Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.
«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».
I più poveri tra i poveri
Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.
Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.
«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».
Incontro ai bisognosi
José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.
Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.
Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».
«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).
La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.
La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».
I primi ospiti e il Covid
Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.
Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.
È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.
Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».
I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».
Lingua e lavoro
Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.
«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».
José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».
Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.
Convivenza interculturale e interreligiosa
Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.
Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.
«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.
Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».
La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».
Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.
Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.
«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».
La quotidianità
«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.
Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».
Diventare autonomi
Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.
«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».
Famiglie ucraine
Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.
«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.
Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.
Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.
Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».
Convivenza facile
«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».
José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.
Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».
Missione in Europa
Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.
«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.
Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.
Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.
Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».
Luca Lorusso
foto di José Miranda
Quel barattolo di latte in polvere
Il latte materno è migliore del latte in polvere. Eppure, soltanto il 44 per cento dei neonati è allattato al seno. Le colpe delle multinazionali e il ruolo delle nuove forme di pubblicità.
Nel febbraio 2022, la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense addetta alla vigilanza sanitaria, sospende la produzione di latte in polvere in uno stabilimento del Michigan appartenente alla multinazionale farmaceutica Abbott. La decisione è presa a seguito della morte per infezione batterica, negli Stati Uniti, di quattro neonati nutriti con latte artificiale proveniente dallo stabilimento posto sotto sequestro. Nel corso dell’indagine, durata alcune settimane, emergono numerose criticità, compresa la contaminazione dei macchinari con batteri pericolosi. In seguito, lo stabilimento viene riportato a norma, ma ci vogliono mesi prima che possa riprendere la produzione. Un periodo durante il quale il latte in polvere scarseggia, mandando in apprensione moltissime mamme che hanno deciso di nutrire i propri piccoli con latte artificiale piuttosto che al seno.
I pericoli del biberon
Eppure, le autorità sanitarie e pediatriche di tutto il mondo sostengono che il latte materno è il miglior alimento per i neonati. Avviato entro le prime ore di vita e continuato fino ai due anni di età, prima come alimento esclusivo, poi come alimento aggiuntivo, l’allattamento materno costituisce una potente linea di difesa contro tutte le forme di malnutrizione infantile compresa l’obesità. Inoltre, protegge i piccoli contro le infezioni più comuni mentre riduce nelle madri il rischio di diabete, obesità e certe forme tumorali. Per non parlare degli effetti benefici di tipo psichico e affettivo che l’allattamento al seno produce nei piccoli per lo stretto contatto con la madre. Ciò nonostante, nel mondo solo il 44% dei bambini sotto i sei mesi è allattato al seno. Lo sostiene l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Il grande concorrente è il biberon che però non si impone spontaneamente, ma come conseguenza di una potente macchina di persuasione occulta, che una recente indagine dell’Oms ha messo sotto la lente. Una pressione inaccettabile perché nelle famiglie più povere del Sud del mondo, l’allattamento artificiale espone i bambini addirittura al rischio di morte. Ogni anno muoiono 520mila bambini per complicanze dovute al biberon. Per assurdo la prima causa di morte è la denutrizione che si instaura quando le esigenze nutrizionali del bambino richiedono quantità di latte fuori dalla portata economica delle famiglie. E subito dopo vengono le complicanze igieniche per l’impossibilità di bollire i biberon e conservarli al riparo da contaminazioni. Mamme con pochi soldi, poche comodità, poche conoscenze igieniche, somministrano ai propri bambini latte eccessivamente diluito, in biberon a malapena sciacquati, con tettarelle esposte all’aria su cui si posano nugoli di mosche. L’inevitabile conseguenza sono infezioni intestinali che si rivelano mortali, non per la particolare gravità dei germi, ma per la perdita di acqua, sali e zuccheri dovuti alla diarrea. E molti dei bambini che sopravvivono mantengono per tutta la vita deficit cognitivi dovuti alla denutrizione infantile. Alcuni studiosi, amanti dei termini monetari, hanno stimato che le perdite cognitive dei bambini sottonutriti a causa dell’allattamento artificiale provocano alla comunità una perdita pari a 285 miliardi di dollari, lo 0,3% del Pil mondiale.
Nestlé e gli altri
La prima denuncia sulle conseguenze catastrofiche del biberon fra i bambini delle famiglie più povere fu fatta nel 1973 da parte della rivista britannica New Internationalist. All’inizio la reazione dell’opinione pubblica fu di sconcerto. Ma quando si scoprì che l’allattamento al biberon era indotto da una pubblicità ingannevole e da una macchina promozionale che, al momento di lasciare l’ospedale, regalava campioni di latte alle mamme, scoppiò l’indignazione che sfociò in campagne di boicottaggio verso le imprese più coinvolte. Famosa quella verso Nestlé che si protrasse per qualche lustro. Vista la gravità della situazione, nel 1981 l’Oms decise di intervenire, approvando un Codice di comportamento da fare rispettare alle ditte produttrici di latte in polvere. Il codice composto da una decina di punti è riassumibile in due concetti essenziali: «no» alla distribuzione di campioni gratuiti e «no» a qualsiasi tipo di comunicazione scritta, vocale o visiva che possa indurre le mamme a preferire l’allattamento artificiale a quello materno. Ma, nel corso degli anni, l’Ibfan (International baby food action network) e altre associazioni a difesa dell’allattamento materno, hanno denunciato numerose violazioni in tutto il mondo. Violazioni che, con l’avvento dell’era digitale, si sono fatte al tempo stesso più subdole e aggressive perché le donne sono raggiunte da messaggi pubblicitari non riconoscibili come tali. Ed è proprio per capire in quale misura le imprese del latte in polvere stiano utilizzando le tecnologie digitali e con quali effetti, che l’Oms ha condotto una ricerca in Bangladesh, Cina, Messico, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Gran Bretagna, Vietnam, su un campione di 8.500 donne e 300 operatori sanitari.
Allattamento
Nel maggio 2022 sono stati pubblicati i risultati della ricerca e il primo dato emerso è che, in tutte le nazioni prese in esame, le donne nutrono una forte attrazione per l’allattamento materno, dal 49% in Marocco al 98% in Bangladesh. Nel contempo, però, hanno scarsa fiducia nella loro capacità di nutrire adeguatamente i propri piccoli per i dubbi insinuati dalla valanga di messaggi che circolano in rete: quasi tutti a favore dell’allattamento artificiale. Messaggi che consolidano credenze assurde come la necessità di somministrare latte in polvere nei primi giorni di vita, l’incapacità del latte materno di rispondere a tutti i bisogni nutrizionali dei neonati in crescita, la superiorità del latte in polvere integrato di tutti gli ingredienti che servono per una crescita equilibrata dei piccoli. Il rapporto conferma anche che la via digitale è il canale privilegiato utilizzato dalle industrie del latte in polvere come mezzo di persuasione. In alcuni paesi, oltre l’80% delle donne intervistate ha confermato di essere stata raggiunta dalla pubblicità sui sostituti del latte materno attraverso canali online. Del resto il 97% della popolazione terrestre gode di una qualche forma di connessione tramite telefonia mobile. Globalmente più di 3,6 miliardi di persone (all’incirca l’87% di chi naviga in internet) usa social media, una cifra destinata a salire a 4,4 miliardi per il 2025.
Spiate e sedotte
Le piattaforme digitali stanno diventando i canali pubblicitari più importanti. Nel 2019 più del 50% della spesa pubblicitaria globale si è diretta verso i canali digitali. Per il 2024 si prevede che la quota salirà al 68%, per un valore di 645 miliardi di dollari.
Le piattaforme digitali consentono alle aziende di diffondere i loro messaggi tramite più canali contemporaneamente: email, social media, siti specializzati in filmati, motori di ricerca, app. Per di più permettono agli inserzionisti di individuare con estrema precisione i loro possibili clienti. Ad esempio, quando le donne chattano via facebook con le loro amiche o parenti, possono essere spiate da algoritmi che, dal tenore delle conversazioni, possono stabilire se si tratta di donne incinte, magari per le informazioni fornite sulla propria salute, o per la richiesta di vestiario e altri oggetti necessari per l’arrivo di un nuovo bambino. Nel qual caso i dati sono immediatamente passati all’impresa di prodotti per l’infanzia che ha commissionato il servizio, affinché possa intraprendere l’attività di seduzione personalizzata via facebook, o altro canale comunicativo. Di solito l’approccio è soft e può basarsi sull’invio di messaggi affabulatori del tipo: «Vogliamo costruire una relazione con te in quanto madre, vogliamo sostenerti, vogliamo che tu ci veda come tuoi alleati, come degli amici che ti sostengono affinché tu possa avere una gravidanza felice e un parto sicuro». Poi può giungere l’invito a fare parte di un gruppo d’incontro, una sorta di club per mamme che si danno appuntamento per scambiarsi informazioni, consigli, sostegno. Così almeno viene presentata l’iniziativa. In realtà, si tratta di ciò che gli esperti chiamano «community marketing»: l’aggregazione di persone affini, per condizione ed esigenze di consumo, che, mentre interagiscono fra loro, sono bombardate da continui messaggi promozionali. Per di più, mentre chattano, ciascuna di esse è analizzata in dettaglio in modo da farne un bersaglio di proposte commerciali personalizzate.
Gli «influencer»
Altre volte la strategia commerciale è fondata sugli influencer, persone di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport, della moda, della scienza, in contatto con migliaia, addirittura milioni di follower. Le imprese li ingaggiano affinché postino ai loro follower messaggi comprendenti riferimenti ai marchi che intendono reclamizzare. E poiché l’influencer invita i propri seguaci a rispedire essi stessi i messaggi ai propri conoscenti, si può ottenere una copertura pubblicitaria di milioni di persone. L’Oms ha appurato che le multinazionali del latte in polvere fanno largo uso degli influencer in particolare in Cina, Malaysia, Stati Uniti, Francia, Russia. E, dopo avere esaminato numerosi messaggi, è emerso che il marchio di latte in polvere che compare più frequentemente è quello di Danone (32%) seguito da Mead Johnson (15%) e
Abbott (6%).
Il rapporto ha appurato che un’altra formula molto utilizzata è quella che va sotto il nome di «promozione tra utenti», un metodo che prevede la partecipazione attiva del pubblico. In pratica, l’impresa promotrice chiede a chiunque accetti di far parte della sua rete promozionale di inventarsi messaggi pubblicitari che poi l’interessato invierà al proprio ventaglio di conoscenti. Il tutto stimolato da premi estratti a sorte fra i partecipanti. Il rapporto dell’Oms cita l’iniziativa di una multinazionale di prodotti per l’infanzia che ha indetto l’estrazione di smartphone di lusso fra tutti coloro che avessero accettato di inviare la foto dei propri bambini associate ai marchi da reclamizzare. E, allettandoli con la promessa di sconti, i partecipanti sono anche stati invitati a iscriversi a dei marketing club per l’approvvigionamento online di prodotti per l’infanzia. L’iniziativa è stata lanciata da diciassette influencer che hanno anche sollecitato i partecipanti a utilizzare hashtag affinché l’azienda promotrice potesse seguire più agevolmente l’andamento della campagna e, quindi, censire la presenza di nuovi utenti da ricontattare.
In conclusione, il rapporto dell’Oms dimostra che le multinazionali del latte in polvere ricorrono in maniera massiccia alla pubblicità online per fare crescere un settore che già vale 55 miliardi di dollari. È proprio arrivato il tempo di fare applicare regole minime affinché la vita non sia più sottomessa al profitto. Almeno nei primi mesi dell’esistenza.
Francesco Gesualdi
Vivere di un Dio buono (Es 34)
Mosè ce l’ha fatta: è riuscito a convincere Dio a restare in comunione con il suo popolo dalla testa dura (Es 34,9). Viene quindi invitato di nuovo a salire sul monte, come prima, come se nulla fosse successo.
Ma, come sa bene chiunque viva in relazioni umane, non si ricomincia mai «come prima». I rapporti incrinati possono essere risanati e possono diventare anche più profondi, autentici e solidi. Ma non è possibile che ritornino come all’inizio. La nostra storia ci segna, diventa parte di noi, di un noi accresciuto, magari con più cicatrici, ma anche più vivo e vero. Vale anche per la relazione tra Dio e l’uomo.
Si riparte (Es 34,1-8)
Dio aveva minacciato di abbandonare il popolo perché morisse nel deserto (Es 32,9-10). A questa intenzione divina Mosè si era contrapposto, richiamando Dio al suo ruolo, alla sua vocazione (32,11-13). Dio aveva allora ipotizzato di far arrivare Israele alla terra promessa, ma senza seguirlo (33,1-3), ma anche su questo aveva dovuto ricredersi (33,15-17). Sono reazioni e dinamiche che ci dicono molto sul Dio d’Israele, e su cui torneremo.
Intanto, però, finalmente Dio richiama Mosè sul monte.
Prima di salire, gli chiede di tagliare due tavole di pietra, «come le prime». Non è chiaro chi avesse tagliato le prime due (Es 24,12; 31,18), quelle che Mosè aveva poi spezzato al vedere il vitello d’oro (24,12). Esodo dice solo che erano state scritte «dal dito di Dio» (31,18). Si può, fino a questo punto, supporre che il lavoro di taglio delle nuove pietre sia soltanto preparatorio, e che sarà poi Dio a scrivervi sopra di nuovo. Non sarebbe, in ogni caso, un passaggio secondario. Conosciamo troppo bene il valore delle reliquie per sottovalutare il gesto di Mosè, il quale, pur fuori di sé per l’offesa fatta a Dio, aveva comunque distrutto un’opera divina. Il fatto che Dio provveda a restaurarla significa che è disposto a passare sopra alla distruzione di un frutto delle sue mani. Ma quando poi Mosè scenderà dal monte con le due tavole in mano, non si dirà più che il «dito di Dio» vi ha scritto sopra. Dobbiamo supporre che, dal momento che non si dice niente, siano nuovamente opera totalmente divina? Oppure che, come le ha tagliate, sia stato ancora Mosè a scriverci sopra? Non lo si dice, e forse c’è un motivo. Ma anche su questo torneremo tra poco.
Perché una cosa chiara, in questa ripartenza, c’è.
Dio si presenta
Dio torna a stringere un’alleanza dicendo chi è, e lo fa in un modo estremamente solenne, ossia ripetendo per due volte il proprio nome. Questo accade molto di rado nella Bibbia, e mai da parte di Dio, ma sempre solo in preghiere di uomini. Chi è arrivato fin qui leggendo il libro dell’Esodo, non può che restarne stupito, e fa bene a riaccendere l’attenzione, se per caso si fosse assopita.
Se in precedenza Dio si era presentato semplicemente come «sarò ciò che sarò» (Es 3,14: occorrerà stare con lui, per conoscerlo) o come «il tuo Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2: cioè colui che ha operato prodigi di salvezza per il popolo), qui riconduce tutto all’essenziale e proclama: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).
