque – è un’interpretazione sostenuta dalla bancada ruralista e dall’agrobusiness. La tesi è ingiusta perché ignora le espulsioni, gli allontanamenti forzati e tutte le violenze subite dagli indigeni fino alla data di promulgazione della Costituzione. Inoltre, ignora il fatto che, fino al 1988, i popoli indigeni non potevano adire alla giustizia in modo autonomo (perché, secondo lo Estatuto do índio, del 1973 erano “relativamente incapaci”, ndr). È da augurarsi che i giudici del tribunale siano giusti e rendano giustizia ai popoli originari, che da secoli sono violati e violentati nella loro integrità fisica, culturale e territoriale».

Il progetto di legge 191 vuole, invece, liberalizzare le attività estrattive sulle terre indigene. «È un affronto alla Costituzione federale, che mette a rischio l’esistenza dei popoli indigeni perché legalizza i garimpo», commenta dom Roque.

Non contento, Bolsonaro sta cercando di forzare la situazione anche utilizzando la guerra in Ucraina. È necessario approvare urgentemente l’apertura delle riserve indigene – afferma il presidente -, perché la guerra in Ucraina sta frenando l’importazione di fertilizzanti (potassio) dalla Russia di cui il Brasile ha assoluto bisogno, ma di cui i territori indigeni sarebbero ricchi.

Peraltro, la guerra ha già prodotto un effetto negativo facendo balzare verso l’alto il prezzo dell’oro, dando così ancora più spinta all’invasione della terra di Yanomami e Ye’kuana.

In tutto questo, una piccola speranza viene da un’opposizione indigena che non è più estemporanea, isolata e disorganizzata come in passato. Come ha dimostrato anche la diciottesima edizione dell’Acampamento terra livre (Atl), manifestazione che, lo scorso aprile, ha radunato a Brasilia quasi settemila indigeni appartenenti a 180 popoli differenti.

Boa Vista, l’acqua del monumento al garimpeiro colorata di rosso sangue a simboleggiare la tragica situazione creata dalla presenza dei garimpos illegali sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Amazzonia, la foresta del mondo

Difendere i popoli indigeni significa difendere l’Amazzonia che in Brasile ha oltre il 60 per cento della propria estensione totale. Un’Amazzonia che mai come sotto il governo Bolsonaro è stata presa d’assalto senza ritegno per ottenere soia, legno, risorse minerarie, carne. È dimostrato che la battaglia mondiale contro l’emergenza climatica e ambientale passa obbligatoriamente attraverso la sua salvaguardia.

Ne è convintissimo dom Roque, che prima di arrivare a Rondônia ha ricoperto la carica di vescovo a Roraima, uno stato amazzonico per antonomasia.

«L’Amazzonia – spiega – è un sistema vivo e complesso, che, per mantenersi tale, ha bisogno di una foresta in piedi. Se questa viene a mancare, si avvia un processo di desertificazione, che non solo minaccia i popoli amazzonici, ma l’intero pianeta, accelerando il cambiamento climatico e provocando catastrofi ambientali in tutto il mondo.

In Brasile, purtroppo, la deforestazione dell’Amazzonia è incoraggiata dalle sfere di governo, che mettono al primo posto la crescita economica, basata sulla distruzione di un ecosistema che è vivente ma anche molto fragile.

Ricordo sempre cosa ci insegnano i popoli indigeni: “Se non ci prendiamo cura della terra, lei non si prenderà cura di noi”. Nessuno potrà mangiare soldi, bere veleno e respirare aria contaminata. Per vivere abbiamo bisogno di terra, acqua e aria sane. Difendere l’Amazzonia, i suoi popoli indigeni e le sue comunità significa operare per il buon vivere dell’intero pianeta e delle future generazioni».

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondonia) e presidente del Cimi. Foto Paolo Moiola.

«Questo governo è una minaccia»

A ottobre 2022 nel paese latino-americano ci saranno le elezioni presidenziali. Jair Bolsonaro si ripresenta per ottenere un secondo mandato trovandosi come principale sfidante l’ex presidente e leader del Partito dei lavoratori (Pt) Lula, liberatosi dai propri fardelli giudiziari.

