Il 24 settembre, in un remotissimo angolo del Kenya, nel Turkana Est, nelle zone semiaride della Suguta Valley, un centinaio di chilometri a Sud del Lago Turkana, nelle savane di Kamuge, sono state massacrate una decina di persone, tra cui sette soldati, un autista, un chief e una mamma di famiglia, Mary Kanyaman Ekai. Il massacro, ad opera di Pokot razziatori di bestiame, è indice dell’alto grado di insicurezza che esiste nella regione in cui, nel 1981, era stato ucciso anche padre Luigi Graiff (vedi MC 12/2021, p. 6).
Perché riportarvi questo fatto che non ha toccato i nostri giornali e che ha fatto notizia in Kenya, dove gli scontri tribali nel Nord semidesertico non interessano molto il resto del paese, solo perché la giovane signora ammazzata aveva una qualche notorietà?
Racconto qui questa vicenda perché Mary era una ragazza turkana che ha potuto studiare solo grazie al nostro programma di sostegno a distanza. La famiglia di Mary era arrivata a Loikas, lo slum turkana di Maralal, nel 1992, quando aveva più o meno dieci anni. La sua famiglia era dovuta fuggire dalla Suguta Valley a causa di un attacco di Pokot che aveva ucciso ben dieci persone del villaggio e rubato tutti gli animali. Aiutata dalla missione, ha studiato nella scuola secondaria santa Teresa di Wamba, diretta allora dalle Missionarie della Consolata, ed è arrivata a laurearsi in biochimica.
Si era poi impegnata a migliorare l’ambiente, promuovere le condizioni della sua gente, entrando nel governo della contea Samburu (lei, turkana, in una contea dominata dai Samburu) come responsabile del comitato esecutivo centrale per la salute, dove si era impegnata molto per elevare lo standard dei servizi medici. Finito il suo mandato, si era buttata nella promozione della donna e nel costruire la pace e la cooperazione tra i vari gruppi etnici della regione. Memore dell’aiuto ricevuto, lei stessa sosteneva ragazzi poveri per la scuola. Aveva anche aiutato la sua famiglia a tornare nelle terre ancestrali da dove erano fuggiti tanti anni prima.
Trent’anni dopo quel massacro, quel villaggio è stato assalito ancora una volta. Mary, che era tornata a visitare suo padre, è stata uccisa con i giovani soldati, nel tentativo di recuperare il bestiame rubato, così essenziale per la vita in quelle terre. Lascia quattro figli e un grande ricordo. Sui social la chiamano «ambasciatrice di pace» e «campionessa della giustizia, dell’armonia e della coesistenza pacifica».
Per me, Mary è stata un motivo di gioia, perché splendido risultato del programma di sostegno a distanza che ha come scopo fondamentale quello di costruire persone più che strutture. Persone che, come Mary, diventino soggetti del loro stesso riscatto e aiutino la loro gente per uno sviluppo di giustizia e pace.
(nella foto, Mary è la prima in piedi da destra, era il 1998, studiava alla St. Teresa’s Secondary a Wamba, Kenya)
padre Gigi Anataloni Torino, 29/09/2022
La diga in Etiopia
Si sente parlare troppo poco della diga che si sta costruendo in Etiopia e che cambierà l’economia anche di Egitto e Sudan. Non è nemmeno chiaro chi presta i soldi (penso la Cina). Se ne sa molto poco, però gli etiopici stanno cominciando a riempire il loro invaso e i cinesi stanno facendo importanti progetti agricoli nel paese. Non è nemmeno chiaro se la diga di Assuan (in Egitto, ndr) sia ancora operativa o se sia troppo piena di sabbia. Quel che è certo è che toglie l’acqua del Nilo all’Egitto che supera i 100 milioni di abitanti e sarà una catastrofe, peraltro ben meritata dal loro regime militare. Mentre il Sudan, poco popolato e subito dopo l’Etiopia nel corso del Nilo non dovrebbe avere dei grandi problemi. Non mi è nemmeno chiaro se l’Egitto ha accesso a pozzi di petrolio nel Mediterraneo. Ma certo che la nostra politica estera dovrà occuparsi seriamente di questo imminente problema. Sarei anche curioso di sapere come la vedono gli Israeliani, che hanno un ottimo rapporto con l’Etiopia, da cui hanno trasferito parecchia popolazione, perchè Israele ha bisogno di gente in qualche modo collegabile con l’ebraismo. Insomma si direbbe che i cinesi sono meglio informati e più attivi degli europei.
Claudio Bellavita 24/08/2022
I problemi elencati sono tutti di grande interesse, anche se in Italia li si guarda da lontano e con una certa indifferenza, perché apparentemente non ci toccano.
Esplosione demografica in Africa
Gentile direttore,
vi seguo da molti anni e cerco anche di sostenervi con qualche offerta liberale.
Ho veramente una grande ammirazione per le vostre idealità, per quanto avete fatto e continuate a fare, per l’impegno a trasmettere ai vostri sostenitori notizie sui progetti realizzati e preziose informazioni su tanti paesi del Terzo Mondo (si dice ancora così?).
Credo che la vostra rivista costituisca un prezioso canale di conoscenza su tanti problemi in genere ignorati dalla stampa e altre fonti «ufficiali».
Penso che in tutti voi sia presente un impegno personale veramente bellissimo.
Ciò premesso – e avendo io ormai raggiunto un’età ragguardevole – vorrei citare un argomento fondamentale che è sostanzialmente assente dalla pubblicistica sull’Africa: non solo quella vostra, ma anche di tutte le altre Onlus e Ong, dalla stampa e dai dibattiti di ogni genere.
Il tema è l’esplosione demografica, in tutto il continente.
I motivi sono i più svariati, e non devo certo elencarli a voi: tradizioni locali, timore di urtare presunti precetti religiosi per i cristiani e per gli islamici, paura di attirare critiche di stampo ideologico/politico, e così via. Ma questo silenzio è veramente assordante.
Riflettiamo un attimo, senza preconcetti o paraocchi.
Mentre da noi si assiste ad un triste e inarrestabile calo delle nascite, in Africa la popolazione – in soli ottant’anni – si è moltiplicata per cinque o sei volte! E continua così, come se ci trovassimo di fronte a risorse illimitate.
In questa situazione si incrementano azioni meritorie e doverose per curare, sfamare, costruire, come fate voi e gli infiniti gruppi di provenienza «occidentale».
Ma nel contempo – oltre alle fughe disperate verso l’Europa – dilagano le guerre locali, il terrorismo e le bande armate, la rapina e la svendita dei beni ambientali, l’ignoranza e la corruzione, la disoccupazione e l’assistenzialismo di intere popolazioni.
I meritevoli sforzi delle Ong cadono come gocce solitarie nell’oceano. Le belle fotografie di torme di bambini sorridenti rallegrano lo spirito, ma quale sarà il loro futuro tra qualche anno?
Di fronte a queste realtà numeriche è fisicamente impossibile che una crescita realistica dell’economia locale riesca a farvi fronte, ed allora ciascuno cerca una via d’uscita personale, persino di tipo criminale.
Questi sono ragionamenti puramente matematici, non collegati ad alcuna ideologia. Perché ne scrivo a voi?
Perché su questi temi cala il silenzio, o al massimo compare qualche vaghissimo accenno.
Meglio fare finta di nulla.
Paura di toccare un tema scottante? Sensazione di impotenza? Rischio di essere fraintesi?
La regolazione delle nascite dovrebbe diventare invece il tema n.1, se vogliamo immaginare un possibile futuro per questi disgraziati fratelli!
Sarà un’impresa immane che richiederà l’azione concorde di organizzazioni di ogni tipo, origine e dimensione: ma qualcuno, anche una realtà minore, deve lanciare la prima pietra e cercare di far rumore, sperimentando metodi efficaci e dedicando una parte delle proprie (e scarse!) risorse a questo aspetto vitale.
Ho cercato di sintetizzare al massimo quanto penso.
Vi invio i saluti più cari e gli auguri per il successo delle vostre attività. Cordialmente.
Giorgio Berutti 12/09/2022
Caro signor Giorgio,
grazie della lettera e della lunga amicizia e supporto. Il tema che ci sottopone è di grande attualità, anche se probabilmente non concordiamo nell’analisi delle cause e dei rimedi. Non è questa rubrica il luogo per affrontare questo tema così vasto, ma accettiamo la sua provocazione e le prometto che ci torneremo.
Intanto mi permetto solo di dire che non è con la regolazione delle nascite che si risolve questo problema, ma anzitutto con un cambio di mentalità e con una maggiore giustizia ambientale ed economica. Fino a quando il 10% della popolazione mondiale produce il 48% delle emissioni di carbonio (indice chiaro del livello di consumo delle risorse del nostro pianeta), un’altro 40% ne produce il 40%, e il restante 50% solo il 12%, (3,6% prodotto dall’Africa) non si aiuteranno certo i più poveri a migliorare la qualità della loro vita, e a convincerli che il loro futuro non sarà assicurato soltanto dal numero di figli.
Brasile. Voci di donne dalle favelas
Povertà, criminalità e promiscuità: di solito, sono queste le parole che descrivono le «favelas», luogo simbolico del Brasile. Proviamo a capirle attraverso donne di favela come Carolina Maria de Jesus (morta nel 1977) e Marielle Franco (assassinata nel 2018). Oggi altre donne seguono il loro esempio di lotta e speranza.
Delle favelas si parla molto, e forse ancora di più è stato scritto: libri, articoli e indagini accademiche. Ma quante voci hanno parlato della favela dalla favela? Quante volte abbiamo avuto la possibilità di ascoltare, direttamente e senza filtri, un racconto autentico proveniente da quel luogo «non luogo», incastonato nell’immaginario collettivo e diventato sinonimo, per molti, di povertà, criminalità e promiscuità? Si potrebbe rispondere poche, o quantomeno poche sono quelle arrivate dal Brasile fino alle nostre latitudini, permettendoci di aprire una finestra su quel mondo. Un mondo troppo spesso raccontato proprio da coloro che hanno contribuito a creare e alimentare l’emarginazione sociale materializzata nelle favelas.
Un nome che ha brillato negli ultimi anni per averle raccontate dal di dentro è sicuramente quello della compianta Marielle Franco: donna appartenente al collettivo Lgbtiq+, afrobrasiliana, madre single, politica, attivista per i diritti delle donne e baluardo contro tutte le discriminazioni del sistema capitalista, colonialista e patriarcale ben personificate dal presidente Jair Bolsonaro.
Marielle, favelada di Rio de Janeiro
Marielle Franco, cria da favela da Maré (figlia della favela Maré) con una laurea in sociologia in tasca, ha rappresentato per molti anni una voce forte e determinata contro i soprusi vissuti dai favelados (abitanti della favela) di Rio de Janeiro.
Le parole di Marielle, prima come attivista, poi come consigliera comunale (vereadora) di Rio de Janeiro, avevano colpito l’apparato di repressione della polizia che, fino a quel momento, aveva operato quasi completamente nel silenzio delle autorità amministrative (e spesso con il loro beneplacito). Parole tanto forti da essere silenziate con 13 colpi di pistola. Era il 14 marzo del 2018. Quella notte, in un vile attentato le cui responsabilità sono ancora da chiarire, Marielle è stata uccisa insieme al suo autista Anderson Gomes.
Si spegneva dunque un baluardo delle rivendicazioni di una popolazione emarginata, non solo a Rio de Janeiro e non solo nelle favelas. Allo stesso tempo, però, fiorivano migliaia di altre Marielle che dal sangue del suo martirio hanno trovato forza, ispirazione e coraggio.
Carolina, favelada di São Paulo
Lo stesso giorno in cui Marielle Franco veniva uccisa, si celebravano i 114 anni della nascita (14 marzo 1914) di Carolina Maria de Jesus, la prima voce afrobrasiliana delle favelas a ottenere rilevanza mondiale. Un filo conduttore, dunque, ci porta da Rio de Janeiro a São Paulo e lega due donne afrobrasiliane che hanno vissuto la favela ma soprattutto hanno usato la loro voce come strumento di lotta politica, denuncia sociale e rivendicazione di diritti umani fondamentali. Negli anni Sessanta,
Carolina ha preso «a pugni» il Brasile e il mondo squarciando il velo che copriva le reali condizioni di vita dei favelados. Dal cuore della favela Canindé, sulla riva del Tietê nella metropoli di São Paulo, la voce di Carolina è emersa in modo prepotente raccontando senza filtri il dolore e la fame.
Nata il 14 marzo del 1914 a Sacramento, nello stato di Minas Gerais, successivamente emigrata nella metropoli paulense per lavorare come domestica e raccoglitrice di carta e ferro per la strada (lavoro ancora molto comune), Carolina ha vissuto di stenti e patimenti, lottando ogni giorno contro un mondo ostile, fatto di difficoltà, discriminazione, violenza e precarietà. Il suo unico rifugio era la scrittura, passione alla quale dedicava il poco tempo nel quale non lavorava, non doveva preoccuparsi dei suoi figli e non era così stanca da crollare sul giaciglio della sua baracca.
Carolina ha coltivato sempre la speranza di vedere un giorno pubblicati i suoi scritti e di poter abbandonare la favela, luogo del suo quotidiano supplizio, un vero e proprio inferno in terra. Sapeva di non essere una raffinata ed erudita intellettuale, non aveva avuto accesso alle migliori scuole dell’élite bianca che governava (e che governa) quel Brasile in piena rivoluzione modernista, ma lei sapeva leggere e scrivere quanto bastava per consegnare a un diario le sue riflessioni, paure, speranze e sogni. Dopo alcuni tentativi falliti di pubblicizzare il suo lavoro di scrittrice, è stata scoperta dal giornalista Audálio Dantas che stava lavorando a un articolo sulle favelas. Quell’articolo, dove si parlava di Carolina e si faceva cenno ai suoi scritti, è stato poi pubblicato sul giornale O cruzeiro il 10 giugno 1959: Carolina Maria de Jesus aveva 45 anni e finalmente aveva realizzato il suo sogno. Ciò però che lei ancora non sapeva era che quello sarebbe stato solo l’inizio del suo viaggio. Infatti, tutto il suo diario, pubblicato inizialmente suddiviso in articoli sullo stesso giornale, sarebbe poi stato redatto in forma di libro nel 1960, causando un vero terremoto letterario.
La fame è questa
Preso il titolo di Quarto de despejo: Diário de uma favelada («Stanza della discarica: diario di un’abitante della favela»), l’opera di Carolina è stata tradotta in più di dieci lingue, arrivando a vendere oltre 100mila copie.
Il libro è di una crudezza che ferisce, le parole vengono usate con una ingenuità che lacera e stordisce. I messaggi sono diretti, essenziali, ma di una forza che obbliga molte volte a distogliere gli occhi dal libro, prendere fiato e lasciare che i sentimenti prendano il sopravvento. Carolina scrive e parla all’altro Brasile, quello che non vive nella favela e che non la conosce, il Brasile bianco, «educato», che non deve preoccuparsi ogni giorno di procurarsi un pezzo di pane.
Racconta la sua vita, la sua quotidianità, la fame. Questa parola, «fame», ritorna in modo costante, scandendo le giornate che si susseguono nel diario, quasi fosse la routine di una condannata: una litania che ci accompagna tra le pagine che raccontano la favela di Canindé, a São Paulo, tra gli anni 1955 e 1959.
Sono riflessioni asciutte, a volte semplici ma taglienti e penetranti, come le seguenti:
«21 luglio 1955 – Quando sono tornata a casa erano le 22:30. Ho acceso la radio. Ho fatto una doccia. Ho scaldato il cibo. Ho letto un po’. Non so dormire senza leggere. Mi piace avere tra le mani un libro. Il libro è la migliore invenzione dell’uomo».
«8 maggio 1958 – È necessario conoscere la fame per saperla descrivere».
«10 maggio 1958 – Il Brasile ha bisogno di essere gestito da una persona che ha già provato la fame. La fame è una grande maestra. Chi soffre la fame impara a pensare agli altri e ai bambini».
«13 maggio 1958 – Sono andata a chiedere del lardo alla signora Alice. Mi ha dato il lardo e il riso. Erano le 21 quando finalmente ho potuto mangiare. E così il 13 maggio 1958 (settantesimo anniversario dell’abolizione della schiavitù in Brasile, ndr) io ho combattuto contro l’attuale schiavitù, la fame!».