In questa presentazione può valere la pena richiamare il fatto che qui, l’autore di Esodo, pensa a un Dio che premia i suoi fedeli e punisce gli infedeli (Es 34,7). Detto questo, il premio e la punizione vengono elargiti con una sproporzione enorme: la colpa viene castigata fino alla terza o quarta generazione, secondo il modello per cui nonconta il singolo ma il clan, ma l’amore viene ricompensato fino alla millesima. In quel contesto culturale bisogna dire che Dio premia e punisce, ma, nello stesso tempo, che le due possibilità non sono alla pari, e davanti all’uomo si apre, con molta maggiore probabilità, la relazione con un Dio di amore.
Tanto è vero che il Signore applica a sé quattro parole pregnanti. «Pietoso» rimanda al dono gratuito, a un perdono regalato non perché sudato e meritato, ma perché Dio vuole perdonare. «Misericordioso», però, è ancora più profondo, perché richiama le viscere, anzi l’«utero»: l’idea è quella di un sentimento che prende alla pancia, irresistibile, da «farfalle nello stomaco». Dio, insomma, ammette di voler amare il suo popolo per scelta, ma anche perché non può farne a meno, perché è preso da un innamoramento totale.
In quanto agli altri due termini che l’ultima versione della Bibbia Cei ci restituisce con «amore e fedeltà», il primo indica il sentimento di un genitore, quell’affetto che non pretende di essere ricambiato e che esisterà per sempre e comunque, intatto e disponibile, mentre «fedeltà», collegato alla parola che è diventata il nostro «Amen», segnala l’affidabilità e la solidità. Dio dice di non poter fare a meno di amare i suoi, e di farlo con costanza, generosità, totalità e fedeltà.
Un (altro?) decalogo (Es 34,10-28)
A questo punto Dio (ri)condivide i termini dell’alleanza con il suo popolo, mediante quelle che, al v. 28, sono indicate come «le dieci parole», il modo per chiamare il decalogo già offerto al popolo al capitolo 20. Questa nuova offerta del decalogo sarebbe anche comprensibile (Dio riprende l’alleanza con il popolo), se non fosse che i comandi sono diversi.
Come è possibile? Che cosa è successo?
I redattori dell’Esodo sono stati disattenti? O hanno lo hanno fatto apposta, per suggerire qualcosa al lettore? E che cosa? Come nei libri gialli, anche stavolta rimandiamo la risposta a tra poco.
Del «nuovo decalogo» evidenziamo qui almeno un comandamento, che peraltro non si trova solo qui (si era già letto in Es 23,19 e tornerà in Dt 14,21) e che sarebbe poi diventato particolarmente significativo nella storia del popolo ebraico: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es 34,26). Perché? Il senso è che l’uomo ha il diritto di sfruttare la vita animale per nutrirsi, ma non deve dimenticarsi che è vita, dono divino. Utilizzare il latte, alimento che permette di diventare adulti, per cuocere un capretto che, quindi, adulto non diventerà, sarebbe quasi uno scherzo crudele. È vero che né il capretto né la capra coglierebbero questo sarcasmo, ma chi cucina sì, e deve mantenersi compassionevole e misericordioso come Dio. E per essere sicuri di non violare questo comandamento, gli ebrei evitano del tutto di unire nel cibo carne e latte o latticini, mantenendo in cucina due set completi di stoviglie, che non devono mescolarsi. Così, si dice, ogni volta che ci si accinge a cucinare, si deve decidere quale tipo di cibo preparare, e ci si ricorda di dover essere rispettosi verso tutto il creato, che ci dona da vivere ma non deve essere umiliato. È un adattamento possibile al sogno divino di un mondo senza violenza (cfr. Gen 1,29-30).
Qualche risposta
Proviamo a cogliere meglio il senso del racconto, abbozzando anche qualche risposta ai quesiti che abbiamo lasciato sospesi.
L’essere umano è abituato alla dinamica del premio-castigo: se mi comporto bene, sarò premiato, altrimenti sarò castigato. È una logica iscritta talmente nel profondo, che riemerge a volte anche nei rapporti di amicizia o di amore più gratuiti e generosi. Ed è una dinamica che ricompare con forza anche nelle tradizioni religiose. Le religioni antiche, poi, ancora più di quelle che conosciamo oggi, si concentravano moltissimo sulle azioni e sul fare, il che si presta più facilmente a ribadire questa logica.
Il mondo dell’Antico Testamento non fa eccezione, e sono numerosi i passi che richiamano al dovere dell’osservanza di regole o rimarcano come la conseguenza dell’infedeltà sia la punizione. Nello stesso tempo, però, il percorso del popolo d’Israele con Dio lo rende sempre più consapevole che quella relazione è diversa. Il Dio d’Israele è il più importante di tutti gli dei (più tardi si arriverà a dire che è l’unico), eppure ha scelto, come «sua proprietà», un popolo piccolo e debole, dal quale è stato tradito più volte, ma che lui non ha mai abbandonato.
È quello che il racconto del doppio dono delle tavole della legge ribadisce: Dio aveva salvato dalla schiavitù il popolo, gli aveva liberamente chiesto se volesse diventare il «suo popolo» (Es 19,4-8), e, a quel punto, gli aveva dato delle norme che erano state disattese subito, tanto che aveva pensato di abbandonarlo. Ma ha accettato di ritornare nella relazione, affermando di essere un Dio «misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà». E ridà le tavole, «come le prime», offrendo nuovamente dieci comandamenti, che però non sono identici ai primi.
Il racconto intende suggerire che cruciale è la relazione, la quale ovviamente comprende anche dei comportamenti conseguenti, ma in realtà le regole e le leggi non sono il cuore del discorso. Il cuore è la relazione che Dio è disposto a salvaguardare anche a costo di rimangiarsi la propria parola. Non un Dio «che non deve chiedere mai», severo e austero, dunque, ma un Dio amante, che per il suo amore viscerale verso l’uomo perde anche la faccia (o la vita, come comprenderà e vivrà Gesù: cfr. la parabola della vigna di Lc 20,9-13).
E che Dio pensi innanzitutto alla relazione, e a una relazione alla pari, è in fondo detto anche dallo strano gioco sull’autore delle «seconde tavole». Chi le ha scritte? Dio o Mosè? Dal testo non si capisce, e in fondo sembra quasi che Dio, sorridendo, suggerisca che non è importante. Come nel rapporto tra amici, come in una coppia ben affiatata, non è significativo decidere chi metta a disposizione o faccia che cosa.
È la stessa dinamica che i cristiani vivono nell’eucaristia, dove il grano e l’uva sono doni divini, che però devono essere coltivati e non diventano pane e vino senza lavoro, e, una volta offerti, vengono restituiti trasformati ai fedeli. È come in un’amicizia profonda, dove ci si scambia doni di continuo, finché non sia più possibile dire chi abbia dato che cosa, ma si deve giustamente parlare di «comunione».
Un Mosè trasformato
Quando Mosè torna a valle, il suo volto è pieno di «raggi» (Es 34,29). Questa parola in ebraico coincide con «corno», il che ha dato origine alla immagine del Mosè «cornuto» che vediamo, tra l’altro, anche nella statua michelangiolesca.
È il segno che la relazione di Mosè con Dio lo ha cambiato irrevocabilmente. Sembra quasi che gli autori dell’Esodo vogliano suggerire che chi incontra Dio in profondità, intimamente, con quello sguardo «faccia a faccia» da cui Dio non è disturbato né rifugge, resta cambiato, diventa persona nuova. Il suo volto acquisisce uno splendore che rende insostenibile il guardarlo (v. 30), tanto che per parlare con gli altri, con quelli che non hanno ancora completamente incontrato Dio, Mosè si dovrà coprire il volto con un velo, per non abbagliarli.
Si direbbe quasi che la comunione profonda con Dio inizi a portare nel mondo quello splendore del corpo glorioso che sarà pieno solo nell’incontro definitivo, come i discepoli di Gesù sperimenteranno alla trasfigurazione (Mc 9,2-6), dove pure l’apparire del volto «autentico» di Gesù riempie i discepoli di paura, anche se pure di fascino.
Si può dire che stare con Dio trasformi gradualmente l’uomo in lui, così da essere sempre più profondamente e completamente se stesso. L’uomo pieno, perfetto, diventa come Dio. Come Gesù ridirà con la sua stessa vita.
Angelo Fracchia
(Esodo 18 – continua)
Honduras. Maestri coraggiosi
L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.
Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.
Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).
Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.
E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.
Mara Salvatrucha e Barrio 18
Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.
Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.
Il reclutamento forzato
Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.
«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.
Docenti assassinati
Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.
Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».
In fuga dalle città
Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.
«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.
Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».
Collusione polizia e «maras»
Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».
La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.
Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.
«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.
Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.
Record di morti
I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.
Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.
Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.
Dispersione scolastica
Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.
In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.
Simona Carnino
Archivio MC
Gli ultimi articoli sulla violenza delle bande giovanili in Centro America e sull’Honduras:
Missionarie, missionari e laici della Consolata hanno tentato qualcosa di mai fatto prima. Un incontro di quattro giorni, a livello mondiale, che ha coinvolto circa cinquecento persone in 33 paesi. È stato reso possibile dalla tecnologia oggi disponibile. Non è stato solo un ritrovarsi, ma un rivedere la propria storia, fare una lettura del presente per pensare la missione del futuro.
A Fort Hall, oggi Murang’a, nel cuore del Kenya, tra il primo e il tre marzo del 1904, i primi 10 missionari della Consolata si riunirono, in quelle che sarebbero state poi chiamate le «Conferenze di Murang’a». I missionari erano arrivati in Kenya in diversi gruppi, il primo dei quali, partito l’8 maggio del 1902, era composto dai padri Tommaso Gays e Filippo Perlo e i fratelli coadiutori Luigi Falda e Celeste Lusso.
L’obiettivo delle conferenze era quello di darsi una metodologia di missione, delle regole, ma il motivo degli incontri era anche l’esigenza di fermarsi, ritrovarsi e stare insieme, dopo i primi due anni di esperienza missionaria.
Tra il 13 e il 16 giugno scorso si è tenuto il Convegno internazionale della famiglia Consolata, chiamato «Murang’a 2». L’evento ha visto la partecipazione di circa 500 persone, tra missionari (Imc), missionarie (Mc) e laici (Lmc), da quattro continenti, con traduzioni in sei lingue. Collegati in teleconferenza, i partecipanti hanno potuto assistere a presentazioni, riunirsi in gruppi (oltre trenta) per riflessioni tematiche e pure cantare e pregare insieme.
Un evento straordinario
La straordinarietà dell’evento è stata sottolineata in apertura da suor Simona Brambilla e padre Stefano Camerlengo, superiori generali dei due istituti, i quali hanno richiamato le motivazioni all’origine di questo momento di famiglia:
«Fermarsi insieme per riflettere e dialogare serenamente, per riconoscere il terreno e la metodologia comuni e arricchire il carisma alla luce dell’oggi e in prospettiva futura».
Ha detto suor Simona nella sua presentazione: «[Tra i due eventi ci sono] 118 anni di storia missionaria consolatina intensa, benedetta, ricchissima; con le sue curve, i suoi ritorni, i suoi limiti; con i suoi slanci, le sue meraviglie, la sua innegabile fecondità. Sì, come ogni avventura umano-divina. È la nostra storia, fratelli e sorelle. Di questa storia siamo eredi. Da questa storia nasciamo. Una storia che ci ha condotto fino a qui, oggi. Diverse le epoche, diverse le persone, diversi i contesti. Diversa la visione di missione, diverse le modalità comunicative, diversa la comprensione del nostro essere tra i popoli. Uno e medesimo il dono spirituale ricevuto e condiviso, che costituisce la nostra identità vocazionale».
Mentre padre Stefano ha confermato: «Come a Murang’a, più di un secolo fa, noi missionari e missionarie sentiamo il bisogno di sederci e definire insieme la strategia missionaria da adottare di fronte alle domande, alle esigenze e alle sfide poste dalla missione attuale.
Indubbiamente Murang’a ha tracciato un cammino nella storia dei nostri istituti missionari, ha elaborato una metodologia, ha indicato un percorso.
Il metodo nato a Murang’a ha messo le basi dello “stile consolatino” fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione […]».
Nella lettera di presentazione del convegno le direzioni generali dei due istituti scrivevano: «Al fine di fermarci insieme per valutare, riflettere e guardare al futuro, realizziamo il Convegno Murang’a 2 […]. Il Convegno è un’occasione per stare insieme, come famiglia, fare memoria, rileggere i percorsi realizzati, condividere esperienze, riflettere sul carisma e sulla metodologia missionaria, proiettarci in avanti».
E ancora: «Riteniamo che il tempo presente con la sua complessità ci invita ad aiutarci vicendevolmente nella ricerca e nella proposta di segni di speranza. In quanto missionari e missionarie, non possiamo tralasciare questa opportunità di ripensamento della nostra missione e del nostro agire, oltre che l’occasione preziosa di un confronto sereno con gli uomini e le donne del nostro tempo».
Suor Simona fa notare che: «A Fort Hall, nel marzo 1904 non c’erano le suore Missionarie della Consolata. Nasceranno sei anni dopo. Eppure, lo spirito di Murang’a ha indubbiamente plasmato le prime 15 sorelle arrivate in Kenya nel 1913, e i gruppi di missionarie arrivati successivamente che lo hanno accolto e vissuto in pieno».
Una grande energia
Forse non tutti gli oltre 500 partecipanti hanno seguito sempre le circa dieci ore di convegno. Ma due elementi sono da sottolineare.
Il primo è una riflessione sul cammino che gli istituti hanno fatto. Da dieci missionari, uomini e probabilmente tutti piemontesi, di Murang’a, siamo oggi a una pluralità di voci, etnie, lingue, origini, vocazioni diverse che fanno parte della stessa famiglia e incarnano lo stesso carisma. In qualche modo, durante gli incontri, sebbene fossero online e non in presenza, si poteva toccare qualcosa di grande, sentire un’energia particolare.
Il secondo riguarda l’uso della tecnologia. Questa pervade la nostra vita quotidiana e talvolta ne abusiamo o ne facciamo un uso pericoloso. In questo caso, le video conferenze, oramai diventate accessibili a tutti, ha reso possibile (anche grazie alla sapiente regia di padre Pedro Louro, segretario generale dell’Imc), un incontro senza precedenti, a livello mondiale. Anche questo ci deve fare riflettere sulle nuove frontiere della missione e sugli strumenti a nostra disposizione.
In questo dossier, non esaustivo, riportiamo stralci di alcuni degli interventi ascoltati al Convegno Murang’a 2, per noi significativi, ricordando che i video integrali degli incontri dei quattro giorni di lavori sono tutti disponibili sul profilo YouTube «Consolata Murang’a 2».
Marco Bello
Come e perché i primi 10 missionari in Kenya si riunirono
La storia e lo spirito
Perché Giuseppe Allamano ha deciso di fondare i Missionari della Consolata, con quale approccio e come è stato scelto il primo luogo di missione. Monsignor Giovanni Crippa svela i primi passi fondamentali di una storia avvincente. Fatti avvenuti oltre un secolo fa, che hanno posto le basi della famiglia della Consolata di oggi.
