Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico.
A riveder le stelle
Emanuele Caruso, classe 1985, è un regista di cui si parla parecchio da alcuni anni, e non a caso.
Di origini siciliane e radici albesi, Caruso rappresenta, sia nella forma che nella sostanza, una sorta di piccola nuova frontiera della produzione cinematografica di casa nostra. Ha prodotto, tra il 2014 e il 2018, due film (E fu sera e fu mattina e La terra buona) finanziati interamente da compagne di crowdfunding di grande successo e, nonostante lo scetticismo che accompagna spesso chi ha il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, anche nelle sale cinematografiche il pubblico ha risposto con un entusiasmo che ha di molto superato le attese.
Il 2 marzo, a Domodossola, è stata la volta della prima nazionale del suo nuovo film: A riveder le stelle, prodotto di nuovo con la sua Obiettivo Cinema.
Questa volta Caruso si è cimentato su un terreno già frequentato in gioventù: il documentario d’autore. Un gruppo di sei persone che non si conoscevano prima, tra cui gli attori Maya Sansa e Giuseppe Cederna, e il medico Franco Berrino, fondatore dell’associazione «La grande via», per sette giorni hanno macinato molta strada e scoperto la Val Grande, al confine tra Piemonte e Svizzera, 150 chilometri quadrati di natura selvaggia. A guidare il loro cammino c’era una semplice riflessione, che per il regista rappresenta il filo rosso che lega tutto il racconto: «Stiamo distruggendo il pianeta e nessuno fa niente. Nessuno, sono io».
Sulla pagina web dedicata al film, Emanuele Caruso scrive: «Quando, nei prossimi anni, il cambiamento climatico provocherà la più grande crisi che l’uomo dovrà mai affrontare, volgeremo il nostro sguardo al passato. Guardando indietro, ai tanti errori che con consapevolezza abbiamo commesso negli anni, ci porremo allora un’unica domanda: “Come abbiamo potuto permetterlo?”».
Il film è in distribuzione in alcune sale del Nord Italia, ma è possibile organizzare ovunque si voglia proiezioni per scuole e associazioni.
Restando nell’ambito delle emergenze che ci riguardano tutti direttamente, va segnalato che il 31 marzo, giorno della fine ufficiale dello stato d’emergenza sanitaria in Italia, alle ore 23,30 su Rai1 è andato in onda Ogni 90 secondi. Storie di pronto soccorso tra emergenza e urgenza, un film documentario prodotto dalla Simeu, Società italiana medicina d’emergenza urgenza, firmato dal regista televisivo Davide Demichelis.
Il lavoro è un tributo a quei luoghi – sono 650 i pronto soccorso attivi in Italia -, che nel marzo del 2020 sono stati travolti dalla pandemia.
Uscendo dalla retorica dell’eroismo, Davide Demichelis viaggia da Nord a Sud alla scoperta della prima frontiera della sanità italiana e di chi, con dedizione e una professionalità altissima, permette che i pronto soccorso funzionino al meglio delle loro possibilità.
La forza del film è anche la rinuncia al catalogo delle debolezze del sistema. Quelle le conosciamo. Ciò che non conosciamo abbastanza, invece, sono le storie dei medici, degli infermieri, dei professionisti della medicina d’emergenza.
Li abbiamo scoperti a causa della pandemia, ma loro c’erano prima e ci saranno dopo. Certo per chi ha lavorato settimane di fila senza staccare mai, ha iniziato il turno a febbraio del 2020 e lo ha finito a maggio, nulla sarà davvero più come prima.
Quando la competenza e l’esperienza si fanno servizio e si mettono a disposizione, tutto sembra possibile. Il senso del dovere prende il sopravvento e il pronto soccorso diventa casa e famiglia, il luogo in cui rimarrai fino a quando sarà necessario. Non un minuto di meno.
In chiusura, un medico denuncia chiaramente quanto pesi ancora ciò che (forse) ci siamo lasciati alle spalle, afferma: «Se per assurdo dovesse restare un solo medico al mondo, quel medico sarà un medico di pronto soccorso. Non c’è nessuna alternativa possibile».
Per poter seguire la programmazione del film o organizzare una proiezione, scrivere a ufficio.stampa@simeu.it.
Il documentario è visibile anche sulla piattaforma di Raiplay.
Winter on fire
L’ultima emergenza, dopo quella ambientale e quella sanitaria, con cui chiudiamo questo numero di Librarsi, è la guerra in corso in Ucraina.
Su Netflix dal 2016 è presente un film documentario che ora è tempo, per chi non lo avesse fatto, di vedere. O magari anche di rivedere, perché alla luce degli avvenimenti e dello strano dibattito che circonda il conflitto, la visione di Winter on Fire del regista russo Evgeny Afineevsky può rivelarsi illuminante.
Il film, del 2015, è il racconto di quanto avvenne a Kiev dal novembre 2013 al febbraio del 2014 in Piazza Maidan.
Rileggere quei fatti, che portarono alla fuga del presidente Victor Yanukovic in Russia, oggi ha un sapore diverso. Evgeny Afineevsky compone un puzzle che rende con grande chiarezza la drammaticità di quelle settimane: da una parte c’era una grande fetta di opinione pubblica che voleva avvicinarsi all’Europa per dare all’Ucraina una vera indipendenza da Mosca, dall’altra una politica troppo debole e corrotta per andare fino in fondo e recidere il vincolo con la Federazione Russa.
Il film è crudo. La violenza dei Berkut, i corpi speciali della polizia poi disciolti, sui manifestanti è impressionante. Le scene dei cecchini che sparano sulla folla, che prendono di mira coloro che soccorrono i feriti, riporta alle pagine più buie dell’assedio serbo di Sarajevo. Ciò che però oggi più colpisce di Winter on Fire è la consapevolezza che quella vittoria di piazza è stata tradita di nuovo. A distanza di soli otto anni è ancora la voglia del popolo ucraino di essere Europa a segnare il tragico destino della sua nazione.
Sante Altizio
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Verità e giustizia
Tutti noi abbiamo grande bisogno di verità, cioè capire ciò che è veramente bene e ciò che è male. Distinguere il falso bene da quello vero. Bisogno di verità in tutti gli ambiti: società, lavoro, famiglia. Quanti tradimenti, cioè inganni, bugie, false verità che portano malessere, sofferenze. La verità è importantissima nella vita di tutti i giorni. A Pilato, nell’interrogatorio prima della crocifissione, Gesù ha detto: «Per questo sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità». Gesù è venuto a rendere testimonianza alla verità portando la parola di Dio.
Quando non sappiamo cos’è bene, non sappiamo più cosa dobbiamo fare, la parola del Vangelo ci illumina. Gesù ha testimoniato la verità delle sue parole con la vita fino a versare il sangue. Da soli non possiamo fare nulla. Non possiamo sempre capire qual è la verità, ci facciamo ingannare facilmente dalle false verità. Con la verità autentica nei dissidi tra nazioni si arriva a capire chi ha torto e chi ragione e quindi si giunge alla giustizia, condizione importante per la pace. Cordiali saluti.
E.B., 22/04/2022
Dalla Faraja House
Carissimi amici, capita di dormire male e sognare catastrofi. Oggi, primo aprile, mi sono svegliato con l’amaro in bocca. Prestissimo suona il telefono. Pesce d’aprile? È l’ufficio degli assistenti sociali. «Abbiamo da affidarti una bambina di sette anni». E così parto per la città e incontro Emma: è con due poliziotti, appena arrivata dall’ospedale. È stata violentata poche ore fa nella notte e in casa. Mentre tentava di scappare è stata picchiata in faccia ed è tutta gonfia.