«Esiste una favela in paradiso?»
Carolina era molto credente, anche Dio è spesso presente nelle sue riflessioni che provano a giustificare una situazione difficile, di estrema povertà e abbandono da parte delle istituzioni. I suoi sentimenti, tracciati esplicitamente nelle pagine del diario o comprensibili attraverso ciò che non è scritto ma che traspare dalle parole da lei usate, sono altalenanti. Passa da una fiducia cieca nella Divina Provvidenza a uno sconforto profondo che le fa pensare al suicidio. Uno dei passaggi più duri ed eloquenti su questo tema si trova alla data del 3 giugno 1958: «Quando sono a corto di soldi, cerco di non pensare ai miei bambini che chiederanno pane, ancora pane e caffè. Devio i miei pensieri al paradiso. Penso: ci sono persone lassù? Sono migliori di noi? Il loro dominio supererà il nostro? Ci sono nazioni così varie come qui sulla terra? O è un’unica nazione? Esiste una favela? E se c’è una favela lì, io vivrò nella favela anche quando morirò?».
Il diario di Carolina è stato ripubblicato più volte. In Italia, è famosa l’edizione del 1962 di Bompiani, con la prefazione di uno dei più importanti intellettuali italiani del XX secolo, Alberto Moravia.
Dopo Stanza della discarica, Carolina ha pubblicato altri testi che, seppur ben accolti dalla critica e dal pubblico, non hanno replicato il successo del primo.
Carolina, scrittrice afrobrasiliana, donna coraggiosa e insorgente, è scomparsa all’età di 62 anni (era il 13 febbraio del 1977) senza aver mai potuto abbandonare del tutto la povertà e la precarietà.
La notorietà acquisita con Quarto de despejo non le ha procurato la ricchezza sperata, anche se le ha permesso di migliorare la sua condizione e di lasciare la favela di Canindé nel 1963, dove era arrivata 16 anni prima, nel 1947, all’età di 33 anni e incinta.
«Cenerentola negra»
Dopo la sua morte, sono stati pubblicati postumi una serie di lavori editoriali che raccoglievano il materiale prodotto da Carolina e che non aveva ancora visto la luce in forma di libro. Carolina Maria de Jesus ha inaugurato un nuovo filone nella tradizione nella letteratura brasiliana, partendo dall’appropriazione della lettura da parte delle classi popolari. Il suo lavoro è stato una grande fonte d’ispirazione per altre donne non appartenenti alle classi agiate, che hanno cominciato a scrivere sotto l’influenza di Carolina.
Un elemento che colloca la sua voce tra le grandi personalità della letteratura brasiliana, come riconosciuto nel 2021 anche dall’Università federale di Rio de Janeiro che ha concesso alla scrittrice afrobrasiliana il titolo di dottore honoris causa postumo.
São Paulo e il Brasile riconoscono oggi il valore storico, culturale, antropologico e simbolico di quelle parole arrivate dalla Stanza della discarica. Parole che mostravano una «razzializzazione» della povertà (una povertà cioè che aumenta di pari passo con la tonalità più scura della pelle) e che, per la prima volta, provenivano da dentro la favela, aggirando le fredde analisi urbanistiche, statistiche e sanitarie di giornalisti, politici e specialisti.
Diversi sono stati gli omaggi riservati a Carolina Maria de Jesus in questo 2022. Uno dei più importanti è stato sicuramente la mostra ospitata dal prestigioso Instituto Moreira Salles, che si trova nell’Avenida Paulista, luogo simbolo del potere economico brasiliano: «Carolina Maria de Jesus: un Brasile per brasiliani».
L’istituto Moreira Salles aveva già contribuito in passato a riconoscere l’importanza della figura di Carolina Maria de Jesus, quando ad esempio, il 14 marzo 2014 (per il centenario della sua nascita) proiettò per la prima volta in Brasile un documentario, realizzato nel 1975 dalla televisione tedesca West Germans intitolato «Favela: la vita in povertà», con la stessa Carolina protagonista.
Altro omaggio è stato fatto il 23 aprile, durante il primo carnevale post pandemia di São Paulo, nel quale la sua figura è stata onorata dalla scuola Colorado do Brás con il tema: «Carolina, a Cenerentola Negra do Canindé». La scuola ha raccontato, in un corteo emozionante, la storia della scrittrice di Sacramento, passando per la città di Franca (dove Carolina aveva iniziato a vivere con un gruppo circense) e arrivando poi a São Paulo nella favela di Canindé. Svelando un volto doloroso del Brasile, la vita di Carolina è stata raccontata con serietà e rispetto dalla scuola, cosa che non ha impedito al corteo di essere colmo di bellezza e colori.
Diego Battistessa
Nascita del termine «favela»
All’inizio era (soltanto) una pianta
Forse pochi sanno che favela è il nome dato in Brasile a una pianta endemica (cnidoscolus quercifolius) e che la diffusione di questo termine in ambito urbano si relaziona con la «Guerra de Canudos» (1896-1897) che ebbe luogo nel sertão di Bahia. La città di Canudos, scenario di uno scontro politico religioso si ergeva in mezzo ad alcune colline, tra le quali vi era il Morro da Favela (Collina della Favela), così battezzato perché ricoperto dall’omonima pianta.
Dopo la guerra, una parte dei soldati reduci dal conflitto, fecero ritorno a Rio de Janeiro ma, trovatisi senza stipendio, decisero di stabilirsi dentro alloggi precari da loro costruiti nel Morro da Providência (Collina della Provvidenza). Data una certa similitudine tra lo scenario di questa nuova sistemazione e la Collina della Favela vista a Canudos, i soldati battezzarono il nuovo insediamento Morro da Favela.
È da quel momento che gli insediamenti di alloggi e case di fortuna, dove risiedono persone con un basso (o quasi nullo) potere d’acquisto, passarono a essere chiamati favelas. Le favelas sono presenti in tutto il Brasile (circa 800 solo a Rio de Janeiro) e si stima che siano abitate da 15-20 milioni di persone.
WIKIFAVELA
Considerati questi numeri non c’è da stupirsi che si parli tanto di favelas brasiliane. Vale la pena di segnalare un progetto dedicato a Marielle Franco, ovvero il portale «Wikifavela», un dizionario virtuale che combatte la discriminazione in Brasile. Proprio dal sito, disponibile in portoghese, inglese e spagnolo, possiamo leggere che: «Il Dizionario della favela è una piattaforma virtuale ad accesso pubblico per la produzione e la diffusione della conoscenza delle favelas e delle loro periferie. Mira a stimolare e consentire la raccolta e la costruzione delle conoscenze esistenti sulle favelas, collegando una rete di partner nelle università e nelle istituzioni e collettivi esistenti in questi territori. Il Dizionario della favela continua la lotta della consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco e di molti altri leader della comunità contro il pregiudizio e l’esclusione, costruendo una società più giusta ed egualitaria».
Importante ricordare anche l’Instituto Marielle Franco, uno spazio creato dalla famiglia della defunta attivista che vuole continuare a lottare per la giustizia, difendendo la sua memoria, moltiplicando la sua eredità e annaffiando i suoi semi.
D.B.
Chi è la possibile erede
«Mi chiamo Renata Souza»
Renata Souza è già un simbolo. Lei è una «favelada» della Maré, figlia cioè dello stesso complesso di favelas al Nord di Rio de Janeiro dove è nata e cresciuta Marielle Franco, sua grande amica e fonte di ispirazione. Souza, 40 anni, deputata dell’Assemblea legislativa di Rio de Janeiro dal 2018, è già una figura politica di spicco, un grimaldello che apre i palazzi del potere e che permette l’accesso della periferia marginalizzata ed esclusa nelle sale dove si prendono le decisioni importanti.
Niente è stato facile (e non lo è tutt’ora) per Souza, nel Brasile governato da Jair Bolsonaro dove razzismo, classismo e machismo sono all’ordine del giorno. Renata ricorda che una delle decisioni più importanti della sua vita la prese quando aveva solo 15 anni: decise che sarebbe diventata giornalista perché voleva raccontare la favela in modo diverso da come i media la dipingevano, senza pregiudizi, senza spettacolarizzazione della povertà e della violenza.
Nel percorso universitario conobbe Marielle, e tra le due nacque un’amicizia forte, mischiata a militanza, attivismo e lotta politica. Nel 2006 Souza, che già svolgeva il suo lavoro/missione di reporter dalla favela, accettò di unirsi alla campagna elettorale di Marcelo Freixo (il 3 ottobre candidato di sinistra a governatore di Rio de Janeiro). Da quel momento non lasciò più la politica accompagnando la sua amica Marielle durante le elezioni e diventando il suo capo di gabinetto. Fino al 14 marzo del 2018, quando per lei il mondo cambiò completamente. L’omicidio di Marielle le provocò una ferita che ancora non si è rimarginata. Il dolore fu enorme, il più grande della sua vita, ripete Souza nelle interviste, ma la spinse a fare un ulteriore passo in avanti. Nelle elezioni del 2018 fu la candidata di sinistra più votata e da quel momento è stata una delle voci più determinate nell’emiciclo dell’assemblea di Rio de Janeiro.
Per il suo impegno ha ricevuto minacce di morte da gruppi affini al «bolsonarismo» e ha dovuto abbandonare la favela. Da deputata ha promosso una legge per dare priorità alle indagini sugli omicidi di bambini e adolescenti oltre a varie misure per combattere «la violenza ostetrica» contro le donne afrodiscendenti. Alle elezioni dello scorso 3 ottobre è stata eletta deputata statale di Rio de Janeiro con 174.132 preferenze. In questo ruolo cercherà di portare ancora più in alto la voce della favela, le rivendicazioni del femminismo afrodiscendente e la lotta per i diritti umani.
D.B.
Maralal. Servire con «gioia»
Una storia da uomo tranquillo, ma costantemente in ricerca. Il che lo mette di fronte a scelte importanti. Un passo dopo l’altro diventa missionario, poi, con la forza della mitezza, continua il suo servizio a vari livelli. E non smette mai di formarsi. Fino a quando papa Francesco lo chiama.
La diocesi di Maralal occupa una superficie di 20.800 chilometri quadrati, di territorio in prevalenza desertico. Vi sono alcune montagne, sulle quali le precipitazioni rendono il clima un po’ più umido e la zona più arborata. In questo lembo di terra nel centro Nord del Kenya vivono diversi popoli, in prevalenza allevatori nomadi: Samburu, Turkana, Pokot, Rendille, Gabbra, a cui si sono uniti, specialmente nei centri principali, Somali, Kikuyu, Luo e Akamba.
Una diocesi relativamente giovane, creata nel 2001 scindendo in due quella di Marsabit. Le uniche cittadine sono l’omonima Maralal, Wamba e Baragoi. Il primo vescovo è stato monsignor Virgilio Pante, missionario della Consolata, uomo molto attivo e presente sul territorio. Nel luglio scorso papa Francesco ha nominato padre Hieronymus Joya (pronuncia: gioia), 57 anni, come successore di monsignor Pante. Il 22 ottobre monsignor Joya è stato consacrato.
Pure lui missionario della Consolata, è originario della diocesi di Bongoma, nell’Ovest del Kenya, in particolare di un villaggio, Asinge, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Uganda. Ha un parlare pacato e riflessivo il neo vescovo, che raggiungiamo telefonicamente. Si rivela subito molto disponibile.
«Vengo da una famiglia molto cattolica», ci dice, «i miei nonni ebbero difficoltà a essere battezzati, perché durante il periodo coloniale non c’erano missioni nella nostra zona, quindi dovettero andare nella vicina Uganda. Poi i coloni decisero che la gente non poteva più passare la frontiera liberamente. Così il mio villaggio fu unito alla parrocchia di Kakamega, a circa 100 km da casa. I miei genitori furono battezzati lì. In seguito, nel 1926, fu aperta una parrocchia a Nangina, a circa 50 km dal nostro villaggio. Si andava a piedi, e talvolta occorrevano quattro settimane per andare, restare per il catechismo e poi tornare».
Nel 1948 alcuni missionari aprirono la missione di Chakol, a sette km dal villaggio. Una parrocchia ancora attiva oggi.
Monsignor Joya ci racconta che fu lì a Chakol che partecipò al catechismo e poi divenne chierichetto quando frequentava la scuola primaria. Durante l’ultimo anno il parroco chiese a lui e agli altri bambini se fossero interessati a proseguire gli studi nel seminario minore.
«Nel dicembre 1981 feci domanda con altri quattro chierichetti. Passammo un colloquio, così nel 1982 iniziammo il seminario. Avevo passato il test anche in tre scuole pubbliche, ma scelsi il seminario: forse si può dire che è qui che comincia la mia vocazione».
Il neovescovo ci racconta un aneddoto famigliare: «Anche mio padre aveva fatto il seminario, ma non aveva potuto continuare, perché era l’unico maschio di cinque figli, quindi i suoi genitori preferirono che restasse a casa per occuparsi delle questioni di famiglia. Le figlie, nella tradizione, si sposano e lasciano la famiglia di origine. Così mio padre dovette lasciare il seminario. Poi si sposò e nascemmo noi, tre sorelle e cinque fratelli».
E, sospirando, aggiunge: «Penso che sia stata la volontà di Dio, che uno dei suoi figli diventasse prete. E sono stato scelto io».
La chiamata
Poi ci racconta il suo primo incontro con i missionari della Consolata: «Nel 1985 eravamo in seminario, e, con i compagni, andavamo a leggere nella biblioteca. Padre Luigi Bruno della Consolata, portava la rivista The Call, e noi la leggevamo con interesse. Era il direttore vocazionale della Consolata. Noi eravamo curiosi. Gli scrivemmo una lettera per capire meglio chi fossero questi missionari della Consolata. Lui ci rispose, ma la sua lettera fu intercettata dal rettore del seminario che ci chiese perché avevamo scritto alla Consolata e se, quindi, avevamo rinunciato a diventare diocesani».
Alla fine del periodo di studi, la scelta di fronte al giovane Joya era tra continuare per due anni la scuola superiore e diplomarsi, oppure andare in seminario a studiare teologia. Ma i suoi genitori gli dissero che non avevano abbastanza risorse e che avrebbe dovuto trovare un lavoro per aiutare a pagare gli studi alle sorelle e ai fratelli più piccoli. Nel frattempo, padre Bruno lo aveva invitato al seminario di Kisumu per una settimana di conoscenza per aspiranti missionari. Hieronymus riuscì a parteciparvi, ma poi dovette scegliere il lavoro.
La strada in salita
«Andai a Kisumu, da uno zio, e iniziai a lavorare in una stazione di benzina. In questo modo misi da parte dei soldi e mi pagai il college, dove studiai marketing e strategie di vendita. Continuai gli studi anche grazie a un insegnante che mi pagò la metà dei costi d’iscrizione. Una volta finito, nel 1987, trovai subito lavoro come contabile in un hotel».
Il giovane Hieronymus non aveva problemi a trovare lavoro. Ne cambiò parecchi passando dall’ufficio vendite di una assicurazione alla gestione di un progetto che portava l’acqua potabile nella sua zona.
Intanto padre Bruno continuava a scrivergli e nel 1989 lo invitò a visitarlo a Langata, nella periferia di Nairobi, dove gli aspiranti missionari della Consolata studiano. «Andai a visitare padre Bruno, che mi disse che se l’ostacolo era finanziario, non avrebbe chiesto nulla alla famiglia. Lui avrebbe potuto aiutarmi per fare la formazione con la Consolata».
Il bivio
«Quando tornai a casa, si era creata un’opportunità: la Henkel oil company, cercava un responsabile delle vendite per tutta la regione Ovest del Kenya. Feci il colloquio e lo passai.
A quel punto il bivio era chiaro: andare alla Henkel o entrare dai missionari della Consolata? Andai un po’ in crisi. Ne parlai con mio padre e lui disse: «Sei tu che devi scegliere, ma parla anche con tua madre». Anche lei mi disse che la decisione era solo mia. Così io decisi di andare al corso di orientamento della Consolata, che si teneva nel marzo 1990. Dopo l’orientamento fui invitato al seminario della Consolata per iniziare ad agosto».
Così l’esperto di vendite e marketing affrontò gli studi di filosofia e poi il noviziato tra il ‘93 e il ‘94. Fece la sua professione religiosa ad agosto di quell’anno e completò gli studi di teologia nel 1998. Nel frattempo era diventato diacono e venne ordinato sacerdote il 5 settembre 1998 nella sua parrocchia a Chakol. La sua prima missione fu a Loyangalani, cittadina sul Lago Turkana nel grande Nord, allora nella diocesi di Marsabit.