Dom Roque Paloschi dipinge un quadro impietoso della situazione del paese. «Senza ombra di dubbio, in Brasile stiamo vivendo tempi molto difficili. L’attuale governo è una minaccia per la democrazia e l’intera società brasiliana».

«I cittadini – continua il nostro interlocutore – vengono oltraggiati e violati nei loro diritti fondamentali: salute, istruzione, lavoro, servizi igienico sanitari di base. È vergognoso che questo paese abbia superato i 660mila morti a causa del Covid-19 per irresponsabilità e per aver messo l’economia al di sopra della vita. Senza dimenticare che, oltre alla pandemia, abbiamo sperimentato altre forme di violenza come la fame, la disoccupazione, la mancanza di politiche pubbliche».

In questo contesto, la condizione dei più deboli tra i deboli non poteva che peggiorare: «I discorsi d’odio del presidente e dei suoi ministri (come quelli dell’ex ministro Sales) hanno alimentato la violenza contro i popoli indigeni».

Nel periodo peggiore della pandemia, un numero ancora maggiore di terre è stato invaso, mettendo a rischio l’integrità fisica, culturale e territoriale delle popolazioni autoctone.

«E addirittura – precisa il presidente del Cimi -, a rischio di estinzione le comunità indigene che vivono in isolamento. Al tempo stesso, gli organismi pubblici di ispezione e protezione sono stati depotenziati. Per tutto questo il paese ha scalato il ranking mondiale per livelli di violenza e di morte dei difensori dei diritti umani».

Il presidente Bolsonaro festeggia l’incredibile assegnazione della «Medalha do mérito indigenista» (18 marzo 2022). Foto Caluber Cleber Caetano – PR.

Avere memoria

Secondo i sondaggi dei principali istituti di ricerca brasiliani, Lula è largamente in testa nelle preferenze elettorali, precedendo Bolsonaro. Tuttavia, le previsioni indicano che sarà necessario un secondo turno (il 30 ottobre) e qui la lotta appare più incerta.

«Nei periodi elettorali – commenta dom Roque -, tutti i candidati si presentano come i salvatori della patria e sembrano non stancarsi mai di ingannare e manipolare i cittadini. Io spero che il popolo brasiliano abbia memoria di quanto accaduto in questi anni. Spero possa riprendere in mano la sua storia, la democrazia e dire basta ai candidati che negano i diritti dei popoli indigeni, dei neri, delle donne e degli altri gruppi esclusi dalla società».

La conclusione di dom Roque è netta: «Uno stato che – con tutti i suoi poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) – non rispetta la Costituzione del paese e viola i diritti umani basilari, lo abbiamo già ora. La domanda è: continueremo anche in futuro a scommettere su chi promuove distruzione, violenza e morte? A dare fiducia a gruppi che difendono soltanto i propri interessi e non lavorano per il bene comune?».

Paolo Moiola

Terra indigena yanomami (Tiy): trent’anni (1992-2022) di invasioni, distruzione, morte

