Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.
È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.
Scuola di fotografia
Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.
Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».
Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.
Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.
Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.
L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.
Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.
Rifugiati
Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.
È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.
Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.
Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.
Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.
Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.
Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.
Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.
Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.
Il percorso
Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.
Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.
Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.
Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.
Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di scienze internazionali e diplomatiche.
Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.
Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.
Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.
È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.
Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.
Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.
Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.
Brasile
Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).
Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.
È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.
Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.
Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.
Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.
Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.
Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.
In carcere
In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».
Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.
Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.
Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».
Mali
Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.
Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.
I primi mille giorni
Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.
Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.
Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.
Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.
Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.
Valentina Tamborra
Le tante febbri di Conakry
Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.
Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.
Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.
Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.
Chi troppo vuole…
Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.
La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.
I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.
Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.
La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.
Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.
Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.
Risorse minerarie
La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.
L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.
La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.
Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.
Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.
L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.
Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.
Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.
Oro e salute
Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.
In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.
Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.
Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.
In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.
Una sanità che fa acqua
La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.
L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.
La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.
Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.
La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.
Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.
Malaria & co
Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.
Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.
I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.
Il Covid è arrivato
Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.
L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.
L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.
La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.
Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.
Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.
Gianluca Uda
Congo RD: Perché abbiano la vita
Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.
Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.
È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.
Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.
Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.
Tra Italia e Canada
Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.
«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».
Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.
Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.
Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.
«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.
A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.
Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».
La scoperta del Congo
Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.
Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.
«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.
Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.
Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».
Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).
A Doruma nella guerra
Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.
«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».
È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.
La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).
«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.
Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».
I fucili puntati addosso
«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».
Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.
Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.
Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.
Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.
Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».
Nuova vita a Isiro
Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.
L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.
Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.
Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].
A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».
Il centro Gajen
«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».
Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.
«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».
Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.
Scuole, carrozzine, carcere
In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.
Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».
Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».
Il problema del Congo
Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».
Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».
Luca Lorusso
Alleanza (Es 19)
Lo abbiamo già detto: nel nostro immaginario, condizionato ad esempio dalle riduzioni cinematografiche, la vicenda dell’Esodo, spesso, si concentra e si conclude sul passaggio del Mar Rosso, miracoloso e spettacolare.
Se seguiamo, però, la logica del racconto biblico, il cuore della vicenda non sta nel passaggio del mare, ma in ciò che succede più avanti, nel capitolo 19, il punto di svolta decisivo.
Il popolo d’Israele, fidandosi in modo progressivamente sempre più intenso e radicale, si è lasciato condurre da Dio fuori dall’Egitto, al di là del mare. È stato nutrito dalla manna, dall’acqua, dalle quaglie; ha vagato nel deserto, sostenuto da un Dio che si è mostrato guida di giorno, sotto forma di colonna di nubi, e protezione di notte, come colonna di fuoco; ha imparato a collaborare con Mosè scegliendosi giudici che ne alleggerissero in parte il lavoro. Ma ancora vaga nel deserto senza un punto fermo. È giunto quindi il momento di porne uno in modo definitivo.
Le radici nel passato (ES 19,1-4)
Diversi commentatori moderni hanno richiamato l’attenzione sulle incoerenze del testo, che in questi capitoli sembra faticare a presentarci spostamenti ed eventi in modo lineare. Di solito, questo è un segno di abbondanti riletture e riscritture, e quindi di quanto, lungo i secoli, si siano ritenuti centrali questi episodi.
I biblisti spesso amano indagare queste incoerenze per capire le caratteristiche delle aggiunte e delle correzioni, e poi stabilire se è più importante la versione di partenza o il testo di arrivo. Qui non si intende negare l’importanza di tali indagini e ricostruzioni, noi lettori ci troviamo però davanti a un libro offerto a noi in una forma definitiva, l’unica a disposizione del nostro ascolto e della nostra meditazione. Chi ha composto la versione finale del libro, in ultimo, era convinto che fosse sufficientemente comprensibile e significativo. Per questo, senza disprezzarli, tralasciamo tutti i pur preziosi tentativi di ricostruzione storica e cronologica, evitando di addentrarci con troppa pignoleria sui tempi e glispostamenti delle vicende raccontate.
Così facendo, peraltro, siamo coinvolti in un percorso che è particolarmente significativo anche per noi, per i nostri cammini di fede moderni.
È vero che in Genesi ci troviamo davanti un’esperienza di fede limpida come quella di Abramo, pronto a stare al gioco divino senza argomenti e motivazioni, e semplicemente fidandosi. Chi ha composto l’Esodo, invece, pare dire che, senza nulla togliere a quella fede eccezionale, il percorso degli uomini è di solito diverso.
Lo stesso Mosè ha titubato non poco di fronte alla chiamata di Dio (Es 3-4), prima di farsi suo portavoce coraggioso e deciso. Gli ebrei sembrano aver dapprima assistito quasi passivamente allo scontro tra Mosè e il faraone (Es 5-10), ma poi hanno dovuto decidere da che parte stare, «denunciarsi» come ebrei nella notte di Pasqua, partire all’avventura (Es 11), affrontare la minaccia angosciante e mortale del mare (Es 12) e poi il deserto.
Su ali d’aquila
Ora, al capitolo 19, dopo tante settimane o mesi di percorso, Dio li invita a guardarsi indietro, a ricordarsi della schiavitù e di come ne sono venuti fuori, «come sulle ali» di un rapace. Di un’«aquila», dicono le nostre traduzioni del salmo 90. Alcuni propongono, con qualche ragione, che il salmo si riferisca piuttosto a un «avvoltoio», uccello – è vero – impuro, ma che gli ebrei ammiravano non solo per il suo volo tanto controllato, ma anche per la cura che presta ai suoi piccoli. Non è raro che non riusciamo a ricostruire il senso preciso, esatto, di un termine ebraico nella Bibbia, ma comunque è chiaro il messaggio: il salmista pensa a un uccello in grado di volare sicuro, padrone dell’aria, e mosso da un esemplare affetto da genitore.
Si potrebbe obiettare che in realtà il cammino del popolo nel deserto non sia stato per nulla come un volo su ali d’aquila. È stato, anzi, difficile, tra ansie, rimpianti, fatiche, fame e sete, calura, incertezze. Il testo biblico, però, molto spesso non pretende di essere un resoconto formale, ma piuttosto il racconto di un innamorato. Dio non assomiglia a un poliziotto che redige un verbale, ma a un amante che ricorda gli inizi della sua storia di coppia. E per lui, dal momento che il cammino nel deserto ha portato all’incontro decisivo nel quale può finalmente porre al suo amato Israele la domanda fatidica, è un cammino buono, compiuto come in volo. Fatica e tempo non contano, perché finalmente si è insieme.
C’è poi un elemento essenziale, in questa presentazione. Spesso gli esseri umani immaginano di dover dare qualcosa a Dio, convincerlo, sedurlo, per averne qualcosa in cambio. Qui, invece, il primo a dare, a mettersi in gioco, è l’Altissimo, e non l’uomo. Prima Dio agisce, e solo dopo offre all’uomo di entrare in una relazione più stabile. Anche questa, peraltro, non viene imposta all’uomo, quasi fosse un pagamento obbligatorio per la salvezza, ma gli è offerta come proposta, come possibilità a cui l’essere umano è chiamato a rispondere liberamente.
Tutto fa pensare non a un rapporto tra padrone e servo, ma a una relazione tra amanti. Dio spera e desidera di essere scelto liberamente, di essere amato. Non pensa di avere diritto a pretendere dall’uomo di essere onorato.
Alleanza come matrimonio
Quello che Dio prospetta al popolo, qualora esso decida di sceglierlo come suo Signore, ha in effetti a che vedere con un legame personale più che con un servizio formale. Dio propone un’alleanza, un patto che si stringe solo tra chi si considera alla pari (anche quando, come in questo caso, i due non sono affatto allo stesso livello). L’uomo può rifiutarsi di accogliere la relazione.
Da parte sua, però, Dio può proporla consapevolmente e in modo non superficiale perché, spiega, «mia è tutta la terra» (Es 19,5). Se avesse voluto, avrebbe potuto andare a prendere il suo popolo ovunque. Il fatto di scegliere proprio Israele è, per il popolo, la garanzia che il Signore vuole restargli vicino e fedele sempre, perché non ci sono poteri esterni che possano separarli. Tra i vari popoli di tutta l’umanità, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha deciso di restare fedele al gruppo guidato da Mosè, e si pone davanti a lui in attesa di una risposta. Gli prospetta di farne una «proprietà particolare», una «cosa sua».
L’espressione potrebbe in teoria far pensare a un possesso, se non fosse accompagnato da tutte queste formule che, insieme alla libertà di scelta, rimandano a un legame personale, quasi come fosse un matrimonio. Non però un matrimonio come lo si viveva al tempo di Mosè, dove gli sposi a volte non avevano grande libertà di scelta (e quasi nessuna ne aveva la donna!), ma come lo concepiamo noi, tra due libertà che decidono di vincolarsi a vicenda perché si riconoscono reciprocamente come promessa di vita piena. E se una prospettiva di questo tipo è comprensibile per l’uomo, non può che stupirci che anche Dio attenda del bene dalla sua relazione con l’essere umano.
Certo, in seguito a questa decisione anche umana, il Signore potrà presentarsi come «Dio geloso» (Es 20,5; 34,14), ma parliamo della gelosia di un amante equilibrato, che sa di dover custodire con cura la relazione più importante della sua vita, quella che costituisce per lui qualcosa di unico, insostituibile. Potrebbero dirlo gli uomini, ma lo dice anche Dio.
Una missione comune (Es 19,6)
Come un fidanzato che prospetta alla su futura sposa come sarà la vita insieme, così Dio spiega al suo popolo, da cui attende una risposta, quali progetti ha su di lui: «Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».
A noi la parola «regno» non evoca quello che diceva ai lettori antichi. A noi, guardando soprattutto alle esperienze delle monarchie assolute dei secoli passati, richiama inevitabilmente l’opposto di repubblica e l’idea del dominio di uno sugli altri. Nell’antichità non era così: le popolazioni potevano strutturarsi in clan disordinati, spesso nomadi, o in regni. Il re era colui che imponeva la direzione di fondo a una comunità organizzata di persone, era concepito come l’ordine in mezzo al caos.
E Dio indica anche la direzione generale che immagina prenderà questo suo regno: sarà una nazione «di sacerdoti». Il sacerdote era colui che mediava tra l’umanità e Dio, tra il cielo e la terra. Faceva salire al cielo le offerte e ne faceva discendere la volontà divina, garantendo così l’ordine nell’universo, perché assicurava la comunicazione tra le sue due entità più significative.
Quello che Dio prefigura, insomma, è che gli ebrei, riconoscendolo come Dio, avrebbero potuto far dialogare la storia e l’eterno, il trascendente e il mondano, a beneficio di tutti (un sacerdote non si limita mai a mediare solo per sé). Dio sta sognando un suo rapporto con tutti gli uomini, garantito dagli ebrei. Li chiama a collaborare alla sua opera di vita e salvezza per tutti.
Per questo può dire loro che saranno una «nazione» messa da parte, riservata, «santa».
Gli ebrei, nei secoli, distingueranno il loro ruolo (di «popolo») da quello di tutti gli altri (che sono definiti «nazioni», «genti»). Qui Dio usa il termine che solitamente si utilizzava per indicare «gli altri» applicandolo agli ebrei. Parola accompagnata però dall’aggettivo «santo». Il «santo» non indicava, come poi si è inteso nella storia più recente, una persona dalla vita vissuta in modo esemplare e perfetto, bensì uno che era messo da parte, riservato, solitamente, per Dio. Con questo Egli riconosce che i discendenti di Giacobbe sono una nazione come le altre, ma che diventerà speciale agli occhi dell’Altissimo, esattamente come una fidanzata riconosce che esistono tanti uomini nel mondo, ma ha occhi solo per il suo amato.
La risposta umana
Per fortuna ci manca il tempo per metterci a fantasticare sulla possibile ansia divina nell’attendere la risposta degli ebrei. E anche il libro dell’Esodo risolve in fretta la risposta umana. Tutto, nel testo, lascia però intendere che davvero Dio lasci pienamente liberi coloro che ha strappato dalla schiavitù dell’Egitto.
Certo, l’antichità non pensava alla libertà del singolo e insisteva sulla dimensione comunitaria (saranno poi i profeti a cogliere che davanti a Dio siamo più propriamente individui). Ma la libertà di scelta è garantita, difesa, voluta da Dio, che non cerca servi, ma amici (cfr. Gv 15,15).
Cogliamo forse adesso quello che evidentemente era già chiaro a Dio fin dall’inizio (Es 3,12): il percorso di liberazione poteva essere compiuto solo arrivando qui, per essere non più schiavi del faraone, ma servi del Signore, in un rapporto di esclusività che sia però scelto consapevolmente, e non subìto come imposizione. È la differenza che passa tra servire per ubbidienza o per amore.
E la risposta del popolo arriva veloce: «Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). La successiva visione di Dio che avvolge il monte è quasi la festa davanti al «sì» del popolo.
Angelo Fracchia (Esodo 11 – continua)
L’emergenza climatica dopo la Cop26. Nero intenso, verde pallido
Dopo 26 conferenze, paesi ricchi, paesi emergenti e paesi poveri procedono ancora in ordine sparso. Se a parole tutti sono consapevoli dell’emergenza, l’accordo sottoscritto a Glasgow è molto deludente lasciando il mondo in balia del clima e degli interessi particolari dei singoli paesi e delle multinazionali.
Tra il 1700 e il 1800, il carbone è stato il principale combustibile del motore a vapore e della rivoluzione industriale. Glasgow è stata un importante centro di questa rivoluzione e un polo carbonifero fino a metà del secolo scorso. Lo scorso novembre, la città scozzese ha ospitato la ventiseiesima «Conferenza delle parti» (in sigla, Cop26) sui cambiamenti climatici, a trent’anni dal Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992). Quello di Glasgow è stato un appuntamento sul quale si sono profuse valanghe di aggettivi e superlativi, ma che si è trasformato – come da più parti paventato – in un fallimento le cui dimensioni e conseguenze sono tutte da valutare. La speranza di tutti (quasi tutti) è di essere smentiti dai fatti, ma – al momento – il tanto criticato «bla bla bla» di Greta Thunberg è stato una sintesi perfetta della lontananza tra la realtà dell’emergenza climatica e la politica.
L’antropocene e la giustizia climatica
Chiunque può rendersi conto che il mutamento del clima fa già parte della vita quotidiana, ovunque nel mondo: aumento delle temperature (in media, più 1,1°C rispetto ai livelli preindustriali, secondo il rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change, Ipcc), ritiro dei ghiacciai montani e polari, aumento dei fenomeni estremi (siccità, alluvioni, cicloni tropicali, incendi, frane), deterioramento della salute di oceani e mari (riscaldamento, acidificazione, innalzamento), come racconta anche il rapporto «State of the Climate 2021» (31 ottobre) dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo).