La «risposta» di Dio ai brutti sogni: aiutare gli altri risolve molti dei nostri problemi! Provare per credere.
Capisco perché Guru ha due occhi splendenti e sempre un sorriso pronto: è abituata ad aiutare i fratellini e ora è sempre pronta ad aiutare i più piccoli con una gioiosa gentilezza, ed è una bimba di solo otto anni! È lei che sta vicina a Vau quando «va in crisi»: Vau è una bimba di quasi quattro anni. Abbandonata dalla mamma e allevata dal padre che fa l’oste in un kilabu (specie di bar dove vendono birra locale, il pombe). Per più di un anno ha vissuto sgambettando nell’osteria con gli avventori spesso ubriachi, che le davano pombe da bere quando piangeva.
Qui ogni bambino mi ricorda la cattiveria umana, ma anche le parole di Madre Teresa la prima volta che la vidi a Roma anni fa: «Dio ha bisogno di voi: siete le sue mani!».
Persino Ronaldo, il cane che fa parte della famiglia, ha da insegnarmi qualcosa: ogni mattina accompagna i quattro bambini dell’asilo fino a scuola, li guarda entrare in classe e ritorna a casa. Qui è sempre vigile e ringhioso se arriva qualcuno che non è di casa.
Il 1° maggio la Faraja compirà 25 anni! Su un fazzoletto di terreno è risuscitata, dopo la distruzione. Con la vostra fraterna assistenza abbiamo costruito parecchie casette che danno ospitalità a più di 60 bambini che hanno sperimentato la cattiveria umana. Tanti ne sono passati e hanno potuto ricostruirsi una vita più serena e indipendente. Tanti hanno imparato un mestiere, una trentina hanno finito il percorso universitario. Faraja vuol dire Consolazione e ne abbiamo distribuita tanta assieme a voi, amici che avete collaborato con noi per essere «le mani di Dio».
Grazie di cuore e auguri per la Festa di Resurrezione.
Padre Franco Sordella, 01/04/2022, Mgongo, Iringa, Tanzania
«Da quasi un millennio la Certosa di Pesio sta assisa a capo della valle omonima, fasciata da mistica atmosfera di austera serenità, di bellezza e di poesia, cullata dal murmure perenne del Pesio, quasi ritmo di preghiera sussurrata in sordina». Così don Giovanni Terreno, parroco di San Bartolomeo sino al 2007, definiva la Certosa di Pesio, ora casa di spiritualità missionaria dei Missionari della Consolata.
Fondata nel 1173 dai monaci certosini provenienti da Grenoble (Francia), la Certosa di Pesio è uno dei monumenti storici più insigni del Piemonte: fu per secoli un importante centro di vita religiosa, culturale e civile. Infatti, la comunità della Certosa sviluppò al suo esterno la piantagione di abeti, la coltura della vite, l’allevamento delle api e del bestiame. Sorse anche una vera scuola di intarsio che, insieme a studi scientifici e alla composizione/rilegatura di manuali e libri, furono messi al servizio della cultura, tramandataci fino ai giorni nostri.
Con alterne vicende di crescita e di difficoltà, la comunità monastica perseverò fino alla Rivoluzione francese (1800), quando Napoleone soppresse gli ordini monastici. L’adattamento a stabilimento idroterapico, nella seconda metà del XIX sec., ridonò al luogo un effimero periodo di notorietà in Italia e all’estero, fino all’inizio della Prima guerra mondiale (1914), periodo in cui la Certosa fu destinata a un temporaneo decadimento.
I Missionari della Consolata in Certosa
Nel 1934, giunsero i Missionari della Consolata che ridiedero vita alla Certosa, nella sua missione specifica di centro di irradiazione della luce di Cristo nel mondo: «I Missionari della Consolata però non si sono limitati al compito, anche se impegnativo e lodevole, di pietosi restauratori o rianimatori di un colosso in rovina o di benemeriti conservatori di un passato; ma, restaurata e resa funzionale, hanno dato alla Certosa di Santa Maria nuovo impulso di vita, realizzando e continuando a realizzare una serie di attività in ordine alle finalità della loro specifica missione» (don Giorgis, La Certosa in Valle Pesio, 1952).
È bello pensare che schiere di missionari qui si siano formate e da qui siano partite per i quattro continenti.
Dal 1934 al 1945, la Certosa fu casa di vacanza estiva per i giovani aspiranti missionari e missionari reduci dalle missioni e sede del seminario durante la guerra 1940-45. Dal 1945 al 1982 accolse il noviziato. Dal 1982 vi è una comunità missionaria che ha aperto la Certosa all’ospitalità per vacanze, incontri di studio e spiritualità e animazione missionaria, a sacerdoti, famiglie, gruppi parrocchiali e comunità di giovani e di anziani di varia provenienza. Dal 1996 ha preso la connotazione finale e precisa di «casa di spiritualità missionaria».
Casa di spiritualità missionaria
La comunità della Certosa di Pesio (composta attualmente da sei missionari: i padri Daniele Giolitti, Beppe Cravero, Ermanno Savarino, Francesco Discepoli e Lino Tagliani, e fratel Gaetano Borgo) vuole continuare a essere un segno di presenza spirituale e di impegno nell’evangelizzazione. Per una missione in Europa fatta di testimonianza e profezia, pensiamo che oggi più che mai abbiamo bisogno di coltivare una spiritualità autentica, costituita sia da una ricerca costante di Dio nella preghiera e nella vita, sia dal desiderio e dal coraggio di scegliere uno stile di vita che ci permetta di vivere il Vangelo nella contemporaneità.
Nella prospettiva di coltivare e vivere una spiritualità missionaria, siamo convinti che la Certosa sia un luogo molto adatto e che possa offrire molto al servizio di noi missionari, dei laici, dei giovani e delle famiglie.
Come già detto, il luogo è unico e questo fa la differenza: paesaggi di boschi e alpeggi, l’abbraccio delle montagne tutt’intorno rendono la Certosa un luogo incantevole e particolarmente adatto all’immersione nello Spirito, a cammini di direzione spirituale e accompagnamento vocazionale.
La Certosa offre la possibilità di essere una «casa di scuola della Parola»: come missionari proponiamo cammini mensili di Lectio Divina, meditazioni, ritiri e annualmente turni di esercizi spirituali e settimane bibliche.
Nella natura
Per dare un taglio più spiccatamente missionario ai nostri programmi, in collaborazione con la diocesi di Mondovì, abbiamo proposto degli incontri itineranti sulla Laudato si’ nella natura, comprese alcune escursioni nel bellissimo Parco del Marguareis (con quest’ultimo stiamo intessendo una serie di collaborazioni soprattutto sull’integrità del creato, con relative mostre e concerti).
Quest’anno – come si può leggere nel programma qui accanto – abbiamo pensato, assieme ai centri missionari diocesani del Piemonte, di proporre una «3 giorni sulla missione» su temi sui temi dell’accoglienza e della mobilità umana, della giustizia e della pace, e del dialogo interreligioso. Infine, organizziamo dei cammini di conoscenza e approfondimento del carisma del nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano.
Le sfide
Ma ci sono anche delle sfide. La prima criticità che balza agli occhi è che la struttura è molto grande e di non facile gestione. Necessita di un lavoro continuo di manutenzione. Chi vive qui deve essere disposto a una vita all’insegna del motto «ora et labora». Il luogo è isolato, l’inverno lungo, la vita un po’ spartana. Tuttavia, la struttura, pur grande, va bene per la primavera e l’estate quando c’è maggiore richiesta di ospitalità (campi scuola di parrocchie, gruppi scout, associazioni, nei quali noi missionari offriamo incontri di lectio o testimonianze sulla missione).