L’Italia a piedi
Monsignor Joya ricorda con fierezza la prima esperienza in Italia: «Nel 2000 andai in Italia per la celebrazione del Giubileo. Un gruppo di Lamon (Belluno), paese di monsignor Pante, aveva chiesto un sacerdote per essere accompagnato in un pellegrinaggio a piedi da Lamon a Roma. Percorremmo 650 chilometri in tre settimane». Fu durante quel soggiorno in Italia che poi andò a Torino, a visitare i luoghi storici del beato Allamano e il santuario della Consolata. Al ritorno in Kenya, divenne parroco a Loyangalani e fu chiamato da monsignor Ambrogio Ravasi a fare parte del consiglio presbiterale della diocesi di Marsabit.
In seguito, dal 2003, fu superiore del seminario filosofico della Consolata a Nairobi. A fine 2007 lo troviamo responsabile del centro pastorale di Maralal, che lasciò nel 2009 perché eletto vice superiore regionale (lavorando con padre Franco Cellana, superiore) e, dal 2011 al 2016, divenne superiore regionale dei missionari della Consoalta di Kenya e Uganda. Ritornato poi come formatore al seminario filosofico di Langata, ricevette l’incarico dal consiglio generale di valutare e preparare la nuova apertura in Madagascar, avvenuta nel 2018.
Riprese pure gli studi, portando a termine un dottorato di ricerca in pastorale. «La mia missione è stata nel Nord del Kenya, con i nomadi, e a Nairobi, per gli studi. Speravo, dopo il dottorato, di poter andare via da Nairobi e dal Kenya, ma… il santo padre mi ha riportato dai nomadi», dice il monsignore, chiudendo con una risata.
Una diocesi desertica
Oggi la diocesi di Maralal conta 15 parrocchie, alcune con un’estensione molto vasta. Ad esempio, a Wamba ci sono 28 cappelle sul territorio parrocchiale. Ci sono 25 preti diocesani e dieci missionari, di cui quattro della Consolata. Sono presenti anche diverse congregazioni di suore.
Monsignor Joya conosce bene il territorio e ci descrive le sfide principali con le quali dovrà misurarsi.
«Una delle sfide principali è il clima. La zona è desertica, con mancanza cronica di acqua per uomini e animali, a eccezione delle zone di montagna. C’è una stagione delle piogge, ma nella zona arida non piove quasi mai. Una situazione che crea conflitti tra comunità, in particolare tra gruppi di allevatori, che sono la maggioranza. C’è una vera lotta per l’acqua: a volte quella che viene usata è presa da torrenti, e non è pulita. Anche scavare pozzi è impegnativo, perché spesso si trovano falde di acqua salata e allora bisogna scavare a grandi profondità.
Un altro problema sono le strade. La sola strada asfaltata è attualmente quella che porta a Maralal città. Le altre sono pessime, talvolta impossibili da percorrere. A questo si aggiunge la difficoltà di comunicazione. In alcune zone si riesce a telefonare con i cellulari, ma nella maggior parte del territorio non c’è copertura.
E poi la mancanza di elettricità: a parte i centri principali, come Maralal e Wamba, dove arriva la rete nazionale, molte missioni devono usare sistemi solari o generatori.
I conflitti tribali si sommano a quelli per l’acqua e per i pascoli. Sono frequenti i furti di animali tra i gruppi. Questo causa molti problemi tra le comunità, lotte e uccisioni (come quella riferita a p. 5 di questo numero, ndr)».
Territorio ad gentes
Nel territorio diocesano, che conta circa 350mila abitanti, i cattolici superano i 100mila, seguiti dai protestanti evangelici. I musulmani sono pochi, circa duemila. La maggioranza della popolazione segue le religioni tradizionali, anche quando sono battezzati. «Per questo motivo, ci spiega mons. Joya, possiamo dire che si tratta ancora di una zona di prima evangelizzazione, ad gentes».
Una delle sfide del vescovo è quella di creare altre parrocchie per servire la gente e ridurre la difficoltà dei preti nel coprire grandi distanze: «Non abbiamo risorse per supportare le parrocchie – ci dice -. E anche le altre istituzioni per l’educazione, la salute, hanno bisogno di fondi.
La diocesi ha due scuole secondarie per ragazze, che funzionano bene, due per ragazzi, il seminario minore, due scuole primarie. La maggioranza delle altre scuole primarie e secondarie sono state iniziate dai nostri missionari, ma sono passate al governo, e molte hanno dei problemi: mancanza di insegnanti, edifici deteriorati, materiali didattici insufficienti. Inoltre, molti insegnanti non vogliono andare a lavorare in aree rurali così sperdute».
La Chiesa ha anche una buona presenza nel settore sanitario: «In ogni parrocchia c’è un dispensario o un centro di salute, e c’è un grande ospedale della diocesi a Wamba, che attualmente ha diversi problemi perché mancano soldi per farlo funzionare, per pagare il personale, comprare le medicine. È il più grande di tutta diocesi. Il secondo, gestito dallo stato, è a Maralal, anch’esso non funziona molto bene per mancanza di risorse».
I progetti del vescovo
Il nuovo vescovo ha entusiasmo e tanti progetti per la diocesi: «Voglio continuare nel solco del cammino aperto dal vescovo Pante. Lui ha lavorato affinché le strutture della diocesi funzionassero bene e fossero organizzate.
Poi vorrei migliorare le strutture di gestione e amministrazione delle istituzioni della diocesi, e fare un piano su come rivitalizzare quelle che non funzionano, che possano iniziare a fornire servizi di qualità, e amministrarli correttamente.
Un altro programma è sviluppare collegamenti con i finanziatori, alcuni dei quali erano presenti sul territorio, ma poi, a causa di alcune difficoltà, hanno interrotto il supporto. Ad esempio, c’erano medici specialisti che venivano ad aiutare nell’ospedale di Wamba, ma ora non vengono più. Vorrei ricontattare le organizzazioni non profit, nazionali e internazionali che avevano programmi nella diocesi, per convincerle a tornare.
È mia intenzione chiamare congregazioni di donne e uomini, per venire a fornire servizi alle persone nelle zone più difficili».
Grazie forse alla sua formazione, il vescovo è molto sensibile alla sostenibilità economica: «Vorrei utilizzare alcune specificità delle istituzioni per produrre reddito che possa servire a tutta la diocesi». Senza dimenticare la formazione per gli agenti di evangelizzazione: i catechisti, i laici, i preti, i membri del consiglio pastorale diocesano, ma anche delle associazioni cattoliche, perché «ce ne sono molte, di donne, di giovani, in favore dei bambini in difficoltà».
Monsignor Joya sottolinea anche l’importanza del programma di animazione vocazionale, per stimolare nuove vocazioni missionarie.
Marco Bello
Wagner e i suoi fratelli
Operano da oltre dieci anni, ma solo di recente si è iniziato a parlare di loro. Agiscono nell’ombra, ma calcano i principali teatri di guerra. Sono organizzazioni strutturate, e orientate al business, nelle quali l’ideologia non c’entra. Facciamo il punto sulle compagnie dei contractor russi.
Su un punto tutti sono d’accordo: il Gruppo Wagner esiste. Su un altro punto tutti sono altrettanto d’accordo: il mistero avvolge ogni cosa riguardi questa società di mercenari. Su di essa si rincorrono voci, si parla di interessi e influenze importanti, ma anche di una sorta di invincibilità. Tutto però è avvolto in quella nebbia tipica degli ambienti militari o paramilitari che flirtano con i servizi segreti, la politica, l’industria. A maggior ragione se si parla di Russia, un paese che vanta, fin dagli anni sovietici, una tradizione di assoluta riservatezza e opacità in materia militare. Per parlare del Gruppo Wagner, bisogna, quindi partire da quelle poche cose certe che si conoscono sulla sua esistenza.
Le origini
Secondo l’intelligence militare britannica, la nascita di questa moderna compagnia di ventura risale alla fine degli anni Duemila per iniziativa di un ex ufficiale dell’esercito russo di 51 anni, tal Dmitri Utkin. Si pensa che sia stato lui a fondare questo gruppo e gli abbia dato il nome di Richard Wagner, suo compositore preferito e molto apprezzato anche negli ambienti dell’estrema destra europea.
Utkin è un veterano delle guerre cecene, un ex ufficiale delle forze speciali e del Gru, il servizio di intelligence militare russo.
Il battesimo del fuoco di Wagner sarebbe avvenuto (ma non è certo) nel 2014, nella guerra che ha portato all’annessione russa della Crimea. «Si pensa che i suoi mercenari siano alcuni di quegli “omini verdi”, senza alcuna insegna addosso che occupavano la regione – ha spiegato alla Bbc, Tracey German, professore di Conflitto e sicurezza al King’s College di Londra -. Un migliaio di suoi mercenari ha poi sostenuto le milizie filo russe che combattevano per il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk».
La nascita e l’impiego del Gruppo Wagner è però controverso fin dall’inizio. In Russia, come in Italia e in molti altri paesi occidentali, le attività militari «private» sono espressamente vietate dalla Costituzione. Anche se una forza militare ben addestrata e di pronto impiego può tornare utile in caso di operazioni nelle quali la Russia non voglia esporsi ufficialmente. «Wagner può essere coinvolto all’estero e il Cremlino può dire: “Non ha nulla a che fare con noi”», ha detto alla Bbc, Samuel Ramani, membro associato del Royal United Services Institute.
Anche se la questione è più complessa di quanto sembri. «In Russia – osserva Mattia Caniglia, ricercatore dell’European Council on foreign relations -, a differenza di quanto possa apparire a un occhio esterno, non c’è un soggetto unico a prendere le decisioni. Il sistema del governo è molto competitivo, al suo interno c’è una grande gara fra centri di poteri: ministero della Difesa, ministero degli Affari esteri, le diverse agenzie di intelligence, ecc. In questo contesto, il Gruppo Wagner e le altre agenzie private agiscono in collaborazione con alcuni di questi centri, oppure si muovono addirittura da sole. Bisogna pensare che sono società strutturate, come conglomerati di industrie e aziende che si occupano non solo di difesa, ma anche di minerali, comunicazione, formazione. Questo conglomerato opera con uno spirito imprenditoriale e cerca i business laddove pensa possano esserci. Se il business porta a far crescere la rete della Russia, Mosca sostiene le compagnie mercenarie. Altrimenti ne prende le distanze».
Aree d’influenza
La Russia, è l’analisi di Mattia Caniglia, al contrario dell’Unione europea, della Cina, della Turchia, non ha strumenti di soft power (cioè la fornitura di aiuti economici e influenza culturale). Quindi, queste compagnie di mercenari (Wagner non è l’unico gruppo di contractor russo) si configurano come uno strumento di influenza non ufficiale per Mosca in aree in cui può avere interessi geostrategici. Nell’Africa occidentale, per esempio, la Russia può infastidire la presenza dell’Unione europea (che in loco ha la sua missione più grande) e la Francia. Wagner e altre compagnie simili possono facilitare i rapporti tra Russia e paesi africani. Una volta in Africa poi, le società dei mercenari si ritagliano uno spazio nell’economia locale.
E proprio in questo contesto si inseriscono i legami di Utkin e il Gruppo Wagner con Yevgeny Prigozhin, l’oligarca russo noto come «lo chef di Putin», perché in passato ha fornito i servizi di ristorazione e catering al Cremlino. Prigozhin ha sempre negato ogni legame con Wagner, ma a fine settembre scorso, sui social della sua società Concord, ha detto di aver fondato il Gruppo. Sono infatti i contractor a proteggere gli interessi dell’oligarca in diverse parti del mondo e, in particolare, in Africa.
Nel 2020, il dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato che Wagner ha agito da «security» in diverse nazioni per le società minerarie di Prigozhin, come M Invest e Lobaye Invest. Tanto è vero che Washington le ha poi sanzionate.
«Ci viene detto che i soldati di ventura sono un fenomeno tipico dell’Occidente e che il mercenarismo è un prodotto dell’idra capitalista, ma anche noi (la Russia, ndr) ce ne siamo serviti per promuovere gli interessi del nostro paese all’estero – ha scritto Marat Gabidullin in Io, comandante di Wagner (Libreria Pienogiorno, euro 18,90, pp. 288) -. I nostri uomini politici mantengono un silenzio pudico sull’esistenza di compagnie militari private russe e respingono in blocco qualunque allusione al ricorso a tali formazioni non governative. Da parte loro, i propagandisti indottrinano pesantemente i russi inculcando loro l’idea di una politica estera propria della Russia ed eludendo qualunque risposta diretta alle domande riguardanti l’uso dei mercenari».
Chi sono
Il Gruppo Wagner, secondo quanto riportano i servizi di intelligence britannici, è composto principalmente di veterani dei reparti speciali russi. L’analista Samuel Ramani afferma che l’organico attuale dovrebbe contare su un totale di cinquemila mercenari. Si tratta di personale ben addestrato sia all’uso delle armi (anche di sistemi d’arma complessi) sia sotto il profilo tattico. Secondo quanto trapelato da fonti interne, Wagner recluterebbe principalmente ex militari che hanno bisogno di saldare debiti e che provengono da zone rurali dove ci sono poche altre opportunità per fare soldi. Sono quindi soldati di professione che non hanno alternative e che sono disposti a continuare il mestiere delle armi una volta congedati dalle forze armate. La paga si aggirerebbe sui due-tremila euro al mese, ma la cifra varierebbe a seconda del tasso del rublo e non sarebbe mai stata costante negli anni. Si sa che Wagner ha dato vita anche a un sistema di «assistenza sociale» per i propri uomini. Chi rimane ferito in combattimento dovrebbe ricevere, a seconda della gravità delle ferite, tra i 500 e i tremila dollari di indennità. E alle famiglie dei caduti verrebbe promessa una cifra tra i 35mila e i 50mila dollari.
I contratti sono sempre «a tempo determinato» o, meglio, «a progetto». Per la campagna nel Donbass, sono stati offerti contratti di pochi mesi, per la Siria fino a un anno (con ferie ogni sei mesi). La formazione è affidata a ex ufficiali russi e, durante il periodo di addestramento, gli uomini prenderebbero circa mille dollari. Sono cifre e condizioni che rappresentano un incentivo notevole per uomini che non hanno prospettive nella vita civile. Ma, sebbene nei ranghi di Wagner siano presenti emarginati e disadattati, ciò non toglie che il Gruppo abbia grandi capacità militari. Secondo quanto riporta il New York Times, in Siria, proprio i mercenari russi sarebbero stati in grado di resistere per più di quattro ore a una formazione statunitense composta da uomini della Delta Force e dei Berretti Verdi. Le forze speciali Usa, per avere la meglio sui russi, avrebbero dovuto chiedere l’intervento dell’aviazione. Prima di far bombardare l’area, però, avrebbero chiesto al comando delle forze armate russe in Siria di ritirare i propri uomini. Ma Mosca avrebbe negato di avere propri militari nell’area condannando, di fatto, i contractor a morte certa.
Ma chi finanzia il Gruppo Wagner? Su questo punto la nebbia è fittissima. Secondo fonti dell’intelligence britannico, sarebbe il Gru, i servizi segreti militari russi, a sostenere economicamente e a supervisionare segretamente Wagner. Fonti mercenarie hanno confessato ad alcuni media che la base di addestramento di Wagner si trova a Mol’kino, nel Sud della Russia, e sarebbe vicina a una base dell’esercito russo.
Dove ha operato e opera
Nel 2015 il Gruppo Wagner ha iniziato a operare in Siria, combattendo al fianco delle forze filogovernative e facendo la guardia ai giacimenti petroliferi. Un’operazione condotta con le truppe di Mosca, per la quale i mercenari avrebbero pagato un prezzo altissimo. È ancora Marat Gabidullin a descrivere la situazione: «I generali russi in Siria hanno messo in campo con successo una strategia che avrebbero potuto battezzare “qui non ci sono”, creando l’illusione di vittorie poco costose in termini di vite umane nei ranghi dell’esercito. Ma le cifre reali dei cittadini russi morti nella guerra contro lo Stato Islamico non corrispondono ai dati ufficiali. Il numero dei mercenari morti è superiore, e di gran lunga, a quello dei soldati regolari. E tuttavia, ai russi viene tenuta nascosta perfino la partecipazione della compagnia militare privata, sempre per alimentare il mito di una guerra non sanguinosa. I militari russi di ogni grado presenti in Siria si crogiolano nella gloria e si lasciano adulare dal popolo ignorante».