Da tempo, la scienza ha individuato la causa e il responsabile del riscaldamento globale (global warming): l’aumento delle emissioni e della concentrazione nell’atmosfera dei cosiddetti «gas serra» (in primis, anidride carbonica, ma anche metano, protossido di azoto, ozono, vapore acqueo e fluorurati) come conseguenza delle attività umane. Per dirla in maniera sintetica: «Più si produce, più gas serra vengono emessi» (Lessico e nuvole, Università di Torino, 2019). Le responsabilità dell’uomo sono così chiare che si è coniato il termine «antropocene» per indicare l’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre è modificato dall’azione umana.
Tutti (quasi tutti) gli scienziati concordano sul fatto che il limite da non oltrepassare sia un aumento di 1,5°C ripetto ai livelli preindustrali, come peraltro già previsto dagli accordi di Parigi del 2015. Per raggiungere questo obiettivo occorre diminuire le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030 e azzerarle (la cosiddetta «neutralità carbonica») entro il 2050, mete attualmente molto distanti. Come fare, dunque?
L’unica soluzione percorribile è la cosiddetta «decarbonizzazione dell’economia», ovvero una transizione energetica che preveda la progressiva riduzione dell’uso dei combustibili fossili (petrolio, carbone, gas naturale), l’aumento delle energie rinnovabili (da quella idroelettrica a quella solare, con alcuni che includono nel novero anche l’energia nucleare), il risparmio energetico, uno sviluppo più sostenibile. Visti gli obiettivi, si tratta di una sfida tremendamente complessa perché comporta il cambio del paradigma economico oggi dominante, che prevede una crescita infinita in un mondo finito. Misure da prendere, queste, a livello di sistema (governi, multinazionali, organismi internazionali), ma anche a livello dei singoli (per non «depersonalizzare» la questione climatica).
Il problema è: quali paesi possono intraprendere questa nuova strada? Come adottare misure efficaci, rapide e vincolanti, ma non punitive, considerando anche l’aspetto della giustizia climatica? Questa deve prendere in esame non soltanto le emissioni attuali, ma anche quelle storiche (ovvero quelle che hanno prodotto un «debito ecologico» dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri).
La «neutralità carbonica»
Le emissioni sono responsabilità per circa l’80% dei paesi del G20. Sono, pertanto, questi i primi che dovrebbero tagliare drasticamente le emissioni di gas a effetto serra. Purtroppo, tutti i paesi sembrano non guardare più in là dei propri interessi particolari (sia economici che politici), non agendo con l’urgenza e la concretezza che la questione richiederebbe.
La Cina – in termini assoluti il maggiore inquinatore mondiale (con un 60% di energia consumata derivante dal carbone) – è disponibile ad agire, ma con tempistiche diverse (picco di emissioni entro il 2030, neutralità carbonica entro il 2060) e con Xi Jinping (lo scorso 11 novembre incoronato presidente a vita dalla sessione del Comitato centrale del Partito comunista cinese) che ha dato un pessimo esempio disertando sia il G20 di Roma sia Glasgow. Come ha fatto Vladimir Putin che per la Russia, grande esportatore di gas, ha fissato il termine al 2060. Ancora più dilatoria è l’India – terzo inquinatore mondiale e in procinto di diventare il paese più popolato della terra – che ha spostato la propria neutralità carbonica addirittura al 2070.
Gli Stati Uniti del presidente Biden, secondi nella (triste) classifica dei maggiori inquinatori, si sono scusati per il comportamento del predecessore Donald Trump (che aveva ritirato il paese dagli accordi climatici di Parigi e diffuso fake news climatiche) e garantito il dimezzamento delle emissioni entro il 2030 e la neutralità entro il 2050. Come prevede il Green deal (il «patto verde» varato lo scorso 14 luglio) dell’Unione europea la quale deve però convincere la Polonia ultranazionalista, tuttora grande produttore di carbone e refrattaria alle direttive europee.
A conti fatti, con gli attuali impegni politici (ma sarebbe meglio parlare di «promesse politiche»), entro il 2100 l’incremento della temperatura potrebbe essere tra 2,3 e 2,9 gradi Celsius, lontanissimo dal fatidico 1,5 (fonti Climate Action Tracker e Paris Reinforce).
Accordi fragili e nessun miracolo
Vista la complessità della situazione geopolitica, chiudere la Cop26 di Glasgow con un accordo di alto livello (cioè concreto, efficace e immediato) sarebbe stato un miracolo. E il miracolo non c’è stato. È stato firmato un patto e sono stati sottoscritti alcuni accordi, ma il risultato complessivo è deludente, se non addirittura fallimentare. Questo giudizio ha trovato conferma nelle parole di chiusura di António Guterres: «I testi approvati sono un compromesso – ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite -. Riflettono gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo di oggi. Fanno passi importanti, ma purtroppo la volontà politica collettiva non è bastata a superare alcune profonde contraddizioni». Ancora più laconico è stato Alok Sharma, presidente della Cop26: «Sono molto lieto di annunciare che ora abbiamo in vigore il patto per il clima di Glasgow, concordato tra tutte le parti qui presenti. […] Direi, tuttavia, che questa è una vittoria fragile. […] Il lavoro duro inizia ora».
Vediamo – dunque – a cosa ha portato la ventiseiesima Conferenza delle parti. In primis, è stato confermato – a parole e con fatica – l’obiettivo di limitare a 1,5 gradi centigradi l’incremento della temperatura.
Un centinaio di paesi ha dichiarato che porrà fine alla deforestazione (che causa circa l’11% delle emissioni di CO2) entro il 2030. Tra questi anche il Brasile amazzonico di Jair Messias Bolsonaro, presidente negazionista e antiambientalista. Nel frattempo, due importanti istituti di ricerca brasiliani – uno pubblico (Inpe) e uno privato (Imazon) – hanno pubblicato dati autonomi, ma drammaticamente coincidenti: per esempio, secondo Imazon, da gennaio a ottobre 2021 la deforestazione dell’Amazzonia è stata di 9.742 km², il 33 per cento in più rispetto all’anno precedente, il dato peggiore da dieci anni.
Un altro gruppo di 105 paesi ha aderito al patto che taglia le emissioni di metano (CH4, gas serra potente anche se di vita breve) del 30% entro il 2030. Tuttavia, gli impegni sono volontari. Inoltre, non fanno parte dei firmatari i maggiori emettitori di questo gas: Russia, Cina e India.
La questione più spinosa riguardava l’abbandono progressivo del carbone, il combustibile fossile più inquinante (30% più del petrolio, 70% più del gas, a parità di energia prodotta). E, a Glasgow, la sottoscrizione del patto sul clima (Glasgow climate pact) da parte dei 197 paesi è stata in forse proprio a causa del carbone, vista l’opposizione di Cina e India, di gran lunga i maggiori produttori e consumatori mondiali di questo combustibile. Il compromesso è stato raggiunto annacquando l’accordo finale attraverso la sostituzione del termine «phase out» (eliminazione graduale) con «phase down» (riduzione graduale, paragrafo 36).
Infine, del tutto irrisolta è rimasta l’annosa questione della finanza climatica. La vecchia promessa di 100 miliardi di dollari all’anno (peraltro ampiamente insufficienti) ai paesi più poveri, non è mai stata rispettata (sono stati soltanto 80 nel 2019, secondo i dati Unep). L’impegno è stato rinnovato (paragrafo 46), ma vedremo se i ricchi apriranno effettivamente la borsa. Ancora peggio è andata la discussione su Loss and damage, cioè sugli aiuti economici ai paesi che, a causa dei cambiamenti climatici, hanno già subito perdite e danni. Il paragrafo 73 dell’accordo di Glasgow si limita a prevedere sul tema un dialogo tra le parti, ma nulla di concreto è stato stabilito.
Questi sono gli aspetti relativi alla finanza che fa capo esclusivamente agli stati. Esiste poi la «finanziarizzazione del clima», ovvero il sistema costruito attorno al «carbon market», introdotto a partire dal 2005. Si tratta di un vero e proprio mercato sul quale si scambia la merce carbonio (CO2) sulla base del principio che il soggetto che inquina oltre i limiti fissati pagherà altri soggetti per progetti di riduzione dell’inquinamento. Attualmente una tonnellata di anidride carbonica costa circa 60 euro. Sul mercato delle emissioni di carbonio i pareri sono contrastanti, ma in generale il meccanismo non è trasparente e può trasformarsi in un incentivo a inquinare per i soggetti più ricchi o meno corretti. Lo stesso papa Francesco ne ha scritto criticamente nella Laudato si’ (al paragrafo 171).
Nel sistema del «capitalismo fossile», la finanza internazionale è oramai divenuto un attore peggiore delle multinazionali. È recente l’idea della creazione di imprese denominate Nac – Natural asset company -, il cui obiettivo sarebbe quello di gestire i benefici derivanti da risorse naturali come foreste, aree marine, terreni agricoli (New York Stock Exchange, settembre 2021). È facile prevedere che nulla di buono arriverà da queste nuove imprese.
Capitalismo fossile e destino climatico
Davanti a una situazione con così tante variabili e già ai limiti del collasso, risulta arduo avere una visione ottimistica del futuro. Difficile però accettare passivamente il destino climatico, come ha suggerito lo scrittore statunitense Jonathan Franzen (E se smettessimo di fingere? L’apocalisse climatica sta arrivando. Per prepararci, dobbiamo ammettere che non possiamo impedirla, in «The New Yorker», settembre 2019). E certamente, come singoli, possiamo fare molto con comportamenti adeguati, anche se una corrente di pensiero sostiene che l’impegno personale (performative environmentalism) è talmente irrilevante da risultare inutile se non addirittura controproducente (perché trasferisce un problema sistemico sulle azioni di singole persone). Scienza ed economia sono in campo. La scienza sta elaborando strategie di mitigazione (dei cambiamenti climatici) e di adattamento (ai cambiamenti climatici). L’economia – il cui sistema (fondato sul modello del citato «capitalismo fossile») ha spinto l’umanità verso l’antropocene – da tempo studia modelli che tengano conto dei limiti del pianeta. Nel 2009, il Stockholm resilience centre, guidato dal ricercatore Johan Rockström, ha individuato nove limiti fondamentali: gli oceani, il sistema climatico atmosferico, lo strato di ozono stratosferico, la biosfera e la biodiversità, il ciclo idrologico, lo sfruttamento del suolo, il ciclo dei nutrienti (come azoto e fosforo), l’inquinamento atmosferico e le scorie nucleari.
Nel 2012, questi limiti sono stati considerati dall’economista inglese Kate Raworth per elaborare la sua doughnut economics («economia della ciambella»), un’alternativa all’attuale e insostenibile sistema della crescita infinita. La teoria della Raworth prende il nome dalla sua rappresentazione grafica: una ciambella i cui bordi più esterni sono quei limiti bio-geo-fisici del pianeta che l’umanità non dovrebbe mai oltrepassare.
«Se il Prodotto interno lordo resterà al centro dell’attenzione, il nostro futuro sarà triste», ha detto (lo scorso 8 ottobre) ai parlamentari italiani Giorgio Parisi, neo premio Nobel per la fisica. Ancora più drastico è stato il climatologo Luca Mercalli che, in un’intervista, ha avvertito: «La crescita verde non esiste. […] Occorre agire sul modello economico. […] Ci vuole un senso del limite». In altri termini, crescita economica e crescita dell’impatto ambientale non paiono separabili.
La situazione è, dunque, molto complicata. Tuttavia, la scelta peggiore sarebbe quella di proseguire as usual e limitarsi a subire eventi naturali che sicuramente diverranno sempre meno gestibili.
Paolo Moiola
Papa Francesco e l’emergenza ambientale
«Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la natura mai»
Già con la Laudato si’ del 2015, papa Francesco aveva messo l’ambiente in cima alle sue preoccupazioni. Un’enciclica questa che parla di «cambio di paradigma», ma anche di piccoli gesti quotidiani. L’argomento clima entra in campo al punto 23, con una frase breve ma potente: «Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti». L’argomento torna spessissimo negli interventi papali, come nel messaggio per la giornata della Terra (23 aprile 2021): «Vorrei ripetere un detto antico, spagnolo: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo di tanto in tanto, la natura non perdona più”. E quando s’innesca questa distruzione della natura è molto difficile frenarla. Ma siamo ancora in tempo. E saremo più resilienti se lavoreremo insieme invece di farlo da soli».
La collaborazione tra gli uomini è un elemento fondamentale. «Riconoscere che il mondo è interconnesso – ha detto Francesco nell’incontro “Fede e scienza verso Cop26” (4 ottobre 2021) – significa non solo comprendere le conseguenze dannose delle nostre azioni, ma anche individuare comportamenti e soluzioni che devono essere adottati con sguardo aperto all’interdipendenza e alla condivisione. Non si può agire da soli».
Contro Francesco
Un papa così impegnato nella difesa dell’ambiente dà molto fastidio al variegato fronte anti Francesco. Per limitarci agli avversari italiani, ricordiamo le reazioni al pur fragilissimo accordo di Glasgow apparse sul sito de La Nuova Bussola Quotidiana e su quelli dei vaticanisti Marco Tosatti e Aldo Maria Valli, tutti accomunati dalla lotta contro la presunta dittatura e contro l’ipotizzato «Nuovo ordine mondiale» paventato – su ogni media planetario disponibile – dal loro mentore, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Per tutti costoro l’emergenza climatica non è altro che un altro inganno messo in campo dall’élite globalista anticristiana.
Pa.Mo.
Giovani e adulti davanti alla questione climatica
Quanto dista Milano da Glasgow?
A Milano, Youth4Climate aveva raccolto le proposte dei giovani per Glasgow. L’accordo della Cop26 è rimasto molto lontano da quelle richieste. La distanza maggiore sembra però essere un’altra: quella fra dentro e fuori, fra adulti nelle stanze dei negoziati e giovani che manifestano per le strade.
Abbandono dei combustibili fossili entro il 2030, maggior peso dei giovani nei processi decisionali e più risorse per garantirlo, introduzione dell’educazione ambientale nelle scuole, solida regolamentazione delle emissioni di carbonio e trasparenza nei finanziamenti per gli interventi che affrontano i cambiamenti climatici.
Sono queste alcune delle richieste emerse dal Youth4Climate: driving ambition («Giovani per il clima: guidare l’ambizione»), l’evento ufficiale che si è svolto a Milano dal 28 al 30 di settembre dello scorso anno e che ha coinvolto circa 400 giovani di età compresa fra i 18 e i 29 anni provenienti da 197 paesi. A rappresentare l’Italia all’evento di Milano sono stati Federica Gasbarro, 26 anni, laureata in scienze biologiche, attivista ed ex portavoce romana dei Fridays for future e ora scrittrice e divulgatrice, e Daniele Guadagnolo, 28 anni, laureato in economia, cofondatore di una Ong italiana attiva nei settori della sostenibilità e della lotta al cambiamento climatico e oggi responsabile del marketing in un’azienda di servizi finanziari. Il forum, insieme all’incontro preparatorio pre Cop, era uno dei due eventi ospitati dall’Italia, che organizzava la Cop26 insieme al Regno Unito.
Il 25 ottobre è stato poi pubblicato il Youth4Climate manifesto, un documento più esteso ed elaborato che fornisce tutti i dettagli sulle idee e le proposte emerse a Milano.