Giuseppe Allamano non sarà mai missionario della Consolata, ma vuole fondare un istituto a servizio del clero diocesano. Questo comporta che la comprensione primitiva dell’identità dell’istituto è molto legata a quello che i singoli missionari riusciranno a fare, tanto più che tutti i preti dell’inizio provengono dalla diocesi di Torino o da quelle vicine. È un istituto che nasce quasi con una specie di dicotomia tra la persona del fondatore e la realtà della missione. Questa, l’Allamano la considera un qualcosa di distinto da quella che è la sua autorità, il suo governo e l’identità che vuole dare all’istituto. Questi due fattori hanno avuto la conseguenza che a pochi mesi dall’apertura dell’istituto (29 gennaio 1901) il fondatore può inviare i primi missionari (8 maggio 1902), proprio perché non è preoccupato di avere un’idea, un progetto di missione: lo inventeranno coloro che partono. Rimasti cinque mesi con lui alla Consolatina, la prima casa dell’istituto, li considera già pronti.
Dove andare
La scelta iniziale del campo di lavoro era il Kaffa (Etiopia). Per una ragione sentimentale e per una contestualizzazione politica. Dell’Africa, in Italia, si conosceva solo l’Eritrea dalla quale si guardava all’Etiopia. In quest’Africa conosciuta aveva operato il cardinal Massaia, il cui incontro aveva impressionato l’Allamano. Era il missionario allora più conosciuto in Italia (cfr. le memorie del missionario cappuccino: I miei 35 anni in Etiopia). L’Allamano guardava al Kaffa per il suo istituto, pensava che avrebbe il sostegno del governo italiano e la tolleranza del governo etiope e si aspettava una facilitazione per l’ingresso. Il console italiano a Zanzibar sosteneva che non era difficile per un istituto italiano entrare in Etiopia. Ma l’impresa fallisce: se c’è un paese dove non vogliono italiani è l’Etiopia.
Il fondatore ripiega allora su un pezzo d’Africa propostogli da Propaganda fide: il Kenya, cioè la colonia inglese dell’Africa Orientale dipendente dal Vicariato apostolico di Zanzibar affidato all’epoca ai Padri dello Spirito Santo (Congregazione dello Spirito Santo o Spiritani, fondati nel 1703). La condizione posta da Propaganda fide a qualunque istituto per accedere a un territorio di missione indipendente è che esso faccia un tirocinio pastorale alle dipendenze di un Vicario apostolico. A questo punto il fondatore è costretto a fare una riflessione prima di far partire i missionari. Uno dei concetti più cari all’Allamano è quello dell’unità dell’istituto, e quando Propaganda fide gli pone la clausola, va un po’ in crisi perché ha un gruppo di missionari a cui ha inculcato il principio fondamentale dell’unità (unità di intenti, spirito di corpo), ma capisce che il Vicario apostolico potrebbe mandarli dove vuole, dividendoli. Il fondatore si accerta allora che, una volta partiti, pur lavorando alle dipendenze di altri, i suoi missionari possano avere un luogo per loro, anche se non ancora una giurisdizione ecclesiastica autonoma. L’Allamano deve mediare e i Padri dello Spirito Santo gli impongono un giuramento.
I primi quattro
Con questo accordo, l’8 maggio 1902 avviene la partenza dei primi quattro missionari: padre Tommaso Gays (28 anni), padre Filippo Perlo (26), fratel Luigi Falda (21) e fratel Celeste Lusso (18), che deve scappare perché non ha ancora fatto il servizio militare. Gays viene nominato superiore e Perlo economo. A Zanzibar sono accolti molto bene dal vescovo. Il 20 giugno partono per vedere dove potranno andare. Sanno dell’esistenza del Kikuyu solo perché alla missione di Saint Austin, nei pressi di Nairobi, è sceso un capo locale, Karoli, che ha simpatizzato con la missione, ma nessuno c’è mai stato, tanto che, nonostante la preparazione, hanno rischiato di morire assiderati nel viaggio sulle montagne.
Il 29 giugno il vescovo li lascia soli a Tuthu, a 2.220 m, senza nessuno, come casa la baracca costruita da un avventuriero inglese, e devono cominciare a guardarsi attorno e iniziare a fare missione. Per i quattro è una grande sfida; questa situazione non si ripeterà più nella storia dell’istituto.
Perlo si innamora del Kikuyu, nonostante le fatiche fisiche. Consiglia a Gays, che ha dubbi e paure, di dedicarsi a curare gli ammalati per stabilire un contatto con la gente. I fratelli riparano e migliorano la baracca.
Perlo comincia una perlustrazione sistematica del territorio, da solo in giro per il Kikuyu. Sul retro di una pagina del suo diario datata 8 agosto 1902 disegna la mappa della zona, sul verso dice di aver incontrato anche dei pastori nomadi (i Maasai), per i quali bisogna inventare un metodo missionario diverso da quello degli Akikuyu e dotarsi di un carro come quello dei nostri saltimbanchi per seguirli nei loro spostamenti. Pochi giorni dopo scrive all’Allamano: «Io qui ho bisogno di due cose soltanto: tanti missionari e tante suore».
Attriti in famiglia
La lettera arriva quando la Consolatina è chiusa. Perché? Tra i missionari partenti e quelli rimasti a Torino c’erano stati degli attriti. Il giorno della partenza non si erano nemmeno salutati alla stazione. Qualcuno sosteneva che padre Gays era stato mandato per primo in missione perché aveva raggirato l’Allamano, che il fondatore non si fosse comportato in maniera equa nella scelta dei primi candidati alle missioni. Si borbottava e alcuni rivendicavano il diritto a partire per primi. Tornato a casa, l’Allamano ha pregato, e poi ha mandato a casa gli otto rimasti. Il giorno dopo porta le chiavi della casa al santuario della Consolata dicendo alla Madonna: «L’istituto è tuo, pensaci tu».
Grazie alla lettera di Perlo che chiede non solo missionari, ma anche suore, l’Allamano prende coscienza del suo proprio ruolo formativo (cfr. le Conferenze Spirituali: «Lo spirito ve lo do io»). Per quelli che entrano e che sono già preti, non basta aver messo un vicerettore (padre Costa), ci vuole la sua stessa presenza.
Ma perché padre Perlo chiede tanti missionari e suore? Nelle sue esplorazioni ha ispezionato tutte le località adatte ad aprire una stazione missionaria nel Kikuyu, con il criterio di realizzare un catena con tante missioni distanti una dall’altra una giornata di cammino, a partire dalla stazione ferroviaria di Limuru fino ad arrivare alle falde del Monte Kenya. L’intento è di occupare un’are continua, senza essere bloccati da missioni protestanti, perchè i colonizzatori inglesi hanno messo una regola ferrea: tra una missione cattolica e una protestante ci deve essere almeno una giornata di cammino.
Padre Filippo Perlo è appena arrivato, ma innamoratosi del luogo, ha deciso di non andarsene più. La sua grandezza è di aver inventato una metodologia missionaria.
Di per sé, i missionari della Consolata potrebbero imparare dai Padri dello Spirito Santo che hanno un’idea benedettina della missione. Questa è basata sul creare una struttura centrale che garantisca sicurezza e salute e faccia della missione un faro di civiltà. L’africano si sarebbe convertito dopo aver visto quanto è bella, grande, progredita la vita del missionario. Più la vita del missionario è attraente, più può fare un discorso di civilizzazione e di evangelizzazione. Secondo questo modello, la gente deve andare alla missione, la quale, quindi, ha bisogno di un gruppo consistente di personale e di grandi capitali.
Ciò che Perlo e gli altri non hanno. Allora inventano uno stile di missione nel quale sono i missionari ad andare verso la gente. La cosa più importante non è la struttura della missione ma il contatto con le persone. Le missioni sono solo baracche di fango e terra battuta, piccolissime, sufficienti per poter dormire una notte. Solo i magazzini per stipare il materiale proveniente dall’Italia devono essere grandi. Alla fine del 1902, le missioni sono a Limuru (procura, vicino alla ferrovia), Tuthu e Murang’a, e Tetu (che diventerà la base per creare la missione di Nyeri). Non più un’unica missione importante, ma diverse piccole missioni.
Il primo Murang’a
Per decidere come deve essere la missione e tracciare le linee orientative di una metodologia missionaria comune o – come si esprimerà padre Borda – «un regolamento particolare sulla vita e sull’azione dei missionari», tutti i sacerdoti (tranne padre Mario Arese di Limuru) si incontrano a Murang’a dal 1 al 3 marzo del 1904: il mattino è dedicato a meditazione e preghiera (Gays), il pomeriggio alle conferenze (Perlo). L’esperienza è valutata positivamente dai missionari in quanto possono rinsaldare i legami di fraternità, ricaricarsi spiritualmente e ricevere indicazioni pratiche.
Le conclusioni sono inviate a Torino e, in attesa dell’approvazione dell’Allamano, una copia viene inviata a tutte le stazioni di missione. Il 6 maggio ricevono l’approvazione dell’Allamano: «Approvo tutte le conclusioni senza eccezione, e desidero che si eseguano in ogni loro parte». Riprodotte da suor Scolastica Piano (delle suore Vincenzine del Cottolengo), ricevono il titolo di: «Conclusioni delle conferenze tenute nella stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall il 1-2-3 marzo 1904, presenti i padri missionari: Filippo Perlo, Tommaso Gays, Antonio Borda, Gabriele Perlo, Rodolfo Bertagna, Giuseppe Giacosa, Sebastiano Scarzello, Francesco Cagliero, Domenico Vignoli e Gaudenzio Barlassina». […] «Quanto in esse è proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di “principianti” del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione. Essi avvertirono che la via della conversione dei Kikuyu era assai più lunga di quanto potesse apparire in Italia e compresero che i buoni rapporti con gli indigeni e le autorità locali erano solo la premessa di un termine a lunga scadenza» (A. Trevisiol, Uscirono per dissodare il campo, Roma 1989, 82-83).
Elaborazione di un metodo
I missionari elaborano allora un proprio piano di evangelizzazione così formulato nel primo paragrafo delle «conclusioni»: «Dato il carattere e i costumi dei Kikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione d’ambiente. […] Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una élite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che, in massa, fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte» (A. Trevisiol, Ibidem 84-85).
«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Torino le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. L’essenziale stava tuttavia nel tradurre in pratica le decisioni prese. Una verità tanto evidente non sfuggiva certo ad un uomo come monsignor Perlo, il quale, appena ne ebbe gli strumenti, fece pubblicare le direttive e le inviò alle singole missioni» (A. Trevisiol, Ibidem, 87).
Giovanni Crippa
Missionarie, missionari e laici, devono unire le forze
Camminare insieme
A Fort Hall c’è stata la creazione di uno spazio di condivisione, per favorire un’unità di intendimenti e azione. E la formulazione di una metodologia missionaria, valida ancora oggi,
che ha al suo centro i popoli e l’importanza delle relazioni.
Lo spirito di Murang’a si è sposato con la storia del nostro istituto (Mc). Al di là dei suoi contenuti, già il solo fatto che i missionari sentissero l’esigenza, il bisogno, il desiderio di fermarsi, stare assieme, pregare, condividere, rileggere l’esperienza, formulare una metodologia missionaria e programmare, è fatto degno di nota ed elemento qualificante di uno stile.
Oggi la parola d’ordine nella Chiesa è sinodalità. Ai tempi di Murang’a certamente non si utilizzava questo termine. Ma la sostanza del camminare insieme era ben presente. Le Conferenze di Murang’a, infatti, avevano come primo obiettivo quello di favorire una unità d’intendimenti e di azione, attraverso la creazione di uno spazio di condivisione nel quale si alternavano momenti di preghiera comune, riflessioni, scambi tra i partecipanti.
Il fondatore, nella relazione a Propaganda fide del 1 aprile 1905, scrive: «…il 1° marzo 1904 si radunarono alla stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall tutti i missionari sacerdoti, al fine di ritemprarsi nello spirito apostolico con un corso di spirituali esercizi […] accompagnati da una serie di conferenze in cui tutti poterono comunicarsi le proprie idee ed il frutto della propria esperienza; accordarsi su lavori da iniziare; sul modo di vincere le difficoltà; sui metodi da seguire nell’evangelizzazione, affinché si potesse procedere nell’opera comune con unità d’intendimenti e di azione».
Nel suo sviluppo, l’istituto Mc ha imparato a valorizzare e qualificare sempre di più gli spazi comuni di preghiera, ascolto, condivisione, memoria, rilettura dell’esperienza, discernimento e progettazione. Le varie istanze partecipative, come i capitoli generali, gli intercapitoli, le conferenze regionali, le assemblee a vari livelli, sono divenuti, sempre più, percorsi qualificati dal discernimento spirituale. Non solo. Questo stile di sinodalità ha comportato lungo gli anni l’investimento sempre maggiore in processi di coinvolgimento delle sorelle nei vari percorsi di famiglia.
Ne ricordo solo alcuni: […] la nuova configurazione dell’istituto con il sorgere di regione Africa e regione America e le nuove aperture in Asia; la riflessione esperienziale e sistematica sul carisma, che di nuovo ha coinvolto tutte e ha trovato il momento culminante nell’intercapitolo svoltosi tra febbraio e marzo di quest’anno. E finalmente la elaborazione di una ratio missionis dell’istituto, ancora in corso, che di nuovo ha coinvolto ogni sorella al fine di «sviluppare e formulare la visione di missione secondo il nostro carisma», e che sarà presentata al prossimo capitolo generale per la revisione e la approvazione finale.
Cammini sinodali
Lo «spirito di Murang’a» si è così dilatato, approfondito e… «spalmato» nei percorsi di istituto, informando i vari cammini, ben al di là di eventi e momenti circoscritti. Vorrei anche segnalare qui cammini sinodali che hanno riguardato non solo le sorelle, ma tutta la famiglia della Consolata che, rispondendo alle proposte elaborate nell’incontro tra le due assemblee capitolari (missionari e missionarie) del 2017, ha portato avanti, coinvolgendo missionarie, missionari e laici, «una riflessione sugli elementi principali del carisma, comuni alla nostra famiglia allargata» e ha preparato la realizzazione di questo convegno, Murang’a 2. Certamente, lo spirito sinodale di Murang’a ci interpella, alla luce dell’oggi, a camminare coltivando un forte senso di comunione e di famiglia, di unità d’intendimenti e di azione sia all’interno di Imc, Mc e Lmc, sia fra i tre soggetti carismatici. Questo convegno è un passo significativo in questa direzione, ma credo che non possa e non debba rimanere un evento isolato, bensì un trampolino di lancio affinché, come fratelli e sorelle nel carisma, possiamo creare spazi e percorsi qualificati nei quali ci si ferma insieme, insieme si prega, si condivide, si rilegge l’esperienza, ci si ascolta, ci si abbevera alle fonti del carisma, si rivede la metodologia missionaria, si progetta.
Il popolo al centro
«Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu…», il documento delle conclusioni delle conferenze di Murang’a inizia così. Al centro della riflessione c’è il popolo che i missionari hanno incontrato, il suo carattere, i suoi costumi. Ma la frase continua: «… i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi, pare si possano ridurre ai seguenti». Devo dire che questo incipit del documento mi colpisce davvero. L’intento primo dei missionari è di instaurare relazioni con il popolo. Le relazioni con la gente sono il primo obiettivo, la prima cura dei missionari. Questa espressione condensata ma potente del documento racchiude, ieri come oggi, stimoli, appelli e inviti ai missionari e alle missionarie. La missione avviene nelle relazioni, o non avviene.