Certo la gestione economica non è facile, anche se, in tempi normali, si è sempre riusciti a coprire le spese ordinarie. Il grande investimento della nuova turbina garantisce un’entrata annuale costante. In ordine alla manutenzione straordinaria si sta cercando di studiare forme di partnership: in questo senso si è creato di recente un comitato ad hoc in vista delle celebrazioni del 850° anniversario della fondazione della Certosa (nel 2023) coinvolgendo la regione Piemonte, provincia di Cuneo, il comune di Chiusa pesio, il Parco, la diocesi di Mondovì, associazioni e alcune banche e fondazioni private.
Salire sul monte
Il Vangelo dice: «Dopo la giornata di Cafarnao, Gesù si ritirò in un luogo solitario […] salì sul monte» (cfr. Mc 1,35). C’è, oggi come ai tempi di Gesù, una necessità di ritirarsi in un luogo solitario, sul monte. Ci sono sacerdoti, laici, religiosi, che guardano alla Certosa proprio come a quel luogo solitario che avvertono già «abitato» da Dio, intuiscono che «qui c’è qualcosa!». La gente si sta allontanando sempre più da una chiesa troppo strutturata perché vuole incontrare Dio, un Dio che non riesce più a trovare nelle proposte ordinarie. La Certosa rappresenta un’offerta seria di spiritualità, anche al servizio della chiesa locale.
Dall’antico motto di san Bruno ai Certosini, «La croce resta salda mentre il mondo gira», all’attuale programma di vita del beato Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata: «Essi annunzieranno la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19).
Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.
Fin qui, sembrerebbe non esserci niente di nuovo. Ogni giorno, da mesi ormai, prima per la pandemia, ora per la guerra, siamo martellati da così tante brutte notizie che il dramma dei bambini abusati e sfruttatti passa in secondo piano. Ma non possiamo accettare di vedere solo quanto è lo show del momento. Occorre reagire e rileggere la realtà con occhi nuovi e ascoltarla «con l’orecchio del cuore», come ci diceva papa Francesco per la giornata delle comunicazioni sociali.
Oggi si parla molto di bambini, ma si cerca davvero il loro «bene essere»? Faccio alcuni esempi di realtà che mi interrogano o lasciano perplesso: la polemica sull’utero in affitto da rendere illegale a livello mondiale; le reazioni caustiche contro chi si è permesso di stanziare fondi pubblici per evitare che delle donne siano costrette ad abortire. L’accettazione passiva della denatalità che colpisce drasticamente il nostro paese e la riluttanza della nostra classe dirigente a varare una vera politica di sostegno alle famiglie. Che dire delle polemiche sul doppio cognome e sulla registrazione dei figli di coppie dello stesso sesso? E dell’attaccamento morboso a cani e gatti, trattati come bambini, spesso senza accettarne la vera natura di animali con i loro ritmi e anche la loro libertà? Esempi discutibili, naturalmente, ma dov’è l’interesse e l’amore vero per i bambini?
Due delle giornate che celebriamo questo mese, si focalizzano su due aspetti importanti della vita dei bambini di tutto il mondo: la violenza e lo sfruttamento nel lavoro. Avrei voluto far scrivere questo editoriale a padre Ramón Lázaro che in Messico, ogni giorno, ha a che fare con la violenza sui piccoli: dall’abuso sessuale all’abbandono, dall’uccisione di uno dei genitori all’asservimento lavorativo, dalla mancanza di educazione scolastica alla carenza di cure sanitarie, dai matrimoni combinati in tenera età alla pedofilia. Pesanti i dati sulla diffusione e degenerazione si quest’ultima offerti dall’Associazione Meter Onlus di don Fortunato Di Noto, una depravazione in crescita sui social – sempre più estesa anche agli adolescenti – che travolge anche bambini nei primi anni di vita, abusati perfino dai loro stessi genitori.
Assieme a padre Ramón, molti gli altri missionari e missionarie danno la vita per offrire nuova dignità e amore ai bambini. Penso ad esempio a fratel Domenico Bugatti, 75enne, tornato al centro Gajien per i bambini a Isiro, nel Nord del Congo Rd, zona nella quale i bambini sono usati nelle miniere di coltan e altri minerali, controllate da bande armate in combutta con faccendieri senza scrupoli. Penso al coraggio di padre Franco Sordella nel ricostruire la Faraja house (la casa della Consolazione) in Tanzania, dove non gli mancano certo gli ospiti (vedi a pag. 5). Non posso dimenticare la Familia ya ufariji di Nairobi, dove dal 1994 si accolgono ragazzi di strada. E l’impegno di questi mesi dei nostri confratelli in Polonia per i profughi dell’Ucraina, tra cui tantissimi bambini. Diciamo grazie a questi missionari e ai tanti altri che, senza rumore, stanno facendo meraviglie di amore.
Non c’è niente di più bello al mondo che restituire il sorriso a un bambino e fargli sperimentare la bellezza di essere amato davvero. Non potrò mai dimenticare il sorriso di quella bimba di Loyangallani, in Kenya, quando d’impeto è riuscita a leggere una parola nuova sulla lavagna nella sua classe di esclusi dalla scuola regolare. Apparentemente una cosa da niente, ma per lei era un segno di riscatto e la promessa di una nuova dignità, senza dover essere data sposa a soli dodici anni.
La violenza sui piccoli e lo sfruttamento dei bambini sono purtroppo una realtà drammatica, alimentata anche dal nostro stile di vita, dalla smaterializzazione dei fatti operata dai social, per cui tutto, anche la sofferenza, diventa spettacolo. Le giornate che andremo a celebrare non sono la soluzione a questi problemi, ma certamente diventano l’occasione per conoscere, approfondire, riflettere e vincere la nostra apatia e indifferenza cambiando mentalità e mettendoci all’opera.
Gigi Anataloni
Sommario MC giugno 2022
Questo numero della rivista è disponibile online dal 16 giugno.
Giugno, per noi mese della Consolata, si caratterizza per avere tre «giornate mondiali» dedicate ai bambini: il 4 giugno, quella dedicata all’infanzia vittima di violenza, il 12 giugno contro il lavoro minorile e il 16 giugno, la giornata che ricorda i bambini africani. Tutto questo nella cornice di altre giornate mondiali significative: per l’ambiente il 5 giugno, per gli oceani l’8 giugno, quella contro la desertificazione il 17 giugno, poi contro la violenza sessuale nei conflitti il 19 giugno, e la giornata mondiale del rifugiato il 20. Temi tutti di drammatica attualità, come dimostra la terribile guerra in Ucraina e il sempre più grave degrado dell’ambiente di cui è segno, per esempio, la siccità che attanaglia il nostro e tanti altri paesi causando una estesa crisi alimentare.
Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).
Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.
Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.
La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.
Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.
Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.
La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.
È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.
Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.
Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.
Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.
L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.
In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro.
Tra guerre e dittature, 50 anni di strada – Partire dalle minoranze
Dal diario del pioniere – Prime lettere dallo Zaire
La nuova avventura – Kisangani, ultima periferia
Due decenni vissuti appassionatamente – Con il cuore si vince
La repubblica democratica di Felix Tshisekedi
Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.
L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.
Lettera su “verità e giustizia”.
Lettera dalal Faraja House in Tanzania.