Ma è in Africa che Wagner ha iniziato a farsi conoscere. «La strategia russa in Africa si muove su due livelli – sottolinea Mattia Caniglia -. Quello ufficiale, lavora attraverso diversi strumenti: diplomazia, scambi culturali, accordi che prevedono lo scambio di sistemi d’arma per risorse naturali, ecc. Poi c’è un livello non ufficiale. Di questo fanno parte le azioni di disinformazione portate avanti attraverso la collaborazione tra i media russi e quelli africani. Ma anche le azioni delle compagnie militari private. Uso volutamente il plurale perché se il Gruppo Wagner è la compagnia russa di mercenari più famosa, non è la sola. La presenza di mercenari russi, in questo momento, è forte in Botswana, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Libia, Mali, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Centrafrica».
Che ruoli ha
Come si muovono sul terreno? «Noi abbiamo in mente i mercenari come soldati combattenti. In realtà, spesso svolgono ruoli di addestramento e di formazione. In altri casi, come in Libia e in Centrafrica sono schierati sul campo, ma a protezione di impianti.
Nel 2016 i contractor russi sono stati impiegati in Libia a supporto delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Rapporti delle agenzie di intelligence occidentali stimano che nel 2019 siano stati impiegati fino a mille mercenari Wagner nell’avanzata di Haftar verso Tripoli. Un’avanzata fallimentare, fermata dalle milizie fedeli al presidente Fayez al Sarraj, sostenuto dall’esercito e dagli armamenti forniti dalla Turchia.
Nel 2017, il Gruppo Wagner è stato invitato nella Repubblica Centrafricana. Testimonianze di missionari cattolici in loco parlano di una presenza massiccia di un gruppo di uomini determinati e senza scrupoli. «Nella Repubblica Centrafricana abbiamo il coltello dalla parte del manico – osserva Marat Gabidullin -: i leader dipendono totalmente dai mercenari». Ciò fa sì che la compagnia possa fare affari milionari sfruttando le miniere di diamanti senza minimamente curarsi del rispetto dei diritti umani della popolazione locale.
«Il continente africano rimane terreno vergine per la diplomazia russa e gli intrallazzatori politici – è ancora Gabidullin a parlare -. Il potere è in mano a leader senza scrupoli che hanno saputo apprezzare l’aiuto fornito da Mosca a Damasco e si sono mostrati pronti a lasciare che la Russia mettesse le mani sulle risorse naturali dei loro paesi ricchi d’oro, diamanti e petrolio. Il ricorso ai mercenari da parte della Russia è un fatto assodato, irrefutabile».
Con la stessa logica, Wagner è stata impegnata in Mozambico per contenere la ribellione jihadista nel Nord. Dietro l’operazione militare, che è stata un fallimento, c’erano interessi economici forti. Nella regione sono presenti ricchi giacimenti di rubini, ora, in parte, sfruttati da imprenditori conniventi con gli islamisti.
Più recentemente, il Gruppo Wagner è stato invitato dal governo del Mali, nell’Africa occidentale, sempre per fornire sicurezza contro i gruppi militanti islamisti. Il suo arrivo nel 2021 ha influenzato la decisione della Francia di ritirare le proprie truppe dal paese. In Mali, il Gruppo Wagner avrebbe circa 600 effettivi che avrebbero compiuto azioni brutali. Il ministero degli Esteri francese ha diffuso un comunicato nel quale ha fatto sapere di essere «preoccupato per informazioni che parlano di massicce esecuzioni nel villaggio di Moura da parte di elementi delle forze armate maliane accompagnate da mercenari russi del Gruppo Wagner che avrebbero causato la morte di centinaia di civili» (fine marzo 2022, ndr).
Contractor russi avrebbero inoltre partecipato all’operazione antiterrorismo realizzata a fine marzo dall’esercito maliano nel Sahel. Secondo il quotidiano francese Le Monde, nel paese sarebbero presenti «paramilitari bianchi identificati da fonti locali e internazionali come appartenenti alla società di sicurezza privata russa Wagner».
L’ultimo fronte
In Ucraina, il Gruppo Wagner ha avuto il suo battesimo del fuoco nel 2014, e vi è tornato a febbraio allo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev. Reparti di mercenari sono stati segnalati da diverse fonti di intelligence occidentale sul territorio ucraino. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Times, almeno 400 avrebbero operato intorno a Kiev nelle prime settimane del conflitto. Il loro obiettivo era di uccidere il presidente Zelensky e altre importanti figure politiche governative e locali.
La Brigata delle tenebre, come viene anche chiamata la compagnia di ventura, avrebbe poi spostato i suoi effettivi verso il Donbass, nell’Est del paese, e cioè nell’area strategica balzata in cima alla lista degli obiettivi russi. Non ci sono certezze, ma pare che la Wagner abbia inviato in Ucraina seimila uomini, mille dei quali attivi proprio nel Donbass. Combattono a fianco delle forze regolari del Cremlino e di altri combattenti provenienti da Medio Oriente e Siria e, anche in questo quadrante, si sono distinti per le atrocità.
Secondo quanto riporta il settimanale tedesco Spiegel, l’intelligence tedesca avrebbe intercettato trasmissioni radio del personale militare russo in cui si discuteva di omicidi di civili a Bucha. Alcune delle conversazioni sarebbero legate a specifici cadaveri fotografati a Bucha e il materiale dimostrerebbe anche come membri del Gruppo Wagner sarebbero coinvolti nelle atrocità. Gli omicidi di civili, secondo gli 007 tedeschi, non sarebbero stati né casuali, né azioni di singoli soldati, ma operazioni abituali delle forze armate russe e dei mercenari loro alleati.
Anche su questo fronte però i soldati della Wagner sono come ombre e come tali trattati dallo stato maggiore di Mosca. «I mercenari russi – scrive Marat Gabidullin nel suo libro – sono scritti in una colonna a parte dell’elenco delle vittime, coperta dal segreto. E in Ucraina sono molto numerosi, in tutte le ramificazioni della cosiddetta operazione speciale. Le formazioni militari delle repubbliche del Donbass, riconosciute solo dalla Russia e che in otto anni hanno perseguito unicamente una strategia difensiva, non sarebbero in grado di condurre operazioni offensive senza il supporto di un’altra forza, quella dei contractor. Fino a poco tempo fa, attorno a Kiev c’erano almeno due distaccamenti di mercenari, assegnati specificamente a questa operazione. Inoltre, tre distaccamenti di Wagner partecipano ai combattimenti a Mariupol e Kharkiv.
I mercenari sono pagati in dollari. La nuova tendenza, all’interno delle forze d’invasione, è scambiare il patriottismo con i dollari. L’ideologia non c’entra, quello che conta è riempirsi le tasche».
Enrico Casale
Sperimentare il centuplo
Dei tre fratelli Barbero missionari della Consolata, padre Mario è quello di mezzo. Ha accompagnato oltre la metà della storia dell’Imc, tra Italia, Kenya, Usa, Congo e Sudafrica. Suoi amori: la Bibbia, i confratelli e le famiglie del «Marriage encounter» che ha promosso nel mondo.
Padre Mario Barbero, classe 1939, entra nel nostro ufficio con la sua solita discrezione.
Il suo sorriso gentile e il suo sguardo attento non sono mutati dall’ultima volta che ci siamo incontrati a inizio 2020.
Cominciava allora, a 81 anni, una nuova avventura, ed era pronto a prendere, senza saperlo, l’ultimo volo per il Sudafrica prima della chiusura delle frontiere per la pandemia da Covid-19.
Missionario della Consolata nato a Marene (Cn), nei suoi 70 anni vissuti tra i figli dell’Allamano, ha operato in cinque paesi di tre continenti: Italia, Kenya, Usa, Congo Rd e Sudafrica.
Formatore di seminaristi, ha sempre amato lavorare con le famiglie tramite l’esperienza del Marriage encounter («Incontro matrimoniale») di cui è un entusiasta promotore nel mondo.
Settant’anni di gioia
«La prima volta che sono stato in Casa Madre a Torino avevo 12 anni. Era maggio 1951, e l’Istituto missioni Consolata compiva 50 anni. Ora ne ha più di 120».
Padre Mario si siede di fronte a noi e, con la sua voce bassa e affabile, ci offre subito il quadro di quello che racconterà: una lunga esperienza personale che s’intreccia con gratitudine alla ricca storia della famiglia Imc. «Sono entrato in seminario in prima media, alla Certosa di Pesio (Cn). Ero accompagnato da mio fratello Antonio, di undici anni più grande di me, e già seminarista. Io dico sempre che, prima del Covid, nella mia famiglia c’è stato un altro virus che ha colpito tre fratelli su sei facendoli diventare missionari della Consolata».
Oltre a padre Antonio Barbero, nato nel 1928, missionario in Canada e Congo Rd, morto nel 1982, infatti, un altro fratello è stato parte dell’Imc, Tommaso (chiamato Masino), nato nel 1946, missionario in Tanzania e Kenya e mancato poco più di un anno fa, nel settembre 2021.
«Eravamo cinque fratelli e una sorella. Gli altri si sono sposati regalandomi nipoti e pronipoti. Quando Antonio aveva 12 anni, ha sentito un’ispirazione che gli diceva “fatti missionario”. Lui non sapeva cosa fosse un missionario, allora l’ha chiesto al parroco, che gli ha detto: “I missionari sono quelli che vanno in Africa, e sono di due tipi: i sacerdoti che studiano, e i fratelli che lavorano”. Mio fratello non aveva tanta voglia di studiare, e allora dice: “Va beh, sarò di quelli che lavorano”. Poi va a casa, lo dice a mio papà, e lui gli risponde: “Se vuoi lavorare, qui c’è una cascina…”. E Antonio: “Allora mi farò missionario di quelli che studiano” – ride padre Mario -. Quando poi Antonio veniva a casa una volta all’anno dal seminario, portava sempre con sé una rivista: “Missioni Consolata”».
Guardando al fratello, Mario è cresciuto pensando che anche lui sarebbe diventato missionario e, finite le elementari, è entrato in Certosa nel ‘50.
La chiesa che cresce
Padre Mario segue il filo dei suoi ricordi più di quello delle nostre domande. Ci confida che negli ultimi tempi ha avuto modo di pensare molto alla sua vita passata. Anche il lockdown, scattato tre settimane dopo il suo arrivo in Sudafrica nel 2020, e il Covid, contratto nell’estate 2021, che l’ha costretto a trasferirsi per le cure da Pretoria a Nairobi, sono stati per lui situazioni provvidenziali che gli hanno permesso di pregare e riflettere di più.
«Quando sono guarito, ho girato un po’ il Kenya dove ero stato dal ‘76 all’88. Ho visto il grande sviluppo della chiesa: tante parrocchie, ognuna con il suo prete locale, trent’anni fa erano impensabili. Poi sono andato a Tuthu, il primo posto in cui erano arrivati i missionari nel 1902. Lì non c’era la chiesa. Adesso ci sono tanti preti. Oggi più della metà dell’Imc è composta di africani che vanno nel mondo».
Dopo la convalescenza, è tornato in Sudafrica, ma un nuovo problema di salute l’ha fatto rientrare in Italia.
«Da quando sono arrivato a Torino a inizio 2022, sono andato diverse volte al santuario della Consolata e ho pensato all’Allamano: io non credo che avesse immaginato tutto quello che sarebbe successo. Mandando i suoi missionari, ha allargato le dimensioni dell’Africa, l’ha fatta diventare missionaria».
Fratelli
Il volo dei ricordi fa attraversare a padre Mario decenni e continenti avanti a indietro.
Tornando alla sua famiglia, ci dice che lui è il quinto dei sei fratelli, e che l’ultimo era proprio Tommaso, il terzo che si sarebbe fatto missionario. «Ha fatto più di 40 anni di Tanzania e Kenya. Poi è stato gli ultimi 7-8 anni in Italia per problemi di salute.
Ultimamente ho pensato tanto a lui. Aveva un forte zelo missionario, una grande sensibilità. Ha fondato missioni nelle quali, prima delle strutture, pensava alla formazione dei vari ministeri della gente. Negli anni che ha trascorso qui in Italia, quando ci sentivamo, mi diceva tutte le volte: “Ti penso sempre, ogni volta che celebro messa mi sento unito a te”.
Quando sono diventato prete, la sera prima di essere ordinato, mi sono confessato con mio fratello Antonio, che mi ha detto: “Da domani saremo fratelli due volte. Non solo di sangue, ma anche di sacerdozio”. Ed è stato così anche con Masino.
Quando Antonio era malato, gli ultimi sette mesi li ha passati in Casa Madre a Torino. Masino, che allora era in Spagna, l’ultimo mese gli è stato vicino. Era il 1982. Tre giorni prima che mancasse, io sono venuto dal Kenya e mi ha ancora riconosciuto. Quando è morto io e Masino eravamo uno di qua e l’altro di là a tenere il suo polso. Eravamo sereni, perché lui ci aveva preparati. Era tranquillo, e continuava a pensare allo Zaire.
Quella notte, accanto ad Antonio c’era Maria Stocco, un’infermiera che aveva desiderio di andare in Africa. Antonio le aveva detto “vai a prendere il mio posto”, e lei, dopo la sua morte, è partita. Quando nel 2005 io ero in Congo, sono andato a predicare gli esercizi spirituali ai nostri missionari nel Nord, a Isiro. Lei era ancora lì. Dall’82. Antonio aveva fatto nove anni di Congo. Lei ne ha fatti quasi trenta».
Il Concilio da vicino
«Più divento vecchio e rifletto sulla mia storia, più vedo che il Signore mi ha messo accanto tante persone di tutti i tipi, preti, suore, laici, famiglie che hanno reso possibile la mia missione», continua padre Mario.
«Finito il noviziato nel 1959, sono stato a Roma dieci anni. Ho fatto filosofia, teologia e poi la specializzazione in Bibbia. Ma soprattutto sono stato a Roma nel tempo del Concilio. Dieci giorni dopo la sua conclusione, sono stato ordinato prete.
È stata un’epoca stupenda. Alcuni dei nostri professori erano nelle commissioni teologiche che lavoravano ai testi. In casa nostra, poi, avevamo otto vescovi che ci aggiornavano su cosa succedeva in San Pietro.
Io vedo il Concilio come una grande benedizione.
Quando sento persone che dicono che la chiesa è stata rovinata dal Concilio, penso che non hanno idea di cos’era la chiesa prima e di cos’è la chiesa oggi.
Quando si parla di crisi della chiesa, c’è uno sguardo solo occidentale. In Africa al tempo del Concilio c’erano una cinquantina di vescovi neri, adesso sono centinaia. Quando sono arrivati i nostri primi missionari a inizio Novecento, l’Africa avrà avuto sì e no due milioni di cattolici, oggi sono 250-300 milioni. Mai c’è stato uno sviluppo così rapido della chiesa. Eravamo abituati ad avere tanti cardinali italiani e adesso ci si stupisce che il papa li nomini in altri paesi. Ma la gran massa di cattolici non è qua, e perché non avere la voce di quelle chiese? Anche di quelle che vivono in minoranza e perseguitate? Sono questi piccoli gruppi che conservano la forza della Parola di Dio che è Gesù che si diffonde».
Il Kenya
La prima destinazione di padre Mario è stata a Torino per insegnare Bibbia. «Sono stato formatore e insegnante qui dal ‘69 al ‘75. Insegnavo al Cottolengo, dove c’era la sede della scuola di teologia per diversi istituti, anche il nostro. È stato bello. Facevo anche animazione missionaria. Alcuni di quei giovani (tra cui il direttore di MC, ndr) sono poi diventati preti, altri sono diventati padri di famiglia».
Il primo mandato missionario fuori dall’Italia è arrivato nel 1976. «Sono stato 12 anni in Kenya. Dal ‘76 al 1982 ho insegnato al Consolata seminary di Nairobi. Poi sono stato eletto superiore regionale. In quegli anni si è dato molto sviluppo alla formazione dei missionari africani. Il primo keniano Imc è stato Anthony Ireri Mukobo che ora è vescovo di Isiolo. Anche l’attuale vescovo di Marsabit, Peter Kihara Kariuki, è stato tra i primi che erano entrati nel 1976.