Quando desideriamo la relazione con qualcuno, sorge in noi spontaneo l’interesse a conoscerlo, conoscerne l’ambiente, il carattere, i costumi, le modalità comunicative, ciò che lo fa felice, ciò che lo rende triste, i suoi valori portanti, il suo modo di percepire e leggere la vita, il cosmo, se stesso, l’altro, il creato, Dio. Tutto di lui ci interessa. Di un interesse vivo e nel contempo rispettosissimo, delicato, riverente, libero. Tutto il resto – nel caso di Murang’a: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione dell’ambiente – è subordinato alla creazione di relazioni, nelle quali la Buona Notizia può passare.
Perché così è la missione di Dio. Perché questa è la missione del Figlio, che si incarna e diventa Dio-con-noi, per Amore. Nel cammino dell’istituto questa consapevolezza si è gradualmente approfondita. Ricordo con gioia e gratitudine quando, durante l’intercapitolo del 2008, riflettendo assieme sulla missione e guardando alla realtà delle nostre presenze e delle nostre espressioni missionarie, arrivammo a dirci che «abbiamo bisogno di riscoprire il significato profondo della missione superando il rischio di confinarla alle varie “attività missionarie”. Sembra utile e vitale riprendere il senso teologico della missione che è prima di tutto missio Dei (missione di Dio) nel suo movimento relazionale, di generazione, di vita che si incarna; missione che per noi si qualifica come consolazione».
La tentazione di investire esageratamente in attività, strutture, opere, numeri, visibilità, efficienza, strategie e di affidarci a queste cose, è sempre presente. Ma, oggi come al tempo di Murang’a, il Vangelo chiede di scorrere nel tessuto umano, nella carne e nel cuore di persone che amano e che si lasciano amare, che sanno tessere, con umiltà, rispetto ed empatia, legami autentici, che sanno entrare con delicatezza nella casa vitale dell’altro e raggiungere, per grazia, il cuore della persona e del popolo.
L’attenzione al popolo e il desiderio di tessere con esso relazioni di vicinanza, di affetto e di confidenza guidano le scelte dei missionari del tempo di Murang’a e la elaborazione di un primo metodo missionario, che si esprime nell’attenzione integrale (salute, educazione, catechismi, formazione dell’ambiente), nel promuovere un contatto diretto con la gente, nel raggiungere le persone laddove si trovano, sia fisicamente (le visite intensive ai villaggi), sia dal punto di vista esistenziale (lingua e linguaggio, visione del mondo, della persona, di Dio).
Attualmente, l’impegno di entrare in contatto con il mondo spirituale della persona e del popolo si sta aprendo all’attenzione non solo all’esperienza di Dio, ma anche, più ampiamente, all’approccio del popolo al mondo invisibile. È, questo, un tema delicato, vitale, che attinge alle profondità dell’esperienza personale e collettiva e che richiede uno studio serio e attento. Solo ultimamente, come istituto, ma anche come istituti missionari, si sono aperti spazi di riflessione su questo tema. Siamo solo agli inizi di un cammino affascinante, impegnativo, nuovo. […]
Rispetto e riverenza
Il testo di Murang’a va ancora più in là. L’indicazione «Si insegni in Kikuyu a leggere e scrivere, ed elementi di aritmetica. Più tardi anche un po’ di inglese» contiene una pista più che mai attuale e del tutto in linea con i criteri di rispetto, delicatezza, riverenza per ciò che è la storia, la cultura, il patrimonio di un popolo. La lingua materna, lo sappiamo, è molto di più di una serie di vocaboli e di regole grammaticali. Essa lascia trasparire il sistema di pensiero, e anche di affetto, di un popolo.
Nella struttura linguistica, nei vocaboli, si esprimono spesso i valori più profondi di una cultura, la sua cosmovisione, i suoi paradigmi fondamentali. Sottovalutare o svalutare la lingua di un popolo per iniziare una alfabetizzazione in una lingua veicolare diversa dalle radici culturali è un atto lontano dal rispetto e dalla riverenza che il patrimonio originario di un gruppo umano merita. La consapevolezza di questo dato si è fatta avanti, non senza fatica, nell’istituto. Anche qui, penso a alcune esperienze feconde in varie parti del nostro mondo missionario, all’interno di percorsi di etno educazione e di promozione all’insegnamento bilingue.
Simona Brambilla
La Consolazione nel testo biblico
Perché la consolazione
«Consolazione» è un termine molto presente nella Bibbia, a indicare la sua centralità. Un esempio è quello del cosiddetto «Libro della consolazione», contenuto nel testo del profeta Isaia.
Per guardare alla consolazione da un punto di vista biblico, scegliamo l’inizio del Deuteroisaia (Is 40-55: il Libro della consolazione). Il popolo di Israele è in esilio a Babilonia, dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione. Alle spalle c’è dunque una tribolazione drammatica che resta sottesa, senza mai essere evocata direttamente (la distruzione di Gerusalemme non viene descritta), e su di essa scende il messaggio della consolazione; messaggio valido per ogni tipo di tribolazione, anche le nostre attuali (pandemia, guerra, crisi economiche, climatiche, migrazioni ecc.).
Nel testo si riconoscono e si rincorrono più voci: «dice il vostro Dio»/ «una voce grida»/ «io rispondo»/ «alza la voce con forza, Gerusalemme». La prima voce viene dal cielo ed è quella di Dio, poi il messaggio della consolazione si diffonde di voce in voce, dilaga come un’onda, come una musica, e questa pluralità di voci dà l’impressione al lettore di venire immerso nella consolazione che lo raggiunge e lo avvolge. Inoltre, il fatto che le voci siano molte e si moltiplichino, sembra la condizione perché la consolazione arrivi ovunque e raggiunga il «cuore di Gerusalemme», là dove ci sono macerie, dove c’è tribolazione, desolazione, fatica, scoraggiamento.
Ascoltiamo allora insieme queste voci, per cogliere cosa dicono e anche come lo dicono.
Dice il vostro Dio
La prima voce in assoluto è quella di Dio. «Consolate, consolate»: il verbo in ebraico significa consolare, esortare, far prendere respiro. Dunque: tornate a respirare, perché la tribolazione vissuta è come una fatica di vivere, che addirittura rende difficile respirare. L’esortazione è ripetuta due volte e questo si collega a ciò che è detto al v. 2: «Ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Il popolo di Dio per tutto ciò che ha vissuto ha ricevuto il doppio dalla mano di Dio, ma non il doppio in termini di castigo, bensì di consolazione (consolate, consolate). La consolazione arriva in misura doppia, abbondante; Dio «non bada a spese» quando si tratta di consolare.
«La tribolazione è compiuta»: cioè, le cose cambiano. È finita. La parola ebraica tradotta con «tribolazione» significa «servizio» ed è usata per indicare sia il servizio militare sia quello culturale che i leviti prestano nel tempio. Le tribolazioni della vita dunque, cioè la vita reale, con tutte le sue fatiche, a volte sono come una guerra, ma anche come una preghiera. La vita reale «è sacrificio a Dio gradito», vale come la liturgia, è in se stessa relazione con Dio.
«Parlate al cuore di Gerusalemme»: chi deve parlare al cuore di Gerusalemme? Nella LXX (versione dell’Antico Testamento in lingua greca, ndr): i sacerdoti; nel Targum: i profeti; ma di per sé il testo non esplicita di chi debba essere la voce. Perché la voce della consolazione può arrivare da chiunque, così che molte volte la consolazione arriva inaspettata, un po’ a sorpresa, non da chi ci aspetteremmo. La consolazione poi deve arrivare al cuore che nella Bibbia non è il luogo delle emozioni, ma il centro più intimo della persona, lì dove decidiamo di noi stessi, il motore delle nostre scelte. La consolazione per questo non è qualcosa di superficiale, ma un’esperienza profonda e potente, capace di rimettere in piedi una persona e di farla ripartire (cfr. i discepoli di Emmaus: il cuore lento a un certo punto inizia ad ardere, si accende, e loro si alzano e ripartono nella direzione giusta). Da notare che «il cuore di Gerusalemme», che riceve questo messaggio di consolazione, non è a Gerusalemme, ma a Babilonia. Il cuore di Gerusalemme è dove c’è il popolo di Dio, le persone, non le macerie, gli edifici, le strutture. Dobbiamo consolare le persone, solo così si riedifica Gerusalemme.
«Gridatele»: più volte si dice nel testo che la consolazione va portata ad alta voce. È un messaggio che deve arrivare forte e chiaro, richiede consapevolezza e determinazione, perché chi sta male spesso alza un muro difensivo, si chiude in se stesso, avvolto da una barriera che va riconosciuta. Chi sta male deve essere raggiunto.
Una voce grida
A questo punto nel testo interviene di nuovo una voce angelica: «Nel deserto preparate una via», perché il Signore sta tornando a casa, a Gerusalemme, come noi, si sposta con noi, però arriva prima (del ritorno del popolo si parlerà al capitolo 55), così che, quando arriveremo noi, troveremo che tutto è già preparato (come nel cenacolo il giorno dell’ultima cena: i discepoli vanno per preparare, ma la sala è già pronta). La strada del ritorno passa attraverso il deserto, luogo di morte, inospitale, che però può trasformarsi fino a far emergere una strada, una via. C’è sempre una strada, anche nel deserto, anche nella guerra, anche nella tomba (cfr. finale del vangelo di Marco).
«La gloria»: è la visibilità di Dio (più che una strada, dobbiamo preparare gli occhi). Sarà possibile renderci conto della sua presenza, del suo essere visibile e tangibile nelle nostre storie devastate. «Ogni uomo»: letteralmente ogni carne. È la vita umana nella sua espressione meno nobile, più materiale, prosaica. È la nostra vita reale a fare esperienza di consolazione, che si dà nella carne: si vede, si tocca, si respira.
E io rispondo: che cosa dovrò gridare?
La terza voce è quella del profeta, che raccoglie il messaggio della consolazione, ma interrompe la musica, prende una stecca, pone un’obiezione. Dice: ogni uomo è come l’erba, cioè, la vita umana è fragilissima. Che senso ha? Non si fa neanche in tempo a portarlo il messaggio della consolazione. «…ma la parola del nostro Dio dura sempre»: la voce precedente risponde all’obiezione del profeta e dice: è vero, la vita umana è fragilissima, ma la Parola dura, sorge, resiste (verbo qum in ebraico), si alza. La consolazione non poggia sulla consistenza umana, che non c’è, ma sulla roccia della Parola. Ci sarà perché lo dice Dio.
Gerusalemme
Il participio è femminile e dunque concorda con Gerusalemme: è Gerusalemme il soggetto, è lei che porta liete notizie. L’ultima voce presente nel testo di Isaia è quella della stessa Gerusalemme, che, consolata, diventa capace di consolare, di «alzare la voce» a sua volta e raggiungere «le città di Giuda». Il cuore di Gerusalemme evidentemente è stato raggiunto, consolato, e questo cuore diventa capace di parlare, di portare la buona notizia della consolazione.
La consolazione è una «buona notizia»: nel testo greco della LXX il participio è euanghelizòmenos: tu che porti il vangelo, la buona notizia. La consolazione, che si diffonde dallo stesso luogo che prima era stato desolato e deserto, è detta con il linguaggio a noi caro della evangelizzazione. Questo significa, per noi, che l’evangelizzazione e la consolazione si danno insieme, l’evangelizzazione deve essere consolante, altrimenti non è una buona notizia. Un annuncio che mette ansia non è vera evangelizzazione, non è parola che viene dal cuore di una Gerusalemme consolata. Il messaggio della consolazione di cui si fa portatrice Gerusalemme è questo: «Il Signore Dio viene con potenza […] come un pastore egli fa pascolare il gregge […] porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». La potenza del Signore sa fare camminare insieme un popolo in cui ciascuno ha esigenze diverse che vengono rispettate, conosciute e accolte, perché è vero che la vita umana è fragilissima, come obietta il profeta, ma siamo presi in braccio e condotti dolcemente dalla potenza di Dio.
Laura Verrani
Alcune indicazioni per il futuro
Il coraggio di sognare
Il sogno è una cosa seria, fa alzare lo sguardo sul domani. I sogni ci svegliano, ci indicano un cammino diverso. E poi, i sogni sono da condividere. Murang’a 2 è un sogno che si è realizzato. Si è fatta una riflessione sulla missione e sulle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi e del futuro.
Senza tenerezza, senza cuore, senza amore non ci sarà profezia né testimonianza credibile. Andiamoci piano a snobbare i «sognatori» le «sognatrici»: sono capaci di sorprendere chi li crede ingenui e illusi. Uno per tutti: «Mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa…”».
Il sogno è una cosa seria, non va scambiato con l’astrazione inconcludente di chi si chiama fuori dalla storia per costruirsi un mondo a parte. Il sogno vede una realtà nuova, e si sottrae alla rassegnazione per alzare lo sguardo sul domani. È solo sognando che si può contemplare ciò che ancora non esiste e che tutti, attorno, ti spingono a credere inutile, faticoso, irrealizzabile. È l’inaudito che diventa credibile.
Chi non sogna più smette anche di sperare, si accontenta del menù passato da una vita al ribasso. I sogni sono importanti. Tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza in ogni azione quotidiana. I sogni ti svegliano, ti portano in là, sono le stelle più luminose, quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità.
I sogni di futuro sono veramente tali solo se in grande, e condivisi: diversamente si trasformano in miraggi o delirio di onnipotenza. Per questo hanno bisogno di Dio e del noi, garanzie di autenticità. Osare ci dà la consapevolezza che ci si può ritrovare nello spazio libero dei sogni e delle speranze grandi.
Il convegno Murang’a 2 è un sogno realizzato: 500 partecipanti, 31 gruppi di lavoro, 6 lingue, da 33 paesi.
A Murang’a, dieci missionari molto giovani, alla prima esperienza in terra sconosciuta, pieni di problemi, hanno deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro. Murang’a 2 lo facciamo perché il mondo va come va e noi siamo qua. […]
Fare bene il bene, ovvero ricerca della qualità della vita
La «qualità della vita» viene indicata dall’Allamano come «principio ispiratore» della nostra vita e missione: e soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che, stimolati dal convegno, vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
Discrezione e semplicità
Più che le parole è la vita del beato Fondatore che ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare il centro dell’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo del protagonista, che è semplice, accogliente, aperta alla dimensione comunitaria.
Esprime questo «stile allamaniano» il missionario e la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretendere niente, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità.
Basta ricordare quanto di Allamano disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
L’amore alla gente
Dice don Dario Berruto, collaboratore del santuario della Consolata: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”».