Dalla Certosa di Pesio, un po’ di storia, i progetti gli incontri e le opportunità: tutto da scoprire.
Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.
Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.
Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto
il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il
perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.
Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro. Vi andai e rimasi contento.
I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.
Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.
Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.
Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora
Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.
Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.
Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».
Il clima, la pandemia, la situazione in Ucraina precedente alla guerra. Tre film documentari sulle tre emergenze che, in modi diversi, stanno scuotendo il mondo. Quando il linguaggio cinematografico aiuta a guardare le cose per farsene carico. A riveder le stelle, Ogni 90 secondo e Winter on Fire.
Ascoltare con il cuore nell’orecchio
A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.
Succede anche nel campo più specifico dell’informazione: stampa, radio, Tv, siti web e social, fino a ieri erano dominati dal Covid-19, da fine febbraio, invece, dalla tragedia dell’Ucraina. Un tale diluvio di notizie ha una conseguenza: l’assuefazione al peggio e il disinteresse verso altri drammi, altrettanto e, a volte, più gravi.
Ecco allora perché è importante – come scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata – porre l’attenzione sul verbo «“ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Senza un vero ascolto rischiamo di perdere la visione globale e di concentrarci solo su quanto ci tocca «hic et nunc», qui e ora, facendo diventare quel problema l’unico e il più importante. Senza un vero ascolto, sentiamo solo quello che ci tocca da vicino, disinteressandoci del resto del mondo, come se non fosse il «nostro mondo».
Questo «disinteresse» si può quantificare. Ricordo un esercizio semplice di quando feci la scuola di giornalismo: cronometrare per una settimana il tempo dato alle singole notizie nei telegiornali. Lo facessi oggi, a parte l’Ucraina, raccontata con un pathos che tende a spingere l’opinione pubblica a non vedere alternative al riarmo, e qualche necessaria coda sul Covid-19, probabilmente non registrerei quasi niente riguardo alla Siria, con i suoi milioni di profughi (resi quasi invisibili), le drammatiche distruzioni di città e gli eccidi. Pochi minuti andrebbero al Libano, e niente allo Yemen di cui parlano solo i ripetuti appelli di Amnesty international, Amref o Medici senza frontiere. È sparito anche l’Afghanistan che pure l’estate scorsa per qualche settimana è stato al centro di tutti i notiziari. Poi, chi parla di Somalia, Mozambico, Sudan, Etiopia, Centrafrica, Congo Rd, Nigeria, Burkina Faso, Niger? Mai sentito parlare di ciò che succede in Venezuela, Colombia, Messico, Nicaragua? Quanti secondi sono stati dati al terremoto di Haiti dello scorso agosto? Qualcuno dedica tempo alla siccità che attanaglia molti paesi del Sud del mondo e alla fame che ne consegue? E questi sono solo alcuni degli esempi possibili.
Il recente viaggio di papa Francesco a Malta, ha messo in rilievo un’altra difficoltà di ascolto del nostro mondo, e non solo quello dei media: quella verso i migranti che attraversano il Mare nostrum, affogati, respinti o mal accolti.
Di fronte a tutto questo, ecco l’importanza di un ascolto vero. Un ascolto che non sia un semplice origliare, che sia antidoto al parlarsi addosso, che non si preoccupi degli «indici di ascolto», che non cerchi conferma di quanto già si sa, ma impari a discernere la verità, sia rispettoso della persona, favorisca l’incontro e la comprensione reciproca, diventi vero dialogo, trovi l’intuizione di strade diverse da proporre.
«L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza». E non solo per il buon giornalismo, ma per la vita di tutti i giorni.
Noi e voi, spazio di dialogo lettori e missionari
Dov’è Dio quando gli uomini sono in guerra?
La guerra è quanto di più tragico, disumano e folle possa accadere nel mondo. Lo possiamo constatare in questi giorni in cui
l’Ucraina è oggetto di occupazione e bombardamenti con innumerevoli morti tra i civili, fughe all’estero, ecc. Viene spontaneo chiedersi dove sia e che cosa faccia Dio di fronte alle ingiustizie e alle violenze a danno degli innocenti. Gli autori dell’Antico Testamento, per trascrivere l’esperienza del popolo d’Israele, hanno fatto ricorso al lessico e ai modelli culturali dell’ambiente mediorientale, compreso il fenomeno umano e storico della guerra; si trovano di frequente quindi episodi di eccidi, stermini e vendette senza limiti. Nella ricerca del volto di Dio è presente anche il titolo «Signore degli eserciti» (Is 10,24) e tra tutte le forme di conflitto vi è la «guerra santa» (Gl 4,9); si fa breccia, in ogni caso, la convinzione che Dio non corrisponda ai criteri elaborati dall’uomo, come avviene, ad esempio, nel libro di Giobbe, in cui si mette in dubbio l’idea che l’insuccesso sia dovuto all’abbandono divino, e nella letteratura profetica in cui si elabora l’idea che la giustizia di Dio non sia quella dei canoni umani. Il Nuovo Testamento rivela infatti un volto di Dio del tutto inatteso e, soprattutto, annuncia che Gesù, il Figlio, non rispondendo con la violenza alle accuse rivoltegli e accettando la morte, ha vinto definitivamente il male, in particolare il peccato. Dio non è all’origine del male e ha a cuore la vita (Gn 9,16), dinanzi alle gravissime derive causate dalle possibilità dell’uomo conseguenti alla sua libertà, interviene con l’incarnazione, la vita, la morte e resurrezione del Figlio Gesù, e propone un ideale (Mt 5,44), l’amore verso il nemico, che tanti martiri e santi hanno testimoniato nel corso dei secoli, non sminuendo in ogni caso il valore della lotta per la giustizia. Dio, che è vivo, sicuramente agisce con il suo Spirito ma in modo imperscrutabile; non interviene in modo magico e sostiene l’uomo che potenzia le sue «armi» quali l’impegno quotidiano nel superare i piccoli contrasti inevitabili, la pratica costante di azioni diplomatiche e politiche volte a mediare, la preghiera perseverante ed insistente. Dio soffre atrocemente per le vite interrotte con la violenza, i danni arrecati all’ambiente naturale e alle opere costruite dall’uomo, per l’uso delle armi sempre più sofisticate e l’incapacità di trovare intese durature, necessarie in quanto gli equilibri geopolitici non sono mai definitivamente risolti, è presente laddove si soffre, e «agisce» attraverso tutte le iniziative che l’uomo assume per porre rimedio ai conflitti, costruendo degli accordi, e attraverso coloro che, nella fede e nella grazia sacramentale, sono uniti intimamente a Cristo (Mc 11,24) nell’implorare la pace.
Milva Capoia 14/03/2022
Troppa popolazione?
In questi giorni sembra che sulla Terra abbiamo superato gli otto miliardi di abitanti. Eravamo 2.480 milioni a fine 1950, quindi in 71 anni siamo più che triplicati. È vero che in questi 71 anni non ci sono state guerre mondiali e neanche epidemie generalizzate: ma di una pandemia ci stiamo occupando adesso e sembra che Putin abbia voglia di trascinarci in una guerra mondiale per difendere il suo posto di padrone della Russia e magari diventarlo di tutto il mondo. In ogni modo, anche senza il suo aiuto non credo che la vecchia palla su cui viviamo sia in grado di reggere a lungo una popolazione che si triplica ogni 70 anni. Io ho avuto la possibilità di girarla tutta (e a forza di prendere sole mi son preso anche un tumore, ma tanto ho superato benissimo gli 80) e vi assicuro che è bellissima e che ha una popolazione meravigliosa che però si fa governare da troppi cialtroni e non pochi veri assassini.