Nel manifesto, i giovani chiedono, ad esempio, di fissare al 2030 il limite per il raggiungimento della neutralità carbonica, cioè il saldo a zero (zero-net emissions) fra i gas serra che vengono emessi nell’atmosfera e quelli che vengono rimossi. Propongono poi un innalzamento dell’attuale (troppo basso) prezzo del carbonio – cioè il prezzo da pagare per emettere una tonnellata di gas serra – in linea con l’accordo di Parigi, che prevedeva un costo fra i 40 e gli 80 dollari a tonnellata entro il 2020 e fra i 50 e i 100 entro il 2030. Fanno un appello per l’immediata rimozione dell’industria dei combustibili fossili, dei suoi lobbisti e degli altri suoi strumenti di influenza dai negoziati in sede Cop e Unfccc (Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici), ed esigono l’urgente messa in atto di misure per «fermare le perdite e i danni», cioè bloccare la distruzione di interi ambienti naturali, infrastrutture e vite umane causata dal cambiamento climatico: distruzione che è già in atto, ad esempio nei piccoli paesi insulari come Tuvalu, Barbados e Maldive.
Il confronto tra le diverse anime
I partecipanti a Youth4Climate erano stati selezionati dai rispettivi governi – nel caso dell’Italia, attraverso il Ministero per la transizione ecologica (Mite) guidato dal ministro Roberto Cingolani – fra i giovani che erano già attivi in un gruppo, associazione o impresa, e che avevano inviato la propria candidatura attraverso gli appositi canali istituzionali.
Proprio su questo aspetto si è concentrata una delle numerose critiche che l’attivista svedese e fondatrice del movimento Fridays for future Greta Thunberg ha avanzato nel discorso pronunciato proprio allo Youth4Climate: «[I nostri leader] invitano a convegni come questo una rosa di giovani scelti ad arte, così da dare l’impressione che ci ascoltano. Ma non ascoltano».
In una diretta Facebook sulla pagina Ci sarà un bel clima, un progetto parallelo dell’associazione CrowdForest, la dialettica fra varie anime del movimento giovanile per il clima emerge in modo abbastanza rappresentativo.
Youth4Climate, spiegava la moderatrice dell’incontro Clara Pogliani, dovrebbe diventare la rappresentanza istituzionale permanente dei giovani all’interno della Cop26 e di quelle a venire, ma sono in molti ad avere l’impressione che a far sentire con più forza la propria voce e a tentare di cambiare le cose siano stati piuttosto i giovani fuori dalle stanze dei negoziati.
Se si ripeterà come quella di quest’anno, commentava Marco Pitò, ventiduenne attivista del movimento Extinction rebellion Italia, la Youth4Climate sarà solo un’iniziativa di facciata, uno youthwashing senza un reale intento di ascoltare i giovani. Un esempio: la presidenza Cop aveva fissato per il venerdì il giorno di confronto con i giovani sul manifesto prodotto da Youth4Climate, pur sapendo che da due anni le manifestazioni dei gruppi giovanili sono proprio il venerdì e che anche a Glasgow era prevista una marcia. Il risultato è stato che, proprio nella giornata dedicata al confronto con loro, nessuno dei giovani ha partecipato alla Conferenza e a chi ha tentato di entrare dopo la manifestazione è stato impedito l’ingresso.
Lorenzo Tecleme, 20 anni, membro del collettivo DestinazioneCop e del coordinamento italiano di Fridays for future, ha seguito insieme a diversi colleghi gli eventi sia a Milano che a Glasgow e ne ha restituito i punti salienti sia sulla pagina Instagram del collettivo sia nei podcast Buongiorno Milano e Buongiorno Glasgow per il quotidiano Domani.
Anche secondo la sua esperienza, riferiva Tecleme nell’incontro Facebook, i delegati a Youth4Climate non erano stati scelti dai rispettivi governi sulla base di un effettivo principio di rappresentanza scegliendo fra i più esperti e battaglieri membri dei movimenti giovanili.
L’unica proposta davvero dirompente emersa a Milano riguarda l’uscita (phase out) dai combustibili fossili entro il 2030, puntualizzava l’inviato di DestinazioneCop, ed è venuta non a caso da un gruppo di delegati che ha rotto il protocollo – nel quale non era previsto nessun gruppo di lavoro sui combustibili fossili – e, in aperta polemica con gli organizzatori, ha lavorato in modo autonomo giungendo così a formulare una proposta evidentemente più audace di quelle emerse dagli altri tavoli.
In disaccordo con Pitò e Tecleme si poneva invece Chiara Soletti, 34 anni, di Italian climate network, associazione nata nel 2011, membro della rete globale 350.org e osservatore presso la Unfccc dal 2014. Secondo Soletti, è vero che le iniziative come Youth4Climate rischiano di lasciare il tempo che trovano e di essere anche strumentalizzate, così come è vero che i negoziati non esauriscono il lavoro da fare per contrastare il cambiamento climatico, rispetto al quale la società civile, i suoi movimenti e le sue azioni concrete sono imprescindibili. Questo però non autorizza a negare che esistano consolidati meccanismi per garantire la partecipazione dei giovani in ambito istituzionale, a cominciare da Youngo (Youth non-governmental organizations), il coordinamento giovanile all’interno di Unfccc, che ha permesso negli anni di coinvolgere migliaia di persone e di ottenere diversi risultati.
Fallimento o bicchiere mezzo pieno?
Guardando le richieste dei giovani, a cominciare da quella sull’uscita dai combustibili fossili, non si può dire che l’accordo di Glasgow raggiunto dalla Cop26 le abbia soddisfatte, certamente non le più importanti e ambiziose. Anche su questo, il giudizio dei diversi gruppi assume varie sfumature: se Extinction rebellion tende a vedere un fallimento, per DestinazioneCop non si tratta di una Caporetto ma certamente di una Conferenza delle parti non all’altezza delle aspettative – nemmeno di quelle degli organizzatori – che ha fatto solo qualche piccolo passo in avanti.
L’aspetto che ha deluso di più è quello del ridimensionamento delle ambizioni sull’uscita dai combustibili fossili. Con un colpo di mano dell’ultimo minuto, ricostruisce DestinazioneCop, l’India ha ottenuto che l’accordo prevedesse non più un’eliminazione (phase out) ma solo una riduzione (phase down) nell’impiego del carbone, oltretutto senza indicare date e applicando questa riduzione non a tutto il carbone ma solo a quello cosiddetto non abbattuto, cioè per il quale non è possibile ridurre le emissioni attraverso tecnologie che permettano la cattura e il sequestro del carbonio. L’accordo parla anche di eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili, ma solo per quelli non efficienti, formulazione che lascia spazio a diverse ambiguità. È vero che questo è il primo accordo che parla esplicitamente di carbone e combustibili fossili, ma rispetto alla richiesta di Youth4Climate di abbandonarli entro il 2030 la distanza è siderale.
Fra gli aspetti positivi, invece, DestinazioneCop riporta l’approvazione delle regole mancanti per mettere in pratica l’accordo di Parigi, che dovrebbero fra le altre cose permettere una rendicontazione più trasparente e univoca delle emissioni. È stato poi stabilito un impegno a ridurre del 45% entro il 2030 le emissioni di CO2 e fissato al 2022 l’aggiornamento dei piani quinquennali con le azioni che ogni paese si impegna a compiere per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi. Inoltre, per la prima volta, si è parlato di gas serra diversi dall’anidride carbonica, come il metano, che gli stati sono invitati a ridurre entro il 2030.
Dal punto di vista negoziale, concludeva Lorenzo Tecleme nell’episodio 13 di Buongiorno Glasgow, Cop26 non è stata un flop come Madrid o Copenaghen. I passi avanti ci sono stati e si sono chiusi accordi che si trascinavano da anni. «Ma ciò che è bene dal punto di vista negoziale – riflette il giovane reporter e attivista – è quasi ininfluente dal punto di vista climatico, cioè di quella curva delle emissioni che dobbiamo avere sempre in mente quando parliamo di politica per il clima. La vera ambizione di Glasgow era di riuscire a chiudere il gap, cioè di avvicinare ciò che è ambizioso nei negoziati con ciò che è ambizioso nella realtà. Glasgow, in questo, ha fallito», mettendo in discussione l’idea stessa della Conferenza delle parti e svuotando di credibilità tutti gli impegni e le promesse che sono emerse negli anni dalle varie Cop.
«Sono qui per dirvi che non vi crediamo», ha detto nel suo discorso alla Cop26 la venticinquenne attivista ugandese Vanessa Nakate, «ma anche per supplicarvi di dimostrarci che ci sbagliamo. E che Dio ci aiuti, se non riuscirete».
Chiara Giovetti
Da «Friday for future» a «Extinction rebellion»
Ribellioni con giustificazione
Il Friday for future (Fff) è un «movimento globale di sciopero per il clima» guidato e organizzato da giovani studenti di tutto il mondo. Nasce nell’agosto 2018, quando una studentessa quindicenne di nome Greta Thunberg comincia uno sciopero per il clima. Nelle tre settimane precedenti le elezioni svedesi, Greta si siede fuori dal parlamento del suo paese ogni giorno di scuola, chiedendo un’azione urgente sulla crisi climatica. Presto, altri si uniscono a lei e l’8 settembre Greta e i compagni di scuola decidono di ripetere il loro sciopero tutti i venerdì. Creano l’hashtag #FridaysForFuture e incoraggiano altri giovani in tutto il mondo a unirsi a loro, dando così inizio a una iniziativa unica: lo sciopero scolastico mondiale per il clima.
Extinction rebellion (Er) è «un movimento decentralizzato, internazionale e politicamente apartitico che utilizza l’azione diretta nonviolenta e la disobbedienza civile per persuadere i governi ad agire con giustizia sull’emergenza climatica ed ecologica».
Il movimento nasce il 31 ottobre 2018, quando diversi attivisti britannici si riuniscono in Parliament Square a Londra per annunciare una Dichiarazione di ribellione contro il governo del Regno Unito. Nelle settimane successive, seimila persone confluiscono a Londra per attuare una serie di azioni di protesta, come bloccare pacificamente cinque grandi ponti sul Tamigi, piantare alberi al centro della piazza del Parlamento e scavare un buco per seppellire una bara che simboleggia la morte del futuro. I ribelli, inoltre, si incollano (letteralmente) alle porte di Buckingham Palace mentre leggono una lettera alla regina.
Tutto questo segna la nascita di Extinction rebellion, la cui «chiamata alla ribellione» diventa rapidamente globale.
I due movimenti, che collaborano e si sostengono a vicenda, si differenziano per una serie di aspetti: in primo luogo, Fff nasce dal coinvolgimento di ragazzi delle scuole, mentre Er – i cui fondatori Roger Hallam e Rupert Read hanno 55 anni – coinvolge persone di ogni età.
Inoltre, Extinction rebellion usa metodi di protesta incentrati sull’azione diretta nonviolenta (anche se, a volte, durante le proteste, gli attivisti vengono arrestati). Il movimento offre, inoltre, delle sessioni di formazione su storia della disobbedienza civile, teorie della nonviolenza e informazioni su come «parlare con la polizia, come bloccare una strada e come utilizzare le proprie reti di sostegno».
Una sfida impossibile (senza equità e solidarietà)
Le conferenze sul clima non porteranno mai a risultati concreti se non si cambia il modello economico e non si inizia a prendere in esame la questione della giustizia.
Lo scorso novembre, per la 26esima Conferenza delle parti (Cop26), sono arrivate a Glasgow circa 30mila persone. Inquieta scoprire che il gruppo più numeroso – 503 delegati – è stato quello inviato dalle imprese produttrici di carbone, petrolio, gas, ovvero i combustibili fossili che sono all’origine della catastrofe climatica. Che fossero lì per convincere i governi che non c’è bisogno di una transizione ecologica troppo stringente?
Da Rio a Glasgow
La Cop26 è stata l’ultima tappa di un viaggio iniziato nel 1992, quando tutte le nazioni del mondo si incontrarono a Rio de Janeiro, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per discutere di cambiamenti climatici. Durante la conferenza tutti riconobbero la necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas a effetto serra, ma nessuno accettò di assumere impegni concreti. Come soluzione venne firmato un accordo che conteneva l’impegno a proseguire il confronto tramite apposite conferenze organizzate annualmente. L’accordo assunse il nome di United nation framework convention on climate change (Unfcc), mentre le conferenze si sarebbero chiamate Conferenze delle parti, in sigla Cop, seguite dal numero dell’appuntamento.
Fra le conferenze più importanti sono da segnalare la Cop3, che si tenne a Kyoto (Giappone) nel 1997, e la Cop21, che si tenne a Parigi nel 2015. La prima produsse il protocollo di Kyoto che prevedeva l’impegno a ridurre le emissioni di CO2 del 5,2% rispetto al 1990. La seconda, invece, produsse l’accordo di Parigi che prevede l’impegno a limitare le emissioni di gas serra nella misura necessaria a impedire alla temperatura terrestre di crescere oltre 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali.
L’accordo di Parigi venne firmato da 197 nazioni più l’Unione europea: praticamente tutti i paesi del mondo. Esso costituisce un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite meccanismi di persuasione morale e politica. In effetti, al di là dell’obiettivo generale, l’accordo di Parigi non impone ai singoli stati adempimenti obbligatori. Ogni paese che ratifica l’accordo è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in maniera volontaria. È previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati non vengano soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema «name and shame», la compilazione di una sorta di lista «della vergogna» in cui inserire i paesi inadempienti.
Ad oggi, 192 paesi hanno presentato i loro primi obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra (in sigla Ndc, Nationally determined contributions). Ad esempio, il documento presentato dall’Unione europea prevede che per il 2030 le emissioni siano abbattute almeno del 55% rispetto a quelle emesse nel 1990. Gli Stati Uniti, invece, per la stessa scadenza, hanno dichiarato di volerle abbattere del 50-52% rispetto ai livelli del 2005. Più ermeticamente la Cina ha dichiarato che, a partire dal 2020, ridurrà del 40% le emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo. Ha anche dichiarato che aumenterà la quota di combustibili non fossili del 15% e che aumenterà l’area ricoperta a foresta di 40 milioni di ettari. Fra i paesi più virtuosi risulta la Gran Bretagna che per il 2030 si è impegnata ad abbattere le emissioni del 68% rispetto al 1990. Del resto, già nel 2008, aveva varato una legge che la impegna a raggiungere, entro il 2050, un livello di emissioni nette pari allo zero. Che tradotto significa impegno a non emettere gas a effetto serra in quantità superiore a quella che i sistemi naturali sono in grado di neutralizzare. Recentemente, anche l’Unione europea e il Canada hanno fatto annunci nella stessa direzione e anche altri paesi, fra cui Sudafrica, Giappone, Corea del Sud, Cina, hanno dichiarato di voler diventare paesi a zero emissioni entro archi temporali diversificati, che però ruotano sempre attorno al 2050. La Cina, ad esempio, ha dichiarato di voler diventare un emettitore zero per il 2060, mentre l’India ha assunto come data di riferimento il 2070. E, dopo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca, anche gli Stati Uniti si sono impegnati a raggiungere zero emissioni nette entro il 2050.