  • Dati Tiy: 96.650 Km2 (un terzo dell’Italia) Roraima e Amazonas, oltre 28mila indigeni e 371 comunità; la Terra indigena yanomami (Tiy) celebra quest’anno (2022) i 30 anni, essendo stata omologata il 25 maggio 1992;
  • Numeri dell’invasione: 20mila garimpeiros e 3.272 ettari interessati (più 46% rispetto al 2020); 277 piste di atterraggio aereo clandestine; 800 currutelas (sorta di villaggi dei garimpeiros con baracche, negozi, prostitute);
  • Fiumi più coinvolti: rio Uraricoera, rio Mucajai, rio Couto Magalhães, rio Apiaú, rio Catrimani, rio Parima, rio Novo, rio Lobo d’Almada, rio Surucucu;
  • Danni ambientali: i garimpeiros stanno producendo pesantissimi danni ambientali come il disboscamento, la distruzione dell’ecosistema amazzonico, l’inquinamento e la deviazione dei fiumi;
  • Danni sociali: la struttura sociale degli Yanomami e Ye’kuana viene destabilizzata; i ragazzi e i giovani sono allettati a lavorare nei garimpos in cambio di cachaça, armi da fuoco, combustibile, alimenti industriali o altre mercanzie; bambine, ragazze e giovani donne sono adescate per fini sessuali;
  • Pesca, caccia, piantagioni: le attività economiche su cui si fondano le comunità indigene sono sempre più difficilmente praticabili; la pesca si è ridotta a causa dell’inquinamento dei fiumi dovuto principalmente al mercurio usato dai cercatori d’oro; la caccia si è complicata perché gli animali scappano a causa dei rumori prodotti dai macchinari usati nei garimpos e dai mezzi di locomozione (aerei e barche); le piantagioni di frutta e legumi sono trascurate, ridotte o distrutte; per tutti questi motivi è aumentata l’insicurezza alimentare degli indigeni;
  • Situazione sanitaria: oltre al Covid, a causa della devastazione ambientale è esplosa la diffusione della malaria (anche con la versione più letale del Plasmodium falciparum), toccando i 19mila casi all’anno; si è aggravata la denutrizione infantile; la dispersione in acqua e nell’ambiente del mercurio sta producendo pesanti conseguenze sulla salute indigena; l’insicurezza generale ha portato alla chiusura di vari centri di salute governativi.
  • Fonti principali: Hutukara associação yanomami (Hay) – Associação wanasseduume ye’kwana – Instituto socioambiental (Isa), Yanomami sob ataque, aprile 2022; Agência pública – Comissão pastoral da terra (Cpt), Mapa dos conflitos.

(a cura di Paolo Moiola)

(Cuiabá – MT, 19/04/2022) Presidente do Conselho de Pastores do Estado de Mato Grosso (COMEC/MT), Pastor Fábio Senna entrega camisa do Lançamento da Marcha para Jesus para o Presidente Jair Bolsonaro. Foto: Alan Santos/PR

L’analisi della Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb)

«Le grida del mio popolo»

Le gravi colpe del governo Bolsonaro sono sotto gli occhi di tutti. Eppure, le elezioni di ottobre rimangono incerte. Con evangelici e cattolici sempre più divisi.

Disoccupazione, disuguaglianza sociale estrema, famiglie senza fissa dimora in ogni città del paese che sopravvivono di spazzatura, e ciò a causa del modello economico operante in Brasile, un modello che produce scarsità per la maggioranza della popolazione, mentre una minoranza privilegiata vanta livelli di ricchezza assurdi.

Sono affermazioni presenti in un lungo documento preparato dai 14 membri (includendo il gesuita Thierry Linard, scomparso a gennaio) del gruppo di analisi della congiuntura della Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb). Il documento, titolato «Os clamores do meu povo» (Le grida del mio popolo) e datato 21 aprile, è di una durezza inusitata per l’organismo, in ciò confermando la gravità della situazione brasiliana.

Il fondamentalismo religioso

A iniziare dalla constatazione che il governo Bolsonaro «fa parte di un fenomeno mondiale di ascesa di governi estremisti, autoritari e, in alcuni casi, con tratti neofascisti». Si tratta di governi che, per raggiungere i propri scopi, utilizzano ogni mezzo, compreso il fondamentalismo religioso.

«È importante notare – si legge nel documento – che il dibattito religioso sta acquisendo sempre più importanza e protagonismo nelle elezioni di quest’anno». Tutte le inchieste sulle intenzioni di voto confermano che la gran parte degli evangelici sta con Bolsonaro (46%), mentre la maggioranza dei cattolici (48%) sta con Lula.

«Durante il governo Bolsonaro, abbiamo osservato che vari leader politici, deputati e ministri legati alle chiese neo pentecostali stavano occupando spazio in aree strategiche del governo. Basato, tra l’altro, sulla “teologia del domínio”». Secondo questa teoria, i cristiani hanno ricevuto il mandato divino di assumere il dominio del mondo intero mettendosi a occupare o controllare le istituzioni secolari dei paesi «fondamentale per vincere la guerra cosmica tra Dio e il diavolo».