Claudio Bellavita 24/03/2022
Grazie per le considerazioni e per l’amore alla nostra Terra. La questione della popolazione è ovviamente molto complessa e controversa. Di sicuro la soluzione non sta né nella pandemia né nella guerra, ma probabilmente neanche nelle «scelte di morte» che avvengono di fatto nel nostro mondo (figlio unico, aborto, messa in crisi della famiglia, esaltazione del gender, ecc.). Di fatto, e l’Italia ne è capofila, stiamo assistendo a un declino demografico preoccupante, come se non credessimo nel futuro. Invece la crisi che stiamo vivendo richiede un serio ripensamento degli stili di vita, dei consumi, dell’uso delle risorse del nostro pianeta e delle relazioni tra i popoli.
Tra guerriglia e sogni di pace
Carissimi amici,
riesco finalmente a raccontarvi un pezzo di vita della mia parrocchia in questi mesi del nuovo anno. Dopo la paura iniziale per il Covid-19, in questo ultimo periodo, qui a Solano la vita è ritornata quasi alla normalità.
In Colombia la distribuzione dei vaccini è iniziata dalle zone periferiche e ai confini con altri paesi come Perù ed Ecuador; quindi, possiamo dire che siamo stati privilegiati essendo stati tra i primi a essere vaccinati.
La situazione sociopolitica in Colombia è sempre più complicata nonostante l’accordo di pace avvenuto nel novembre 2016 tra il governo del presidente Santos e la Farc (guerriglia). Molti hanno lasciato le armi e, attraverso i programmi integrativi dello stato, si sono inseriti nella vita civile, ma molti altri hanno deciso di continuare la lotta armata ed è sorta la disidencia (dissidenza), mentre altri, dopo essersi consegnati, delusi per il mancato compimento delle promesse statali, sono ritornati alle armi.
Il 28 gennaio e 8 febbraio ho accompagnato tre giovani di Solano al seminario diocesano per un discernimento vocazionale: uno a San Vicente del Caguán, altri due a Florencia, il capoluogo della regione. Appena arrivato in canonica al mio rientro da Florencia, ricevo una chiamata: «Padre è tutto pronto». Mi reco al «Club Juvenil», punto d’incontro per le varie attività dei giovani costruito da padre Giuseppe Svanera, senza sapere perché richiedono la mia presenza. Entro e trovo davanti a me tre bare con i corpi di tre giovani fratelli che sono stati assassinati.
Viviamo in un territorio dove per sopravvivere si coltiva la pianta di coca da cui poi viene estratta la pasta basica per produrre la cocaina e, quindi, la violenza è fortissima.
Le bare. ancora aperte, sono poste sopra tavole di legno sostenute da casse vuote di birra. Attorno si brucia caffè per cercare di coprire l’intenso odore dovuto alla decomposizione dei corpi. Un giovane che è stato testimone dell’eccidio racconta la brutalità che i tre fratelli hanno subito: legati e uccisi con vari colpi alla testa e al torace da un gruppo di trafficanti di droga che si fa chiamare Sinaloa. Tutto risale al 5 febbraio.
I primi a parlare con me sono i padrini di battesimo di due dei giovani assassinati: sono molto addolorati e mi dicono che il papà sta sbrigando le pratiche con la giustizia. Hanno preso seriamente il loro impegno di padrini e sono una chiara testimonianza di fede per la gente del paese. Per questo li ringrazio. Mi presentano i genitori. La mamma già la conoscevo perché l’avevo aiutata economicamente comprando direttamente da lei alcuni dei suoi prodotti. Vive separata dal marito, e fa parte della «Iglesia evangelica pentecostal». Il papà, Pedro, desidera la messa cantata per il funerale dei figli.
Celebriamo il funerale in un ambiente militarizzato, con molta paura e tristezza. Durante l’omelia denuncio gli autori di questo assassinio, dicendo che non esiste nessun motivo per togliere la vita a qualsiasi persona: Dio dona la vita, non la toglie. Invito gli assassini a pentirsi del loro gesto e a non continuare con queste stragi che stanno colpendo molto duramente il nostro territorio, soprattutto contro i giovani.
Le tre salme sono caricate su tre mezzi e portate al cimitero in processione. Accompagno il corteo con la recita del rosario, benedico la tomba e durante la sepoltura alcuni giovani mettono musica colombiana, il «Vallenato», che esprime la disperazione che stanno vivendo.
Nel pomeriggio viene il papà dei tre giovani. È un antioqueño che ha lasciato la sua terra 36 anni fa in cerca di fortuna. È stato nel Caguán, a Remolino, dove ha conosciuto il padre Giacinto Franzoi, e ora si trova nel Yurilla, dove è proprietario di un piccolo negozio di alimentari e vende benzina. I figli vivevano in un villaggio più all’interno, nella foresta. Quando gli hanno comunicato della loro morte, superando il dolore con molta forza, ha coordinato tutto per portarli a Solano. Ha chiesto appoggio alle forze dell’ordine che gli hanno dato protezione e gli hanno consigliato di non ritornare da dove era venuto perché è a rischio la sua vita.
Gli chiedo: «Perché li hanno uccisi?», e lui ripete all’infinito: «Erano bravi ragazzi, non hanno fatto del male a nessuno. Io non posso lavorare perché sono anziano. Spesso andavo da loro e si chiacchierava e rideva, o loro venivano da me. Abbiamo passato momenti molto belli di amicizia, di fraternità e di gioia grande. Non mi spiego il perché».
Prosegue: «Sono stato interrogato dall’esercito per più di due ore, e ho ripetuto che non abbiamo mai collaborato con nessun gruppo. Ho detto che quando venivano i guerriglieri mi chiedevano di trasportarli con la canoa. Non potevo dire di no e così davo loro le chiavi e la benzina. Mai ho guidato io l’imbarcazione. Loro andavano e me la riportavano. Chiedevano cibo e compravano la benzina, mai a loro abbiamo creato problemi. Ho anche dato all’esercito le coordinate dove poterli trovare, anche se i militari sono qui da più di un anno e non fanno assolutamente nulla, stanno a guardare. Padre, ho anche denunciato che l’anno scorso, quando è stato ucciso un dissidente della Farc, vi è stata una grande mobilitazione militare con barche ed elicotteri fino ad arrivare nel mio villaggio. Erano presenti circa 80 uomini del gruppo Sinaloa, ma l’esercito ha sparato verso le canoe dove c’erano i contadini, non a quelle dei guerriglieri. Sono arrivato alla conclusione che vi è una alleanza tra l’esercito e i Sinaloa, e che forse questo gruppo è stato creato dallo stesso esercito con ex combattenti della Farc per combattere la dissidenza».
Qualche giorno dopo il signor Pedro viene a chiedermi il certificato di sepoltura dei suoi tre figli perché vuole denunciare lo stato. È intenzionato ad andare a Bogotá per parlare con i mezzi di comunicazione a livello nazionale e internazionale. È arrabbiato e triste. Mi dice: «Non voglio che muoiano altri giovani, molti ne sono stati già uccisi. Dobbiamo fermare questa strage. Oggi la barca di linea portava più di cento persone che scappavano dal territorio dopo aver visto trucidare i miei tre figli senza alcun motivo».
Lo avviso che oggi passerà a Solano la Croce Rossa internazionale e che sarebbe importante mettersi in contatto con loro perché appoggiano questi casi di violazione dei diritti umani.