Temperatura, una crescita inarrestabile
Tutti assieme, i paesi che hanno annunciato di voler perseguire l’azzeramento delle proprie emissioni orientativamente per la metà del secolo, sono 131. Un numero importante considerato che complessivamente sono responsabili del 73% delle emissioni globali. Tuttavia, il segretariato dell’Unfccc non è molto ottimista. In un rapporto pubblicato nel febbraio 2021, sostiene che se anche tutti gli impegni dovessero essere rispettati, solo nel 2030 ci si può attendere una lieve diminuzione effettiva delle emissioni di anidride carbonica. Al contrario fino al 2025 continuerebbero ad aumentare. E le conclusioni in termini di gradi centigradi le tira il Climate action tracker, un centro studi internazionale, secondo il quale le riduzioni promesse non riuscirebbero a contenere l’aumento della temperatura terrestre entro il limite di 1,5 gradi centigradi auspicato dall’Accordo di Parigi. A suo avviso, senza impegni più stringenti la temperatura crescerà di 2,1 gradi, se non di 2,6 gradi, entro il 2100.
Secondo gli ambientalisti anche il piano presentato dall’Unione europea è troppo timido. Il 14 luglio scorso, la Commissione europea ha presentato il suo piano particolareggiato di riduzione di emissioni denominandolo «Fit for 55», traducibile come adatto per il 55, ossia la riduzione del 55%. Fra gli obiettivi forti del piano c’è quello di arrivare al 2030 con il 40% di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili, il miglioramento energetico di 35 milioni di edifici, l’allestimento di una rete su strada di carica batterie, la messa a dimora di tre miliardi di nuove piante. Il piano prevede anche delle forme di tassazione sui carburanti utilizzati per trasporti, industria e attività residenziali, in modo da scoraggiare il consumo di combustibili fossili. Ma, secondo le associazioni ambientaliste, bisognava porsi obiettivi più ambiziosi in ognuno di questi ambiti. Anche se va detto che il grande assente dal piano è la lotta allo spreco e al consumismo. La conferma di come il sistema continui ad illudersi di poter risolvere la crisi ambientale limitandosi al solo cambio di tecnologia. Ma la crisi in atto non è solo climatica, si estende a ogni tipo di risorsa e rifiuto. Per cui potremo avere qualche possibilità di successo solo se all’efficienza abbineremo la sufficienza. Ossia cercheremo di produrre meglio, mentre accetteremo di produrre e consumare di meno.
Un modello da cambiare
Recentemente la Iea, l’Agenzia internazionale per l’energia, ha pubblicato due rapporti: uno sulla strada da perseguire per arrestare la crescita della CO2, l’altro sugli ostacoli che la strada alternativa rischia di incontrare. La strada indicata è di prediligere l’elettricità come fonte di energia, anche per i trasporti, purché generata da fonti rinnovabili. I limiti che però questa strada rischia di incontrare sono legati ai minerali che le nuove tecnologie richiedono, specie per la mobilità elettrica. Rame, litio, cobalto, nickel, sono metalli poco abbondanti, che oltre tutto richiedono molta energia e molta acqua per i processi di lavorazione.
Una chiara ammissione di scarsità che avvalora la necessità di abbandonare il modello consumistico non solo per esigenze di sostenibilità, ma soprattutto di equità. Finché abbiamo tenuto l’attenzione solo sulla nostra parte di mondo ed abbiamo trattato la giustizia sociale come una mera questione interna alle nostre nazioni ricche, ci è sempre sfuggito il nesso fra sostenibilità ed equità. Tanto meno abbiamo sentito il bisogno di mettere in discussione il modello consumista. Al contrario lo abbiamo giustificato, addirittura glorificato considerandolo obiettivo di sviluppo da garantire a tutti. Ma il «tutti» che avevamo in mente non arrivava ai confini del mondo, si fermava ai residenti nella nostra torretta d’avorio. I nostri connazionali erano gli eletti a cui ritenevamo di dover garantire ogni forma di amenità. E abbiamo costruito un mondo ingiusto dove una minoranza ricca fa la parte del leone nel consumo delle risorse, e, ahinoi, nella produzione di rifiuti. A titolo di esempio, i paesi aderenti all’Ocse, tradizionalmente i più ricchi, pur ospitando solo il 18% della popolazione planetaria, consumano il 40% dell’energia prodotta a livello mondiale.
Quanto all’ambiente, non ci siamo mai occupati un granché delle sue sorti: eravamo sicuri che ce l’avrebbe fatta. Le risorse per noi élite c’erano, gli spazi ambientali pure: finché non abbiamo visto i primi segni dei cambiamenti climatici, per noi la questione ambientale non esisteva. Ma oggi che la crisi si è fatta evidente, dobbiamo scegliere che tipo di sostenibilità vogliamo perseguire: se quella dell’apartheid che destina le poche risorse esistenti al consumismo di pochi, o quella dell’equità che privilegia i diritti per tutti.
Simbolicamente, la scelta è: auto elettrica per una minoranza o beni e servizi fondamentali per tutta l’umanità? Domanda oziosa per i cristiani: la Chiesa ci ha sempre insegnato a scegliere la giustizia, intesa addirittura in senso estensivo. Ossia riferita non solo ai viventi di oggi, ma allargata alle generazioni del domani che hanno diritto anch’esse a trovare un pianeta ospitale. Diritto di cui potranno godere solo se noi, i loro antenati, sapremo privilegiare la sobrietà rispetto allo spreco. Questa è la responsabilità che ci compete se vogliamo bene ai nostri figli.
Il tema dell’equità richiama prepotentemente in causa un altro valore di fondamentale importanza per poter vincere la crisi climatica: la solidarietà. L’Ipcc, il gruppo di studio sul clima istituito dalle Nazioni Unite, sostiene che per vincere la sfida dell’anidride carbonica andrebbero investiti ogni anno 3.500 miliardi di dollari a livello mondiale, addirittura da qui al 2050.
In effetti, non si tratta solo di rinnovare il modo di produrre energia elettrica, ma anche di riorganizzare la mobilità, di ristrutturare gli edifici, di trasformare i processi produttivi delle industrie altamente energivore e inquinanti come quelle del cemento, dell’acciaio, dell’alluminio.
Clima, questione di tutti
La sfida si presenta così ardua da mettere in difficoltà non solo i paesi più poveri, ma anche i cosiddetti paesi emergenti come Cina, India, Sudafrica. Bisognerebbe smettere di procedere in ordine sparso, ognuno per conto proprio, secondo la logica fatalista del «si salvi chi può». Atteggiamento suicida: il clima è una questione globale e il fallimento anche di uno solo si trasforma in fallimento per tutti. Perciò urge attivare piani di solidarietà che permettano a tutti di ridurre la propria impronta di carbonio. Meccanismi solidi, non affidati al buon cuore. Ma su questo tema c’è ancora molta latitanza.
Un punto fermo si cercò di metterlo nel corso della Cop16 che si tenne a Cancun nel 2010. Venne deciso di costituire un fondo, alimentato dai paesi ricchi, che entro il 2020 avrebbe dovuto mobilizzare ogni anno almeno 100 miliardi di dollari, sia di origine pubblica che privata. Somme da utilizzare a vantaggio dei paesi più deboli per la transizione energetica e la costruzione di opere a protezione delle avversità climatiche. Il 2020 è arrivato, ma l’obiettivo non è stato raggiunto. Gli ultimi dati, relativi al 2019, dicono che la raccolta si è fermata a 79,6 miliardi, per il 37% messi a disposizione dai governi, il 43% dal sistema bancario multilaterale che fa capo alla Banca mondiale e il 20% dal sistema privato. Non si capisce, però, se i soldi versati dai governi siano somme aggiuntive a quelle tradizionalmente versate sotto forma di aiuto o se sono soldi sottratti ad altri obiettivi di cooperazione. Un’opacità che troppi hanno interesse a mantenere per nascondere le proprie inadempienze. Ma è arrivato il tempo di capire che dalla catastrofe climatica o ci si salva tutti o non si salva nessuno. Per questo, la scelta operata a Glasgow di rinviare al 2025 il raggiungimento dei 100 miliardi, non è di buon auspicio.
Francesco Gesualdi
Hanno firmato questo dossier:
Paolo Moiola – Giornalista, redazione MC.
Chiara Giovetti – Responsabile dell’ufficio progetti di Missioni Consolata Onlus. Per MC cura la rubrica «Cooperando».
Francesco Gesualdi – Già allievo di don Milani, fondatore del «Centro nuovo modello di sviluppo», autore di vari libri, per MC cura ogni mese la rubrica «E la chiamano economia».
Michael E. Mann, «La nuova guerra del clima. La battaglia per riprenderci il pianeta» (New Climate War: The Fight to Take Back Our Planet), Edizioni Ambiente, 2021.
Paul Hawken, «Il piano più completo mai proposto per invertire il corso del riscaldamento globale» (Drawdown: The Most Comprehensive Plan Ever Proposed to Reverse Global Warming), Viaggi nel Tempo, 2019.
Aa.Vv., «Atlante dell’antropocene», Mimesis Editore, gennaio 2021.
Luca Mercalli, Daniele Pepino, «La Terra sfregiata. Conversazioni sul vero e falso ambientalismo», Edizioni Gruppo Abele, giugno 2020.
«Tutto era pronto per partire per il Kirghizistan»: così avevamo informato i lettori di questa rivista, ormai due anni fa, ma solo dopo tanto tempo di attesa, a metà agosto del 2021, finalmente, le Missionarie della Consolata hanno potuto stabilirsi nel paese, dopo aver aperto una prima comunità nel Kazakistan nel 2020.
Già sembrava che questa missione «non s’avesse da fare». Prima c’è stata l’impossibilità a viaggiare per il Covid, poi la difficoltà nell’ottenere i visti.
Io, suor Ivana, ho ricevuto il visto nel dicembre 2020. Appena ricevuto sono dovuta entrare immediatamente nel paese per evitare di perderlo. Le mie sorelle, suor Judith Kikoti (del Kenya) e suor Adanech Mitiku Shawo (etiope), l’hanno ricevuto solo agli inizi di agosto 2021 e finalmente anche loro sono partite.
Sono stati tempi di grande incertezza, ma che sicuramente ci hanno insegnato, ancora una volta, che la Missione è di Dio, che i suoi tempi e cammini sono perfetti, e che la nostra pazienza non è mai troppa.
Ed eccoci allora in Kirghizistan, paese dell’Asia centrale abitato da circa 6,5 milioni di persone, per la maggior parte musulmane. Precisamente siamo a Jalalabad (Žalal-Abad), come l’omonima città pakistana o afghana, zona Sud Occidentale del paese, a poca distanza dal confine con l’Uzbekistan, nella missione dove sono presenti due gesuiti polacchi, che accompagnano i pochi cattolici di questa zona.
L’inserimento in una nuova realtà richiede tempi lunghi per la conoscenza sia della lingua che della cultura e della storia del paese. Quest’ultima è una chiave di lettura importantissima della realtà in cui ci troviamo; perciò, attualmente siamo impegnate su questi fronti, ma anche nella «costruzione» della nostra comunità religiosa. Dopo questa prima fase del «vedere e conoscere», successivamente faremo un discernimento sui cammini da intraprendere, previa una riflessione in dialogo con l’amministratore apostolico, padre Anthony James Corcoran, sj. Il fatto di essere in loco ci offre già la possibilità di testimoniare la nostra fede.
Mettere su casa
Gli inizi, soprattutto se così tanto desiderati e sospirati, sono sempre belli. La gioia di tornare a riunirci come comunità dopo diversi mesi, e di avere finalmente raggiunto la nostra terra promessa, ci ha dato quella giusta carica di entusiasmo per incominciare a entrare in questa nuova e sfidante realtà. È un paese mussulmano, dove l’appartenenza a quella che fu l’Unione Sovietica è un ricordo ormai lontano, soprattutto per il 50% della popolazione che ha meno di 25 anni, e nelle zone nelle quali i cosiddetti «russi» (vengono chiamati così tutti i discendenti di europei presenti nel paese), che fino agli anni ‘90 erano numerosi, sono ormai pochi.
Il Kirghizistan è immerso in una stupenda natura, dove gli incontaminati paesaggi montani, il cielo terso, gli aspri crinali e gli ondulati pascoli estivi popolati da pastori che vivono al riparo delle loro yurte, sono di una bellezza affascinante.
Il «mettere su casa» è stata una bella occasione per una conoscenza sul campo di questa realtà. Siamo le prime suore che abitano in Jalalabad e sicuramente, le prime che si sono avventurate nel bazar (grande mercato popolare) e ai mercati.
Questa città è la terza per grandezza e importanza del paese con i suoi 100mila abitanti. Ma l’aspetto esteriore e la mentalità della sua popolazione è più da villaggio, e il suo bazar è il centro della vita commerciale e anche sociale.
Il nostro modo di vestire e i nostri visi, destano molta curiosità tra le bancarelle: pochi ci identificano come «monache», molti invece ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo marito e figli (1), e che cosa facciamo. Certo, ci vedono anzitutto come possibili clienti straniere, per cui le buone maniere sono di obbligo, anche se alcuni ne approfittano per aumentare i prezzi, ma in molti casi abbiamo sentito grande apertura e simpatia nei nostri confronti, e siamo anche state aiutate.
In strada con la gente
Le «matschiutke», i piccoli pulmini da 15 o 18 posti a sedere, che utilizziamo per spostarci nella città, sono per noi, non solo un mezzo di trasporto, ma un osservatorio della realtà in cui siamo inserite. Questi mezzi pubblici sono molto usati, economici, comodi. Anche i bambini delle scuole li usano, in quanto qui, come in tutto il paese, non esiste un trasporto scolastico dedicato. Dallo scarso flusso di auto private, anche nelle ore di punta, capiamo che la macchina è un bene che poche famiglie si possono permettere (2), e al Sud vedere una donna al volante è ancora abbastanza raro.
Ci ha piacevolmente sorprese il constatare come nelle «matschiutke» sia viva la cultura di lasciare il posto alla persona più anziana. È interessante notare come un adolescente seduto lasci il posto anche a un giovane di 30 anni. Questo significa per noi avere sempre un posto assicurato. Inoltre, in questi mezzi di trasporto, come anche nel bazar, non si sentono schiamazzi o persone che parlano forte al telefono, anzi sembra tutto ovattato.
Tre lingue diverse
A differenza del Nord del paese, dove ancora molti parlano russo, qui al Sud è raro sentire parlare questa lingua. Qui predominano il kirghiso e l’uzbeco, anche se i venditori qualche parola la conoscono, fortunatamente per noi, soprattutto se hanno più di 40 anni e hanno vissuto nel tempo dell’Unione Sovietica, quando era obbligatorio parlare in russo, pena il carcere e multe salate. Questo ci ha fatto subito capire che abbiamo una grande sfida davanti a noi: non solo imparare il russo, che è la lingua utilizzata nelle comunità cristiane, ma necessariamente anche il kirghiso e l’uzbeco.