Missione da vivere insieme come fratelli e sorelle
I nostri istituti stanno facendo una grande riflessione sulla missione, e stanno anche realizzando delle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi, interrogandosi sul nostro modo di essere missionari e missionarie per il futuro. Ognuno e ognuna dovrebbe sentirsi coinvolto e coinvolta in questo cammino. Per questa ferma decisione di ritornare alla missione e qualificarla maggiormente, non ci sono ricette, né modelli collaudati e approvati.
L’augurio è che questo tempo di «purificazione» sia di rinnovamento profondo e segno di entusiasmo ritrovato nella missione. Che possiamo camminare e passare da una missione assunta in comune a una missione condivisa. Accogliamo con spirito disponibile e aperto il messaggio di papa Francesco ai consacrati nella lettera apostolica che presentava l’anno dedicato alla vita consacrata: «Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare nelle piccole dispute della casa, non restate prigionieri dei problemi. Essi si risolvono se voi andate fuori ad aiutare gli altri e a risolvere i loro problemi e annunciare la buona novella. Voi troverete la vita donando la vita, la speranza donando speranza, l’amore amando» (cfr. papa Francesco, Lettera apostolica a tutti i consacrati per l’anno dedicato alla vita religiosa, 30 novembre 2014-02 febbraio 2016). […]
Passi verso il futuro
Per soddisfare le nuove esigenze della missione, noi missionari e missionarie abbiamo bisogno dei seguenti passi:
Inserirci nella Chiesa locale e vivere in comunione con i pastori, con gli altri religiosi, religiose, laici.
Ritornare al posto naturale dove noi dovremmo essere: tra i non cristiani, nella prima evangelizzazione, nel mondo dei poveri e delle nuove povertà. Da esse rileggere il nostro carisma.
Ripensare l’identità della vita consacrata in relazione al laicato, con i membri di altre religioni, con i non credenti, con l’uomo e la donna, con persone di diverse generazioni.
Imparare a perdere il protagonismo. Accettare di essere minoranza nella Chiesa e nella società pluralista.
Accettare le sfide della nuova cultura con discernimento, audacia, dialogo e provocazione evangelica.
Rileggere il carisma guidati da alcuni criteri: la riflessione comunitaria, la capacità di essere segni, di farsi capire, di provocare, di porre interrogativi, di collocare alternative radicali.
Prendere decisioni pratiche per la rivitalizzazione e la ristrutturazione delle nostre presenze nei diversi paesi, perché siano significative e interpellanti, povere, libere, liberatrici e fraterne, con un progetto e un’azione missionaria. […]
Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra limitazione e povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.
Stefano Camerlengo
Come conciliare le proprie radici con le esigenze attuali
La storia profonda e il «grido di oggi»
Esiste una storia profonda, che dà a missionarie e missionari della Consolata uno spirito unico, un’identità. Questa storia si incontra con il grido del nostro tempo. Stiamo vivendo un cambio epocale, che suppone un cambiamento di approccio.
Il nostro istituto possiede quella che viene chiamata una «storia profonda», una struttura narrativa, uno spirito unico, incarnato. Questa «storia profonda» è condivisa e tutti noi la riconosciamo come la nostra identità di gruppo, sapendo che nessuno di noi la può esprimere in modo definitivo. Questa storia, questa unicità, è un dono di Dio. È una condizione necessaria per il carisma, ma la storia non è il carisma.
La storia profonda che condividiamo e che fa parte di noi, si incontra con le grida del nostro tempo. Permettetemi di usare questa immagine presa in prestito da un autore e scrittore marianista, padre Bernard Lee, che illustra bene l’incontro efficace tra la storia profonda e il grido della nostra epoca. Da un lato abbiamo una bella campana tibetana che rappresenta la nostra storia profonda di Imc. Dall’altra parte, abbiamo un ding-dong di legno che rappresenta i bisogni pressanti, le grida del nostro tempo e del luogo in cui operiamo. Ora suoniamo il gong. Il suono è il nostro carisma, l’incontro concreto e storico del dono di Dio per noi con i bisogni del nostro tempo.
Il nostro Fondatore ha suonato il gong portando il dono di Dio a rispondere al bisogno di ad gentes e ai poveri per la trasformazione della società. Il suono del gong ha rimbombato per generazioni, in tutto il mondo. Risuona in noi. L’abbiamo portato avanti. Suona ancora oggi.
Pensiamo solo alle nostre attuali presenze nel mondo. La congregazione è fiorita in Italia, Kenya e poi nei quattro continenti dove siamo oggi presenti. Il nostro gong risuona ancora in 33 paesi del mondo. Tutto continua a fiorisce. Però, le situazioni in cui viviamo richiedono un nuovo suono del gong basato su una lettura profonda e comunitaria dei segni dei nostri tempi e delle grida della nostra epoca. In altre parole, la nostra identità si riconosce nelle parole, nelle espressioni, negli esempi, nei ricordi che accendono un fuoco nel cuore delle persone. Ogni volta che li sentiamo, qualcosa risuona in noi. I nostri cuori sono aperti e ci riconosciamo. Tuttavia, dobbiamo essere profondamente inseriti nella nostra cultura, nel nostro mondo, riconoscerne i bisogni urgenti, sperimentarne le passioni e le voglie essenziali (senza assecondare la cultura acriticamente).
Dobbiamo «suonare il gong», come i nostri fratelli a Murang’a per abbracciare la realtà odierna e trasformare gli ambienti. Dal tempo di Murang’a a oggi, sono cambiate tantissime cose ma non l’amore che viene trasmesso agli uomini e le donne di tutti i tempi. E sarà sempre così.
Contatti con tante realtà umane
Guardando la storia profonda del nostro istituto, «una famiglia di consacrati per la missione ad gentes» (Cost. 4), possiamo dire che il suo cammino lo ha portato a contatto con le più diverse realtà umane, sociali, politiche, economiche e culturali. Il dialogo permanente con la realtà e lo sviluppo della sua missione nella Chiesa e nel mondo lo hanno reso dinamico e ne hanno favorito la crescita verso la internazionalità e la interculturalità.
La situazione attuale nel mondo globalizzato è forse la più profonda crisi di senso della storia dell’umanità. Diciamo che la gente è sofferente e disorientata. Non sorgono leader alternativi e credibili che possano convincere le persone a scegliere una nuova direzione. Le strutture, l’organizzazione, i metodi di lavoro, lo stile di vita non rispondono adeguatamente alle necessità e alle sfide di una società che è cambiata e sta cambiando radicalmente. Questa società è produttrice di nuove forme di povertà e di esclusione. Si tratta, insomma, di un cambio epocale, che esige da noi un modo nuovo di comprendere la persona umana e le sue relazioni con il mondo e con Dio, e ci porta a un nuovo paradigma. Per rispondere a questa sfida importante e trovare quel nuovo paradigma è necessario dare intensità alla preghiera, alla vita comunitaria e alla missione. (Cfr. V Conferenza generale di Aparecida, Documento finale, 44, 2007).
Siamo invitati a rivedere con onestà i criteri sui quali fondiamo e organizziamo le nostre attività. Un nuovo volto di vita, che implica il riconoscimento di nuove proposte di senso, il ritorno alla Parola di Dio e al carisma della fondazione, la risposta ai segni dei tempi, la capacità di dialogo, la valorizzazione dell’incontro soprattutto con i poveri e con i laici. […]
Missione e vita condivisa con i laici
La conferenza di Murang’a ci richiama all’incontro reale con i laici nel campo della missione e della vita, dell’azione e della spiritualità. I nostri primi missionari erano laici, suore e sacerdoti. Ci rincontriamo con loro che sono la fonte comune di acqua viva con la quale innaffiamo il campo della missione e di vita e spiritualità. L’unione e la vicinanza ai laici possono fare molto bene allo sforzo di rivitalizzazione tanto per i laici che per noi religiosi consacrati.
Non è un processo facile e richiede molta chiarezza nell’aspetto teologico, spirituale, apostolico, e a volte anche giuridico. Richiede anche un nuovo atteggiamento da parte dei religiosi consacrati e dei laici, e non sempre si è preparati a fare bene questo passo. L’unione fa la forza e aumenta il dinamismo.
James Bhola Lengarin
Hanno firmato il dossier:
Monsignor Giovanni Crippa, missionario della Consolata, è vescovo di Ilhéus, Brasile.
Suor Simona Brambilla, superiora generale delle Missionarie della Consolata.
Laura Verrani, teologa, si occupa di catechesi biblica nella diocesi di Torino e in altre realtà ecclesiali.
Padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
Padre James Bhola LEngarin, È primo consigliere generale e vice superiore generale dei Missionari della Consolata, responsabile per l’Asia.
Marco Bello, Giornalista redazione MC, Ha curato e coordinato questo dossier.
Dal 2003 è in Mongolia, paese che ama e che continua a stupirlo. Qui, con altri missionari e missionarie della Consolata, ha fondato una nuova parrocchia. Da agosto 2020 è prefetto apostolico di Ulaanbaatar. Poi l’annuncio di papa Francesco.
Nato il 7 giugno del 1974, cresciuto a Torino tra le parrocchie di sant’Alfonso, Regina delle Missioni e gli scout, Giorgio Marengo decide di entrare nei Missionari della Consolata dopo la maturità al liceo Cavour. Segue il percorso di formazione e viene ordinato a Torino, nel 2001, all’anniversario dei 100 anni dell’Istituto. Nel 2003 è nel primo gruppo di missionari in partenza per la Mongolia.
L’ordinazione episcopale arriva ad agosto 2020. Poi, a sorpresa, il suo nome compare nella lista dei nuovi cardinali, resa nota da papa Francesco lo scorso 29 maggio. Viene quindi nominato nel concistoro del 27 agosto. È il cardinale più giovane, ed è il primo tra i Missionari della Consolata e della chiesa in Mongolia.
Ci accoglie con un grande sorriso, e la disponibilità che lo contraddistingue, nonostante i tanti impegni di un periodo frenetico.
Come descriverebbe la Mongolia in poche parole?
«È un paese affascinante, molto bello, con tanti contrasti, a cominciare da quelli climatici. C’è il deserto freddo più grande del mondo, d’estate +40°, d’inverno
-40°. L’impatto dell’uomo è poco visibile. È il secondo paese meno popolato del mondo (su una superficie 5,2 volte l’Italia, vivono 3,3 milioni di persone).
È difficile da definire, ma possiamo parlare di due Mongolie, quella della capitale e poi tutto il resto. Entrambe rappresentano la Mongolia, ma in maniera diversa. Ulaanbaatar è una capitale evoluta, tecnologica, con molte costruzioni moderne, lo stile di vita è urbano. Negli ultimi dieci anni si è trasformata. La Mongolia dell’interno è quella tradizionale, dell’allevamento, delle grandi distese, delle tradizioni, dell’isolamento, del vuoto.
Un forte elemento identificativo è la storia. Ovvero Gengis Kahn e il ruolo dominante dei mongoli nel XIII secolo, quando hanno costituito l’impero più grande di sempre. Questo ha plasmato la coscienza comune. Sono un popolo molto fiero.
Oggi sono un paese sovrano e democratico in mezzo a due superpotenze, la Federazione Russa e la Cina popolare. La Mongolia è un paese che mantiene la sua identità, e vuole confermare la propria sovranità, su base democratica e di rispetto dei diritti e della libertà.
È stata per settant’anni una repubblica popolare, non formalmente membro dell’Urss, ma totalmente allineata alla politica sovietica. Questo ha implicato questioni molto gravi, compresa la repressione del buddhismo, la cancellazione della libertà religiosa, grosse sfide alla cultura, l’imposizione del cirillico al posto della scrittura mongola, l’ateismo di stato. Quei 70 anni hanno impattato, ma oggi, dopo 30 anni dalla fine del regime, la democrazia è affermata».
La Chiesa cattolica ha compiuto 30 anni nel paese. Come è stato l’inizio?
«All’indomani delle prime elezioni democratiche nel ‘92, quando si è costituito il primo governo multipartitico, questo ha voluto dimostrare al mondo l’impegno di tutelare la libertà di religione e di culto. Inoltre, il paese aveva molto bisogno di aiuto dall’estero perché, come è sempre successo nel post-comunismo, subito c’è stata una fase di grande crisi economica. Così il governo mongolo ha chiesto alla Santa sede di ristabilire relazioni diplomatiche. Di solito accade il contrario.
La Santa sede si è subito attivata e, per motivi storici, ha proposto alla congregazione del Cuore immacolato di Maria (Scheut) di andare in Mongolia. Intanto padre Jeroom Heyndrickx, noto
sinolgo, aveva già compiuto una prima esplorazione nell’ottobre 1991, così nel luglio 1992, sono stati mandati tre missionari, i padri Robert Goessens, Gilbert Sales (belgi) e Venceslao Padilla (originario delle Filippine). Questi hanno cominciato a inserirsi, creato contatti, e hanno fatto una grande attività di promozione umana, facendo arrivare tanti aiuti in un paese che allora era in ginocchio.
Con grande capacità relazionale, soprattutto di Padilla, si sono costituite le prime realtà ecclesiali, da un nucleo che si ritrovava nell’appartamento in affitto nel quale i missionari vivevano. Si sono create relazioni stabili con gente interessata a questioni di fede e dieci anni dopo, la Santa Sede ha eretto la Prefettura apostolica. Padilla è stato ordinato prefetto e poi vescovo nell’agosto 2003.
Noi Missionari della Consolata ci siamo inseriti nel luglio 2003, quando era ancora un’esperienza pionieristica.
Il cambiamento più grande è stato tra il 2003 e il 2010, quando c’è stato un grosso boom economico, legato ad aiuti e investimenti. La Mongolia ha accelerato la trasformazione interna, e questo si è riflettuto un po’ anche sulla realtà ecclesiale».
Ci racconta i primi passi della Consolata?
«I primi tre anni ci siamo dedicati a imparare la lingua, nella capitale Ulaanbaatar, iniziando a guardarci intorno per vedere dove installarci. La presenza missionaria si concentrava nella capitale, e noi volevamo metterci a disposizione di qualsiasi altra realtà che non fosse stata ancora raggiunta. Mons. Venceslao Padilla ci disse di fare noi il discernimento, e così facemmo, sempre in comunione con lui. Dopo una serie di viaggi esplorativi la Provvidenza ci ha portati in una zona del centro Sud, vicino al deserto del Gobi. Così ci siamo stabiliti nel 2006 ad Arveiheer, capoluogo della provincia. Eravamo due padri e tre suore. Abbiamo cominciato tutto da zero. È stata una bellissima esperienza di vita, di missione, di fede. Perché lì la chiesa non c’era mai stata.
Avevamo bisogno delle autorizzazioni delle autorità locali, e abbiamo vissuto in affitto condividendo la vita della gente di realtà diverse. Poi il governo ci ha dato il permesso e si è avviata la missione».
Come è organizzata oggi la Chiesa cattolica in Mongolia?
«Abbiamo dieci luoghi di culto riconosciuti dallo stato, di cui otto parrocchie e due cappelle (cinque in capitale e dintorni, due nel Nord e una ad Arveiheer). Sono il fulcro della vita cristiana. Abbiamo 22 sacerdoti di cui due sono mongoli, 35 suore, alcuni laici missionari, per 11 congregazioni e 24 nazionalità. I catechisti, sui quali si è investito e si continua a investire, sono i principali protagonisti dell’evangelizzazione, grazie al fatto che sono membri di questo popolo e che possono esprimere con lingua e categorie culturali locali i contenuti essenziali della fede e accompagnare le persone nel loro percorso, con un discorso di comunità e fraternità.