Vedo che si fa sempre più urgente un lavoro con gli adolescenti e i giovani. Già in parrocchia lo stiamo attuando, non solo con attività religiose di catechismo e con gruppi giovanili, ma con una presenza a tappeto nelle varie scuole e collegi del territorio dove operiamo, attraverso un accompagnamento di formazione sul progetto di vita e sui valori in cui credere per costruire il proprio futuro.
Approfitto per ringraziare le varie associazioni e persone che hanno collaborato in questi anni nell’appoggio economico delle varie attività realizzate nella parrocchia e a livello del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano (come il progetto di Amico, luglio 2019). Qualche frutto lo abbiamo visto in giovani che si sono inseriti nella società come lideres. A livello ecclesiastico abbiamo quattro giovani nel seminario.
Da quando sono arrivato il 3 dicembre del 2017 abbiamo diviso questo immenso territorio in tre parrocchie e come zona ci troviamo una volta al mese qui nella parrocchia madre. Siamo un bel gruppo: tre sacerdoti, sette suore, due seminaristi e una laica Missionaria della Consolata. Un gruppo di missionari/e molto giovani che, guidati dalla forza dello Spirito del Signore, vogliamo accompagnare i vari popoli che vivono in questo territorio amazzonico minacciato dalla violenza e dalla distruzione per interessi di potere e di soldi.
Grazie per la vostra vicinanza, sempre vi ricordo nell’Eucaristia che sta al centro della mia giornata e della mia vita.
Il beato Giuseppe Allamano (oggi è la sua festa) e la nostra madre Consolata siano di appoggio nel nostro cammino missionario per le strade del mondo.
Padre Angelo Casadei da Solano, Colombia, 16/02/2022
Nuovo ausiliare a Caracas
È con gioia, e ringraziando Dio e la Vergine, che i Missionari della Consolata (Imc) in generale, e quelli del Venezuela in particolare, hanno ricevuto, il 23 dicembre 2021, la bella notizia della nomina di padre Rivas Durán Lisandro Alirio, fino ad allora rettore del Pontificio collegio missionario internazionale «San Paolo apostolo» di Roma, come vescovo ausiliare di Caracas.
L’ordinazione episcopale di mons. Lisandro e mons. Carlos Márquez è stata conferita dal cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi di Caracas, nella chiesa di san Giovanni Bosco nella capitale, con la partecipazione di molti vescovi del Venezuela, più alcuni vescovi di Rito greco e due vescovi Imc dalla Colombia.
Nella sua omelia, il cardinale, riferendosi al testo biblico del «Buon Pastore», ha ricordato ai vescovi eletti che sono «scelti, preferiti e sostenuti dal Signore» e che «il Signore li ha chiamati per nome perché sono di Dio» e li ha esortati a essere dei buoni pastori sull’esempio di Gesù.
Domenica 13 marzo 2022, monsignor Lisandro ha celebrato la sua prima messa come vescovo ausiliare nella parrocchia di San Joaquín e Santa Ana di Carapita, nell’area pastorale che è stato incaricato di accompagnare nella periferia della città.
Ha presentato il Vangelo come suo programma pastorale e ha sottolineato che sul suo emblema episcopale c’è la Bibbia aperta su cui sono incise A e Ω con il motto «Perché in Lui abbia vita». Ha espresso la volontà di dare il meglio di sé al servizio del popolo di Dio affidato alle sue cure.
adattato da «Vida nuestra», aprile 2022
Riportiamo in breve questa notizia, riservandoci di pubblicare quanto prima un’informazione più completa sull’avvenimento e sulla situazione pastorale di Caracas.
Ucraina. Aggressione e resilienza
Per il presidente russo, l’Ucraina «non esiste» come stato autonomo. Un’affermazione smentita dall’incredibile resistenza degli ucraini all’invasione di Mosca. Una guerra – «operazione militare speciale», secondo i russi – che, dal 24 febbraio, ha cambiato il mondo.
Da mesi, la domanda che in tanti si ponevano era: ci sarà una guerra contro l’Ucraina o il presidente russo Vladimir Putin sta solo bluffando? La risposta è arrivata la notte del 24 febbraio, quando i convogli corazzati russi hanno attraversato il confine ucraino e i missili hanno iniziato a colpire prima obiettivi militari e poi civili. Mentre la guerra imperversava sempre più cruenta, tutti hanno cominciato a discutere sul perché. Speculazioni e mezze verità che non hanno senso se non si fa un passo indietro, analizzando il legame morboso che lega la Russia all’Ucraina e a come è nato il conflitto nel Donbass, dimenticato ma in atto da otto anni.
Un paese giovane con una storia secolare
La dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita ufficialmente nel dicembre del 1991, è stata sorprendentemente pacifica in Ucraina, che ha festeggiato il trentennale della propria indipendenza lo scorso 24 agosto. Festeggiamenti ormai dimenticati a causa dello scoppio di una nuova guerra, che sta lacerando questo paese giovane, ma dalla storia secolare e che, da Est a Ovest, si è ritrovato a lottare per rimanere unito sotto un’unica bandiera. L’Ucraina, infatti, non è nata ieri. Possiede da secoli un’identità propria, un sentito movimento nazionale e una profonda storia d’indipendenza che risale a ben prima dell’arrivo di Pietro il Grande. Un’identità che, spesso e volentieri, è stata vittima di deformazioni storiche: nonostante, infatti, ucraini e russi (insieme ai bielorussi) vengano da alcuni considerati fratelli inseparabili («un unico popolo», come ha sottolineato lo stesso Putin in un lungo scritto del 12 luglio scorso titolato «Sull’unità storica dei russi e degli ucraini»), i primi hanno una loro storia secolare e multiculturale, una loro lingua ufficiale e delle tradizioni culturali diverse da quelle dei secondi.
Tra «Russkij mir» e democrazia
Durante i primi 20 anni dalla dissoluzione dell’Urss, la Russia ha tenuto d’occhio gli sviluppi in Ucraina e ha interferito in vari modi nella politica interna del paese. Ma la presenza di una nutrita popolazione ucraina di lingua russa garantiva – o sembrava garantire – che il paese non si sarebbe mai allontanato troppo dalla sfera d’influenza russa, dal cosiddetto russkij mir («mondo russo»).
Tuttavia, il concetto di democrazia era già ben radicato nella mentalità e nella cultura politica del popolo ucraino, erede storico di quel particolare sistema statale dell’«etmanato cosacco» del XVII secolo (abolito da Caterina II di Russia nel 1764). Non sorprende, quindi, sapere che, al contrario della Russia, in Ucraina è sempre esistita un’opposizione. Senza equivoci, la politica ucraina era (e lo è tuttora) piena di conflitti interni: i cambi di potere e i rimpasti di governo sono stati tumultuosi in quanto riflettevano genuine differenze di opinione nella popolazione su ciò che l’Ucraina sarebbe dovuta essere e diventare. Inoltre, la mancata esperienza diretta di sistemi democratici ha minato la corretta applicazione dei principi di base (come la giustizia o la lotta alla corruzione e al clientelismo) soprattutto nei primi anni Novanta. Alcuni pensavano che il paese dovesse integrarsi ulteriormente all’Europa, altri che dovesse rimanere strettamente legata alla Russia. Una questione che ha portato prima alla «Rivoluzione della dignità» (nota anche come «Euromaidan», Europiazza) e, successivamente, a un conflitto ibrido nei territori orientali del paese, oggi trasformatosi in un bagno di sangue su scala nazionale.