Abbigliamento
Dicevo che il nostro abbigliamento è strano per le persone locali, in quanto quasi tutte le donne, vestono secondo la loro cultura, ossia con vestiti lunghi e con il velo islamico, ad eccezione delle giovani, soprattutto le universitarie, delle donne impiegate in uffici o scuole, e delle poche «russe» che vestono all’europea.
Ci sono tanti modelli di veli: quelli che nascondono solo i capelli e quelli che coprono anche il viso. Il velo è un accessorio che ci aiuta a distinguere, a parte i tratti del viso, se una donna è kirghisa o uzbeca: le donne kirghise, infatti, portano il velo legato alla nuca, ed è sempre molto colorato o bianco (questo colore identifica le novelle spose). Invece quelle uzbeche portano un velo fermato nella parte anteriore della testa che copre tutto il collo ed è di tonalità più scura.
C’è però in questi anni una crescita della tendenza, che alcuni chiamano moda e altri la identificano come un segno di radicalizzazione islamista, per la quale molte giovani donne e bambine indossano il velo con una specie di cuffia sotto, tipo passamontagna che contorna il viso.
Anche gli uomini sono soliti coprire il capo: i Kirghisi usano, specialmente nelle feste o negli incontri importanti, il «Kalpak», un cappello a cono in feltro bianco con i bordi di diversi colori e decorazioni ricamate, che tradizionalmente informa sull’età e la posizione sociale di chi lo indossa. Gli Uzbechi invece indossano quotidianamente il «tubeteica», una specie di zucchetto, generalmente di colore scuro (verdone, grigio, nero o blu), con o senza ornamenti ricamati bianchi o grigi.
Pastori e contadini
Qui al Sud del paese convivono Kirghisi e Uzbechi. Questi ultimi sono quasi un milione, rappresentano il 14% della popolazione di tutto il paese. Hanno lingua, tradizioni e stili di vita molto diversi: i Kirghisi (3) erano, e lo sono ancora attualmente (se non tutti fisicamente, ma almeno nella mentalità, come mi diceva un’amica kirghisa), un popolo nomade, dedicato all’allevamento di cavalli, mucche e pecore, mentre gli uzbechi un popolo più sedentario dedicato tradizionalmente all’agricoltura e al commercio. I due popoli, al tempo dell’Unione Sovietica, vivevano pacificamente dividendo gli spazi di questa regione, i primi sulle montagne e i secondi nelle pianure. Ma con la caduta dell’Urss, avendo stabilito i confini delle nuove repubbliche indipendenti a tavolino e, in molti casi, prendendo le strade esistenti come le linee di frontiera, molti Uzbechi si ritrovarono in territorio kirghiso. Come tutti gli altri abitanti nati in Kirghizistan appartenenti ad altre minoranze etniche, il loro passaporto è kirghiso con la specificazione della nazionalità di origine. Questo significa che: se tuo padre è uzbeco tu sarai sempre uzbeco, se tuo padre era russo, tu sarai per la società sempre russo, e, di conseguenza, questo porta a uno sbarramento nell’accedere agli incarichi pubblici e/o di rilevanza nella società (4). I due popoli, anche se sottostanno alle leggi della stessa nazione, di fatto vivono una vita separata: ci sono negozi, ristoranti, moschee e scuole separate, queste ultime per garantire a ciascuno il diritto all’apprendimento della propria lingua. In questo momento la convivenza è pacifica, ma solo nel 2010 Jalalabad e la vicina città di Ošh (a 100 chilometri di distanza) furono teatro di gravi scontri tra le tue etnie, perché molti Kirghisi sentivano che la loro sovranità era minacciata dagli Uzbechi, che per le loro capacità imprenditoriali, si stavano arricchendo nella loro terra. Il bilancio di quegli scontri fu pesante: secondo fonti non ufficiali, più di 3mila morti, 9 su 10 Uzbechi, case date in fiamme, e tante persone fuggite all’estero.
Un seme piccolo piccolo
Immersa in questa realtà del Sud del paese c’è la nostra Chiesa Cattolica, due piccole comunità parrocchiali formate da «russi» (5), una in Jalalabad, che raccoglie anche i parrocchiani dei villaggi vicini, e una a Ošh, per un totale, almeno nei registri parrocchiali, di cento persone, ma in realtà sono molte meno.
La storia della Chiesa in Kirghizistan è recente, comincia ufficialmente nel 1997, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per volere di papa Giovanni Paolo II, quando fu affidata ai gesuiti. Lo scopo del loro arrivo era esclusivamente l’accompagnamento spirituale dei fedeli cattolici che si trovavano in queste terre e che, durante gli anni sovietici, erano stati costretti a vivere la loro fede di nascosto per l’ateismo di stato. Negli anni ‘90 i cattolici presenti in queste terre erano molti, ma a causa di una non facile situazione economica, di difficoltà ad accogliere il nuovo stato delle cose, ossia essere comandati da Kirghisi, della paura di possibili vendette da parte di questi ultimi e per le politiche di accoglienza dei paesi di origine, come tanti «russi» di altre religioni, sono andati via. Come dicono con rammarico alcuni dei nostri parrocchiani cinquantenni che hanno vissuto il cambiamento: «Adesso siamo pochi, ma una volta sì che eravamo tanti!». I motivi di chi è rimasto sono essenzialmente tre: o aveva un buon lavoro, o era troppo povero per affrontare la migrazione, o non ha avuto il coraggio di andarsene e ricominciare vita da un’altra parte.
Purtroppo, i nostri giovani, senza prospettiva di lavoro, se possono, lasciano il paese appena maggiorenni. Oggi la nostra Chiesa è un piccolo gregge, visto da Kirghisi e Uzbechi come una religione straniera per i «russi», accompagnato da sette gesuiti, un prete diocesano slovacco Fidei donum, cinque sorelle francescane e noi tre suore Missionarie della Consolata, distribuiti in tre zone del paese.
Le sfide che si presentano davanti a noi, e le domande, sono tante: quale futuro per la Chiesa cattolica in questo paese? Come aiutare il cammino di riconciliazione tra questi popoli? Risposte non ne abbiamo, ma ciò che conta ora è accogliere e amare questa realtà ed essere docili ai cammini che Dio ha preparato per noi qui in Kirghizistan, dove finalmente siamo arrivate.
Ivana Cavallo
Note
1 Per i Kirghisi e gli Uzbechi presenti in questa zona, è assurdo che una donna non abbia marito, tanto è vero che una vedova poco tempo dopo la morte del marito deve risposarsi, perché c’è la credenza che una donna non sposata porti energia negativa alla famiglia.
2 La situazione economica nel paese è molto difficile. Secondo l’ultimo censimento, su sei milioni di abitanti, più di un milione è all’estero per lavorare e inviare soldi alla famiglia. Gli stipendi sono molto bassi, per cui è normale che chi lavora come dipendente, abbia più di un lavoro.
3 Nel 1970 solo il 14% dei Kirghisi viveva nelle città, di fatto i cattolici cinquantenni dicono che quando loro studiavano, poteva esserci uno o al massimo due bambini kirghisi in classe, il resto erano tutti russi. Nel 2009 la percentuale era salita già al 30%.
4 I Kirghisi, per la prima volta nella storia, nel 1990 si organizzano come stato, un processo non facile che si rispecchia anche nella fatica di arrivare alla stabilità politica e allo sviluppo economico, causata soprattutto dalla forte corruzione, dovuta in parte a un mancato senso della concezione della proprietà privata. Infatti, fino a 30 anni fa i Kirghisi hanno sempre vissuto sulle montagne, e chi arrivava per primo occupava i pascoli per il proprio bestiame, e quindi non avevano mai avuto bisogno di organizzarsi come stato. L’educazione scolare e il servizio pubblico sanitario sono una eredità dei tempi dell’Unione Sovietica.
5 Queste terre dell’Asia Centrale ai tempi dell’Unione Sovietica, videro crescere la loro popolazione di russi (qui intesi come quelli provenienti veramente dalla Russia), tedeschi, polacchi, ucraini, ceceni, tatari, curdi, etc., sia perché meta delle deportazioni di massa di molti popoli che vivevano nei territori dell’Urss, considerati pericolosi e sovversivi negli anni della Seconda guerra mondiale, sia perché negli anni successivi c’era una grande offerta di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche aperte dal regime in queste terre, senza contare tutti i funzionari che venivano direttamente dalla Russia.
Giuseppe Frizzi. Il «minatore» umile e appassionato
La malattia ha portato via senza preavviso un altro missionario del Mozambico. Un bergamasco semplice, che ha amato il popolo a cui è stato mandato, i Macua Xirima (o Scirima), con tutto il suo cuore e, ancor più, con tutta la sua intelligenza.
Ho conosciuto padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata, ventuno anni fa in Mozambico, a Maúa, nella provincia del Niassa. Maúa è stata la mia prima – e fino a oggi unica – esperienza di missione ad extra. Viverla al fianco di un missionario dello spessore umano, spirituale e apostolico di padre Frizzi ha costituito per me una vera benedizione e una straordinaria opportunità di trasformazione e crescita nella mia vocazione di missionaria della Consolata. Da allora, pur essendo stata chiamata ben presto ad altri servizi fuori dal Mozambico, ho sempre seguito da vicino, con viva partecipazione, profondo interesse e ammirazione, il suo percorso missionario e il suo instancabile impegno pastorale e di ricerca sul fronte etnografico, etnologico, linguistico ma soprattutto teologico e missionario.
Maúa, più che un luogo
Vorrei spendere una parola sul contesto di Maúa, partendo da quanto ho vissuto durante la mia permanenza là e nei successivi contatti fino ad oggi, nell’intento anche di situare quanto cercherò di esprimere circa la mia esperienza con, e di, una persona eccezionale come «padre Frizzi» (come era da tutti chiamato).
Arrivata a Maúa nell’anno 2000, mi inserisco nell’équipe missionaria della parrocchia di san Luca. L’équipe è formata da padri, fratelli e suore, tutti missionari e missionarie della Consolata. Padre Frizzi è il parroco. L’équipe ha la sua sede in Maúa, ma serve decine e decine di comunità cristiane sparse nel distretto omonimo e in altri confinanti facenti capo alla parrocchia di san Luca, che in quegli anni attende pure ad altre tre parrocchie a loro volta suddivise in decine di comunità cristiane animate da ministri laici.
La popolazione del distretto di Maúa e di quelli limitrofi è per la stragrande maggioranza di etnia Macua Xirima. È una etnia bantu caratterizzata da una cosmovisione, un’antropologia e una teologia assolutamente originali e affascinanti, radicate nella percezione della femminilità e della maternità come assi portanti dell’universo, percezione che si traduce anche in una particolare struttura sociale matriarcale, matrilineare e matrilocale e in una spiritualità dalle chiare connotazioni femminili e materne.
Evangelizzazione inculturata
La linea pastorale scelta dall’équipe missionaria, in accordo con la diocesi, è caratterizzata da un’attenzione particolare all’evangelizzazione inculturata. Arrivare a Maúa significa venire a contatto con una sensibilità pastorale segnata in modo particolare dalla percezione del cammino che Dio ha già percorso col popolo Macua Xirima, dal rispetto di questo cammino e da una proposta evangelica chiara e dialogica. Tale proposta, mentre offre necessariamente un salto di qualità nella relazione con Dio e tra le persone, gode di valorizzare, approfondire e lasciarsi istruire dal tesoro dell’esperienza che il popolo ha vissuto con Dio nella storia, espressa dalla religione tradizionale e dalla cultura in generale.
In questo contesto pastorale si inserisce il Centro studi Macua Xirima (in portoghese: Centro investigações Macua Xirima – Cimx) iniziato da padre Giuseppe che ne è il direttore, unendo questa sua attività a quella di parroco fino alla fine dell’anno 2020.
Durante la mia permanenza a Maúa, ho avuto l’opportunità di collaborare con padre Frizzi al Cimx oltre che nella pastorale. Poiché il Cimx ha un ruolo fondamentale nello splendido percorso missionario che lo Spirito ha suscitato e guidato a Maúa e dintorni, è opportuno spendere qualche parola per illustrarne l’origine, la natura e le caratteristiche.
Il Centro Studi
Arrivato in Mozambico nel 1975, dopo il dottorato in teologia biblica e una breve permanenza in Portogallo e in Inghilterra, negli anni 1979-1986 padre Frizzi si trova nella missione di Cuamba, circa 150 km a Sud di Maúa. Sono gli anni difficili del governo di ispirazione marxista, della nazionalizzazione delle missioni, della guerra civile. Padre Frizzi, come gli altri missionari e missionarie, è sottoposto a limitazioni della libertà di movimento da parte delle istituzioni di governo. Utilizza questo periodo per lo studio della lingua macua e l’organizzazione di materiale etnografico e linguistico già raccolto da missionari e missionarie negli anni precedenti. Nel 1982, egli pubblica la prima edizione del messale festivo in lingua macua xirima, il Masu a Muluku.
Con il trasferimento a Maúa, presso la parrocchia di san Luca, nel 1987 padre Frizzi inizia la raccolta più sistematica del materiale etnografico, coadiuvato da un gruppo di collaboratori locali. Nasce così, senza fare rumore e quasi inosservato, il Centro investigações Macua Xirima (Cimx). In un certo senso, il Cimx è un po’ il cuore della parrocchia di san Luca e del percorso missionario in quel contesto.
In quel contesto si è creato un po’ per volta un clima umano fatto di calore, fiducia e reciprocità nel quale fluisce un autentico e fecondo dialogo. A quel clima contribuisconono tutti gli aspetti del lavoro impostato dal padre: la famigliarità con il materiale tradizionale, l’allenamento progressivo a verbalizzarne le tematiche, lo sforzo di tradurre la Parola di Dio in lingua xirima, attraverso discussioni appassionate e a volte infuocate sulla scelta dei vocaboli ma anche sul significato delle parole. Ma poi anche il confronto costante tra persone diverse nei gruppi di traduzione, elaborazione e revisione dei testi. Ultimo, ma non meno importante, anche il rapporto quotidiano tra padre Frizzi, gli altri missionari, le missionarie e i collaboratori del Centro, corroborato da una storia vissuta assieme per lunghi anni, anche nei momenti duri della guerra, dell’incertezza e della disperazione.
Centro di umanità
In questo clima umano ho la grazia di essere accolta e di goderne le potenzialità e i frutti. Anche molti ricercatori, studenti, missionari e missionarie di varie nazionalità, esperienze e appartenenze religiose, possono abbeverarsi lungo gli anni al pozzo inesauribile e ricchissimo di Maúa. Qui apprezzano il patrimonio scientifico e spirituale depositato nel materiale raccolto e soprattutto nei cuori dei collaboratori locali del Centro, lasciandosi coinvolgere e trasfigurare dallo Spirito che fluisce, con soavità e abbondanza, in questa appassionante esperienza missionaria. Godono dell’accoglienza semplice, amabile, familiare dei missionari e delle missionarie della Consolata, scoprendo, con meraviglia e gratitudine, la grandezza umilissima e riservata, la sapienza profonda e disarmante, la fiamma ardente e dolce, la luce limpida e discreta che traspariva dalla persona di padre Frizzi, sempre pronto ad ascoltare, condividere, dialogare, accompagnare alla scoperta dei tesori che Dio semina e fa crescere nella persona e nel popolo.