L’anno scorso il Consolata seminary ha compiuto 50 anni. Dei ragazzi passati da lì, 152 sono diventati missionari della Consolata, ora sparsi nel mondo. Altri sono diventati preti diocesani, altri ancora padri di famiglia».
Marriage Encounter
È stato in Kenya che padre Mario ha incontrato il programma per famiglie Marriage encounter.
«Nel 1978 sono arrivate in Kenya alcune coppie missionarie dall’Irlanda invitate dal cardinale Maurice Michael Otunga di Nairobi.
Incontro matrimoniale forma gli sposi a vivere meglio il loro amore. È basato sul dialogo. Vi partecipano anche preti e suore.
Io non sapevo cosa fosse. Mi hanno invitato. C’erano tre coppie e un prete che davano degli spunti di riflessione. Per me è stata una scoperta bellissima. Dopo ogni conferenza c’è una domanda, e ognuno è invitato a riflettere e a scrivere una risposta personale. Poi marito e moglie si trovano insieme (io mi trovavo con un altro prete). Si dialoga, ci si scambia gli scritti. È una cosa semplicissima. È incredibile cosa può fare il semplice scriversi e parlarsi. Le coppie, dopo i due giorni d’incontro, sono tornate a casa avendo scoperto molte cose, tanti sogni che non si erano mai detti.
È stata una grazia per me. Scherzando, dico sempre che la mia seconda ordinazione da prete è stata il 27-29 di ottobre del ‘78.
Dopo quel weekend, mi sono fatto coinvolgere, e ho anche contagiato mio fratello Masino che allora era in Spagna. Quando è tornato in Tanzania, lo ha impiantato anche lì, dove adesso ci sono migliaia di coppie di Incontro matrimoniale.
La stessa cosa è successa nel Nord Italia: non potevo tenere questa esperienza per me, e ho coinvolto i miei amici più cari.
Allora in Italia c’era già qualcosa a Rimini. Qui a Torino invece è nato da Mario e Annamaria Tenna che hanno invitato i loro amici, poi il loro parroco, e da lì si è allargato in Piemonte e in Italia. In questo momento la coppia responsabile di Incontro matrimoniale in Europa è italiana.
Quando sono andato negli Usa, Incontro matrimoniale c’era già, e mi hanno subito coinvolto. Per 12 anni ho girato una volta al mese per tutto il paese. Quello che mi ha colpito è che funziona ovunque. L’ho vissuto con i keniani, con gli italiani, poi con gli americani, sia ispanici che inglesi, poi in Congo».
Gli USA e Retrouvaille
Quando padre Mario parla delle coppie incontrate grazie al Incontro matrimoniale ha gli occhi che brillano.
Negli Usa è andato subito dopo il Kenya: prima nella casa di
Somerset, vicino a New York, come superiore regionale Imc dal 1988 al ‘94, poi, fino al 2001, a Washington Dc, di nuovo dedicato alla formazione dei seminaristi. In quegli anni, il suo coinvolgimento in Incontro matrimoniale gli ha fatto conoscere una nuova esperienza nata in Canada, quella del Retrouvaille.
«Nel 1994 mi hanno invitato a un weekend del Retrouvaille, parola che significa ritrovarsi, un programma specifico per le coppie separate o divorziate che, a un certo punto, cercano di aggiustare le relazioni. È stata una cosa incredibile. Per me, anche come prete, l’esperienza del perdono vissuta nel programma
Retrouvaille è la più forte.
Quando sono tornato nel 2001 in Italia, la Cei era interessata a farlo approdare anche qui, così il programma è partito nel 2002.
Gli animatori di questo percorso sono coppie che hanno sperimentato il fallimento in prima persona e poi si sono riconciliate. Quando portano la loro testimonianza, sia del fallimento sia della ripresa, ha un grande impatto su chi li ascolta.
In Italia abbiamo fatto oramai oltre 200 di questi weekend».
Congo
Nel 2001 padre Mario è partito dagli Usa destinato al Congo Rd. «Sono passato dall’Italia per rinfrescare il francese, e sono poi andato in Congo nel 2002, a Kinshasa, dove sono rimasto fino al 2007 per fare il formatore dei nostri seminaristi e il professore in un altro centro. Insegnavo anche nel seminario diocesano.
Anche in quel paese ho lavorato con Incontro matrimoniale: lì era già presente, ma da qualche tempo non andava più molto bene, perché le coppie non riuscivano più a pagare il contributo richiesto per i weekend. Fatto sta che ha ripreso, e ora va ancora avanti. Quasi tutti i giorni ricevo ancora messaggi da là».
Italia
Nel 2008, dopo aver lasciato il Congo e aver trascorso sei mesi in Sudafrica, padre Mario è tornato in Italia dove ha lavorato nell’animazione missionaria fino al 2019, prima a Bedizzole (Bs), poi a Castelnuovo don Bosco (At), infine a Rivoli (To).
«Ho fatto tanti incontri biblici e naturalmente ho lavorato con le famiglie. Poi, nel 2019 mi hanno chiesto di andare in Sudafrica e io ho accettato.
Sono partito a inizio 2020 per fare il parroco per la prima volta nella mia vita. Tre settimane dopo il mio arrivo, c’è stato il lockdown anche lì, e per il primo anno la gente non poteva venire in chiesa. In quella situazione ho riscoperto la preghiera, e facevo un video ogni settimana per i parrocchiani. È nato un bel rapporto con loro, anche se limitato.
Poi ho avuto il Covid, e sono stato mandato in Kenya per curarmi. Dopo tre mesi, sono tornato per altri tre mesi, quando mi è venuta una forte sciatalgia e ho iniziato ad avere difficoltà a camminare. Allora sono ripartito per l’Italia nel febbraio del 2022.
Due anni sono stati pochi, ma sufficienti per iniziare delle belle relazioni. Con alcuni mi sento ancora. È nato un affetto speciale con tante persone.
È stato bello, anche se diverso da quello che immaginavo, come spesso capita nella nostra vita. Adesso sono qui in Casa Madre e sto meglio: ho tanto tempo per pregare, riflettere, ricordare».
Famiglia e missione
Data la sua esperienza, chiediamo a padre Mario qual è secondo lui la missione delle famiglie.
«Innanzitutto, la loro vita famigliare, il parlarsi tra di loro e la formazione dei figli.
Ora che rifletto molto sulla mia vita, mi rendo conto che, pur avendo studiato tanto, le cose più importanti me le hanno insegnate mio papà e mia mamma.
La famiglia è presente in tutte le realtà. Io sono stato fortunato ad avere una famiglia unita, ma anche nelle famiglie nelle quali magari c’è una separazione, i genitori ti accolgono, ti tirano su. Questa è la cosa principale: il primo impegno di una famiglia è quello di avere cura della famiglia. Tutto il resto viene da lì.
Mentre ero a Washington ho fatto un dottorato, e nel 2001 ho scritto la mia tesi su Priscilla e Aquila: una coppia che ha lavorato con san Paolo e ha fondato con lui la chiesa di Corinto e di Efeso. È stato il mio coinvolgimento con le coppie che mi ha fatto scoprire il Marriage encounter anche in san Paolo».
Bibbia
L’altro grande amore di padre Mario è la sacra Scrittura. Gli chiediamo allora, per concludere la chiacchierata, un brano che gli sta particolarmente a cuore.
«Quando Pietro chiede a Gesù: cosa ne avremo noi a seguirti? E Gesù risponde che avremo il centuplo. Ecco, io il centuplo l’ho sperimentato: prima con l’Imc, dove mi sento bene con tutti i miei confratelli; poi con Incontro matrimoniale, che mi ha aperto migliaia di case».
Luca Lorusso
Fratelli due volte
Antonio Barbero
Nato il 12-2-1928 a Marene (Cuneo), tredicenne fu accolto nell’Istituto Missioni Consolata e ricevette l’ordinazione sacerdotale il 20-6-1954. Per sei anni svolse attività di insegnamento e di formazione in Italia. Nel 1961 partì per il Canada: quattro anni di intensa pastorale giovanile. Rimpatriato svolse ancora attività formative nelle case Imc d’Italia, poi nel 1972 raggiunse la missione dello Zaire come superiore del gruppo della nascente delegazione: dieci anni di lavoro missionario ardito e intelligente (cfr. dossier in MC 6/2022). Missionario ottimista e guida saggia, sembrava, talora, spregiudicato, invece di fatto il suo comportamento si rivelava stimolante ma equilibrato. La sua arte era semplice ma non sempre facile: ascoltare, riflettere, rispondere, sorridere; un’arte che faceva sempre presa nel cuore dei giovani. Morì a Torino il 9 febbraio del 1982.
Tommaso (Masino) Barbero
Nato l’8-10-1946 a Cervere (Cn), fece la professione temporanea il 2-10-1966 alla Certosa di Pesio, e quella perpetua il 2-10-1969 a Rosignano. Fu ordinato diacono il 16-2-1972 a Torino e sacerdote il 25-3-1972 a San Lorenzo di Fossano.
Dopo i primi due anni tra Cork (in Irlanda) e Biadene (Treviso), partì per il Tanzania dove rimase tra il 1974 e il 1979. Fece animazione missionaria a Saragoza, in Spagna, tra il 1979 e il 1983. Tornò in Tanzania come vice parroco a Kisinga e come parroco a Ng’ingula tra il 1983 e il 1988.
Tornato in Europa, nel 1989 partì per il Kenya. Fu rettore dell’Allamano House a Nairobi fino al 1992, poi fondatore e parroco di Kahawa (Nairobi) fino al 2000, viceparroco e poi parroco a Likoni-Mombasa fino al 2005, direttore della casa di ritiri Bethany House a Sagana tra il 2005 e il 2008, e poi direttore del Centro pastorale di Maralal fino al 2013. Contemporaneamente fu due volte consigliere regionale del Kenya: nel 2005-2008 e nel 2011-2013. Rientrato in Italia nel 2014, lavorò a Platì, Rivoli, Cavi di Lavagna e Torino. Morì il 16 settembre del 2021.
Ci è capitato più volte, nella lettura del libro dell’Esodo, di ricordare che alcuni sottintesi culturali antichi non sono i nostri e quindi abbiamo bisogno di una «traduzione» per comprenderli. A volte ci verrebbe da pensare che questi antichi sottintesi siano davvero difficili, mentre noi ci capiamo immediatamente, mettendo tutto in chiaro. In realtà, anche noi utilizziamo determinati linguaggi culturali, zeppi di sottintesi e «scorciatoie», che però impariamo fin da piccoli, in un lungo apprendistato, e che quindi poi ci suonano assolutamente naturali, come la lingua che abbiamo imparato dai genitori.
Ad esempio, noi siamo abituati a pensare che in un racconto, in un film, in una barzelletta, l’ultimo momento sia il più importante. L’ultima pagina di un libro, l’ultima scena ci devono lasciare il gusto buono, finale, o addirittura la sorpresa che dà improvvisamente senso a tutto il resto. Invece sono rari i contesti in cui ci comportiamo diversamente, come, ad esempio, con le canzoni di musica leggera, che spesso puntano a impressionare soprattutto all’inizio, prendono ancora quota in una parte centrale che spesso è quella che ricordiamo meglio, e poi finiscono ripetendo e sfumando.
Il modo di narrare dell’antichità, come abbiamo già scritto, assomiglia a quest’ultimo «linguaggio culturale»: le cose importanti sono all’inizio o semmai al centro. Le conclusioni spesso ci sembrano mosce, poco significative, e così se le aspettavano gli antichi. E questa è l’impressione che, a una lettura superficiale, potrebbe lasciarci anche il libro dell’Esodo.
Ciò non toglie che anche per l’antichità un libro finisce all’ultima riga, e che il retrogusto lasciato non può non risentire anche delle ultime pagine. I contenuti più importanti del libro dell’Esodo sono già arrivati, eppure anche il capitolo 40 non è semplicemente banale, e chi l’ha composto ha pensato di renderlo in qualche modo significativo. Come?
Capitolo noioso? (Es 40)
Una cosa è chiara: certamente noi non avremmo scritto quell’ultimo capitolo dell’Esodo così come lo leggiamo. In esso si raccontano tutte le indicazioni che Dio affida a Mosè per costruire la tenda del convegno, quel luogo di incontro tra il cielo e la terra che idealmente proseguirà nel Santo dei santi, il punto più interno, intimo e sacro del tempio. È molto probabile che questa pagina per noi suoni noiosa e con poco nerbo. Non l’avremmo messa in un luogo del libro così importante, visibile.
La scelta degli autori è però interessante. All’inizio dell’Esodo non si era parlato di preghiera o di culto, né del Dio creatore. La vicenda era iniziata con un incontro, e costantemente il Dio d’Israele si era presentato innanzi tutto in relazione con il suo popolo. Non aveva esordito chiedendo di pregarlo in certi modi, tempi o parole, non aveva offerto in primo luogo indicazioni morali, ma si era concentrato completamente sulla relazione: «Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio» (Es 6,7). Non sembrava esserci spazio per il rito che, lo sappiamo, si ripresenta sempre uguale e prevedibile, ma rischia di essere difficile da capire, da vivere: tranquillizzante per gli anziani, che sanno come si snoda e come va a finire, noioso per i giovani, perché sembra che non succeda mai nulla di nuovo.
La quotidianità del rito (Es 40,1-33)
Se il rito sembra negare la passione della vita vera, che parrebbe sfuggirle, nello stesso tempo quando l’entusiasmo delle grandi scelte umane deve farsi concretezza, la vita stessa inizia spesso a parlare quel linguaggio: sono i due fidanzati che riascoltano «la nostra canzone», i due sposi che ritornano nello stesso luogo in cui si sono incontrati la prima volta, i due amici che scherzano con le stesse parole che avevano un senso e un’origine anni prima, e ora rinviano «semplicemente» a tutti gli anni in cui sono state ripetute. Con il recupero di quei gesti e parole che rimandano alla passione dell’inizio, si giustifica e rende profondo il cammino quotidiano.
Chi compone il libro dell’Esodo conosce bene queste dinamiche umane, e dopo aver dato all’incontro tra Dio e l’uomo (faticoso, tormentato, non sempre lineare) tutta la centralità che merita, ricorda che per la maggior parte del tempo della vita umana questo incontro non viene vissuto nell’eccezionalità di un roveto che brucia senza consumarsi o del passaggio tra mura d’acqua nel mare, ma nel quotidiano del cammino fatto passo dopo passo, giorno per giorno, senza paure o gioie eccessive.
Chiudendosi con il luogo del rito (quel luogo che accompagnerà Israele nel deserto, ma arriverà fino al centro del tempio), il testo ci dice che quelle vicende straordinarie, vissute solo dalla generazione dell’esodo e richiamate ogni anno a Pasqua, si prolungano nel quotidiano, nell’ordinario, il quale comprende in sé quelle ritualità che rimandano all’evento dell’origine e che quell’evento mantengono presente e vitale.
Ed è significativo che il cuore del rito venga effettivamente colto nella tenda del convegno, nel luogo dell’incontro. Perché il succo del libro non è nella salvezza umana (che pure c’è), né nel riconoscimento della grandezza divina (che non manca), ma nell’incontro tra i due. Ciò che sta a cuore a Dio, che ne dice la gloria e garantisce la vita dell’uomo, è l’incontro, ritualmente garantito da un luogo e da sacerdoti che si prendano cura di mantenerlo simbolicamente vivo.
L’ultima scena (Es 40,34-38)
Ma l’uscita di scena definitiva deve ancora darsi. Semplice e solenne insieme, è una sigla finale adeguata al gran libro che chiude.
Quando tutto è pronto per l’incontro, quando Mosè ha eseguito tutto ciò che il Signore gli ha ordinato di fare, finalmente la nube copre la tenda del convegno. Non c’è neppure bisogno di ricordare quale nube sia e perché non sia una come tutte le altre. È quella presenza divina che ha accompagnato il popolo fin dall’Egitto, che aveva minacciato più volte di abbandonarlo, e che ora invece copre la tenda del convegno, riconoscendola come il proprio luogo. Infatti, la gloria del Signore riempie la dimora.