Il 71% delle nostre attività sono di tipo sociale: promozione umana e sviluppo, educazione, sanità, assistenza, promozione e diffusione della cultura mongola. La chiesa è impegnata in settori di utilità comune, non specificamente religiosi. Quest’anno, oltre al sinodo stiamo celebrando i primi 30 anni della chiesa in questo paese e ci siamo fermati a riflettere. Io sono dell’idea che, probabilmente, le priorità non sono più quelle di 20-30 anni fa. Forse dobbiamo gradualmente riorientare le nostre energie verso obiettivi più attuali.
Ho scritto la mia prima lettera pastorale e ho proposto tre parole fondamentali: profondità, fraternità e annuncio.
Profondità, perché il seme è stato gettato, la testimonianza della prima generazione di missionari è stata feconda, accolta. Se abbiamo una comunità cristiana è perché le persone che la compongono hanno veramente accolto il Signore nella loro vita. Adesso però c’è bisogno che questa vita embrionale di fede raggiunga le fibre più profonde della persona e delle comunità, che non sia qualcosa di superficiale che poi è soggetta all’abbandono, ma si approfondisca continuamente.
Fecondità, perché questa piccola comunità rischia, come accade ovunque, di frazionarsi nelle otto parrocchie, anche a causa delle tendenze centrifughe delle varie congregazioni.
Annuncio, per non dimenticarci che, se siamo lì è perché con discrezione e con umiltà vogliamo condividere la nostra fede, e quindi non aver paura di continuare ad annunciare Cristo».
Cosa vuole dire essere una chiesa di minoranza?
«Essere una minoranza è una grazia, perché ci riporta al messaggio delle parabole: un po’ di lievito, un pizzico di sale, una candela, un seme caduto nel terreno. Il Signore quando ha parlato del Regno di Dio ha sempre fatto riferimento a immagini del poco nel tanto, quindi io l’ho vissuta così e continuo a viverla come una grazia. Ci porta a questa dimensione dell’autenticità messa alla prova per il fatto che non è per nulla scontato essere cristiani, ed essere accettati come tali. Usiamo spesso il parallelo con gli Atti degli apostoli.
Essere minoranza può avere, da una parte, il rischio di portarci a dire: stiamo bene tra di noi, siamo piccoli, siamo poveri. Questo non è il nostro caso. Dall’altra, quello di porci l’obiettivo di diventare noi maggioranza, cioè raggiungere una situazione in cui sia socialmente accettabile e auspicabile diventare cristiani. Ritengo che l’esperienza dell’Occidente sia importante, fondamentale, ma non è l’unica, e nella storia ha rappresentato una piccola sezione in ordine di tempo e di spazio. È importante il fatto di non dare nulla per scontato nell’esercizio della fede, perché è un continuo provare a metterla in circolo nella vita concreta, in una società in cui i punti di riferimento sono altri. È una provocazione sana, che ci fa rimanere umili, attenti, che ci fa dire: questa strada non funziona, allora ne proviamo un’altra.
L’importante è curare l’autenticità del messaggio e della vita di fede, aiutando le persone a viverla con coraggio e serenità, perché diventare cristiano per un mongolo è una scelta impopolare, che lo espone anche alla derisione sociale.
Come aiutare queste persone ad appropriarsi della fede, ad approfondirla in modo che poi diventi sorgente di una nuova interpretazione della realtà, in armonia con l’identità culturale, ma anche capace ogni tanto di provocare, è una delle grandi sfide.
Anche se in Italia è generalmente accettato, il messaggio del Vangelo è comunque sempre controcorrente, non è mai assimilabile a una cultura o società».
Com’è la relazione con le altre religioni?
«Essere minoranza ha come aspetto bello che ti fa percepire la ricchezza delle tradizioni religiose diverse. Per noi sono il buddhismo di matrice tibetana, che nel paese oramai si chiama buddhismo mongolo, poi lo sciamanesimo, come anche l’islam praticato nell’Ovest, nella comunità kazaca, e anche delle altre tradizioni religiose recenti, il bahaismo o le altre denominazioni cristiane non cattoliche.
C’è un rapporto con tutti, ma il migliore lo abbiamo con il buddhismo, rappresentato dalle loro istituzioni e dai loro leader, con cui abbiamo un cammino trentennale continuo. Il 28 maggio scorso il Papa ha ricevuto in udienza due autorità del buddhismo mongolo, uno è l’abate del secondo monastero della Mongolia.
Esiste una rete di incontri interreligiosi che, fino a un anno fa, erano annuali e ora sono quasi mensili: a turno uno dei leader religiosi ospita gli altri, si mangia, si discute di temi comuni. L’orizzonte di questi incontri è da una parte conoscitivo (solo se ci si conosce bene ci si rispetta, ci si apprezza), e dall’altra pensare quali obiettivi raggiungere insieme».
Come si diventa cattolici in Mongolia?
«Quando siamo andati ad Arveiheer non c’era nessun cristiano. È stato interessante vedere come la grazia si fa strada. È una storia di relazioni, di amicizia con i missionari e le missionarie, attraverso la quale le persone vengono in contatto con un mondo che si apre loro e che magari all’inizio è legato a una loro necessità. Da notare che la campagna ha conosciuto lo sviluppo dieci anni dopo la capitale. Per cui quando siamo arrivati c’era molta povertà. Quando abbiamo avuto il permesso di svolgere le nostre attività, la curiosità e l’amicizia ha portato le persone per la prima volta a mettere la testa dentro la nostra gher, a vedere cosa vuol dire la preghiera dei cristiani. O a vedere questi poveri stranieri imbranati che cercavano di rendersi utili con una mentalità di non sfruttamento degli altri e, possibilmente, di aiuto. Questo faceva sorgere dei punti di domanda, e le persone, gradualmente, senza correre, chiedevano di approfondire.
C’è sempre una specie di pre catecumenato, che è un periodo fluido di contatti, di relazione, di amicizia, fino a quando la persona formula la sua richiesta, che noi vogliamo sia scritta: io voglio iniziare un percorso di fede. Si propone la catechesi e il catecumenato dura due anni. Stiamo lavorando per preparare il materiale catechetico di base. Poi c’è l’iniziazione, il battesimo.
Oggi i cristiani in Mongolia sono di prima ma anche di seconda generazione. A chi è battezzato ed è riuscito a conservare la fede anche nella vita famigliare, si propone di far fare il cammino della catechesi anche ai loro figli. Non abbiamo mai insistito, abbiamo sempre aspettato che la gente si proponesse».
Quale ruolo può avere la chiesa mongola tra le chiese asiatiche?
«In Asia ci sono tante esperienze interessanti e anche diversificate tra di loro. È un arricchimento reciproco. Il blocco del Sud Est asiatico è erede di un’epopea missionaria dell’800 in cui i missionari erano provenienti da nazioni coloniali, un tema che in Mongolia non c’è. Non c’è mai stata sovrapposizione di poteri politici ed ecclesiastici. Lì c’è una cristianità più radicata, antica. Noi siamo la chiesa più giovane d’Asia.
Nella Federazione delle conferenze episcopali dell’Asia (Fabc, fondata nel 1971), c’è un clima molto fraterno. I vescovi di tutta l’Asia si incontrano, condividono, dialogano, cercano vie comuni.
Da aprile sono entrato a fare parte della neonata conferenza episcopale dell’Asia centrale. Nell’autunno 2021 la Santa Sede l’ha istituita raggruppando le cinque repubbliche ex sovietiche, l’Afghanistan e la Mongolia.
A parte le Filippine e la Corea, dove ci sono le due chiese più affermate, per il resto, in tutta l’Asia siamo minoranza. In certi paesi ha buoni rapporti con lo stato, in altre parti è una chiesa sofferente».
Quali sono le sfide della Chiesa in Asia?
«Riuscire a essere un faro per i diritti là dove esistono regimi non morbidi, un agente di coesione e pace sociale, di promozione del dialogo: è una sfida grande in tutta l’Asia. Anche nei paesi di tradizione più affermata. Le comunità cattoliche in tutto il continente sono dei baluardi di umanità, fede, spiritualità, rappresentano una bella testimonianza.
L’ateismo puro in Asia non esiste, è esistito imposto dal comunismo, ma il tema non è Dio o non Dio, piuttosto quale Dio. Non c’è mai stato l’illuminismo quindi la cesura tra ragione e fede, tra uomo religioso e uomo scientifico non è mai esistita. In Asia si deve portare avanti un discorso di dialogo, per dire con quali valori comuni, noi seguaci di tradizioni religiose diverse, possiamo promuovere il bene di questi paesi. Poi c’è il discorso più teologico: io ho collaborato con il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso che organizza periodicamente un colloquio buddhista-cristiano».
Secondo lei, perché un cardinale in Mongolia?
«Bisogna chiederlo a papa Francesco. Conoscendolo, per lui queste esperienze di chiesa in situazioni di minoranza e marginalità sono preziose, e allora forse vuole che siano conosciute di più e rappresentate».
Quali sono i progetti futuri?
«Vorremmo riuscire a vivere la progettualità da un punto di vista più unitario, comunionale: non solo le singole congregazioni con i loro progetti, ma unire le forze per ottimizzare le cose già meravigliose che i singoli missionari stanno facendo.
Abbiamo rilevato un edificio in capitale, e vorremmo creare la Casa della misericordia, un luogo di accoglienza e consolazione, per rendere la chiesa un porto sempre accessibile a chiunque, con qualunque necessità».
Marco Bello
Il piccolo popolo di Batack
A Batack, villaggio nella zona centro occidentale del Camerun, la gente vive prevalentemente di agricoltura. Case di fango e bambù, e costruzioni dai tetti appuntiti in lamiera ondulata (in passato fatti di paglia) costellano il paesaggio come denti d’argento.
Elysée, uno dei giovani maestri della scuola elementare, mi accompagna con la sua motocicletta a fare visita al signor Tchapa, il presidente dell’associazione locale Covideba.
La sua residenza è un vero e proprio museo della cultura camerunense e africana: libri, statue, tappeti, quadri, antiche maschere tribali, reperti e testimonianze della cultura bamiléké.
Tchapa è una figura rappresentativa dell’intera comunità di Batack. Tutti i suoi sforzi sono volti a migliorare le condizioni di vita del villaggio e dei suoi abitanti che si definiscono Petit peuple de Batack.
Con la sua organizzazione è promotore di opere e progetti a favore dell’educazione scolastica, dell’agricoltura, dell’assistenza sanitaria.
Un uomo di grande umanità che, pur vivendo da solo, ha fatto della sua casa un luogo di riferimento per decine di persone con cui condivide spazi e risorse.
Il popolo bamiléké
Questa zona, ricca di montagne, altipiani e di una vegetazione lussureggiante che incornicia le strade rosso rame, è la casa del popolo Bamiléké, gruppo etnico organizzato in diverse chefferie (chiefdom in inglese, dominii o regni governati da un capo tradizionale, o chef, ndr) risultanti da un complesso movimento di migrazioni e conquiste avvenute nel XVIII secolo e in seguito alla penetrazione coloniale.
Quando i tedeschi raggiunsero la cresta dei monti Bamboutos, designarono la popolazione della zona con l’espressione Ba Mbu Léké, che significa le «popolazioni della valle».
I Bamiléké sono oggi raggruppati in sette dipartimenti (Bamboutos, Haut-Nkam, Hauts-Plateaux, Koung-Khi, Menoua, Mifi e Ndé) e in un centinaio di chefferie, di cui dieci di primo grado (Bandjoun, Bamougoum, Babadjou, Bana, Foto, Banka, Bangang, Bangangté, Batcham e Bafou).
Batack appartiene al dipartimento di Haut-Nkam segnato nel corso dei decenni da guerre tribali che hanno portato all’attuale configurazione delle chefferie.
Un mosaico di regni
Durante i nostri dialoghi serali, Tchapa mi racconta che nei territori del dipartimento di Haut-Nkam, molti membri dell’etnia Tikar arrivavano come cacciatori o guaritori e, in seguito, si univano in alleanze per soggiogare le popolazioni locali.
Tutta la regione è disseminata di chefferie, comunità locali guidate da capi depositari di un potere ancestrale, garanti dell’ordine, sia sul piano spirituale che sociale, culturale, amministrativo ed economico, delegati in questo dalle istituzioni pubbliche.
Lo chef di Batack è «Sa majesté Nguelieukam Deuna Christophe».
Povertà e diseguaglianze
Con un Pil pro capite di circa 1.500 dollari all’anno nel 2019, il Camerun si colloca a un livello medio basso sia in riferimento al reddito che all’indice di sviluppo umano.
A causa delle precarie condizioni alimentari e sanitarie, l’aspettativa di vita è di circa 59 anni. Quasi il 50% della popolazione vive con meno di tre dollari al giorno e lo sviluppo socioeconomico è fortemente influenzato da disuguaglianze persistenti, soprattutto nelle zone rurali come quella di Batack.
Anche la disuguaglianza di genere è importante.
Questi fattori portano a differenze anche nell’accesso alle opportunità educative.
L’assenteismo degli insegnanti e la corruzione nel ministero dell’Istruzione influiscono sulla qualità della scuola. Solo grazie a giovani insegnanti dediti come Elysée, le piccole comunità come Batack possono garantire l’istruzione ai bambini del villaggio.
L’accoglienza della comunità
Nonostante il contesto di povertà, l’accoglienza che l’intera comunità del villaggio mi riserva è emozionante.
Adulti, donne e bambini, si privano di quel poco che hanno per donarlo a me in segno di ospitalità: un mango, una papaia, un ananas, arachidi, semi di mais, cibo a base di manioca.
Di episodi come questi ne ho vissuti molti negli ultimi anni in Africa come in Asia, ma ogni volta mi fanno pensare, come se fosse la prima, al divario tra la nostra società «iper connessa» e la generosità e la condivisione di cui sono capaci queste popolazioni.
I Missionari della Consolata sono andati ad aprire una nuova presenza nella periferia di San Juan, zona centro occidentale dell’Argentina, dove tra insediamenti informali, povertà educativa, violenza ed emarginazione, portano il Vangelo.
La provincia di San Juan, insieme a quella di Mendoza e San Luis, forma la regione di Cuyo, nella zona centro occidentale dell’Argentina dove le Ande fanno da confine naturale con il Cile.
Lo scorso gennaio 2022, i Missionari della Consolata vi hanno iniziato una nuova missione stabilendosi a La Bebida, cittadina alla periferia Ovest della capitale provinciale. Una nuova apertura che porta l’Imc per la prima volta in questa provincia e che vuole essere in particolare sintonia con le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale del 2017, con il progetto continentale e la decima conferenza regionale Argentina.
Missione sognata
La decisione di fare questo passo è stata la conseguenza di un discernimento compiuto con molta preghiera, tramite il confronto con il materiale e le informazioni a nostra disposizione, e grazie al dialogo con diversi vescovi argentini.