I Frammenti
L’ultima pubblicazione di padre Frizzi e del Cimx ha visto la luce alla fine del 2020. Si tratta di un’opera originalissima, densa e sostanziosa: Fragmentos e segmentos da biosofia e biosfera xirima (Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima). Essa rappresenta un nuovo frutto maturo di oltre quarant’anni di esperienza missionaria tra il popolo Macua Xirima. Scrive l’autore nell’introduzione a questa sua opera: «La pubblicazione dei “Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima” presuppone la lettura attenta del volume Murima ni ewani exirima – Biosofia e biosfera xirima, pubblicato nel 2008, perché vuole esserne la continuazione e il complemento esemplificato. È un’altra, forse l’ultima, tappa importante del lungo cammino iniziato nell’anno 1937, con l’arrivo dei primi missionari e missionarie della Consolata nel Sud del Niassa. Capire e parlare la lingua xirima era condizione necessaria per comunicare e evangelizzare. Alcuni missionari non solo si sforzarono di parlare la lingua xirima, ma si dedicarono alla ricerca filologica attraverso l’elaborazione di grammatiche e dizionari, penetrando nella struttura della lingua e contribuendo alla conoscenza della stessa. Col tempo, comparvero i primi lavori di ricerca e di traduzione in campo liturgico, catechetico e biblico. […] Nutro la certezza che anche questi Frammenti e segmenti potranno favorire il consolidamento delle radici culturali xirima perché diventino in futuro capaci di innalzare antenne aperte alla pluralità linguistica e culturale a livello locale, nazionale e mondiale».
Minatore cronico
Padre Frizzi, come un appassionato ricercatore di pietre preziose, un «minatore cronico», come lui amava definirsi, ha sondato e scavato con amore e riverenza il terreno umano e spirituale dei Macua Xirima, accogliendo e raccogliendo i tesori che ne emergevano. Ha sperimentato con gioia che il primo atto missionario è il raccogliere più che il seminare, mietendo ciò che Dio ha seminato e fatto crescere nel cuore della persona e del popolo lungo il suo cammino storico e spirituale.
Ha vissuto la beatitudine del missionario evangelizzato da coloro che evangelizza, nella dinamica di un fecondo, intenso e coinvolgente scambio di doni.
Ha varcato la porta della Luce tornando a Colui che lo ha inviato e consegnando a Lui il raccolto straordinario, sovrabbondante, di una vita di appassionata ricerca e di profonda unione con Dio, vissuta nella gioia evangelica e nella gratitudine più genuina anche in mezzo a vicende molto dolorose e drammatiche. Nella semplicità, sobrietà ed essenzialità, ha imparato a distinguere ciò che è importante da ciò che è effimero, nell’impegno convinto e fervoroso a costruire sempre ponti di comunione, ad aprire strade di congiunzione, a tessere legami di vera fraternità.
La tomba di un Buono
I funerali di padre Frizzi si sono svolti il 3 novembre 2021 nella chiesa di Nzinje a Lichinga e poi è stato sepolto nel cimitero del santuario della Consolata di Massangulo. Il suo corpo è stato accolto nel grembo fertile della terra rossa del Niassa. La sua vita è ora pienamente trasfigurata dalla luce lieta e avvolgente dell’abbraccio di Dio Padre e Madre, ardentemente desiderato, cercato, trovato, amato, annunciato, celebrato lungo la sua intensissima vita.
Un proverbio macua recita: Pixa murima nlitti nawe khannìxa. La fossa in cui si seppellisce la persona buona/mite/trasparente/santa (=pixa murima) non è profonda.
Molti anni fa, chiedendo ai collaboratori del Cimx di Maúa qualche delucidazione circa questo proverbio, mi venne spiegato che nessuno ha piacere né fretta di separarsi dal pixa murima, ossia da chi è buono/mite/trasparente/santo. Per questo, quando egli muore, si fa fatica a scavargli la fossa e chi comincia a farlo perde in fretta l’energia in seguito al dispiacere. Perciò la fossa non riesce a essere profonda. Inoltre, non è necessario seppellirlo molto in profondità, anzi, meglio lasciargli la possibilità di uscire senza troppa difficoltà dalla tomba, se volesse, per tornare nel mondo dei vivi, ove sarebbe sempre più che benvenuto.
suor Simona Brambilla, Mc
Breve biografia
Padre Giuseppe Frizzi nasce a Suisio (Bg) il 14 maggio 1943. Entrato giovanissimo tra i Missionari della Consolata, emette la prima professione religiosa nel 1963 e nel 1969 viene ordinato sacerdote a Roma.
Dopo i primi studi di filosofia e teologia a Roma, nel 1973 consegue il dottorato in teologia biblica presso la Westfälische Wilhelms Universität di Münster (Germania) con una tesi su Mandare/inviare in Luca – Atti.
Padre Frizzi viene inviato in Mozambico nel 1975 e vi rimarrà fino alla morte. Per molti anni è parroco della parrocchia di san Luca a Maúa e direttore del Centro studi Macua Xirima della diocesi di Lichinga, situato nella stessa parrocchia. Lì coniuga in modo ammirevole e armonico un intenso e gioioso impegno pastorale, anche nel periodo drammatico della guerra civile, con un inesauribile dinamismo di preghiera, riflessione, studio, dialogo a vari livelli. Matura una lunga e profonda esperienza nel campo della evangelizzazione inculturata, della ricerca etnografica, linguistica, antropologica culturale e missiologica, che sfocia anche in molte pubblicazioni.
Nel 2009, padre Frizzi viene insignito della laurea Honoris causa in missiologia da parte della Pontificia Università Urbaniana in Roma. Dopo una brevissima malattia, padre Frizzi torna alla Casa del Padre il 30 ottobre 2021, proprio ai vespri della memoria liturgica della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, alla quale era spiritualmente legatissimo e per la cui causa di beatificazione aveva dato il suo fondamentale contributo.
S.B.
IL CIMX:
un centro di ricerca e incontro interculturale
Il Centro investigações Macua Xirima, fin dagli inizi, ha perseguito diverse piste di ricerca:
catechesi, bibbia e liturgia (1);
lingua, educazione, cultura (2);
scultura, pittura, architettura (3).
Il Cimx, fino a questo momento, è stato un organismo flessibile e di tipo familiare con la sua sede principale in alcuni locali della parrocchia di Maúa, che conservano lo stile semplice e sobrio dell’ambiente in cui sono inseriti. In questi locali, alcuni computer costituivano gli strumenti di lavoro dei collaboratori addetti a ricevere e archiviare il materiale proveniente dai ricercatori sul campo.
Questi erano persone di Maúa e dintorni che, in accordo con padre Frizzi, si recavano nelle varie comunità locali partecipando a riti, conversando con gli anziani, i saggi e i terapeuti tradizionali, e raccogliendo così materiale orale che registravano su audiocassette oppure trascrivevano su quaderni. Il materiale veniva consegnato al padre che ne prendeva visione e operava una prima selezione eliminando le ripetizioni. Vieniva quindi archiviato in formato cartaceo e digitale con rispettiva traduzione in portoghese.
Il Cimx è stato pure la sede della commissione locale per la traduzione della Bibbia in lingua macua xirima: lavoro durato una decina d’anni, che ha visto coinvolti padre Frizzi e una decina di collaboratori locali, uomini e donne, animatori di comunità cristiane.
Ancora, il Cimx è stato sede delle commissioni per l’elaborazione e revisione di varie pubblicazioni xirima in campo linguistico, catechetico, liturgico ed educativo.
Al Cimx hanno fatto riferimento vari artisti, pittori e scultori della Scuola d’arte san Pietro Claver, che operano in diverse località del distretto di Maúa e limitrofi.
Siamo fiduciosi che possa continuare nella sua missione.
S.B.
1 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:
il Catechismo degli adulti e dei bambini (1986); il Messale festivo – Masu a Muluku, seconda e terza edizione (1986 e 1999);
l’edizione ampliata e illustrata del libro di canti e preghiere – Mavekelo ni Itxipo (1986 e riedizione nel 2003);
il Nuovo Testamento – Watana wa nanano e il Libro dei salmi – Masalimu (1998);
la vita di Gesù illustrata – Yesu Atata ni Namuku, nell’edizione italiano/macua (2000), portoghese/macua (2002) e inglese/macua (2007);
La Bibbia in lingua xirima – Bibliya Exirima (2002).
2 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:
Mwana Mutthu Owo! (2002), un’antologia illustrata bilingue di racconti e proverbi tradizionali, ora in uso nelle scuole;
il Dicionário Xirima-Português e Português-Xirima (2005);
Murima ni Ewani Exirima – Biosofia e Biosfera Xirima (2008), una presentazione monumentale della cosmologia xirima attraverso testi tradizionali di proverbi, racconti, miti e riti;
Fragmentos e Segmentos da Biosofia e Biosfera Xirima (2020), una compilazione di temi significativi della cultura xirima, esplorati dall’autore attraverso la raccolta di testi rilevanti per la cosmovisione del popolo (approccio etnografico), l’analisi degli stessi (approccio etnologico) e il confronto con temi biblici e cristiani (approccio teologico – dialogo interreligioso).
3 La Scuola d’arte san Pietro Claver è parte integrante del Cimx. Ad essa si rifanno artisti locali che nel campo della scultura e della pittura sanno dare un contributo originale, espressione della loro cultura. In particolare, i crocifissi lignei scolpiti da questi artisti sono apprezzati in Mozambico e all’estero. Le illustrazioni delle pubblicazioni del Cimx sono tutte opere di artisti locali. Anche l’architettura delle nuove chiese e i lavori di recupero ed abbellimento delle vecchie chiese dopo la restituzione alla diocesi da parte dello stato, nella zona di Maúa e dintorni, si sono avvalsi di vari elementi culturali e dell’uso creativo di materiale locale.
Il disegno Macua Xirima a matita, di Afonso Murupala, sull’argomento della Beata Irene, presentato a Roma durante l’incontro IMC, MC e LMC nel 13° Capitolo generale IMC, è un esempio dell’arte sviluppata nel Cimx. Questo il significato:
Suor Irene è una missionaria conosciuta in tutto il mondo per il suo casco coloniale. L’artista trasforma il casco coloniale e ne fa un cappello parigino, tanto elegante da attirare l’ammirazione dei due soldatini.
L’elegante e simpatico cappello, insieme alle ali del grande Spirito, adombrano l’immenso cuore materno della Nyaatha (madre di misericordia) keniana e della Pwiyamwene (madre del popolo) mozambicana.
Grazie padre Frizzi, fratello nostro
La perdita così repentina di una persona come padre Frizzi lascia in chi lo ha conosciuto da vicino un grande vuoto e dolore assieme a una viva, immensa, profondissima gratitudine per aver avuto il privilegio, la grazia e l’onore di averlo incontrato e di aver condiviso con lui un tratto di cammino. A nome mio personale e dell’istituto delle Missionarie della Consolata desidero esprimere il nostro sentito e commosso grazie al carissimo padre Giuseppe Frizzi, fratello nostro.
Sì, padre Frizzi, proprio questo termine ha caratterizzato e cadenzato la tua presenza tra noi Missionarie della Consolata: fratello. Quante sorelle, dopo averti incontrato, mi hanno espresso questo commento: «Padre Frizzi è proprio un fratello». Ti abbiamo sentito e ti sentiamo così. Profondamente, autenticamente, inconfondibilmente fratello. Ti abbiamo visto avvicinarti a noi in tanti modi e occasioni, sempre col tuo fare rispettosissimo e umile, col tuo sguardo attento e discreto, col tuo sorriso timido, genuino e disarmante, col tuo cuore sensibilissimo e disponibile, ardente e mite, con la tua mente vulcanica, lucida, acuta e penetrante, con la tua parola sobria, stimolante e soave, con il tuo spirito libero, trasparente, effervescente e delicatissimo, capace di elevarsi ad altezze impensabili e di inabissarsi nelle profondità più recondite del Mistero di Dio e delle creature.
Ti abbiamo visto varcare la soglia di tante nostre comunità, e dei nostri cuori, con somma discrezione e altrettanta premurosa vicinanza: in ogni incontro con le Sorelle nelle varie assemblee, momenti di formazione comunitaria, Esercizi spirituali e altre piccole e grandi occasioni che ti abbiamo chiesto di condividere con noi, in Mozambico, in Kenya, in Tanzania, in Guinea Bissau, in Italia, in Brasile, in Bolivia. Con gioiosa e pronta disponibilità sei venuto, in punta di piedi, sei entrato in sintonia col nostro cammino, lo hai respirato, lo hai fatto in qualche modo tuo, benedetto e illuminato con la tua presenza, sempre umile, semplice, calda, dolce e affidabile, salda e tenera.
Missionario spigolatore
Quante volte, durante questi nostri incontri, ci hai parlato della missione, aiutandoci a leggere, specialmente attraverso il Vangelo di Luca, le coordinate di un cammino missionario consolatino all’insegna del dialogo, del tessere ponti, del divenire, come amavi chiamare te stesso, «cronici minatori», cioè persone che scavano, che vanno in profondità in se stesse e nel contatto con l’altro, rintracciando tesori nascosti, intercettando il movimento dello Spirito che danza in ogni cuore e in ogni popolo, cogliendo con stupore, gioia e gratitudine, il cammino di Dio nel cuore della persona e della cultura, dove il Signore, come amavi dire «è di casa e a casa».
Ci hai segnato la via di una missione nel segno dell’umiltà di chi si china a spigolare nel campo, raccogliendo quanto Dio ha già operato, mentre getta il seme del kerigma che feconda il terreno umano.
Missionario con lo zaino
L’ultima volta che ci hai fatto dono della tua presenza è stata in agosto 2021, a Nairobi, per un’importante assemblea a livello di Africa. Lì ci dicevi, tra l’altro:
«La missione non è subito seminare, ma mietere, mietitura, messe. Il Seminatore è Dio, gli inviati i mietitori. Il seme della mietitura è di Dio oppure Dio stesso, i mietitori lo raccolgono nel loro zaino. La messe è immensa, i mietitori sono pochi. La vocazione dell’inviato è speciale, singolare, rarissima…».
Ti piaceva tanto la metafora dello zaino, e commentando il Vangelo di Luca sottolineavi che noi missionari e missionarie siamo chiamati a partire e arrivare presso il popolo a cui siamo inviati con lo zaino vuoto, per lasciarcelo riempire dai tesori che Dio vorrà donarci nel contatto con l’esperienza spirituale di quel popolo, entrando con rispetto e gratitudine nella sua casa vitale.