La questione Donbass
L’Ucraina è in guerra dal 2014, ovvero dall’anno dell’annessione da parte della Russia della penisola di Crimea (avvenuta il 18 marzo dopo un referendum giudicato illegale a livello internazionale) e dello scoppio del conflitto nella regione più orientale del Donbass. Per otto anni, il paese è stato diviso da una linea del fronte lunga circa 400 km che separava, fino allo scorso febbraio, una parte dei territori del Donbass dalle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk (Doneckaja narodnaja respublikae, Dnr, nella traslitterazione dal russo) e Luhansk (Luganskaja narodnaja respublika, Lnr), occupate dai separatisti armati e finanziati dal Cremlino. Si è sempre trattato, nei suoi otto anni, di un conflitto ibrido limitato a questi territori e poco noto internazionalmente, tanto che spesso veniva (erroneamente) considerato una guerra civile o addirittura una guerra tra clan mafiosi, data la grande presenza locale di potenti oligarchi.
Un conflitto definito «a bassa intensità» che, però, ha provocato migliaia di vittime e sfollati interni: dall’aprile 2014 e fino allo scorso dicembre, circa 13.300 morti (3.375 civili, 4.150 soldati ucraini e 5.700 separatisti). Vani sono stati i tentativi per trovare una soluzione diplomatica attraverso dei negoziati. Questi hanno visto protagonisti prima esclusivamente le due parti in causa – Russia e Ucraina (Accordi di Minsk del 2014) – e poi anche Francia e Germania («Quartetto Normandia»), in qualità di mediatori, nei cosiddetti Accordi di Minsk II del 2015. L’intento dei negoziati, svoltisi nella capitale bielorussa, era quello di concordare un cessate il fuoco bilaterale, effettuare scambi di prigionieri, fornire aiuti umanitari, demilitarizzare la zona e, soprattutto, decentralizzare il potere fornendo una maggiore autonomia alle regioni del Donbass e indicendo anche nuove elezioni sotto il monitoraggio dell’Osce. L’intesa, tuttavia, è fallita più volte a causa di ripetute violazioni del cessate il fuoco da entrambe le parti.
Uno dei maggiori ostacoli nell’adempimento dei negoziati è stata la mancata ammissione da parte della Russia di essere soggetto integrante del conflitto stesso: Kyiv ha sempre sostenuto che, nel Donbass, le forze armate separatiste provenissero anche da Mosca, ma la Russia ha sempre negato. Questa era la situazione fino allo scorso 22 febbraio, quando Vladimir Putin ha annunciato il riconoscimento ufficiale dell’indipendenza di Dnr e Lnr e ha cambiato le carte in tavola sulla scacchiera geopolitica internazionale.
Oggi, in seguito all’escalation e all’invasione russa, le parti sono tornate a fronteggiarsi apertamente, non solo violando il cessate il fuoco nei territori occupati e vicini alla linea di contatto, ma scatenando una guerra su larga scala e una crisi umanitaria di enormi proporzioni per l’Ucraina e per tutta l’Europa.
Il casus belli di Putin
Nel lungo discorso per giustificare il riconoscimento delle repubbliche secessioniste ucraine del Donbass, il presidente russo ha chiaramente detto che l’obiettivo principale del suo intervento militare in Ucraina è quello di «denazificare» il paese.
Per Putin, infatti, l’Ucraina sarebbe governata da un esecutivo di «drogati» e «neonazisti». Inoltre, ha sostenuto che, in Ucraina, sia in corso un vero e proprio «genocidio» nei confronti della popolazione russa e russofona, vittima dei nazisti al governo. Una descrizione della realtà infondata e assurda. Basta guardare ai numeri effettivi della presenza dell’estrema destra ucraina, alla popolazione che attualmente sta combattendo per la propria libertà, nonché al fatto che molti dei politici ucraini (come lo stesso presidente Zelenskyj) sono di madrelingua russa.
Come succede per ogni guerra, anche il conflitto in Ucraina ha dato origine a una sconcertante diffusione di verità parziali e a un controllo pedissequo della narrazione, soprattutto da parte dei media russi. L’affermazione di Putin, secondo cui la «Rivoluzione della dignità» del 2014 fu un «colpo di stato fascista» e l’Ucraina è uno stato nazista, è stata usata per anni come giustificazione per l’annessione della Crimea e il sostegno ai separatisti russofoni nell’Est del paese, guadagnando molto consenso anche sui social. Ma l’Ucraina è un autentico stato liberal-democratico, anche se imperfetto, con libere elezioni che producono significativi spostamenti di potere, compresa l’elezione nel 2019 del riformatore liberal-populista Volodymyr Zelenskyj. Inoltre, il partito che rappresenta i cosiddetti neonazisti non ha attualmente nemmeno un seggio in parlamento. L’Ucraina, quindi, non è assolutamente uno stato nazista, e il casus belli russo è l’ennesima bugia del Cremlino.
Le milizie ucraine di estrema destra
Stabilito questo, è vero che tra le milizie volontarie ucraine che partecipano a questa guerra ci sono anche quelle neonaziste. Tra queste, la più nota è il «battaglione Azov», un’organizzazione di estrema destra fondata da Andriy Biletskiy. Nato come gruppo paramilitare, nel 2014 il battaglione è stato inquadrato nella «Guardia nazionale ucraina», componente di riserva dell’esercito. Lo scopo principale di Azov era quello di contrastare le crescenti attività di guerriglia dei separatisti filorussi del Donbass. Il battaglione ha come base la città portuale ucraina di Mariupol’ (la più martoriata nel conflitto) ed è legato al progetto politico Nacional’nyj Korpus (Corpo nazionale) che partecipa alle elezioni e ha rapporti internazionali con altri gruppi di estrema destra. Nonostante tra il presidente Volodymyr Zelenskyj e il battaglione non scorra buon sangue, Azov combatte oggi in prima linea ed è molto utile al governo di Kyiv in quanto conosce bene il territorio, è ben organizzato e possiede capacità e conoscenze militari effettive.
Per ora, l’Ucraina e Zelenskyj hanno, quindi, bisogno delle capacità militari e dello zelo ideologico delle milizie nazionaliste e di estrema destra per combattere e vincere la battaglia per la sopravvivenza nazionale. Ma quando la guerra finirà, Zelenskyj e i suoi sostenitori occidentali dovranno stare attenti a non dare troppo potere a gruppi i cui obiettivi sono in netto contrasto con le norme basilari dei sistemi politici liberal democratici. Armare e finanziare Azov e compagni è una delle scelte difficili imposte dallo status di guerra, ma il loro disarmo dovrebbe essere una priorità a conflitto terminato.
Che significa neutralità?
Nessuno si sarebbe mai aspettato né un conflitto di tale portata, né una resistenza così motivata e organizzata da parte del popolo ucraino, caratteristica quest’ultima che ha colto tutti di sorpresa. Come sorprendente è stato il presidente Zelenskyj che, in Occidente e tra il pubblico internazionale, si è guadagnato un’immagine da vero eroe, un capitano che non abbandona la nave nel momento del bisogno ma che, al contrario, lotta con la propria gente.