Il progetto continentale della Consolata in America, ai numeri 138 e 139, dice: «Sentiamo che le periferie esistenziali sono una grande sfida per il nostro essere e diventare missionari […]. Assumere questa opzione ci porta a passare da una pastorale della conservazione a una pastorale decisamente missionaria nel metodo e nello stile».
Il desiderio di aprire nuove strade con un percorso diverso da quello fatto finora, evidenzia la dimensione delle periferie esistenziali e dello stile di vita.
I vescovi delle diocesi di Mendoza, Catamarca e La Rioja, ci avevano invitati a integrarci nelle loro diocesi. Il nostro superiore regionale, padre Mauricio Guevara le ha visitate, ma alla fine ha scelto la diocesi di San Juan. Camminando per le strade dei quartieri periferici della città e incontrando la precarietà della gente, infatti, è stato colpito dalla grande sfida che rappresentava.
In questo momento la nuova missione tanto sognata e desiderata è già realtà.
Semplicità di vita e mezzi
La comunità missionaria è formata da padre Sang Hun Im Marcos (del 1978), originario della Corea del Sud; padre James Macharia Kirira (del 1987), keniano, e il sottoscritto, padre Manolo García Candela (del 1956), dalla Spagna. Ci accompagna, inoltre, con il suo servizio fino alla sua ordinazione sacerdotale, il diacono Pablo Ezequiel Sosa Martín, del 1989, argentino, originario di Mendoza.
Senza averlo premeditato, in questo momento la comunità rappresenta i quattro continenti nei quali l’Istituto è presente. Consideriamo importante e valorizziamo anche questo aspetto multiculturale.
Le indicazioni dell’ultimo Capitolo generale Imc, al numero 139, dice: «Lo stile delle nuove aperture deve realizzarsi nella semplicità della vita e dei mezzi, coinvolgendo per quanto possibile la Chiesa e le comunità locali». Noi siamo arrivati a San Juan quasi solo con quello che indossavamo (pochi bagagli personali e alcune scatole che riempivano appena un furgone).
Una volta arrivati, siamo partiti da zero per attrezzare la casa con un minimo di comfort. La gente del posto si è occupata del resto: l’accoglienza, il cibo e l’igiene durante i primi giorni.
La temperatura è molto alta a San Juan, i raggi del sole sono forti per molte ore al giorno, ma il calore che emana dal cuore delle persone li supera.
Questa è stata la nostra prima impressione.
Abbiamo trovato una popolazione diversa da quella di altre aree in cui abbiamo lavorato. Persone molto amichevoli, rispettose e accoglienti, anche nelle espressioni e nel modo di parlare. Tutto è totalmente inedito per noi, e sappiamo di avere molto da imparare.
Periferia esistenziale
Il centro abitato in cui ci troviamo si trova nel dipartimento di
Rivadavia. È una zona periferica della città di San Juan. La nostra missione copre un territorio di 49 km2 abitato da una popolazione di trentamila persone distribuite in un gran numero di quartieri.
Quella di San Juan è una zona sismica, e le scosse di terremoto si sentono di frequente.
Il punto di riferimento della missione è la parrocchia che ci è stata affidata, dedicata alla Madonna del Rosario di Andacollo, una devozione di origine cilena.
La parte occidentale del territorio arriva fino alle colline pedemontane e alla prima catena montuosa.
A Sud si stanno formando numerosi quartieri, diversi insediamenti costituiti da famiglie che si costruiscono dei piccoli ripari alzando muri d’argilla e che vivono in condizioni precarie. Alcuni di questi insediamenti sono senza acqua ed elettricità.
Le persone aspettano che il governo assegni loro una casetta con i servizi minimi, ma l’attesa può durare anni.
Tra i problemi che si vivono negli insediamenti spontanei, uno riguarda la distanza delle baracche dalle scuole. Lontani dai mezzi di trasporto pubblici e da tutto in generale, in questo tipo di ambiente nascono e crescono violenza, criminalità, rapine, spaccio di droga.
Da subito siamo stati informati del fatto che eravamo giunti in una zona difficile, conflittuale e insicura. Però non ci siamo spaventati, né ci spaventiamo.
Abbiamo chiaro che dobbiamo raggiungere le famiglie. Il nostro atteggiamento è quello dell’ascolto, perché le persone qua hanno molto da raccontare. E noi vogliamo essere con loro per accompagnarli e camminare e celebrare la fede insieme. Soffrire i dolori insieme e godere delle stesse gioie.
È sorprendente per noi scoprire che tra loro alcuni sono stati feriti, maltrattati o emarginati anche da ministri della chiesa.
Siamo giunti a questa missione come se fosse un ospedale da campo, pronti a curare le ferite, riconciliare, accompagnare, ascoltare, perché ciascuno trovi gioia e pace con se stesso, con gli altri e con Dio.
Papa Francesco ci incoraggia con le sue parole: «Vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, che esce dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, per sostenere la speranza, per essere segno di unità… costruire ponti, rompere muri, seminare riconciliazione» (Fratelli tutti, 276).
Questa terra di San Juan ci ricorda la terra di Gesù, la Palestina, sia per il suo terreno arido, sia perché esistono le condizioni necessarie affinché l’uva delle viti dia un buon vino e gli ulivi abbondanti producano l’olio che dà lustro al viso (cfr. Salmo 103,15). Le viti e gli ulivi sono i simboli della gioia e della pace, quella pace di cui, secondo Isaia, il messaggero è portatore.
La nostra comunità si presenta come annunciatrice e portatrice di pace. «È bello vedere i piedi del messaggero di pace scendere dalla montagna».
Manolo García Candela
L’invasione dei superbatteri
I microrganismi patogeni si evolvono (anche a causa dei nostri comportamenti) e resistono ai farmaci. Presto potrebbero causare più decessi del cancro. Già oggi alcuni superpatogeni fanno paura.
Da un secolo a questa parte, la medicina e la farmacologia hanno fatto continui progressi che hanno permesso di curare patologie dall’esito infausto fino ai primi quarant’anni del Novecento.
È del 1928 la scoperta da parte di Alexander Fleming della penicillina, una molecola prodotta da un fungo e capace di aggredire la parete cellulare dei batteri, provocandone la morte. I microrganismi (batteri, virus, funghi, protozoi, eccetera) sono spesso in competizione tra loro e una delle strategie più collaudate è proprio quella di produrre sostanze antibiotiche (a cui i produttori sono immuni) per sterminare gli avversari. In questa «guerra molecolare», in cui l’uomo è l’ultimo arrivato, antibiotici e fenomeni di resistenza sono le due facce di una stessa medaglia. Questo è il motivo per cui i microrganismi patogeni trovano spesso una strada per non soccombere sviluppando resistenza ai farmaci in uso (antimicrobico-resistenza o farmaco-resistenza). Oggi, uno dei principali problemi di salute pubblica è quello della nascita di superpatogeni, capaci di resistere a pressoché ogni forma di difesa di cui l’uomo dispone.
Batteri e resistenza: un problema serio
Solo nel nostro paese ogni anno muoiono circa 10mila persone a causa dell’antimicrobico-resistenza. L’Italia, con la Grecia e la Romania, è uno dei paesi europei con i maggiori tassi di antimicrobico-resistenza. In particolare, negli ospedali italiani i ceppi del batterio Klebsiella pneumoniae (Kpc) resistenti ai carbapenemi (classe di antibiotici ad ampio spettro, con struttura molecolare simile a quella delle cefalosporine e delle penicilline) sono già intorno al 50%, mentre quelli di Acinetobacter resistenti sono circa l’80-90%. E queste sono solo due delle specie di batteri che stanno creando seri problemi ai pazienti ospedalieri. Si stima che in Europa siano già circa 33mila i decessi annuali legati all’antimicrobico-resistenza con un impatto di circa un miliardo e mezzo di euro a livello economico sia per le spese sanitarie, sia per la perdita di produttività. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), se la tendenza attuale non verrà modificata, nel 2050 l’antimicrobico-resistenza sarà responsabile di circa 2,4 milioni di decessi all’anno solo nei 38 paesi dell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) con un impatto economico da 3,5 miliardi di dollari annui. Secondo uno studio commissionato dal governo britannico, a livello mondiale i decessi annui legati a questo fenomeno potrebbero raggiungere i 10 milioni nel 2050 (superando gli 8 milioni di morti previsti per il cancro), con una riduzione del Prodotto interno lordo (Pil) stimabile nel 2-3%, che potrebbe tradursi in una perdita fino a 100mila miliardi di dollari a livello mondiale da qui al 2050. Oltre all’impatto sui singoli sistemi sanitari, infatti, un aumento delle resistenze ai farmaci avrebbe ripercussioni sulla forza lavoro in termini di mortalità e di morbosità e quindi sull’intera produzione economica. Di fatto, si sta diffondendo un panico silenzioso negli ospedali, ma per la maggior parte delle persone, dei gruppi politici e di quelli d’affari sembra essere un problema molto lontano. Del resto, governi e istituzioni di tutto il mondo, dopo aver ripetutamente ridotto i fondi a disposizione della ricerca, sono piuttosto riluttanti a rendere pubbliche epidemie di infezioni resistenti ai farmaci.
Pericoli e ricerca
L’Oms ha stilato una lista dei principali batteri che presentano antibiotico-resistenza, classificandoli in base alla loro pericolosità e alla loro resistenza, in modo da promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuovi antibiotici. L’accento è posto in particolare sui batteri Gram-negativi resistenti a molteplici antibiotici. Questa lista è suddivisa in tre categorie, a seconda dell’urgenza di nuovi antibiotici: priorità fondamentale, elevata e media. I batteri appartenenti al primo gruppo sono quelli resistenti a più farmaci, rappresentando una particolare minaccia in ospedali, case di cura e tra i pazienti che necessitano di ventilatori e di cateteri. Tra questi ci sono Acinetobacter, Pseudomonas e vari componenti della famiglia delle Enterobacteriacee (tra cui Klebsiella, Escherichia coli, Serratia, Proteus). Essi possono causare gravi infezioni, spesso mortali, come setticemie e polmoniti e sono diventati resistenti a un gran numero di antibiotici compresi i carbapenemi e le cefalosporine di terza generazione, tra i migliori antibiotici attualmente a disposizione. La seconda e la terza categoria della lista comprendono altri batteri sempre più resistenti ai farmaci e capaci di causare malattie più comuni come gonorrea e salmonellosi.
La Candida auris, il fungo killer
Un altro superpatogeno, che desta sempre più preoccupazione come emergenza di salute pubblica, non è un batterio bensì un fungo, la Candida auris. Si tratta del cosiddetto fungo killer, che è molto resistente ai farmaci ed è capace di uccidere la metà dei soggetti colpiti in tre mesi. La sua diffusione, cominciata in sordina, ha raggiunto ogni zona del globo. Fu identificato per la prima volta nel 2009 nell’orecchio di una donna giapponese di circa 70 anni e da allora è stato rinvenuto in tutto il mondo, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Australia e in Europa, dove sono stati identificati 52 casi al Royal Brompton Hospital di Londra nel 2015 e 85 casi al Politecnic La Fe di Valencia nel 2016. Si rivela molto pericoloso per chi ha il sistema immunitario immaturo o compromesso come i neonati o gli anziani, i fumatori, i diabetici e le persone con patologie autoimmuni costrette ad assumere farmaci steroidei, che funzionano come immunosoppressori. I ricercatori che hanno studiato la Candida auris ritengono che essa sia comparsa in contemporanea e in modo indipendente negli stati di tre diversi continenti, in particolare in India, in Sudafrica e in Sud America e questo fatto singolare non può essere imputabile solo all’abuso di antibiotici e di antimicotici, quindi alla farmaco-resistenza.
Il riscaldamento globale
Un recente studio suggerisce che i cambiamenti climatici possano avere favorito la diffusione del fungo killer e la sua capacità di infettare gli esseri umani. Confrontando il comportamento di Candida auris con quello di altre specie micotiche strettamente imparentate dal punto di vista genetico, i ricercatori si sono resi conto che il fungo killer sa adattarsi molto bene all’aumento della temperatura e sarebbe perciò predisposto a infettare l’essere umano, a differenza della maggior parte dei funghi, che sono incapaci di sopravvivere alla nostra temperatura corporea e vengono quindi facilmente eliminati dai nostri meccanismi di difesa. Secondo uno degli autori di questo studio, Alberto Casadevall (John Hopkins Bloomberg School of public health) «il riscaldamento globale porterà alla selezione di lignaggi fungini, che sono più tolleranti alle alte temperature e che dunque possono violare la zona di restrizione termica dei mammiferi». Si tratta di un’ipotesi ancora da verificare, ma senz’altro suggestiva e meritevole di ulteriori approfondimenti. Sicuramente sono necessari migliori sistemi di sorveglianza per segnalare rapidamente nuove infezioni fungine come quella di Candida auris.
I batteri e i loro geni
Cosa causa l’antibiotico resistenza? Alla base di questo fenomeno vi è una serie di cause. Sicuramente la resistenza ai trattamenti è un fenomeno naturale presente in tutti gli organismi. I batteri, rispetto ad altri patogeni, hanno una marcia in più rappresentata dalla capacità di trasferimento genico orizzontale, che li caratterizza, cioè la capacità di trasmettere materiale genetico ai loro simili senza passare attraverso la riproduzione. Spesso nel materiale trasferito si trovano geni che conferiscono la resistenza a qualche farmaco. Questo consente ai batteri di essere più veloci nell’evolvere le loro difese. Dall’analisi di campioni di acque profonde un centinaio di metri è stata rilevata la presenza di batteri con geni della resistenza ad alcuni antibiotici. Questo dà un’idea di quanto sia diffuso questo fenomeno.
Antibiotici vecchi e nuovi
Ci sono antibiotici nuovi, che generano resistenza già poco tempo dopo la loro immissione sul mercato, mentre alcuni antibiotici vecchi di decenni come le tetracicline si dimostrano ancora efficaci contro la filariosi, una malattia parassitaria dei cani veicolata dalle zanzare. Le case farmaceutiche si dimostrano un po’ restie a investire nello sviluppo di nuovi antibiotici, perché è sempre più difficile produrne uno che duri a lungo come le tetracicline. L’insufficienza degli investimenti nella ricerca di nuove terapie è un problema evidenziato anche dall’Oms.
L’uso sconsiderato ed eccessivo di antibiotici è sicuramente una parte del problema. Questi farmaci, infatti, sono inutili per la cura delle patologie di origine virale, dal momento che i virus non sono esseri viventi, a differenza dei batteri, dei funghi, dei protozoi e dei parassiti pluricellulari, quindi non possono essere uccisi dagli antibiotici.
Inoltre, spesso l’antimicrobico-resistenza si osserva in microrganismi isolati da pazienti con diagnosi effettuata in ritardo, che hanno avuto prescrizioni non adeguate, che hanno assunto farmaci qualitativamente scadenti o che non hanno effettuato per intero il ciclo di cura. È infatti molto pericoloso interrompere il ciclo di cura non appena si attenuano i sintomi della malattia. Queste variabili possono portare alla selezione di ceppi sempre più resistenti e la difficoltà di trattare le infezioni aumenta i rischi delle procedure mediche come la chemioterapia, gli interventi chirurgici e odontoiatrici.