Bolsonaro è anche un utilizzatore del controverso termine «cristofobia», che segnala una strategia elettorale rivolta al pubblico evangelico. «Secondo Ronilso Pacheco, editorialista del portale Uol, pastore evangelico e studioso di religioni, il termine “cristofobia” sarà utilizzato come strategia elettorale decisiva nelle prossime elezioni».

Il ruolo del tribunale federale (STF)

Il documento della Cnbb si sofferma anche sul potere giudiziario. «Di recente – si legge -, la magistratura, in particolare il Supremo tribunale federale (Stf), è diventata un importante attore politico nel paese».

Nel contesto della pandemia, si sono verificate alcune delle controversie più importanti. Per esempio, la corte suprema ha vietato la campagna governativa «O Brasil não pode parar» (Il Brasile non può fermarsi), considerata disinformazione. Nell’anno in corso, il principale argomento di controversia è l’«agenda verde» e le questioni indigene e socio ambientali.

Il gruppo della Cnbb chiude la sua analisi della congiuntura elencando undici azioni necessarie: dalla «difesa intransigente dei diritti civili e delle istituzioni democratiche del paese» a una nuova proposta di sviluppo «socialmente inclusiva e ambientalmente sostenibile», dalla «universalizzazione dei servizi pubblici essenziali» alla «promozione della pace e della giustizia». Con un augurio finale: «Come fare dipende da tutti noi! Sarà però il risultato del dialogo e della solidarietà tra tutti e con l’Altro, soprattutto i più vulnerabili e coloro che in ogni angolo gridano di essere liberati».

Paolo Moiola

Lula, candidato presidenziale ed ex presidente, davanti agli indigeni di «Terra libre» ha promesso la creazione di un ministero per gli indigeni (12 aprile 2022). Foto Kamikia Ksedje Midia India – APIB.




Vicinanza e concretezza


La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Il Centro, dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato adibito dalle suore all’accoglienza di tante persone, soprattutto donne e bambini, in fuga dal loro paese.

Gli aiuti erano stati raccolti dalla San Vincenzo di Mestre e dal Centro missionario diocesano di Trento, dove da molti anni lavoro. Quando l’amico Bruno**, da noi interpellato per intraprendere il viaggio assieme ai volontari della San Vincenzo, mi ha proposto di accompagnarlo, istintivamente ho detto subito sì. Appena chiusa la telefonata, sono stata assalita da dubbi e ripensamenti: la lunghezza del viaggio, il pensiero che forse non sarei stata di molta utilità, ma soprattutto la preoccupazione di essere d’impiccio una volta arrivati a destinazione.

Ripensandoci con calma e condividendo queste riflessioni con il direttore e i colleghi, ho realizzato che il mio andare avrebbe avuto il significato di portare a suor Rosetta (che, peraltro, aveva accolto la notizia della visita con grande entusiasmo) un piccolo segno di vicinanza e solidarietà della sua diocesi e della sua terra di origine.

Così, alla fine, i dubbi che albergavano nella mia mente si sono dissolti.

Nell’attesa della partenza, mentre si mettevano a punto l’itinerario, i contatti, gli aspetti tecnici, non ho potuto fare a meno di elaborare qualche proiezione su quello che avrei potuto incontrare e vedere. Senza peraltro farmi troppe aspettative, come sono solita ripetere a chiunque si appresti a vivere un’esperienza missionaria, e ciò per essere liberi di accogliere tutto quello che ci verrà offerto.

Una vecchia università convertita in centro per rifugiati a Chişinǎu: qui vengono ospitate varie minoranze provenienti dall’Ucraina (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Attraverso Slovenia, Ungheria, Romania

Siamo partiti in cinque il 21 marzo, a quasi un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo attraversato Slovenia e Ungheria, percorrendo un’autostrada che ci ha permesso di arrivare al confine con la Romania e attraversarlo fino al raggiungimento della prima tappa, in dodici ore, senza avere occasione di vedere un granché se non solo in lontananza il lago Balaton.