La gloria di Dio
Abbiamo già parlato della «gloria» di Dio (vedi MC 8-9/2022 p. 33). Non è, dicevamo, la sua esaltazione, ma il suo volto autentico, il suo mostrarsi per ciò che è. E il Dio dell’Esodo decide di mostrarsi nel con-venire, nel radunarsi con altri, nell’alleanza stretta con il popolo. Dio si riconosce innanzi tutto non come creatore del mondo, non come vincitore di nemici, non come garanzia di vita e salvezza (tutte sue caratteristiche vere e autentiche, certo), ma come colui che dimora nell’incontro con l’uomo. Il Dio creatore, che non aveva sopportato di stare da solo, si compie autenticamente vivendo in comunione con noi, in una relazione che può essere soltanto scelta e accolta e mai imposta, perché fatta non di sovrano e suddito, ma di alleati che si trattano alla pari (cosa che l’uomo non può pretendere, ma solo accogliere come un dono divino). Di fronte all’essere umano che sceglie di stare con Lui e gli prepara una dimora per l’incontro, finalmente anche Dio può restare, fermarsi, riposare. Come in una nuova creazione, il punto d’arrivo è lo smettere di fare, e lo stare insieme.
Come per il racconto della creazione in Genesi 1, questo diventa, senza volerlo, un appello a noi, spesso presi dalle tante cose che sentiamo di dover fare. Dio, nostro creatore e modello, riconosce il punto d’arrivo della sua creazione nel riposare.
In cammino
Eppure, ciò non deve far pensare che, finalmente, siamo arrivati a un punto fermo, stabile, definitivo.
Gli israeliti non sono ancora arrivati alla dimora, e quindi non c’è arrivato neanche Dio, che ha deciso di camminare con loro.
Potremmo essere tentati di immaginarlo mentre li prende miracolosamente e li fa volare nella terra promessa, come spesso ci piacerebbe che facesse anche con noi, liberandoci magicamente da paura e fatica (a volte, addirittura, lo accusiamo di non volerci bene, siccome non ci risolve così i problemi).
Eppure, Dio non lo fa, non toglie loro il sudore e l’angoscia di quaranta anni di cammino nel deserto. Resta però con loro, condivide l’instabilità, la stanchezza, le preoccupazioni. Non al loro posto, ma insieme a loro.
Aperti alla sorpresa
Di più. Li invita a non fidarsi della routine, a restare sempre aperti alla novità, alle sorprese. Ci saranno mattine in cui la nube non si alzerà dalla dimora, e allora anche gli ebrei rimarranno nell’accampamento, ad aspettare. Altre in cui invece partirà, e gli israeliti la seguiranno. Ma ci sarà sempre, lungo le notti (e le notti nel deserto sono cupissime e fredde!), la sua presenza come un fuoco nella dimora, un fuoco che illumina e riscalda.
Dio non promette al suo popolo che avrà sempre le farfalle nello stomaco, né la conclusione delle favole, «e vissero tutti felici e contenti». Dio promette di esserci, di camminare insieme a lui, di non abbandonarlo. Prospetta un percorso anche faticoso, lungo, pieno insieme di pericoli, di gioie e di noie. Invita a restare aperti alle novità che possono arrivare, anche se solo sotto la veste del guardare se anche oggi si parte o si resta fermi.
La scoperta del senso
Il lungo cammino del libro, che nella prossima ultima puntata vorremmo riprendere per coglierlo nella sua globalità e attualità, non ci ha portati a «una fine», ma «al fine», che è l’incontro pieno di Dio con l’essere umano. E che non cancella ma anzi dà sapore, gusto e senso a una vita quotidiana, «normale», ma finalmente libera perché in unione rispettosa con chi guida e illumina le vite dei suoi fedeli.
Coloro che servivano il faraone da schiavi, ora prestano un servizio libero, adulto e dignitoso a un Dio che vuole la loro vita e la loro gioia. Non c’è che un passo piccolo per sentirsi dire: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
Angelo Fracchia (Esodo 19 – continua)
Mondo. Schiavitù. C’era una volta (e c’è ancora)
Nel mondo sono cinquanta milioni le persone in schiavitù. In questo numero (incredibile) rientra chi lavora forzatamente e chi si sposa contro la propria volontà. La maggior parte delle vittime sono donne e bambini.
Non occorre andare a rileggere i libri di storia e, spesso, non occorre neppure andare lontani: la schiavitù esiste ancora oggi e si può trovare vicino a noi, in Italia.
Saman aveva 18 anni. Di famiglia pakistana, la ragazza è scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Probabilmente uccisa dal padre Shabbar Abbas e altri familiari per non aver accettato le nozze «combinate» con un cugino. Un tentativo di matrimonio forzato finito in tragedia.
Sempre in Italia c’è il fenomeno dei minori vittime di sfruttamento sessuale. Secondo l’annuale rapporto di Save the children esso riguarda, in grande maggioranza, ragazze nigeriane, ma anche della Costa d’Avorio e di alcuni paesi dell’Europa orientale (Romania, Bulgaria, Albania). La Ong li chiama «piccoli schiavi invisibili».
Se in Italia, eventi come il matrimonio forzato o il traffico di minori sono molto rari (il primo) o con numeri in crescita ma ancora contenuti (il secondo), diffuso è invece lo sfruttamento del lavoro nelle campagne italiane. Nel caso sussista anche coercizione (violenza, minacce, sequestro dei documenti, restrizione della libertà personale), esso si trasforma in lavoro forzato. Difficile dire quante siano le persone in condizioni di schiavitù nei campi di Sicilia, Calabria, Puglia, ma anche di Maremma, Veneto e Lombardia. Pagate 3 o 4 euro all’ora e in nero, sono in gran parte immigrati nordafricani e asiatici, spesso senza documenti. Stesse condizioni vengono sovente alla luce in aziende tessili di piccole dimensioni operanti sul territorio nazionale. Come, ad esempio, è stato scoperto a Prato e nel napoletano.
C’è anche la Apple
Lo scorso settembre è uscito il rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo, nell’acronimo inglese) sulla schiavitù moderna.
«La schiavitù moderna – si legge nelle prime pagine – è composta da due componenti principali: il lavoro forzato e il matrimonio forzato. Entrambe si riferiscono a situazioni di sfruttamento che una persona non può rifiutare o non può abbandonare a causa di minacce, violenza, inganno, abuso di potere o altre forme di coercizione. Le stime globali indicano che nel 2021, ogni giorno, circa 49,6 milioni di persone si trovano in condizioni di schiavitù moderna, costrette a lavorare contro la propria volontà o in situazione di matrimonio forzato».
In entrambe le condizioni, le vittime preferite sono le donne e i minori. Il lavoro forzato riguarda soprattutto i migranti, a causa della loro condizione di vulnerabilità e ricattabilità (quando sono irregolari). I settori d’impiego sono l’agricoltura, le fabbriche manifatturiere e il lavoro domestico.
I datori di lavoro sono in maggioranza privati, ma ci sono anche entità statali. Accade, per esempio, in Myanmar, con la giunta militare al potere dal febbraio 2021. O nella regione dello Xinjiang, dove la Cina – secondo il rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu uscito il 31 agosto – costringerebbe al lavoro forzato le minoranze uigure (di fede islamica).
In questo scandalo, sono rimaste coinvolte anche aziende fornitrici della Apple. La multinazionale californiana si è sempre difesa affermando di avere tolleranza zero verso il lavoro forzato e che, nei cinquanta paesi dove operano i suoi fornitori, i controlli sono molto severi. Stesse accuse sono state rivolte ad altri big del mondo digitale come Amazon, Google, Microsoft e Facebook.
Tra le mura domestiche
Ancora meno noto è il lavoro schiavo nei servizi e, in particolare, nell’ambito domestico. In Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Kuwait, Oman, ma anche Giordania e Libano, esso si basa su una interpretazione distorta del sistema di regole noto come «kafala», nato inizialmente come adozione islamica e poi estesosi ai rapporti lavorativi tra famiglie locali (gli «sponsor») e immigrati assunti come domestici (la Ilo ha stimato oltre tre milioni di persone).
Sono conosciuti gli abusi sulle donne etiopi impiegate in Libano o sul personale filippino in Arabia Saudita (paese che, in teoria, ha abolito la kafala nel marzo 2021). Per parte sua, Amnesty
International ha denunciato con forza le condizioni disumane imposte in Qatar ai lavoratori stranieri (da India, Nepal e Bangladesh) impiegati nella preparazione del mondiale di calcio in programma in questi mesi di novembre e dicembre.
Lo sfruttamento dei lavoratori domestici avviene anche nei paesi latinoamericani, in particolare in Perù. Prima della pandemia di Covid-19 (che ha portato a moltissimi licenziamenti), la Ilo stimava in 450mila i collaboratori familiari (quasi tutti donne, trabajadoras del hogar) nel paese andino.
In Perù, il lavoro domestico è regolato dalla legge e sono attive varie organizzazioni sindacali, ma permangono situazioni di sfruttamento se non di schiavitù. Soprattutto in presenza di contratti verbali o di minori.
Sfruttamento online
La condizione di schiavitù – sia nella forma di lavoro che di matrimonio – diventa ancora più intollerabile quando i soggetti coinvolti sono minori.
Due su cinque di quelli costretti a sposarsi erano bambini quando il matrimonio ha avuto luogo. Tra questi, il 41% è stato costretto a sposarsi prima dei 16 anni, con una netta prevalenza di ragazze (87% contro 13%). Il matrimonio forzato – più frequente nei paesi arabi e nei paesi asiatici – produce altre forme di violenza: sfruttamento sessuale, servitù domestica, abusi fisici e psicologici, sia dentro che fuori casa.
Impressionante è poi il numero di bambini vittime di sfruttamento sessuale commerciale: 1,7 milioni su 6,3, circa un quarto del totale. Il genere è un fattore determinante: quasi quattro persone su cinque intrappolate nello sfruttamento sessuale forzato sono ragazze o donne. Inoltre, con il Covid-19 si è notevolmente amplificato il rischio di mercimonio sessuale dei minori online. Internet sta creando nuovi canali di comunicazione per la tratta dei bambini e per collegare le vittime con i loro abusatori.
Il rapporto Ilo del 2022 conferma che i due obiettivi di porre fine alla schiavitù infantile entro il 2025 e alla schiavitù in tutte le sue forme entro il 2030 rimangono lontani. I ricercatori spiegano la situazione attuale in questi termini: «Le crisi che si sono sommate negli ultimi anni – la pandemia di Covid-19, i conflitti armati e i cambiamenti climatici – hanno portato a un’interruzione senza precedenti dell’occupazione e dell’istruzione, a un aumento della povertà estrema e delle migrazioni forzate, nonché a un’impennata delle denunce di violenza di genere. Tutto questo contribuisce ad aumentare il rischio di schiavitù moderna nelle sue diverse forme. Come di solito accade nei periodi di crisi, sono coloro che si trovano già in situazioni di maggiore vulnerabilità – tra cui i poveri e gli emarginati sociali, i lavoratori dell’economia informale, i lavoratori migranti irregolari e le persone soggette a discriminazione – a pagare il prezzo più alto».
Il prezzo del mercato
Lo scorso 14 settembre, due giorni dopo l’uscita del rapporto dell’Ilo, la Commissione europea ha proposto di proibire nei paesi dell’unione l’importazione e la vendita di prodotti realizzati con il lavoro forzato. La proposta è importante, ma realizzarla sarà complicato. Sono infatti tante le multinazionali e le aziende che sfruttano il lavoro schiavo per abbassare i costi dei prodotti e aumentare i loro profitti. Perché, come sempre, è il mercato che prevale sull’uomo.
I voli della morte, durante la dittatura in Argentina, hanno ucciso, facendole sparire, migliaia di persone. Con il suo progetto fotografico, Giancarlo Ceraudo, ne ha riparlato aiutando la giustizia a fare il suo corso.
Intervisto Giancarlo Ceraudo mentre si trova in Argentina, a casa di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice sopravvissuta durante la dittatura nel suo paese ai centri di detenzione illegale dell’Esma1 (Escuela de mecánica de la armada, la scuola ufficiali della marina argentina di Buenos Aires).
La loro amicizia dura dal 2007, anno in cui i due hanno iniziato a collaborare. Già dal 2001, però, Giancarlo aveva deciso di lavorare sull’Argentina: una scelta cruciale, che lo avrebbe portato a sviluppare uno dei progetti più importanti per la sua carriera, Destino final, una lunga ricerca fotografica sui «voli della morte» che in Argentina hanno ucciso migliaia di oppositori politici durante la cosiddetta Guerra sporca fra il 1976 e il 19832.
Viaggio e pigrizia
La fotografia, per Giancarlo, non è un fuoco sacro, né un sogno da inseguire a tutti i costi, bensì una scelta compiuta per poter coltivare, come dice lui stesso, il viaggio e la pigrizia.
Fin da ragazzo, infatti, Giancarlo si domanda se ci sia il modo per guadagnarsi da vivere senza doversi chiudere fra quattro mura e stare a regole imposte da altri.
Attratto dal «dolce far niente», ogni tanto chiede al padre come fare per vivere senza lavorare. La risposta è sempre la stessa: «Non siamo abbastanza ricchi».
Studiare gli piace e, divenuto adulto, intraprende dapprima la facoltà di giurisprudenza, poi quella di antropologia. Ma proprio non accetta l’idea di avere un orario fisso, di essere costretto in qualche modo a rimanere fermo in un posto.
Straordinarietà
La fotografia come strumento per lavorare divertendosi arriva nella sua vita negli anni ‘90, quando ha già superato i vent’anni. Durante un viaggio in Perù con un amico appassionato di fotografia, prende in mano per la prima volta una fotocamera.
Dotato di un forte senso estetico, decide di applicarlo alle immagini, e il risultato è da subito straordinario.
Intuito il proprio potenziale e non potendo permettersi le poche scuole di fotografia esistenti, capisce che non può concedersi la mediocrità: «Sono sempre stato severo con me stesso: o sono bravo, bravo davvero, o devo lasciar perdere. Non posso permettermi la modestia. Un risultato modesto significa non poter fare questo lavoro».
Dal Maxxi al Sud America
Giancarlo Ceraudo è il fotografo più giovane a entrare a far parte della prima collezione di fotografia contemporanea del Maxxi di Roma, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, con «Atlante italiano» del 2003.
Il suo lavoro è stato segnalato al Maxxi dall’architetto Pippo Ciorra che ne ha intuito il potenziale.
Chiamato dal museo a corredare le sue fotografie con una frase, Giancarlo scrive: «Spesso penso che la fotografia sia un capolavoro della pigrizia: con talento e molta fortuna, regala infatti la possibilità di raccontare un mondo in una frazione di secondo e per me, che sono un inguaribile pigro, la fotografia diventa una possibile redenzione». Un punto di vista lontano dai colleghi che si descrivono appassionati, innamorati, forse anche ossessionati dalla fotografia.
Da questo momento inizia per Giancarlo un periodo di grande lavoro e decide di concentrarsi sull’America Latina, un’area geografica poco coperta dai fotogiornalisti ma piena di storie da raccontare.
Va in Cile, Paraguay, Brasile, dando vita a reportage autoriali.
«Destino final»
Intanto Giancarlo si è già trovato nel 2001 a seguire in Argentina la crisi economica che stava colpendo il paese. Ed è a Buenos Aires che inizia una storia che il fotografo seguirà per quindici anni dando vita al progetto «Destino final». Un progetto che definirà il «meno professionale della mia carriera», perché quando si segue una realtà per così tanto tempo diventa parte della propria vita. Partendo dalla sua passione per la storia che lo ha portato ad approfondire i temi delle dittature e degli stermini di massa, presto si accorge che quelle realtà studiate sui libri di scuola, in Argentina sono ferite ancora sanguinanti.
Vivere in Argentina, infatti, significa fare i conti con la realtà passata ma ancora bruciante della dittatura. E quando inizia a documentarsi, la visione del film «Garage Olimpo» di Marco Bechis, lo segna profondamente.
Parla con i testimoni, incontra i sopravvissuti, sente che c’è una storia da raccontare. Ma come farlo tramite la fotografia quando di quella storia rimangono solo ricordi e racconti? La fotografia di reportage, infatti, ha bisogno di situazioni vive che accadono davanti all’obiettivo.
La storia negli oggetti
Forse per via delle sue origini – è romano, innamorato della sua città e della storia che in essa si incontra -, comprende che l’unico modo di fotografare il passato è attraverso gli oggetti.