Anche in quest’ultima occasione, a Nairobi lo scorso agosto, come spesso facevi, sei tornato sulla dimensione del ritorno dalla missione, ricordandoci che l’inviato sempre ritorna al Mittente, e vi ritorna con lo zaino pieno. Commentavi così il brano evangelico del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-24):
«Mietendo dalla messe di Dio già arata e coltivata, gli inviati non possono ritornare se non con lo zaino pieno di meraviglie di Dio, conosciuto di casa e a casa là dove sono stati inviati. Insomma, inviati a mietere ritornano da mietitori con il cuore che trabocca di gioia […]. Gesù invita l’inviato a deporre lo zaino, a svuotarlo per riempirlo di contenuti definitivi e non più transitori legati alla dinamica della missione, ma ora legati all’estasi finale della missione, all’estasi trinitaria, nella quale l’inviato ritorna al Mittente e si immerge in Lui in simbiosi e osmosi estatica e instatica, in profonda conoscenza e adorazione del mistero trinitario, ‘beatificato’ e trasfigurato».
Beata Irene
Carissimo Fratello nostro, è così che ora ti sentiamo e vediamo: per lunghi anni hai riempito lo zaino del tuo cuore e del cuore di molti e molte spigolando nel campo missionario che Dio ti ha donato, tra il popolo Macua.
Hai intercettato la danza dello Spirito nell’anima profonda di questo amatissimo popolo, mietendo e seminando Vangelo; hai gioito e ci hai fatto gioire delle meraviglie che Dio aveva seminato e fatto crescere nel suo campo che è lo spirito della persona e della cultura, hai restituito a noi che ti abbiamo conosciuto i frutti splendidi che hai raccolto.
E tutto questo non lo hai fatto da solo. Lo hai fatto coltivando un’esperienza profonda di Dio, lo hai fatto in comunione con tanti fratelli e sorelle con cui hai tessuto relazioni di autentico scambio di doni, lo hai vissuto in compagnia di una Sorella straordinaria: la beata Irene, che ti ha stimolato, illuminato, ispirato in tutto il tuo cammino missionario, fino a raggiungerti nell’ora del ritorno e a volerti con sé per celebrare in Cielo la sua Festa, il 30 ottobre scorso. Lì, nel Cielo, accompagnato per mano da Irene, hai portato, Fratello, il tuo zaino pieno, per restituirlo tutto a Dio e in Lui immergerti, assaporando ora in pienezza l’abbraccio dell’Amore tenerissimo e forte della Trinità, in lei beatificato e trasfigurato.
Grazie, Fratello nostro! Dal grembo di Dio Madre, dove ora dimori, continua a sorriderci, animarci, accompagnarci, benedirci, ispirarci. Amen, alleluia.
Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.
Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.
«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).
Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.
Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.
Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.
Il contesto
Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.
La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.
È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.
La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.
Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.
Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.
Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).
In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.
Dal Marocco alla Bielorussia
Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.
La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.
Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.
Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.
Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.
Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.
Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.
Carisma
Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.
Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».
Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.
La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.
Le parole della missione
Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?
La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.
Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.
Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.
Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?
Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?
Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.
Camminare insieme
Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.
I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.
Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.
In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.
Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.
Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.
Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.
Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.
Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.
L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.
La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.
A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.
Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.
In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.
Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.
Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.
Ugo Pozzoli * Regione Europa Imc
Gli incendi bruciano anche il nostro futuro
In Italia, ogni anno, migliaia di ettari di aree boschive sono perse a causa del fuoco. Sei incendi su dieci sono di origine dolosa e criminale. In Siberia e Brasile la situazione è ancora peggiore.
Ogni anno, durante il periodo estivo, sono molte le regioni italiane nelle quali vaste aree boschive sono colpite da incendi. E la situazione sta rapidamente peggiorando. Nell’estate 2021, tra le regioni più interessate da incendi ci sono state la Sardegna, la Sicilia e la Calabria, che hanno registrato il maggior numero di danni, ma anche la Campania, la Basilicata, l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Toscana. Secondo il report di Europa Verde Incendi e desertificazioni, in Italia, dall’inizio dello scorso anno, sono bruciati circa 158mila ettari di boschi e di macchia mediterranea e questo ha ovviamente comportato la morte di migliaia di animali selvatici, nonché la perdita di oliveti e di pascoli. Nel 2021 l’Italia ha detenuto in Europa il record estivo d’incendi, che sono cresciuti del 256%, rispetto alla media storica 2008-2020, secondo i dati Effis (European forest fire information system). Secondo la Coldiretti, 6 incendi su 10 sono di origine dolosa.
Meno agricoltori e zero forestali
La situazione è aggravata dalla dismissione di parecchie aziende agricole, quindi dalla cospicua riduzione del numero di agricoltori, che hanno sempre esercitato un’azione di vigilanza e di gestione del patrimonio boschivo, che in Italia rappresenta un terzo della superficie, per un totale di 11,4 milioni di ettari (di cui il 32% fa parte di aree protette).
Un altro colpo alla sorveglianza e alla salvaguardia delle aree boschive in Italia è stato dato dalla riforma Madia del 2016, durante il governo Renzi, che ha riformato il Corpo forestale dello stato, sotto la spinta della spending review e sostanzialmente privatizzato la flotta dei canadair. Purtroppo in Italia, secondo il «Rapporto ecomafie 2020» di Legambiente, gli incendi scoppiano più frequentemente nelle regioni a forte presenza della criminalità organizzata, che spesso colpisce le aree naturalistiche sotto vincolo, come è avvenuto nella riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, nel Metapontino in Basilicata, nella riserva di Punta Aderci e nelle colline intorno a Pescara, nelle aree protette del Lazio, sulla costiera amalfitana, nella Sila e in provincia di Olbia. In Italia, la situazione è aggravata da due fattori: da un lato l’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni, che hanno caratterizzato gli ultimi anni con conseguente siccità sulle foreste, che risultano quindi meno resilienti nei confronti degli incendi; dall’altro gli errori nella scelta delle piante nelle attività di forestazione. Talora, infatti, vengono scelte, per la piantumazione di aree verdi, specie che soddisfano solo le ragioni estetiche, ma sono inadatte a resistere all’impatto climatico. Come capitò nel 2017 quando un incendio colpì le pendici del Vesuvio, dove erano stati piantati dei pini, che nulla avevano a che fare con la flora del territorio, cioè la macchia mediterranea, la quale ha una maggiore capacità di resistere alle temperature locali. In Italia, il pericolo d’incendi ha un andamento stagionale legato al fattore climatico, che influenza il grado di umidità della vegetazione, in particolare di quella erbacea del sottobosco.
Ci sono zone dove il pericolo d’incendio è maggiore che in altre. In base all’andamento meteorologico e climatologico, possiamo individuare due periodi di particolare pericolosità: quello estivo per le regioni del Sud e per la Liguria, e quello invernale per le regioni dell’arco alpino, quindi ancora la Liguria, il Piemonte, la Lombardia e il Veneto.
Ci sono, inoltre, diverse situazioni, che possono favorire lo scoppio di incendi boschivi come l’afflusso turistico, il già citato abbandono rurale delle campagne, particolari attività agronomiche e pastorizie, le vendette e le speculazioni. Queste ultime andrebbero sempre e comunque contrastate in base all’art. 9 della legge 1 marzo 1975, n.47, che vieta l’insediamento di qualsiasi tipo di costruzioni nelle zone boschive distrutte o danneggiate dal fuoco, impedendo così che tali zone assumano una diversa destinazione rispetto a quella avuta prima dell’incendio.
Non sempre però gli incendi sono di origine dolosa, seppure correlati alle attività umane. È stato, infatti, osservato che ad un progressivo aumento del numero dei veicoli circolanti e dello sviluppo viario, corrisponde un progressivo aumento degli incendi boschivi. Si è, inoltre, osservato che molti incendi hanno inizio ai bordi di strade e di autostrade. Anche le linee ferroviarie possono essere responsabili dell’innesco di incendi, quando nelle cunette e nelle scarpate c’è dell’erba secca, che può prendere fuoco per le scintille sprigionate dalle ruote dei treni. Da tutto ciò si evince che non solo è necessario ripristinare il Corpo forestale, rafforzando i nuclei investigativi con risorse umane e materiali adeguate, ma è indispensabile formare personale, che sia in grado di prevenire gli incendi con le tecniche più avanzate, tra cui quella degli incendi volontari controllati («fuochi prescritti»).
Nel resto del mondo
Se la situazione italiana quest’anno è stata drammatica, la mappa elaborata dal Fire information for resource management system della Nasa ci mostra che le fiamme hanno devastato i territori di molti stati nel mondo, soprattutto laddove le temperature estive sono state molto alte a lungo. Nel Sud dell’Europa, oltre all’Italia, sono state colpite la Grecia, la Turchia e la Spagna. Nel Nord Europa, la Finlandia e nell’Europa nord orientale, vaste regioni della Russia meridionale. Oltre oceano sono state interessate da incendi ampie zone del Nord e del Sud America. Nella zona centro meridionale dell’Africa, gli Stati più colpiti sono Zambia, Angola, Malawi e Madagascar. Le fiamme hanno inoltre colpito la penisola arabica e in Asia, le coste dell’India, la Siberia, la Cina e l’Indonesia.
In Siberia, il bilancio degli incendi da cui è stata colpita quest’anno, complici le insolite ed elevatissime temperature (intorno ai 39°C), che hanno interessato per giorni questa immensa regione russa, è superiore a quello disastroso del 2012, in cui aveva perso 181.100 Km2, infatti a metà settembre è stata registrata una perdita di 181.300 Km2 di foresta, ma se si considera che le fiamme hanno colpito anche praterie, canneti e tundra, l’estensione dei fuochi potrebbe essere superiore a 300mila Km2 (cioè un territorio di poco inferiore all’Italia). Gli incendi che colpiscono la taiga siberiana, cioè la più grande regione boschiva del mondo (comprendente quasi un quarto delle foreste del pianeta), sono estremamente dannosi perché non solo rilasciano enormi quantità di anidride carbonica (immagazzinata sia nella vegetazione, che nella torba del terreno) in atmosfera, ma riescono a sopravvivere all’inverno continuando a bruciare nel sottosuolo. Essi, pertanto, restano invisibili fino al rialzo delle temperature, pronti a tornare poi in superficie durante la stagione estiva. Il sistema di monitoraggio satellitare europeo Copernicus ha rilevato una quantità di 970 Mega tonnellate (Mt) di CO2 immessa nell’atmosfera tra giugno e agosto 2021 dovuta solo agli incendi siberiani. Tale quantità aumenta a 1.258 Mt a luglio e 1.384,6 Mt ad agosto, se si considerano le immissioni di CO2 dovute agli incendi, in tutto l’emisfero boreale.
Se in quest’ultimo la maggior parte degli incendi boschivi è legata a incuria, combustione di rifiuti, eventi accidentali, incidenti industriali e talvolta dolo, nelle regioni tropicali e subtropicali, gli incendi sono appiccati per lo più intenzionalmente con lo scopo di cambiare la destinazione d’uso dei terreni, che possono essere così utilizzati per la coltivazione e gli allevamenti intensivi.
Il decadimento dell’amazzonia
È evidente che il cambiamento climatico, con l’innalzamento delle temperature per lunghi periodi dell’anno, favorisce l’attecchimento degli incendi boschivi e la loro propagazione, ma la CO2 rilasciata in atmosfera dai roghi è essa stessa causa dell’innalzamento globale della temperatura, pertanto si instaura un circolo vizioso. Si stima che ogni anno gli incendi delle foreste immettano in atmosfera una quantità di CO2 equivalente a quella immessa dall’Unione europea e che vi siano circa 340mila morti premature causate da problemi respiratori e cardiovascolari attribuiti al fumo degli incendi.
Se da un lato la perdita di enormi quantità di foreste è dovuta agli incendi, dall’altro essa è legata al disboscamento illegale causato dall’agricoltura commerciale e dalla richiesta di legname. Secondo il rapporto Forest Trends 2021, il Brasile è il paese maggiormente responsabile di disboscamento illegale, insieme al Congo e all’Indonesia. Questi tre paesi, insieme, rappresentano il 50% del global logging (termine anglosassone che accorpa il taglio e il trasporto del legno). A sua volta, la Cina è responsabile del disboscamento illegale della taiga siberiana, essendo il più grande importatore di legname al mondo e avendo vietato il disboscamento delle proprie foreste.
Si stima che, tra il 2013 e il 2019, quasi 2/3 delle perdite delle foreste tropicali sia stata causata dall’agricoltura commerciale e che 3/4 della conversione agricola dei terreni sia avvenuta illegalmente.
Secondo i dati della Ong brasiliana Imazon, tra agosto 2020 e luglio 2021, il disboscamento dell’Amazzonia ha raggiunto 10.476 Km2, cioè una superficie grande il doppio di quella della provincia di Roma. L’ecosistema forestale amazzonico sta versando in condizioni critiche con 10mila specie dichiarate a rischio. Inoltre, con il 35% della superficie disboscata o degradata, uno studio decennale è arrivato alla conclusione che la foresta attualmente emette più CO2 di quanta ne assorba, per cui non può più essere considerata il polmone verde della terra.
Le promesse della Cop26
Durante la conferenza sul clima dell’Onu, la Cop26 di Glasgow (cfr. dossier in questo stesso numero), oltre 100 paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sulle foreste e sull’uso del suolo, che dovrebbe limitare e invertire la deforestazione entro il 2030.
In pratica 114 paesi, che detengono insieme l’85% delle foreste mondiali, si sono impegnati a mettere a disposizione circa 16,5 miliardi di euro, tra fondi pubblici e privati, per il recupero dei terreni danneggiati, per la gestione degli incendi e per gli aiuti alle comunità che vivono in questi ambienti. La prima criticità di questo accordo è rappresentata dal fatto che i paesi partecipanti hanno avuto una richiesta, non un obbligo, a «rivedere e a rafforzare gli obiettivi sul clima al 2030 nei loro contributi nazionali entro la fine del 2022 di quanto è necessario per allinearli con l’obiettivo di temperatura dell’Accordo di Parigi, tenendo in considerazione le diverse circostanze nazionali», come recita il punto 29 del patto sul clima di Glasgow. Questo ha permesso ad Australia e Nuova Zelanda di affermare che non presenteranno contributi nazionali volontari prima della Cop27 del prossimo anno, perché si ritengono già allineate. Un’altra criticità emersa da Glasgow è il ruolo della piantagione di nuovi alberi (l’Unione europea si è impegnata a piantare 3 miliardi di piante entro il 2030), unitamente al contrasto alla deforestazione, nella lotta al cambiamento climatico. Di per sé, la piantagione di nuovi alberi sembra una buona soluzione, ma non può essere considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico perché prima che, in un terreno distrutto da un incendio, essa sia in grado di ricostituire un bosco, devono passare almeno 15 anni, troppi per i danni all’ambiente e all’economia delle popolazioni locali.
È molto più importante perseguire politiche di prevenzione degli incendi e del disboscamento illegale, così come la lotta alla criminalità organizzata, piuttosto che correre ai ripari a cose fatte. È altrettanto importante un’azione di educazione delle popolazioni alla conoscenza e alla salvaguardia dei boschi e delle foreste, soprattutto perché le piante, con la loro organizzazione, hanno molto da insegnarci. Ogni singola pianta è infatti costituita da una rete di moduli e una foresta è una rete di reti, cioè un superorganismo. Dall’unione di tante unità emergono caratteristiche, che non esistono nel singolo individuo, ma permettono di superare le difficoltà presentate dall’ambiente. Le piante quindi ci insegnano la cooperazione, il senso di comunità e di rete, cioè che non vince il più forte, ma chi sa cooperare.