Una volta arrivati in Romania il paesaggio è subito cambiato. Pur giungendo di notte alla periferia di Oradea, capoluogo di uno dei distretti del paese, ci siamo resi conto di essere arrivati in un’Europa un po’ diversa da quella a cui siamo abituati. Piccole e basse casette, una attaccata all’altra, la maggior parte non molto ben messe, con pali della luce in legno, fili elettrici aerei, aggrovigliati, come solo forse negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, dalle nostre parti si potevano osservare nei centri più piccoli. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro, le casette lasciavano il posto a grandi palazzi residenziali, alcuni davvero imponenti, che solo alla luce del giorno avrebbero rivelato una certa trascuratezza e una impressionante somiglianza tra loro. È pur vero che abbiamo attraversato parte della città senza poterci fermare se non per una notte, accolti in un seminario greco cattolico, da padri che parlavano perfettamente l’italiano e molto disponibili, che ci hanno raccontato le loro attività con seminaristi, bambini, giovani e universitari e dell’aiuto che portano ai confini con l’Ucraina, entrando nel paese con viveri, farmaci e beni di prima necessità. Però la sensazione di trovarci in un «altro» mondo, l’ho proprio percepita. Per di più, vittima dei soliti pregiudizi (che da una vita cerco di scardinare in me e negli altri), immaginavo di trovare un paese sporco, magari con immondizie ai lati delle strade, e invece non c’era un pezzo di carta per terra e la cura per la pulizia degli spazi comuni era davvero ammirevole.

Da Oradea in poi è iniziato il vero viaggio: circa 600 km, tutti su strade provinciali attraverso i monti Carpazi.

Carretti e auto di lusso

Mi era stato detto che, in Romania, il percorso non si calcola in chilometri, ma in ore. Infatti, per arrivare a Iași, posta al confine con la Repubblica Moldava, la nostra piccola carovana ha impiegato dieci ore. Abbiamo attraversato città storiche come Cluj Napoca, con un bellissimo centro storico, che richiama l’epoca imperiale, molto caotica e con un traffico che non ha nulla da invidiare a quello di Milano; città più piccole dove si possono ammirare le caratteristiche case dei Rom, con rifiniture in metallo che sembrano merletti e comignoli davvero originali (che spesso però sono vuote); altre con grandi palazzi un po’ decadenti. Abbiamo passato villaggi di montagna in mezzo alla neve, simili a piccole stazioni turistiche con alti monti innevati sullo sfondo; villaggi sul fondo valle, dove il tempo sembra essersi fermato a un centinaio di anni fa, con le casette, qualche animale, donne, probabilmente anziane, infagottate e con il capo coperto da un foulard legato sotto il mento. In ogni dove, anche nelle zone più remote, abbiamo notato imponenti chiese ortodosse e monasteri. E poi chilometri e chilometri di campagna, terra, che – ci è stato spiegato – è coltivata a grano, granoturco e patate. Un mezzo di trasporto ancora molto utilizzato è un carretto trainato da un cavallo dalla corporatura massiccia, che serve per portare di tutto, dalle persone agli attrezzi da lavoro, masserizie, cibo. A far da contraltare a questo mezzo antico, automobili di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Volkswagen) che, soprattutto in alcune aree agricole e modeste, sono di grande contrasto.

Tutto questo abbiamo visto attraversando la Romania da Ovest a Est, nel territorio della Transilvania. Difficile dire quale sia veramente la realtà non avendo potuto fermarsi e stare un poco con le persone. L’idea che mi sono fatta, attraverso quanto ho registrato con il solo senso della vista, è che si tratti di un paese che porta ancora in sé i segni di un passato legato all’ex Unione Sovietica ma con uno sguardo rivolto al mondo occidentale, all’Europa di cui fa parte e di cui forse vorrebbe tenere il passo.

Arrivati a Iași, ad attenderci abbiamo trovato suor Betty della congregazione delle Suore della Provvidenza di Adjudeni (Romania) che ci avrebbe accompagnati nella Repubblica di Moldavia e aiutato nell’attraversamento delle dogane rumene e moldave.

Al mattino, con i pulmini carichi, ci siamo avviati per percorrere l’ultimo tratto di strada verso la Casa della Provvidenza di Chisinau, il centro pastorale della diocesi dove trovano ospitalità molti profughi ucraini, spesso di passaggio per raggiungere altre mete europee dove si trovano parenti e amici.