Si ricorda di quando, da bambino, suo padre lo portava all’aeroporto da un amico pilota e, insieme, sorvolavano la città. Immaginava le vite passate fra quelle pietre e monumenti.
Si domanda: possono i luoghi conservare i ricordi e le pietre qualcosa di ciò che è stato?
È così che il fotografo si chiede dove siano finiti gli aerei utilizzati per i famigerati «voli della morte», pratica di sterminio di massa attuata fra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca.
La questione legata ai voli della morte è particolarmente spinosa, e ha risonanza non solo in
Argentina ma anche a livello internazionale, anche perché resta ancora sospesa da un punto di vista giudiziario.
Si sono cercate le vittime, i sopravvissuti, ma non gli aerei. Eppure essi sono stati gli strumenti di quel processo terribile e doloroso. Giancarlo immagina che trovare gli aerei possa voler dire trovare anche le persone coinvolte in quel massacro sistematico. Sente, però, di aver bisogno di aiuto perché, pur sapendo gestire storie complesse e avendo familiarità con le inchieste, questa va oltre le sue possibilità e da solo non può farcela.
L’aereo della morte
È a questo punto che entra in scena Miriam Lewin, giornalista e scrittrice, vittima della dittatura, sequestrata e reclusa all’Esma, la scuola militare della Marina.
È lei a condurre Giancarlo in un viaggio della memoria. Gli racconta gli orrori dei campi di detenzione e lo conduce in alcuni dei luoghi centrali per la storia di «Destino final».
Insieme trovano le tracce di cinque degli aerei utilizzati per i voli della morte. Due risultano caduti, altri due venduti al Lussemburgo e non rintracciabili, ma uno è ancora utilizzato per il trasporto della posta e si trova a Fort
Lauderdale, in Florida, negli Usa.
È in questo aereo che Miriam e Giancarlo trovano i documenti dell’atto di acquisto sui quali sono riportati date e nomi di chi, prima di arrivare a Fort Lauderdale, l’ha pilotato.
Ma non sono documenti qualsiasi. Riportano date ben precise e le liste dei voli effettuati fra il 1976 e il 1979. Fra questi, c’è anche quello del 14 dicembre 1977.
Gettati nel mare
La traccia da cui Giancarlo e Miriam partono per trovare quei voli è una fotografia: ritrae una suora vittima di una retata del dicembre 1977 nella Chiesa di Santa Cruz, luogo nel quale gli attivisti contro il regime e le madri di Plaza de Mayo3 si ritrovavano per organizzare la lotta.
In quella retata erano state arrestate due suore. Una di loro sarebbe stata fotografata con il giornale «La Nación», datato 14 dicembre 1977, in mano.
Gli agenti dell’Esma in quel modo avrebbero sostenuto che al momento della foto le suore erano vive, e che sarebbero poi state rapite dai guerriglieri di estrema sinistra, i «montoneros», perdendone le tracce. Entrambe le suore, invece, sarebbero state uccise quella notte stessa, lanciate, nude e semistordite, insieme ad altri attivisti, dai portelloni dell’aereo in volo.
Il corpo di una di loro sarebbe stato ritrovato a riva qualche giorno dopo, spinto dalla «sudestada», insieme ad altri.
I nomi delle persone lanciate dai voli della morte erano fedelmente registrati nei documenti ritrovati da Giancarlo e Miriam sull’aereo di Fort Lauderdale.
Foto per la giustizia
A seguito del ritrovamento dell’aereo e dei documenti in esso contenuti, vengono arrestati tre piloti: un militare ormai in pensione e due comandanti di voli di linea ancora in attività.
Con uno di essi, divenuto, dopo la fine della dittatura, pilota di linea, Giancarlo ha anche volato da Roma a Buenos Aires.
Arrestati nell’aprile del 2011, saranno condannati all’ergastolo nel novembre del 2017.
E sarà poco prima di quel pronunciamento che il lavoro fotografico di Giancarlo si fermerà.
Al momento dell’arresto dei piloti, nel 2011, il fotografo fa parte della nota agenzia fotografica Noor. I suoi colleghi gli dicono che dovrà essere la foto del processo e della condanna a chiudere il suo lavoro, ma lui decide di non farlo. Vuole chiudere il libro prima. C’è un momento in cui bisogna fermarsi.
Sì, perché scattare quell’ultima foto al banco degli imputati sarebbe troppo: lì, in fondo, ce li ha portati lui, ha influito sul destino di quegli uomini fotografando l’aereo, cercando prove e documenti; ma lui è solo un testimone, non è come Miriam e altri sopravvissuti che ora possono permettersi gioia, e anche un certo senso di giustizia ristabilita.
Parte per Cuba prima della fine del processo. Lì, per l’assenza di internet, è quasi impossibile seguire quello che succede in Argentina. Lo raggiunge comunque la notizia dell’ergastolo. Giancarlo è felice per Miriam e per tutti quelli che hanno avuto giustizia, ma sente di aver fatto solo il proprio dovere.
Se si hanno dubbi sull’importanza del fotogiornalismo oggi, il lavoro di Giancarlo Ceraudo ci aiuta a fugarli e a farci comprendere, ancora una volta, la potenza di una storia sapientemente raccontata.
Valentina Tamborra
Note:
1- I voli della morte furono una pratica attuata tra il 1976 e il 1983, durante la Guerra sporca in Argentina nell’ambito del cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale. Migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, furono gettati in mare sotto l’effetto di droghe da aerei o elicotteri militari.
2- Durante la dittatura l’Esma divenne il più grande e attivo centro di detenzione illegale ove le persone scomode al regime della giunta militare venivano segregate e torturate. Delle circa 30mila persone assassinate, più di 5mila passarono da questi centri, solo 500 circa sono i sopravvissuti.
3- Le Madri di Plaza de Mayo è un’associazione formata dalle madri dei desaparecidos, i dissidenti o presunti tali scomparsi durante la dittatura militare.
Giancarlo Ceraudo
Nato a Roma nel 1969. Fotografo documentarista, ha lavorato in America Latina, Medio Oriente e in Europa sui diritti umani e su questioni sociali e culturali.
Suoi lavori sono stati pubblicati su media italiani e internazionali come L’Espresso, Internazionale, El País, Geo, Sunday Times Magazine, New Yorker, Libération, National Geographic, Vrij Nederland, Polka Magazine, 6 Mois. Le sue fotografie fanno parte della collezione del Maxxi di Roma e sono state oggetto di mostre in Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti.
La vita del grande fisico tedesco non è stata facile. Problemi familiari, invidie, incomprensioni, accuse (anche di comunismo) non sono mai mancati. Lo ricordiamo a cent’anni dall’assegnazione del premio Nobel (ma non per la sua teoria della relatività).
Il 9 novembre 1922, il Comitato per il premio Nobel per la fisica decise di assegnare, con un anno di ritardo, il premio per il 1921 ad Albert Einstein «per i suoi servizi alla fisica teorica, in particolare per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico».
Il premio assegnato al fisico tedesco venne conferito con un anno di ritardo perché nel 1921 la Reale Accademia delle scienze svedese non aveva ritenuto alcun candidato meritevole del premio, riservandosi il diritto di rivedere la propria posizione in seguito. Fu Allvar Gullstrand, uno dei cinque membri che doveva valutare le candidature, a nutrire particolare ostilità nei confronti della teoria della relatività di Einstein, ancora di difficile comprensione. Naturalmente gli accademici svedesi erano imbarazzati per non aver ancora concesso il massimo onore a uno scienziato così popolare che, dal 1910 al 1922, era stato nominato
annualmente come candidato (ad eccezione del 1911 e del 1915) senza mai ottenere il premio. Fu un altro membro della Reale Accademia delle scienze, Carl Wilhelm Oseen, a trovare la soluzione: dato che non si riusciva a laureare Einstein per la sua teoria della relatività, lo propose per il suo articolo scritto, sempre in quell’annus mirabilis 1905, sull’effetto fotoelettrico.
Einstein apprese la notizia del conferimento del premio il 13 novembre 1922 mentre stava per imbarcarsi a Shanghai diretto verso il Giappone. Con lui c’era la seconda moglie Elsa Löwental, che era anche sua cugina di primo grado. Gli anni felici passati con Mileva Marić, la prima moglie da cui aveva divorziato nel 1919, erano ormai dimenticati e mentre Einstein trovava nuovo slancio nella sua vita privata e scientifica, l’ex coniuge arrancava a Zurigo con i loro due figli Hans Albert ed Eduard (a cui, in seguito, sarebbe stata diagnosticata una forma di schizofrenia).
Tra Svizzera e Serbia
Il centenario del Nobel ad Albert Einstein è l’occasione per ripercorrere i passi compiuti a Berna dall’allora felice coppia Einsten-Marić che lo stesso Albert aveva soprannominato, prendendo spunto dal proprio cognome, «Una pietra» (da «ein», una, e «stein», pietra).
I due si erano conosciuti – lei ventenne lui diciassettenne – nel 1896 all’Istituto politecnico svizzero di Zurigo (oggi Istituto federale svizzero di tecnologia, Eth). La Svizzera era uno dei pochi paesi in Europa dove alle donne era permesso studiare materie scientifiche, ma l’amore sbocciato con Albert non le permise di conseguire il diploma: nel 1902 Mileva rimase incinta e nello stesso anno, a Novi Sad, la città in cui abitava la famiglia di lei e dove si era recata per partorire, nacque una bambina a cui venne dato il nome di Lieserl. Poco dopo, della figlia si
persero le tracce: c’è chi dice che morì, chi invece afferma sia stata data in adozione. Da parte loro, i coniugi Einstein non ne fecero più cenno pubblicamente (l’ipotetica lettera alla figlia scritta da Einstein che circola su internet è un falso).
Nel 1902 Albert, che non aveva potuto seguire la fidanzata in Serbia, si trasferì a Berna occupando un posto nell’Ufficio federale della proprietà intellettuale. Il novello fisico rimase immediatamente estasiato dalla città, tanto da scrivere a Mileva: «Berna è deliziosa, è una di quelle città in cui vivere è confortevole e dove si può vivere bene come a Zurigo».
Einstein vi sarebbe rimasto per i successivi sette anni (traslocando sette volte), ma in questa piccola cittadina sembrava avesse trovato il suo equilibrio vitale. Pertanto, dopo aver acquisito una certa stabilità economica, chiese alla sua amata di tornare in Svizzera e di sposarlo. Lei acconsentì e nel 1903 divenne la signora Einstein.
Passarono i successivi due anni, forse i più tranquilli e felici della loro vita, in un bell’appartamento in via Kramgasse 49, dalle cui finestre era possibile osservare lo Zytglogge, il famoso orologio medioevale che si dice abbia ispirato ad Einstein l’idea della relatività del tempo. Albert lavorava sei giorni alla settimana all’ufficio brevetti, dalle 7 alle 18 anticipando l’uscita alle 17 solo al sabato. Tornava a casa e si rimetteva al lavoro sulla piccola scrivania cercando di completare le sue teorie (la leggenda che Einstein lavorasse alle proprie idee durante gli orari d’ufficio e di nascosto dal suo superiore sembra sia infondata).
Gli Einstein sembravano veramente «una pietra»: affiatati e innamorati, incontravano amici, discutevano di fisica. Nel 1904 ebbero un altro figlio, Hans Albert, e le aspirazioni di Mileva di poter conseguire il diploma e intraprendere la carriera di scienziata si dileguarono definitivamente.
Nell’appartamento di Kramgasse 49, mentre il marito continuava le sue ricerche, Mileva puliva, riassettava, cucinava, accudiva il piccolo Hans.
Poi arrivò il famoso 1905, l’annus mirabilis. In pochi mesi, dal 18 marzo al 27 settembre, Albert Einstein collezionò una serie di straordinari successi pubblicando i suoi articoli sulla più prestigiosa rivista scientifica di allora, gli Annalen der Physics.
Iniziato con l’articolo sull’effetto fotoelettrico che gli sarebbe valso il Nobel, l’annus mirabilis terminò il 27 settembre 1905 con la pubblicazione de L’inerzia di un corpo dipende dal contenuto di energia? in cui compare la famosa relazione tra energia e massa collegandola a un suo precedente articolo pubblicato nel giugno 1905 sulla relatività ristretta.
Contributi ignorati?
La paternità degli articoli che resero famoso Einstein non fu mai messa in discussione fino a quando, nel 1969, Desanka Trbuhovi-Gjuri scrisse una biografia di Mileva Marić in cui asseriva che il contributo della moglie serba nelle teorie di Einstein fosse stato decisivo.
Nonostante non si siano mai trovate prove definitive su questa tesi, da quel volume nacque una fiorente letteratura che sarebbe sfociata anche in serie televisive che rivalutavano la collaborazione scientifica di Mileva alle scoperte del marito.
Oggi, gli studiosi sono pressoché unanimi nell’asserire che la Marić non destreggiasse sufficientemente la matematica per poter assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Einstein. Del resto nell’abbondante carteggio di Einstein, in cui compaiono le lettere anche della moglie, non vi sono indicazioni di un coinvolgimento diretto di Mileva.
I rapporti tra i coniugi erano ancora ottimi quando gli Annalen pubblicarono i lavori del fisico tedesco, quindi perché, si chiedono in molti tra storici e scienziati, negli scritti originali della relatività ristretta, Albert Einstein avrebbe ringraziato l’amico Michele Besso per «essere rimasto accanto nel mio lavoro sul problema qui discusso e di cui gli sono debitore per i numerosi e valenti suggerimenti» senza citare la moglie?
Forse, accanto al supporto dato dalla moglie, la grande ingegnosità della mente di Einstein potrebbe essere stata stimolata dalla ricchezza culturale di Berna e dall’atmosfera di tranquilla operosità che la cittadina emanava.
Le passeggiate che sicuramente lo scienziato faceva sulle colline circostanti e nel Rose Garden, dove ancora oggi c’è una panchina con una sua statua, potrebbero aver stimolato la sua visione. Le caffetterie che si aprono sull’arteria principale furono teatro di discorsi con gli amici scienziati. Probabilmente fu in uno di questi locali che Michele Besso introdusse all’amico i lavori di Ernst Mach, decisivi per la futura visione fuori dagli schemi della fisica che accompagnò Albert.
Gli «anni felici trascorsi a Berna», come Einstein avrebbe descritto in seguito quello sprazzo di vita passata nella capitale svizzera, sarebbero rimasti sempre impressi nei ricordi dello scienziato.
A Berna si consolidò anche lo stretto sodalizio con il matematico Conrad Habicht e il filosofo Maurice Solovine. I tre, ai quali talvolta si aggiungeva anche Besso, si riunivano spesso prima nell’appartamento di Gerechtigkeitsgasse al 32 e poi in Kramgasse 49 per discutere non solo di fisica, ma anche di religione, politica, filosofia. Mileva, a quanto avrebbe scritto Solovine, si limitava a osservare: portava in tavola gli stuzzichini (in genere, salsicce, formaggio, frutta), serviva il caffè, il tè senza partecipare alle discussioni. L’Akademie Olympia (Accademia Olimpia), come venne chiamato il gruppo dagli stessi partecipanti, giocò un ruolo essenziale nella formazione eclettica di Einstein. Nel salotto di casa, col sottofondo dello sferragliare dei tram scandito dai battiti dello Zytglogge, i tre discutevano i temi trattati da David Hume, John Stuart Mill, Henri Poincaré, Baruch Spinoza. Di tanto in tanto, Einstein dilettava gli amici suonando il suo violino.
Nel 2005, la casa in cui gli Einstein abitarono venne trasformata in museo, la «Einsteinhaus», mentre il Museo storico di Berna dedicò un’intera sezione alla coppia.
Maldicenze e invidie universitarie
Berna fu davvero il palcoscenico dove si dipanarono gli anni più spensierati di Einstein. Con la locale università il rapporto fu invece più conflittuale che collaborativo.
Forse Einstein si risentì per il rifiuto ricevuto il 28 ottobre 1907 dalla facoltà dell’ateneo bernese della sua domanda per l’abilitazione all’insegnamento in Fisica teorica. La ricusazione non fu motivata dal rigetto delle sue teorie, come è stato recentemente ipotizzato, ma da un cavillo burocratico: Einstein non aveva presentato la tesi di abilitazione. La espose qualche settimana più tardi perché il 27 febbraio 1908 la stessa università invitò il fisico a una lezione di prova con alcuni studenti. La sua esposizione non sembra fosse stata apprezzata dagli studenti: molti trovarono i suoi concetti interessanti, ma spiegati in modo poco comprensibile e tanti abbandonarono il corso prima della sua conclusione.