Rosanna Novara Topino
Una difesa naturale
Piante fuocoresilienti
Può sembrare strano l’utilizzo del fuoco per controllare gli incendi. Si tratta di una tecnica già utilizzata negli Stati Uniti dai primi anni del secolo scorso. Essa mira a sfruttare la capacità di resistenza di alcune specie di piante nei confronti del fuoco. Pertanto, la loro presenza può salvaguardare il bosco da un incendio più distruttivo. Un esempio è dato dal comportamento del Pinus palustris, che allo stadio giovanile è poco più di un ciuffo di aghi verdi su un esile fusto, che rimane a lungo in questo stato, se circondato e sovrastato da erbe e arbusti, che lo adombrano e gli tolgono spazio. Quando però un incendio colpisce il suo territorio, con l’eliminazione delle piante concorrenti, questo tipo di pino cresce molto rapidamente, diventando in breve tempo una delle piante più alte del bosco. Come ci riesce? Grazie alla protezione della propria gemma apicale con un mazzetto di aghi lunghi circa 20 centimetri, che bruciano se attaccati dal fuoco, lasciando la gemma intatta alla loro base. Anche il cisto e il pino di Aleppo utilizzano il fuoco per svilupparsi. Lo stesso discorso vale per la quercia da sughero, la cui spessa corteccia serve proprio a proteggere la pianta dal fuoco, oppure per i castagni, i corbezzoli e le robinie, tutte piante capaci di sopravvivere a un incendio emettendo nuovi fusti dai ceppi residui o dalle radici. La tecnica del fuoco prescritto sfrutta tutto questo: serve a selezionare piante resistenti e autoctone e nel contempo a eliminare il carico di combustibile presente nel territorio, in modo che un incendio incontrollato possa raggiungere le chiome degli alberi. È chiaro che, per poterla applicare, sono necessarie condizioni meteorologiche favorevoli (vento e umidità) e uno studio accurato del territorio. Nei terreni dove da lungo tempo manca un incendio, può verificarsi il cosiddetto «paradosso del fuoco» cioè l’accumulo di arbusti, legno e foglie secche diventa un pericoloso combustibile, che per un evento accidentale (fulmini, forte siccità, azioni umane) può dare origine ad un incendio devastante e incontrollabile. Per evitare tutto questo, se non si vuole ricorrere alla tecnica del fuoco prescritto, a cui non tutti sono favorevoli perché comunque essa può alterare la flora e la fauna del sottobosco, è necessario ricorrere a un’asportazione meccanica dei carichi d’incendio e quindi un controllo costante del patrimonio boschivo, che da anni in Italia è abbandonato a sé stesso. (RNT)
Dal partenariato alla fratellanza
Ivana Borsotto, già vicepresidente della Ong Progettomondo, è dal dicembre del 2020 la presidente della Focsiv, Federazione di organismi di ispirazione cristiana. Facciamo insieme a lei il punto sulla Federazione, sullo stato della cooperazione e sulle principali sfide di oggi.
Ivana, cominciamo spiegando che cosa è la Focsiv e che cosa la caratterizza oggi.
Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) è una federazione che raccoglie 86 organismi di ispirazione cristiana che operano nella realizzazione di programmi, progetti e azioni di solidarietà e cooperazione internazionale in 80 paesi del mondo. Nel 2022, a maggio, compirà 50 anni: è un traguardo importante e con il nuovo consiglio direttivo, in carica da un anno, abbiamo deciso di rendere questo anniversario non solo un’occasione per celebrare ma soprattutto per riflettere.
Da questa riflessione stanno emergendo diverse cose: in primo luogo, nelle due encicliche di papa Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti troviamo conferma del fatto che la direzione del nostro lavoro si muove verso quell’orizzonte. Laudato si’ ce lo conferma con il suo promuovere un cambio di paradigma economico e sociale che abbandoni l’idea di dominio e sfruttamento sulla natura e si concentri sulla cura. Fratelli tutti ci rafforza nella convinzione che l’esistenza di più religioni è una grazia. Anche se il dialogo interreligioso a volte è faticoso, a volte perfino doloroso, è in esso che troviamo il vero senso della nostra vita e del nostro lavoro.
Come si riflettono nel lavoro sul campo queste indicazioni del papa?
Fratelli tutti, di fatto, ci dice che il partenariato non basta: è la fratellanza ciò a cui siamo chiamati. In estrema sintesi, quindi, potrei risponderti: dobbiamo cercare di trasformare i nostri progetti, che spesso si svolgono in paesi a maggioranza musulmana, in laboratori di dialogo che ci aiutino a fare questo passaggio dal partenariato alla fratellanza.
Una cosa è mettersi attorno a un tavolo con i partner nei paesi in cui si lavora e dire: c’è un bando, proviamo a ragionare insieme su come ideare un progetto, partiamo da una lettura condivisa dei problemi e lavoriamo perché ogni progetto si traduca in pratiche che gli amministratori locali possono usare per risolvere quei problemi. Questo è un livello, quello del partenariato e della politica locale, e noi già siamo impegnati nel costruirlo il meglio possibile.
Ma c’è un altro livello, più profondo: quello di entrare nell’ordine di idee che la realizzazione di quel progetto possa generare non solo un’équipe che lavora, ma anche una comunità che dialoga.
Per entrare in questo ordine di idee, ci guidano ancora una volta le parole che il papa ha pronunciato a Qaraqosh, durante il suo viaggio in Iraq, sottolineando come il dialogo interreligioso non può nascere «a freddo», da riflessioni teoriche fatte a tavolino. Al contrario, può sorgere solo se si fa uno sforzo fondamentale che riguarda la quotidianità: riconoscere il bisogno dell’altro come proprio. Facendo poi fronte comune davanti a quel bisogno, si possono creare le condizioni per il dialogo e la fratellanza. Ecco, allora, che i progetti possono essere lo strumento per creare quel livello di amicizia, di profondità e di autenticità di relazioni necessario per poi arrivare ad affrontare insieme anche aspetti delicati del dialogo che altrimenti sarebbe difficile toccare.
Una nuova presidente e nuovo consiglio: come pensate di rilanciare la Federazione? Vedi la tua come una presidenza di continuità o di rottura?
«Rottura» non mi piace. Ma «continuità» nemmeno. Credo che le priorità per la Focsiv siano valorizzare il lavoro dei nostri volontari, rafforzare la relazione tra soci e federazione interpretandola come uno scambio continuo, promuovere la partecipazione e incarnare l’idea di sussidiarietà.
Un altro punto è sicuramente la formazione, specialmente attraverso la nostra Scuola di politica internazionale cooperazione e sviluppo (SpiceS).
Dobbiamo poi sforzarci di passare da essere un insieme a diventare un sistema: il nostro è un mondo in cui ci sono molte reti che rischiano di essere autoreferenziali, chiuse nei loro perimetri. Dalla campagna di ascolto dei soci che il nuovo consiglio Focsiv ha condotto, è emerso che essi vorrebbero conoscersi e collaborare di più: la Federazione deve diventare una continua occasione di scambio, conoscenza e lavoro condiviso attraverso tavoli tematici, tavoli geografici sovraregionali, temi trasversali su questioni come il ricambio generazionale e programmi e progetti condivisi.
Più in generale, io credo che il nostro mondo sia capace di autoriforma, senza dover aspettare sollecitazioni esterne: ad esempio, ora abbiamo una grande sfida sulla trasparenza. Viviamo in un momento culturale in cui si concepisce la cooperazione come un lusso, un costo, mentre è proprio il contrario: è un investimento, ma soprattutto un modo di stare al mondo. Però dobbiamo anche tener presente che alcuni episodi infelici hanno spinto diverse persone a non fidarsi più: «Quello che dono arriverà a chi ne ha bisogno?», si e ci chiedono. Per questo bisogna essere sempre più trasparenti, anche al di là di quello che la legge ci richiede.
C’è poi il delicato tema della nostra comunicazione, che non sempre è efficace. Troppo spesso siamo chiamati a raccontare la drammaticità delle cose e penso che invece dovremmo raccontare con altrettanta intensità la speranza che vediamo. Anche perché il racconto di questa speranza rafforza anche chi ascolta.
Di tavoli, gruppi di lavoro, incontri vari, se ne sono fatti tanti, negli anni: che cosa ti fa pensare che quelli che state avviando ora in Focsiv possano portare risultati? E, più in generale, che cosa può dare maggiore efficacia al lavoro delle reti della cooperazione?
In questo momento, complice anche la pandemia, io avverto una forte consapevolezza del fatto che da soli non si va da nessuna parte. La cifra del nostro tempo è forse la fatica di vedersi nel futuro, che per la prima volta nella storia dell’umanità ci fa paura, mentre prima era il tempo in cui si proiettavano sogni e speranze. Ecco, forse il pensarsi insieme agli altri è l’unico antidoto alla paura.
Questo stare insieme richiede al tempo stesso coerenza – se stai in una rete che ti rappresenta devi cedere un minimo di autonomia – ma anche la capacità di andare oltre le reti: il Terzo settore ha bisogno di sentirsi una cosa sola, di non limitarsi a un approccio strumentale – «quanto mi serve quella Federazione e i servizi che mi offre?» – e di esprimere un potenziale politico che c’è ma che ora non sta ancora emergendo in tutta la sua forza.
Altro punto è quello dei tanti temi e fronti su cui si lavora: migrazione, diritti umani e multinazionali, giustizia climatica. Forse focalizzarsi su un tema, o almeno darsi delle priorità, aiuterebbe a essere più incisivi.
Te lo dico con una battuta: dobbiamo passare dal paradigma «tema – svolgimento», al paradigma «problema – soluzione». Approfondimenti e ricerche sono fondamentali e ne abbiamo sempre bisogno, ma dobbiamo essere ancora più concreti e puntuali nella nostra capacità di porre questioni alla politica, altrimenti rischiamo di far parte di quello che Greta Thunberg ha chiamato il blablà.
Parliamo di progetti: che cosa ne pensi della contrapposizione grandi progetti burocratizzati ma capaci di raggiungere tante persone e di avere effetti strutturali versus micro e medi progetti, come quelli portati avanti dalle Ong missionarie, più vicini – forse – alla gente, ma a volte più simili a un rimedio temporaneo e limitato?
Toglierei il versus. Bisogna accettare che le forme della cooperazione sono tante e che la loro efficacia non si misura solo dalla grandezza o dal numero di beneficiari coinvolti. In Focsiv ci sono sia associazioni di volontariato puro, senza dipendenti, che sostengono piccole opere di singoli missionari, sia Ong strutturate che lavorano su grandi progetti istituzionali, e questa, secondo me, è una grande ricchezza.
Certo, so che c’è un dibattito nel mondo della cooperazione in cui una parte sostiene che il troppo piccolo non ha senso, ma io convintamente dissento: spesso anche il piccolo dà risposte dove non ce ne sarebbero altre, io in questo già vedo un senso. Il denaro pubblico è sacro, e un’organizzazione deve dimostrare di avere la struttura e le competenze per gestirlo, ma non è la grandezza che fa la differenza. L’indicatore più importante è quello più volte citato da papa Francesco: dobbiamo incidere sulle cause. Anche un’azione che a noi sembra minuta a volte ha la capacità di entrare in un sistema e cambiarlo.
Ci descrivi in due parole la campagna 070, che mira a far pressione per portare allo 0,70% del Pil la quota di risorse per la cooperazione?
È una campagna sostenuta insieme da Aoi (Associazione Ong italiane), Cini (Coordinamento italiano Ngo internazionali), Link2007 (Organizzazione di coordinamento tra 14 Ong) e Focsiv, e vede quindi le rappresentanze unite nell’interloquire con il governo. L’obiettivo immediato, lo scorso autunno, era quello di far sentire la nostra voce nelle settimane della discussione sulla legge di bilancio.
Il secondo obbiettivo è quello di avanzare una proposta di legge che vincoli l’Italia al raggiungimento dell’obiettivo dello 0,70% del Pil per la cooperazione entro quattro, cinque anni: finché non c’è una legge, la cooperazione rischia di rimanere la Cenerentola nella destinazione di fondi pubblici. Ora siamo allo 0,22%; indicativamente, per arrivare almeno allo 0,40% servirebbero 2,3 o 2,4 miliardi di euro.
La campagna ha l’obiettivo di parlare alla politica ma anche alla gente: non si limiterà ad attività di lobbying e advocacy verso le istituzioni, ma cercherà di attivare le comunità locali, coinvolgendo organismi di cooperazione internazionale, i centri missionari, le Caritas, i gruppi di lavoro dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) e del Terzo settore.
Questo significherà confrontarsi con quella comunicazione e quelle posizioni culturali e politiche che ci sono ostili, rispondere nelle piazze e nei dibattiti a chi ti dice «prima gli italiani».
Si è chiusa lo scorso 13 novembre la Cop26. Che giudizio dai sull’accordo di Glasgow?
C’è un po’ di delusione sui risultati, ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile trovare una convergenza su punti di vista e interessi così diversi.
Va preso atto del fatto che si sono finalmente chiamate le cose con il loro nome: ad esempio riconoscere in modo esplicito che le fonti fossili sono una delle cause principali del cambiamento climatico è un passo in avanti. Inoltre, la distensione climatica fra Usa e Cina è un elemento positivo, così come lo è tutto quello che apre il dialogo rispetto alla chiusura di prima.
Mi auguro che la citrica ai risultati non si traduca in un ulteriore indebolimento del sistema delle Nazioni Unite e che la società civile, e i giovani in particolare, continuino a fare pressioni paese per paese, perché al di là dell’accordo sono le azioni che ogni singolo paese intraprende a poter fare la differenza.
Ecco, i giovani. Tu sei nella cooperazione da oltre vent’anni con Progettomondo: come sono cambiati i giovani che vogliono lavorare in questo ambito? E come li accoglie, che cosa offre loro il mondo della cooperazione, oggi?
Il nostro settore esercita una forte attrattiva sui giovani. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di dare loro risposte personalizzate, senza mai generalizzare: ci sono giovani con un approccio incentrato sull’esperienza in sé, per cui ne fanno una e passano subito alla successiva; altri che hanno già in mente un loro percorso e sanno che il loro lavoro con noi non è che una tappa; altri ancora che si affidano a noi e che partono, si lasciano mettere in discussione e poi si “innamorano” dell’organizzazione e rimangono. Noi dobbiamo cercare di essere rispettosi di tutti questi approcci ed è una nostra responsabilità fornire loro un’esperienza strutturata e seguita.
C’è evidentemente una questione di ricambio generazionale e io credo che vada migliorato il dialogo intergenerazionale nelle nostre organizzazioni: se gli adulti sostengono di averle provate tutte per convincere i ragazzi a restare e i giovani oppongono che però mancano gli spazi per inserirsi davvero, specialmente in termini lavorativi concreti, è chiaro che qualcosa non sta funzionando. Dobbiamo, da un lato, accompagnare questi ragazzi a capire il valore dell’organizzazione e del volontariato e, dall’altro, essere disposti a farci mettere in discussione da loro.