Donne e bambini protestano contro la Russia davanti al Teatro nazionale dell’Opera e del balletto di Chişinǎu, tenendo in mano cartelli e giocattoli insanguinati (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Burocrazia e panico da dogana

Alla dogana rumena non abbiamo avuto nessuna difficoltà. La cosa non è stata altrettanto facile alla dogana moldava. Nonostante tutti i nostri documenti preparati in Italia e in repubblica di Moldavia dalle suore, i quali riportavano la proprietà dei pulmini, l’elenco delle merci, la destinazione, la motivazione (aiuti umanitari), siamo stati bloccati per un modulo sul quale mancava la firma di una funzionaria moldava.

Abbiamo atteso qualche ora perché le suore potessero recarsi all’ufficio, raccogliere la firma, inviare il documento alla dogana e a suor Betty che ha dovuto trovare il modo di stamparlo e consegnarlo.

Abbiamo vissuto altri momenti di panico quando ci hanno informati che avrebbero apposto i sigilli a uno dei pulmini. Poi, fortunatamente, ci hanno ripensato (chissà – ho pensato – forse grazie alla Provvidenza) e siamo potuti ripartire. Poco dopo il nostro arrivo, alla dogana moldava è arrivato un pullman francese carico di aiuti e con una decina di accompagnatori. Anche loro si sono trovati ad affrontare la burocrazia della frontiera, ma hanno avuto meno fortuna visto che li abbiamo incontrati la sera tardi che uscivano dalla dogana moldava mentre noi eravamo già sulla strada del ritorno verso Iași.

Suor Betty ci ha spiegato che alla frontiera sono diventati molto pignoli da quando c’è un grande passaggio di profughi ucraini. Sappiamo infatti di altri che sono stati trattenuti ore ed ore con controlli accuratissimi. Senza voler giudicare o criticare le leggi e le procedure degli altri paesi, mi chiedo se – in una situazione di simile emergenza e nel momento in cui si è in possesso di documenti idonei – non si possano snellire gli iter burocratici per evitare di intasare le dogane con file interminabili e tempi infiniti di attesa, anche da parte di persone che provengono da situazioni di guerra e che, quindi, hanno già sulle spalle grandi preoccupazioni e ansie.

L’8 marzo, giorno della festa della mamma, madri e nonne ucraine ricevono un fiore dalle suore del centro. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Finalmente alla meta

Dopo più di due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Ultimo scoglio: gli uffici doganali in città che dovevano dare il nullaosta per scaricare la merce. Ancora tempi di attesa, toccati a suor Betty e Sandro.

L’accoglienza di suor Rosetta e delle altre suore è stata davvero speciale, come sempre mi è capitato di sperimentare nelle mie visite ai missionari trentini.

Siamo arrivati quando i bambini dell’asilo, una delle due attività normali del centro, stavano giocando in cortile, come pure alcuni dei bambini ucraini ospiti.

Suor Rosetta ci ha raccontato che erano presenti una novantina di profughi. Dieci erano di etnia Rom, arrivati la sera prima con una bambina di 15 giorni. Sono per la maggior parte nonne e mamme con bambini. Arrivano accompagnati dalla polizia o in auto, in autonomia, a seguito del passaparola di coloro che ci sono già passati e che consigliano a parenti e amici di recarsi dalle suore, dove si può trovare un’accoglienza attenta e cordiale.

Fuggire in pigiama

Il centro pastorale, che ha anche un seminario, sorge in una zona nuova della città di Chisinau. Quando è stato costruito era in campagna, ora è attorniato da negozi e supermercati, palazzi di nuova costruzione dove risiedono giovani coppie che hanno anche delle possibilità economiche, spesso anche grazie alle rimesse di nonne che si trovano in Europa ad assistere gli anziani come badanti. Le attività ordinarie delle suore sono la gestione di un asilo con 120 bambini e una mensa per persone anziane indigenti, attività che continuano anche in questo momento. Ci hanno parlato della solidarietà dimostrata dai genitori dei bambini che si sono attivati per raccogliere cibo e indumenti per gli ospiti ucraini.