Alla fine, ad Einstein venne proposto una Privatdozent che gli permetteva di diventare un docente privato esterno e senza paga, che avrebbe potuto tenere lezioni nelle aule dell’università raccogliendo le tasse di iscrizione ai suoi corsi.
L’esperienza fu però un fallimento: «L’università è un letamaio. Non insegnerò lì, sarebbe una perdita di tempo», scrisse a Michele Besso.
Come molti suoi colleghi, Einstein non riusciva a esprimere con concetti chiari e semplici le sue idee che risultavano astruse al corpo studentesco.
La gloriosa epopea bernese della famiglia Einstein terminò il 6 luglio 1909 quando, a seguito dell’accoglimento della sua domanda di insegnamento al Politecnico di Zurigo, rassegnò le sue dimissioni dall’Ufficio brevetti di Berna e, assieme a Mileva e a Hans Albert, si trasferì a Zurigo.
Qui, a differenza di Berna, il suo essere ebreo lo portò a subire maldicenze da parte dei suoi colleghi. Altra città e altri tempi per il futuro premio Nobel per la fisica.
Piergiorgio Pescali
L’uomo, la religione, le idee
Einstein, ebreo e pacifista
Albert Einstein nacque a Ulm, nella regione tedesca del Württemberg, il 14 marzo 1879 da una famiglia ebrea ashkenazita (da «Ashkenaz», il nome ebraico della regione del Reno, dove gli ebrei di lingua yiddish si stanziarono nel medioevo). A Monaco, dove la famiglia si era trasferita, Einstein frequentò le scuole cattoliche, ma fu un altro ebreo di origine lituana, Max Talmud, a scoprire il suo talento per le materie scientifiche. La passione per la scienza allontanò Einstein dalla religione: in una lettera del 1929 indirizzata a un rabbino, scrisse di credere a un Dio in armonia con gli esseri viventi più che al Dio trascendente della tradizione ebraica.
Questa sua idea di essere supremo panteistico spinoziano lo portò ad abbracciare il suo pacifismo che, assieme al sionismo, ebbe un peso determinante nella vita sociale dello scienziato (nella sfera privata, invece, Einstein non fu così mite e fu un padre assente nella vita dei figli).
Poche volte nella sua vita, Einstein trasgredì la sua vena pacifista: la lettera inviata a Roosevelt in cui chiedeva al presidente Usa di avviare un programma per sviluppare la bomba nucleare, fu una parentesi dovuta al terrore di vedere Hitler trionfare in Europa.
Il Time fu implacabile nel dedicargli la copertina del 1° luglio 1946 in cui lo ritraeva accanto a un fungo atomico. In realtà, l’appellativo di «padre della bomba atomica», che per anni lo rincorse con suo disappunto, fu del tutto ingiustificato, visto che si rifiutò di collaborare al «progetto Manhattan», il programma di ricerca e sviluppo che portò alla produzione dell’arma nucleare. Il suo impegno per il disarmo e per il dialogo tra Usa e Urss gli procurò guai negli Stati Uniti fino a essere accusato di simpatie comuniste.
La nascita dello stato di Israele fu salutata da Einstein con favore, ma rimase sempre scettico sulla partizione tra arabi ed ebrei. L’unica volta che visitò la Palestina fu nel 1922, al ritorno da un viaggio in Giappone. Nel 1952, alla morte di Chaim Weizmann, il suo amico e primo ministro israeliano David Ben-Gurion gli offrì la presidenza dello stato, che il fisico rifiutò.
L’ultima sua grande incursione pubblica fu la firma del «manifesto Russell», la dichiarazione del 1955 (anno in cui Einstein morì) che, partendo dalla constatazione del pericolo posto dagli arsenali nucleari, chiamava i potenti della Terra a cercare una soluzione pacifica dei conflitti. La pubblicazione del manifesto portò anche alla fondazione del movimento Pugwash che si prefigge l’eliminazione delle armi di distruzione di massa nel mondo.
Piergiorgio Pescali
Righi-Einstein e l’effetto fotoelettrico
L’effetto fotoelettrico, motivo del conferimento del premio Nobel per la fisica ad Albert Einstein nel 1922, era già noto da tempo. Fu l’italiano Augusto Righi nel 1888 a dare il nome di fotoelettrico al fenomeno di emissione di elettroni che avviene quando un metallo è colpito da una radiazione elettromagnetica. Quello che Einstein fece, nel suo lavoro intitolato «Un punto di vista euristico sulla produzione e trasformazione della luce», fu di spiegarlo correttamente ipotizzando che la luce fosse formata da piccole particelle, i fotoni, che, trasportando una certa quantità di energia, potevano eccitare gli elettroni di un atomo. Se l’energia trasmessa dai fotoni fosse stata sufficientemente alta, gli elettroni avrebbero potuto liberarsi dal legame che li teneva uniti al loro nucleo.
Grazie al suo articolo, scritto a Berna il 17 marzo 1905 e pubblicato dagli Annalen der Physics il successivo 9 giugno, venne dimostrato che la luce, o meglio i fotoni, potevano comportarsi sia come onde che come particelle. (PP)
Il libro
Piergiorgio Pescali, autore di questo articolo e storico collaboratore di MC, ha pubblicato recentemente un nuovo libro sulla guerra in Ucraina: Il pericolo nucleare in Ucraina, Mimesis Edizioni, Milano 2022.
L’auto migliore è quella che non si ha
Dal 2035 nei paesi dell’Unione europea si potranno vendere soltanto auto elettriche. Si tratta di una vera rivoluzione?
Con 339 voti a favore e 24 astenuti, l’8 giugno 2022 il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione europea tesa a vietare la vendita di auto a motore a partire dal 2035. Per diventare operativo il provvedimento necessita di un’ulteriore ratifica da parte del Consiglio europeo, l’organo che rappresenta i capi di governo, ma tutti la danno per certa dal momento che il 30 giugno è già stato dato un parere positivo di massima.
Cina, Stati Uniti e Ue
La decisione di mettere definitivamente al bando, seppur fra 13 anni, la vendita di auto a motore termico si iscrive nella più ampia battaglia contro le emissioni di anidride carbonica che l’Unione europea ha dichiarato di voler perseguire. Scelta che va ad aggiungersi alle misure già varate nel 2021 attraverso il provvedimento denominato «Fit for 55» che si pone l’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 55% entro il 2030.
Con emissioni annuali pari a 3,5 giga tonnellate, ossia il 7,5% del totale mondiale, l’Unione europea è il terzo produttore al mondo di gas a effetto serra. Prima di lei c’è la Cina che ne emette 12 giga tonnellate e gli Stati Uniti che ne emettono 5,7 giga tonnellate. Ma, pur risultando fra i primi tre inquinatori mondiali, l’Unione europea si ritiene la più impegnata nella lotta contro l’anidride carbonica. Tant’è che, nel 2020, aveva livelli di emissioni ridotti del 34% rispetto a quelli del 1990, benché organizzazioni come Climate works foundation sostengono che il dato è falsato dal fatto che il calcolo comprende solo le emissioni prodotte internamente, mentre esclude quelle incorporate nei prodotti che importiamo dall’estero. Non solo beni finali come smartphone, auto, elettrodomestici, ma anche semilavorati come metalli, semiconduttori, pellami. Dato di non poco conto considerato che, negli ultimi anni, molte produzioni nocive sono state esportate in altri paesi consentendoci di alleggerire la nostra impronta di carbonio. Con il risultato che gli inquinatori risultano altri, magari la Cina o l’India, ma i veri beneficiari siamo noi, potendoci pure spacciare per virtuosi. Climate works foundation calcola che, se tenessimo conto anche delle emissioni incorporate nelle importazioni, la nostra quota di anidride carbonica risulterebbe più alta dell’11%.
Un ambito nel quale le nostre emissioni sono decisamente cresciute è quello dei trasporti. L’aumento più marcato si è avuto nel settore aereo dove le emissioni sono più che raddoppiate fra il 1990 e il 2019. Ma anche le emissioni su strada hanno visto un aumento del 20% nello stesso periodo. La conclusione è che oggi auto e furgoni contribuiscono al 15% di tutta l’anidride carbonica emessa nell’Unione europea. Ammontare che le autorità europee vogliono eliminare mettendo al bando l’auto a motore. Ma con quale prospettiva futura di mobilità?
Auto (bus) a Idrogeno
Di risposte possibili ce ne sono varie, ma quella verso la quale il sistema sembra orientarsi è una sola: il cambio di tecnologia. L’idea, insomma, è di continuare a concepire la nostra mobilità basata sull’auto privata, la quale invece di funzionare a benzina, funzionerà a elettricità. Ma con quale tecnologia e a quale costo economico, sociale e ambientale?
Ci sono due modi per fare funzionare automobili dotate di motori elettrici: con celle a combustibile e con batterie. Le prime dispongono di un serbatoio di idrogeno che alimenta un dispositivo elettrochimico (la cella combustibile) capace di produrre energia elettrica grazie a una particolare interazione fra idrogeno e ossigeno. Il secondo tipo di auto, invece, funziona con batterie a ioni di litio che si ricaricano collegandosi alla rete elettrica. Entrambi i sistemi presentano le loro problematiche.
Nel caso delle celle a combustibile, il primo problema è come procurarsi l’idrogeno, un elemento abbondante in natura, ma non allo stato libero. Per cui va estratto da altri composti, in particolare acqua o metano. E qui arrivano i primi nodi. Per cominciare, i processi di separazione richiedono una grande quantità di energia elettrica che, se dovesse essere ottenuta bruciando combustibili fossili, tanto varrebbe continuare a viaggiare nelle auto a benzina. A maggior ragione se l’idrogeno venisse estratto dal metano perché, durante il processo, si accumulerebbe altra anidride carbonica come prodotto di scarto. In conclusione, l’idrogeno potrebbe essere annoverato fra i combustibili senza impatto climatico, solo se fosse estratto dall’acqua con energia elettrica ottenuta da sole, vento o altra fonte rinnovabile. Ma quanti impianti eolici, solari, idroelettrici, servirebbero per alimentare a idrogeno il miliardo e passa di auto oggi in circolazione? Del resto, una volta prodotto, l’idrogeno andrebbe distribuito in maniera capillare e questo è un altro scoglio perché, essendo molto leggero, non può utilizzare le tubature di metano oggi esistenti. Se poi si pensasse di trasportarlo con autocisterne, bisognerebbe prima comprimerlo utilizzando ulteriore energia elettrica. Senza dimenticare che, per caricarlo sulle auto, va messo in bombole addirittura in forma liquida, ossia raffreddato a 253 gradi sotto lo zero. E poi c’è la questione dei materiali utilizzati per le celle a combustibile. Un elemento chiave è il platino che però non è così abbondante, per cui si potrebbero porre problemi di approvvigionamento qualora l’auto a idrogeno dovesse diventare di massa.
Stante i molti nodi ancora irrisolti, il mercato dell’auto a idrogeno è ancora molto ristretto. A oggi, le uniche grandi case automobilistiche che ne producono sono Toyota e Bmw. Un certo sviluppo, invece, si registra nel settore dei grandi veicoli: camion, furgoni, autobus. In Italia, la Provincia autonoma di Bolzano già dal 2013 dispone di una flotta di autobus a idrogeno (in foto) che, nel maggio 2021, è stata arricchita di altri dodici esemplari. Quanto all’idrogeno, il rifornimento è garantito grazie a un progetto di produzione locale cofinanziato con fondi europei.
Auto a batteria
Mentre l’auto a idrogeno stenta a partire, l’auto a batteria ricaricabile alla presa elettrica ha invece ingranato la marcia ed oggi occupa già l’1% del mercato mondiale. Ma, visti i costi di produzione, al momento i modelli in circolazione sono quasi solo di fascia alta. Tuttavia, l’industria confida di riuscire ad abbattere i costi e di potersi inserire, in tempi brevi, anche nei modelli più popolari. E basandosi sulla rapidità con la quale ai primi del Novecento scomparvero carrozze e cavalli, molti analisti scommettono che, nel 2040, a livello mondiale ci saranno due auto elettriche ogni tre nuove auto vendute. Oggi, il paese con il maggior numero di vendite di auto elettriche è la Cina. Nel 2021 ben 3,3 milioni, su un totale mondiale di 6 milioni di nuovi esemplari, sono stati venduti in questo paese. Ma non si sa con quali benefici reali per il clima dal momento che la Cina, in media perfetta col resto del mondo, ottiene solo il 30% dell’energia elettrica da fonti rinnovabili. Da questo si evince che, se il superamento delle auto a scoppio non va di pari passo con il superamento delle centrali elettriche funzionanti con combustibili fossili, forse ci guadagna l’industria automobilistica (che per vendere ha bisogno di continue novità), ma non il clima.
Fame di energia elettrica
Del resto, la questione climatica è solo uno dei problemi ambientali che stiamo vivendo, e per evitare di risolvere un problema creandone di nuovi, dovremmo affrontare il tema dell’auto elettrica in una prospettiva più ampia. Un tema centrale è quello del limite delle risorse, a sua volta intimamente connesso con quello dell’equità. La transizione elettrica, ossia il passaggio dalle centrali a combustibili fossili a tecniche di produzione di tipo rinnovabile, richiede apparecchiature costruite con minerali non così abbondanti sulla crosta terrestre. Due esempi sono il rame e il molibdeno. La loro richiesta futura è prevista in rapida crescita, ma non la loro estrazione. Il rischio è un collasso da scarsità che potrebbe essere evitato solo con una programmazione a livello mondiale. Attribuendo, cioè, a ogni nazione un massimale di assorbimento possibile tenendo conto dei bisogni di tutti. Ma da questo orecchio nessuno ci sente, meno che mai il Nord del mondo che continua ad avere livelli stratosferici di consumo di energia elettrica come se a questo mondo esistessimo solo noi.
In realtà, il pianeta è popolato da oltre otto miliardi di persone, molte delle quali in condizioni di vita subumana. Ad esempio, in Africa 700 milioni di persone non dispongono ancora di energia elettrica. Avrebbero diritto almeno a un pannello solare, ma rischiano di non poterlo avere finché noi non accetteremo di mettere un freno alla nostra insaziabile sete di energia elettrica per elettrodomestici, condizionatori, attività industriali e ora anche auto elettriche. Semplicemente perché c’è competizione per le risorse scarse.
In altre parole, bisogna scegliere se le risorse limitate esistenti sul pianeta le vogliamo utilizzare per i diritti di tutti o per i privilegi di pochi. Per entrambe le opzioni ormai non c’è più posto.
I costi delle batterie
Per trasportare cinque persone per un paio di ore su un’auto che viaggia a 150 chilometri all’ora, serve una batteria di quattro quintali, piena zeppa di grafite, alluminio, nichel, rame, manganese, cobalto, litio. Minerali presenti in maniera limitata sul pianeta, che per essere estratti e raffinati richiedono grandi quantità di energia e non solo. In Argentina, dove si estrae il 7% del litio mondiale, le comunità locali sono in lotta contro le imprese minerarie per il loro esagerato prelievo di acqua che mette a rischio le riserve di tutta la zona. In Congo, intanto, l’estrazione di cobalto è diventato tristemente famoso per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori.
Le ondate di calore, la siccità, gli incendi, la perdita di raccolti agricoli, i mari pieni di plastiche, la perdita di biodiversità, l’esplodere di malattie virali inedite, le migrazioni massicce, dovrebbero farci capire che non possiamo proseguire lungo la strada della crescita infinita di produzione e consumi.
Come rispettare ambiente e diritto alla mobilità
Dobbiamo ritrovare il senso del limite che, applicato al tema della mobilità, significa adattare il mezzo alla distanza, usare per quanto possibile strumenti che potenziano la nostra muscolatura, usare mezzi condivisi sulle lunghe distanze, accettare di spostarci di meno e a velocità contenuta. L’invito, insomma, è a coprire a piedi i piccoli percorsi, a usare la bici per i medi tragitti, a usare mezzi pubblici e condivisi sulle lunghe percorrenze, a concepire il grande viaggio come un evento eccezionale della vita. Cambiamenti possibili che, pur non compromettendo il nostro diritto alla mobilità, possono garantire a tutti spazi di dignità nel rispetto del pianeta.