Il problema allevamenti
Un’altra fonte di rischio di antimicrobico-resistenza è l’uso massiccio di antibiotici, che si è fatto finora in campo veterinario, soprattutto negli allevamenti intensivi, i quali massimizzano la resa economica, ma anche la diffusione delle malattie che necessitano di un trattamento antibiotico. Poiché è complicato curare i singoli individui malati di un allevamento, solitamente vengono trattati tutti gli animali presenti, malati e sani. Questo abuso di antibiotici per curare gli animali d’allevamento supera quello in campo umano. Inoltre, questi prodotti vengono anche usati per stimolare la crescita degli animali. I batteri farmaco-resistenti, che vengono selezionati negli allevamenti, hanno diverse possibilità di diffusione: possono infettare gli operatori del settore; essere ingeriti, se la carne viene consumata senza un’adeguata cottura; finire nelle feci usate come fertilizzanti e raggiungere i campi coltivati oppure passare i loro geni ad altri batteri secondo il meccanismo del trasferimento genico orizzontale già visto. A tal proposito, l’Agenzia europea per la regolamentazione dei farmaci (Ema) ha fissato una soglia per l’uso della colistina, che dovrebbe essere limitata ad un massimo di 5 mg per chilogrammo di bestiame.
Come prevenzione, va detto che sono senz’altro importanti le raccomandazioni sulle norme igieniche personali di base, come il lavaggio frequente delle mani, come abbiamo sperimentato durante la pandemia di Covid. Tuttavia, sono misure ampiamente insufficienti. È infatti indispensabile, da parte delle amministrazioni nazionali e locali prendere provvedimenti seri contro le infestazioni di roditori e di insetti ematofagi.
Dalla storica peste ai superpidocchi
Non dimentichiamo che la Yersinia pestis, che ha più volte decimato le popolazioni europee nel corso dei secoli, è un batterio trasmesso all’uomo dalle pulci dei ratti e dei topi, roditori di cui purtroppo attualmente le nostre città sono piene. Proprio come capitò nel Medio Evo, quando il batterio si diffuse in comunità affollate e malnutrite di città fiorenti, uccidendo circa il 30% della popolazione europea. Cosa succederebbe se questo batterio si ripresentasse adesso, magari dopo avere acquisito qualche gene dell’antibiotico-resistenza? E che dire della diffusione dei pidocchi diventati resistenti agli insetticidi attualmente in uso, tanto da essersi meritati l’appellativo di superpidocchi? Questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’abuso fatto per anni del Ddt, che colpisce il sistema nervoso dei pidocchi provocandone la morte. Dopo decenni di esposizione, in alcuni pidocchi sono comparse mutazioni genetiche, che li hanno resi insensibili a questo insetticida. Mentre i loro simili non resistenti venivano sterminati, la popolazione resistente è aumentata enormemente e a nulla è valsa la sostituzione del Ddt con insetticidi naturali a base di piretrine o dei loro analoghi sintetici, i piretroidi, che hanno un meccanismo d’azione simile a quello del Ddt. In Europa si sta ricorrendo a metodi alternativi come l’uso di siliconi e di oli sintetici per incapsulare i pidocchi e provocarne la morte; tuttavia, i casi d’infestazione sono in aumento. Oltre al fastidio rappresentato dall’infestazione, non dimentichiamo che i pidocchi potrebbero trasmettere il tifo petecchiale, essendo tra i vettori della Rickettsia prowazekii, il batterio che causa questa patologia.
Zanzare e superzanzare
Ritroviamo lo stesso fenomeno della resistenza a piretrine e a piretroidi nelle zanzare, che sono i vettori del plasmodio della malaria, malattia che, nel 2019, ha colpito 229 milioni di persone in tutto il mondo con circa 409mila morti, la maggior parte dei quali nell’Africa subsahariana. Naturalmente anche il Plasmodium malariae si è dato da fare ad acquisire la farmaco-resistenza nelle zone dove la malaria è endemica, per cui attualmente i ceppi ancora sensibili alla clorochina sono presenti solo più nell’America centrale, nei Caraibi e nel Medio Oriente, mentre la resistenza all’artemisina è stata osservata per la prima volta nel Sud Est asiatico nel 2008 e, da allora, si è diffusa in tutta la regione ed ha raggiunto l’India.
Oltre alla malaria, le zanzare sono responsabili anche della diffusione di altre gravissime infezioni come la febbre gialla, la chikungunya, la filariosi e la più recente zika. Da quanto abbiamo visto, risulta evidente che i molteplici agenti patogeni contrastati per decenni grazie alla scoperta e alla produzione di diverse classi di antimicrobici stanno riuscendo poco per volta ad aggirare l’ostacolo tornando a rappresentare un serio pericolo.
Rosanna Novara Topino
Siccità, fame e guerra: il mondo a un bivio
Dal punto di vista climatico, l’estate 2022 è stata complicata. La siccità si è aggiunta alla guerra in Ucraina, spingendo quasi 50 milioni di persone, specialmente nel Corno d’Africa, sull’orlo della carestia. Intanto, le negoziazioni per il clima in vista della Cop27 non fanno progressi e il Programma alimentare mondiale fatica a trovare i fondi per assistere chi è in difficoltà.
La Cop27, o Conferenza delle parti aderenti alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si svolgerà a Sharm El-Sheikh, in Egitto, dall’8 al 17 di novembre@. Purtroppo, le premesse non sembrano per il momento incoraggianti.
Qualcosa di più potrebbe uscire dai lavori preparatori della Pre-Cop27 previsti questo mese, magari sulla spinta dei dati pubblicati a settembre dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc, nell’acronimo inglese) nel Rapporto di sintesi del suo sesto ciclo di valutazione@, ma anche la Conferenza sul clima di Bonn dello scorso giugno si era conclusa con pochi progressi.
Quella di Bonn è stata la prima occasione di incontro per le parti dopo la Cop26 di Glasgow del 2021. Uno dei suoi obiettivi principali era quello di definire un programma concreto per realizzare i tagli alle emissioni decisi dai paesi del mondo a Glasgow. Invece, riferiscono diverse fonti, fra cui la Bbc, la negoziazione ha subito uno stallo: sul tema delle perdite e dei danni, infatti, le parti non hanno trovato un accordo.
I paesi in via di sviluppo chiedono che Unione europea e Stati Uniti mettano loro a disposizione i fondi necessari a contrastare i danni che il cambiamento climatico sta già provocando nei loro territori. Essi ritengono le due potenze mondiali le principali responsabili delle emissioni che hanno portato all’attuale situazione. Dal canto loro, Usa e Ue respingono queste richieste, temendo che se accettassero di pagare per le emissioni storiche, potrebbero trovarsi costretti a farlo per decenni, se non secoli@.
A complicare il quadro vi è poi la posizione della Cina, oggi principale responsabile delle emissioni con dieci miliardi di tonnellate all’anno, un quarto del totale globale@. La Cina, infatti – ricorda Ferdinando Cotugno sul quotidiano Domani -, per la Convenzione Onu per i cambiamenti climatici, risulta ancora nell’elenco dei paesi in via di sviluppo, come nel 1992, e da quella posizione conduce le trattative sul clima «come (presunto) campione dei paesi in via di sviluppo».
Il cambiamento climatico è già qui
«Il sistema», riporta il pezzo di Cotugno citando le parole dell’esperto della rete Climate action network, Harjeet Singh, «ha i soldi per te, paese in via di sviluppo, se vuoi mettere i pannelli solari, ha i soldi per te se vuoi migliorare l’efficienza termica della tua casa, ma non ha i soldi per te se invece i cambiamenti climatici distruggono la tua casa. Parliamo di azione per il clima, ma le persone stanno soffrendo già oggi, stanno annegando, e noi gli diciamo: non vi possiamo aiutare, ma se sopravviverete, forse vi aiuteremo a prepararvi meglio per la prossima volta»@.
Oggi, a essere distrutte, sono sempre più anche le «case» europee e statunitensi: nel nostro continente, l’estate scorsa è stata la più calda degli ultimi 500 anni@, mentre uno studio della rivista Nature, già a febbraio scorso, indicava il ventennio 2000 – 2021 come il più secco da 1.200 anni a oggi per gli stati sudoccidentali degli Usa@.
Quanto all’Africa, fra Etiopia, Kenya e Somalia, lo scorso agosto erano 22 milioni le persone che avevano difficoltà a trovare sufficiente cibo. Un numero quasi doppio rispetto ai 13 milioni in difficoltà a inizio anno, mentre le persone che non avevano accesso ad acqua pulita erano passati dai 9,5 milioni di febbraio ai 16,2 milioni di agosto.
La maggior parte degli abitanti del Corno d’Africa, riporta Unicef@, dipende dall’acqua fornita da venditori che la trasportano su camion o carretti trainati da asini, e nelle zone più duramente colpite dalla siccità molte famiglie non possono più permettersi di comprarla: ad esempio, il prezzo dell’acqua in Kenya ha subito fra gennaio 2021 e lo scorso agosto aumenti fino al 400% a Mandera, nel Nord del paese, e del 260% a Garissa, città a poco meno di 400 chilometri a Est della capitale Nairobi.
Le difficoltà del Wfp
La regione del Corno d’Africa sta sperimentando la peggiore siccità degli ultimi quarant’anni perché, per quattro volte consecutive, la stagione delle piogge è stata troppo scarsa di precipitazioni e, secondo le previsioni, sarà così anche la prossima. «Ancora non si vede la fine di questa crisi», ha avvertito lo scorso agosto David Beasley, direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World food programme, Wfp), «perciò dobbiamo trovare le risorse che servono per salvare vite umane e impedire alle persone di arrivare a livelli di fame catastrofici».
Le risorse che servono sarebbero circa 418 milioni di dollari per i prossimi sei mesi, ma ottenerli è più difficile anche a causa della guerra in Ucraina, che sta avendo conseguenze dirette sulla capacità del Wfp stesso di ottenere il cibo da distribuire nelle emergenze umanitarie, innanzitutto, in termini di forniture. Nel rapporto sull’approvvigionamento di cibo del 2021@, infatti, si legge che sia Ucraina che Federazione Russa erano fra i primi dieci fornitori dell’agenzia Onu: su 4,4 milioni di tonnellate di cibo, quasi un quinto – principalmente grano e piselli – venivano dalla prima e il 5,5% dalla seconda, che forniva grano, farina di grano, olio vegetale e legumi.
Inoltre, il Wfp prevedeva a marzo scorso che l’incremento dei prezzi del grano causati dalla guerra avrebbero determinato su base mensile un aumento di circa 23 milioni di dollari nei propri costi di approvvigionamento, che si aggiungevano ai +6 milioni di dollari al mese per maggiori costi di trasporto e ai +42 milioni di dollari di costi in più che l’agenzia già stava registrando rispetto al 2019, per un totale di 71 milioni di dollari al mese di aumento@.
«Per fermare la fame nel mondo non basterà l’uscita delle navi dall’Ucraina – dice Beasley -, ma con il grano ucraino di nuovo sul mercato globale abbiamo la possibilità di impedire a questa crisi di aggravarsi ancora».
La guerra in Ucraina e l’insicurezza alimentare
Ma le conseguenze della guerra in Ucraina vanno oltre le difficoltà del Wfp, e si traducono in insicurezza alimentare per molti paesi in via di sviluppo. Alcuni di questi, riportava l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, in una nota informativa di giugno@, hanno una significativa dipendenza dal grano russo e ucraino. L’Eritrea, ad esempio, importa tutto il proprio grano dai due paesi, la Somalia dipende da questi per circa il 93%, il Pakistan importa circa la metà del suo grano dall’Ucraina e circa un quinto dalla Russia.
La riduzione della produzione agricola e i blocchi nella zona del Mar Nero, si legge in un aggiornamento pubblicato dal Wfp a giugno@, insieme alle restrizioni commerciali, hanno portato a una ridotta disponibilità di prodotti essenziali e a un forte aumento dei prezzi globali dei cereali: rispetto ai prezzi di gennaio 2022, a maggio l’incremento era stato del 48,6% per il grano, del 28,7% per il mais e del 9,3% per il riso, con implicazioni sui prezzi in tutta l’Africa orientale.
L’aumento dei prezzi del carburante e dei generi alimentari ha, inoltre, spinto al rialzo il tasso di inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie, soprattutto di quelle più povere.
Sempre a causa di sanzioni e aumenti dei costi di produzione, i prezzi globali dei fertilizzanti sono aumentati di quasi il 30% dall’inizio del 2022. Si è così ridotta la quota di fertilizzanti importati in Africa orientale, in coincidenza, fra l’altro, con il picco della principale stagione di semina, quella di marzo-aprile-maggio. Secondo le stime del Wfp, questo potrebbe determinare una diminuzione dei raccolti del 16% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Questi calcoli non tengono però in considerazione la guerra, il cui impatto può essere per ora solo stimato: nelle simulazioni della Fao, considerando il calo nelle esportazioni previsto dall’Ucraina e dalla Federazione Russa nel 2022 e 2023 e ipotizzando che la disponibilità globale di cibo non verrà compensata con derrate prodotte altrove, nel 2023 il numero di persone denutrite nel mondo potrebbe aumentare di quasi 19 milioni@.
Clima e guerre, un nodo sempre più stretto
La guerra in Ucraina, spiega Champa Patel, che si occupa del futuro del conflitto con il gruppo di ricerca International crisis group, nel suo podcast War & peace@, spiega che la guerra ha anche un impatto negativo sulla lotta al cambiamento climatico, perché il ritorno parziale di molti paesi occidentali a fonti di energia fossili per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo, rallenta il cammino verso il raggiungimento degli obiettivi climatici, a cominciare dalla riduzione delle emissioni.
Raggiungere questi obiettivi, spiega Patel, è a sua volta «necessario per evitare che il cambiamento climatico abbia effetti catastrofici, soprattutto in quei paesi che sono già fragili o in conflitto». Il clima non provoca le guerre in modo diretto, ma agisce da «moltiplicatore della minaccia e contribuisce al conflitto esacerbando tensioni che esistono già».
C’è poi un aspetto della guerra e del suo incidere sul clima che a oggi è misurato in modo impreciso: le emissioni del settore militare. Axel Michaelowa, fondatore dell’agenzia di consulenze tedesca Perspectives climate group, ha spiegato all’emittente pubblica Deutsche Welle che le emissioni militari possono raggiungere centinaia di milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. «Le emissioni annuali dirette dei comparti militari in grandi paesi come Stati Uniti e Regno Unito raggiungono l’1% del totale nazionale», la maggior parte per il funzionamento di aerei da combattimento. Altre derivano anche dalla distruzione delle riserve di carbonio durante le guerre, mentre le emissioni indirette per ricostruire città e infrastrutture dopo un conflitto possono facilmente superare i 100 milioni di tonnellate di CO2: circa un quarto dei gas serra emessi dall’Italia@.