Le due strutture che compongono il centro sono state trasformate per poter dare ospitalità a un massimo di 120 persone. Ogni stanza, salone, corridoio, è stato attrezzato con letti, che sono stati sistemati anche nella cappella. I seminaristi presenti sono stati trasferiti in un’altra struttura della diocesi per far posto ai profughi. Le suore con i loro collaboratori hanno spostato mobili, montato letti, preparato biancheria. Ogni volta che arriva un gruppo di persone si mettono in moto per sistemarlo nel miglior modo possibile. Ci sono giorni in cui si registrano arrivi fino a tarda ora. Chiunque bussi alla porta trova suor Rosetta, suor Juliana, suor Michela con un sorriso e un gesto di affetto nei suoi confronti. Alcuni sono arrivati in auto, in pigiama, perché fuggiti in fretta e furia, lasciando tutto. Molte delle donne con i figli sono state accompagnate al confine dai mariti e dai padri che poi sono tornati indietro per cercare di difendere le loro città e il loro paese.

Piccoli, grandi gesti

Suor Juliana, Luisa Legari e Tatiana Brusco, autrice di questo diario, scaricano gli aiuti da un furgoncino. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Una signora, sentendoci parlare italiano, si è avvicinata mentre stavamo scaricando i pulmini e ci ha ringraziati per l’aiuto portato alla sua gente. In quel momento come ora, mentre ne sto scrivendo, mi salgono le lacrime agli occhi, perché il nostro sembrava davvero un piccolo gesto davanti all’enormità della tragedia che tutti loro stanno vivendo.

Ci ha raccontato che era in attesa del permesso per recarsi con il figlio in Germania per raggiungere la madre che si trovava là per cure e che chissà quando sarebbe potuta tornare a casa. Questo breve incontro mi ha fatto comprendere come sia importante l’esserci, il poter dare anche un piccolo segno di solidarietà con la presenza, come e anche più dei molti aiuti che si possono portare. Questo è quanto le suore e le persone che operano al centro stanno dimostrando in questo momento, non risparmiandosi e non contando le ore di lavoro e trovando sempre un gesto di attenzione speciale per ognuno. Come è accaduto l’8 marzo, giorno della Festa della Mamma nella repubblica di Moldavia: le suore hanno donato a tutte le mamme e nonne un tulipano giallo e un piccolo dolce. Forse non era la cosa più importante festeggiare le mamme in quel momento, ma ha fatto sentire tutte loro amate e considerate e non solo persone da aiutare.

Questo è quanto abbiamo sperimentato anche noi: malgrado la stanchezza, i pensieri e le preoccupazioni che vivono ogni giorno, le suore sono state davvero contente di vederci e di passare assieme alcune ore, offrendoci un pranzo tradizionale moldavo, con un immancabile tocco trentino rappresentato da un’ottima torta di mele.

Con la valigia pronta

Anche il popolo moldavo sta dimostrando una grande solidarietà accogliendo nelle proprie case i profughi e attivandosi per dar loro aiuto. Una parte dei moldavi vive nella paura che possa succedere qualcosa anche al loro paese. In molti hanno una valigia pronta e qualche risparmio da parte per essere pronti a partire in qualsiasi momento.

Tatiana Brusco

Una mappa della Moldavia con evidenziate le regioni contese con la Russia: la Transnistria e la Gaugazia. Illustrazione di Stratfor (2014).

Moldavia, incubo Transnistria

  • Superficie: 34mila Km2;
  • Popolazione: 3,9 milioni;
  • Capitale: Chişinău, con circa 800mila abitanti;
  • Sistema politico: repubblica parlamentare;
  • Presidente: Maia Sandu, in carica dal 20 dicembre 2020; prima donna moldava alla presidenza, la Sandu è una filo europea, al contrario del suo predecessore Igor Dodon, filo russo;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; aprile 2022, alcuni attentati in Transnistria, «stato» legato alla Russia, avvertono che la guerra può toccare anche questa regione;
  • Principali gruppi demografici: moldavi 70%, ucraini 11%, russi 9%;
  • Religioni principali: ortodossi 93%; gli ortodossi fanno capo alla Chiesa ortodossa moldava legata al patriarcato di Mosca guidata da Kirill, mentre una parte più piccola di essi fanno riferimento alla Chiesa ortodossa rumena;
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la Moldavia è considerata il più povero tra i paesi europei; lo scorso 4 marzo, la presidente Maia Sandu ha presentato domanda di adesione
    all’Unione europea;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Regioni contese: la regione moldava della Transnistria è uno stato indipendente de facto, sotto tutela di Mosca; anche la regione autonoma della Gagauzia chiede l’indipendenza dalla Moldavia; si tratta di una situazione simile a quella del Donbass e della Crimea in Ucraina, tanto che un progetto di Mosca prevederebbe la formazione di un corridoio dai territori ucraini conquistati fino alla Transnistria;
  • Profughi ucraini: 453.848 persone entrate nel paese dallo scoppio della guerra (dati Unhcr al 6 maggio 2022);
  • Moldavi in Italia: 122.667 pari al 2,4% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti moldavi in Italia la maggior parte è occupata nei servizi alla persona (colf e badanti).

(a cura di Paolo Moiola)

Guerra russa e Chiesa ortodossa

La croce e il Cremlino

Le immagini di Vladimir Putin alla messa della Pasqua ortodossa – lo scorso 24 aprile – sono subito state diffuse da Sputnik, l’agenzia di stampa del Cremlino operante in tutto il mondo. Il presidente e novello zar russo è stato immortalato con una candela in mano e mentre si fa il segno della croce. Il tutto si è svolto a Mosca, nella cattedrale di Cristo Salvatore, a poca distanza dal Cremlino.

A officiare la cerimonia pasquale non poteva che essere il patriarca Kirill, dal 2009 primate della Chiesa ortodossa russa. Dopo le sue scandalose omelie in favore della «operazione militare speciale» in Ucraina, in quella occasione il patriarca si è limitato a parole di circostanza.

Nelle sue invettive contro l’Occidente e i suoi vizi, il fustigatore Kirill evita sempre ogni possibile riferimento alla propria persona. Come il sodale Putin, il patriarca ha infatti un passato da agente del Kgb a Ginevra, quando lavorava per il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Come Putin (anche se non ai suoi irraggiungibili livelli), il patriarca ha accumulato ingenti ricchezze personali (famosa la foto del 2009 con un orologio Breguet da trentamila dollari al polso). Proprio come avvenuto con il presidente, in Russia, pochi hanno osato opporsi al bellicismo del patriarca, anche per non incorrere nelle pesanti «attenzioni» della polizia. Come dimostrano le vicende di padre Ioann Burdin (50 anni) e padre Georgy Edelshtein (89), perseguiti per aver parlato contro la guerra in Ucraina.

È proprio in quel paese che il patriarca Kirill ha subito lo smacco più importante: lo scisma del 2018. Nel suo libro La croce e il Cremlino, il professor Thomas Bremer spiega che la storia della Chiesa russa inizia a Kiev nel X secolo. «Le tensioni politiche che emergono talvolta (il libro è del 2007, ndr) tra Russia e Ucraina si comprendono a partire da questa radice storica: per alcuni russi è difficile accettare che Kiev, la “madre delle città russe” e la culla dell’Ortodossia russa, oggi sia terra straniera».

Secondo un altro professore, il francese Antoine Nivière, autore de Gli ortodossi russi (2018), da quando ha raggiunto il più alto grado della gerarchia, Kirill si è radicalizzato, adottando come Putin la teoria dello «scontro di civiltà».

Proprio in questo mese di giugno, papa Francesco avrebbe dovuto incontrare il patriarca Kirill a Gerusalemme. Appuntamento poi sospeso a causa del conflitto. Nel febbraio del 2016, Francesco e Kirill si erano visti a L’Avana, primo ed unico incontro tra leader della Chiesa cattolica e di quella ortodossa russa.

Paolo Moiola

8174121 24.04.2022 Russian President Vladimir Putin attends the Easter service at the Christ The Saviour Cathedral in Moscow, Russia. Sergey Fadeichev / POOL (Photo by Sergey Fadeichev / POOL / Sputnik via AFP)

Archivio MC

 

 




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.