Le truppe russe si sono trovate davanti un nemico «incapace» di arrendersi e di piegarsi all’aggressore. E Putin, che sperava di risolvere la questione ucraina con una guerra lampo, si è trovato a dover riformulare la propria strategia. Se prima il suo obiettivo principale era evitare che l’Ucraina si unisse a Ue e Nato per poterla tenere sotto la propria ala di influenza e, eventualmente, sostituire l’attuale governo, ai suoi occhi troppo filoeuropeo, con un team fidato, ora (mentre andiamo in stampa, a metà aprile, ndr) la sua priorità sembra essere quella di rendere il paese neutrale. Ma cosa significherebbe? Vorrebbe dire smilitarizzare l’Ucraina trasformandola in una nuova Austria o Svezia. Un’operazione che sarebbe, tuttavia, possibile esclusivamente in tempi di pace e in presenza di un cessate il fuoco, fattori assenti in questo momento: bombardamenti e assedi continuano in diverse città (Mariupol’, Sumy, Charkiv, Cherson) oggi completamente distrutte e dove i civili sono vittime di attacchi quotidiani.
Nel complesso, gli esperti sembrano essere d’accordo sul fatto che la neutralità è la strada da seguire. «Nel suo mondo ideale, Putin potrebbe aver sognato un’Ucraina unita alla Russia in un’unica forma statale, ma gli eventi delle ultime settimane hanno dimostrato che è un risultato altamente improbabile», ha commentato il prof. Graeme Gill, esperto di politica sovietica e russa, aggiungendo che «mentre c’è ancora un sostanziale sentimento filorusso in alcune parti del paese, l’invasione ha inasprito la visione dei russi da parte di molti ucraini».
La crisi dei migranti
Nel giro di un mese e mezzo oltre 4,5 milioni (su 41,5) di ucraini sono fuggiti; la maggior parte (2,6 milioni) ha trovato rifugio temporaneo in Polonia. Anche negli anni precedenti (a partire dal 2014) è stato questo paese ad accogliere oltre un milione di ucraini. Eppure, oggi, dopo una iniziale sincera catena di solidarietà che ha accolto i rifugiati a braccia aperte, nei media stanno emergendo domande su come i sistemi di assistenza sociale e sanitaria, già sovraccarichi, potranno reggere.
La guerra in Ucraina ha costretto uno stato conservatore per antonomasia come la Polonia ad abbandonare la sua rigida posizione anti rifugiati degli ultimi anni. Oggi il governo polacco ha aperto le frontiere a tutti gli sfollati provenienti dall’Ucraina, rivedendo le sue posizioni: un’accoglienza motivata tanto dalla paura della confinante Russia, quanto dalla compassione. Ma quanto reggerà?
Claudia Bettiol*
(*) Nata nel 1986, slavista di formazione, dopo un anno di studio in Russia, un Erasmus in Estonia e un volontariato nella città ucraina di Sumy, Claudia Bettiol si è trasferita a Kyiv dove, fino allo scoppio della guerra, lavorava come traduttrice e insegnante di italiano. Ha scritto per «East Journal» (eastjournal.net). Dal 2019 collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» (balcanicaucaso.org).
La guerra di Putin e le divisioni della Chiesa ortodossa
Kirill, il patriarca con l’elmetto
Il patriarca di Mosca non ha voluto (o potuto) distinguersi dall’amico Putin. Il suo avvallo alla guerra in Ucraina è una scelta grave e densa di conseguenze.
Il presidente Putin e il patriarca ortodosso Kirill formano una coppia di guerra ben assortita: il primo ha il sogno di ricostituire una sorta d’impero zarista, il secondo di difendere l’idea della Santa Russia («Svjataja Rus»).
Pubblicamente, entrambi hanno come riferimento l’ideologia del Mondo russo («Russkii mir»). Segretamente, entrambi hanno (o avevano) l’ambizione di ampliare la rispettiva sfera di potere.
Sul tema, un nutrito gruppo di teologi ortodossi è intervenuto con una dichiarazione congiunta: «Questo “Mondo russo” – vi si legge – ha un centro politico comune (Mosca), un centro spirituale comune (Kyiv quale “madre di tutte le Rus’”), una lingua comune (il russo), una Chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa, il Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che lavora in “sinfonia” con un presidente/capo nazionale comune (Putin) per governare questo mondo russo, oltre che per sostenere una spiritualità, moralità e cultura comuni, distinte da quelle del mondo non russo». I firmatari concludono: «[Noi] respingiamo l’eresia del “Mondo russo” e le azioni vergognose del governo della Russia [compiute] con la connivenza della Chiesa ortodossa russa» (13 marzo 2022, domenica dell’ortodossia).
La conversione religiosa di Putin viene fatta risalire agli anni Novanta. Il suo padre spirituale sarebbe l’ultraconservatore vescovo Tikhon, oggi metropolita di Pskov. Tuttavia, le apparizioni pubbliche dello zar del Cremlino sono state e sono con il patriarca Kirill. Dopo l’invasione dell’Ucraina, i due si sono sostenuti a vicenda con dichiarazioni che, fuori della Russia, sono apparse sconcertanti. Durante il suo comizio allo stadio di Mosca (17 marzo), il presidente ha giustificato l’invasione citando un passo del Vangelo di Giovanni: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Per parte sua, il patriarca ha superato ogni immaginazione nel suo sermone di domenica 6 marzo. In esso Kirill ha giustificato l’intervento armato russo per proteggere i valori cristiani sulla sessualità e sul matrimonio, minacciati, egli sostiene, dalla cultura occidentale delle «parate gay». Anche nelle ore del massacro di Bucha, il patriarca di Mosca ha parlato in difesa dell’intervento russo (3 aprile).
Come il sodale Putin, pure Kirill, a capo della Chiesa ortodossa russa dal 2009, non ha però tutto sotto controllo. Dopo lo scisma ucraino del 2018 (7mila parrocchie su 19mila sono passate alla neonata Chiesa ortodossa autocefala guidata dal primate Epifanij), oggi Kirill si trova in difficoltà anche con la Chiesa ortodossa ucraina guidata dal primate Onufrij, la quale, pur rimasta legata al patriarcato di Mosca, ha espresso una forte contrarietà alla guerra.
I cattolici ucraini
I cattolici ucraini – stimati attorno all’11 per cento del totale, pari a 6 milioni di persone – sono invece riuniti nella Chiesa greco cattolica, guidata da monsignor Sviatoslav Shevchuk. «Non lasciateci soli nel nostro dolore – ha detto il vescovo (28 marzo) -. Nessuno è preparato alla guerra, tranne i criminali che la pianificano e la mettono in atto. È stato uno choc. Ma era evidente che si trattava di un’invasione ben pianificata». Quella ucraina non è una «guerra di religione», ma è una guerra in cui la religione viene usata come strumento. Come troppo spesso nella storia.
Paolo Moiola
Ucraina, alcuni dati
Superficie: 603.600 Km2 (due volte l’Italia);
Popolazione: 41,5 milioni (dato controverso);
Capitale: Kyiv (traslitterato dall’ucraino), Kiev (traslitterato dal russo), con circa tre milioni di abitanti;
Sistema politico: repubblica democratica semipresidenziale;
Presidente: Volodymyr Zelenskyj, in carica dal 20 maggio 2019;
Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; invasione russa, 24 febbraio 2022; scoperta una strage di civili a Bucha, 3 aprile; papa Francesco parla di «impotenza dell’Onu» (6 aprile);
Principali gruppi demografici: ucraini 78%, russi 17%;
Religioni principali: ortodossi 78% (divisi in due Chiese, una legata a Mosca e una autocefala), cattolici 11% (Chiesa greco cattolica);
Economia: produzione agricola (grano, semi di girasole, zucchero, carne, prodotti caseari); industria siderurgica (acciaio e ghisa);
Gas: attraversa l’Ucraina il gasdotto Yamal, dal quale passa circa il 10% delle forniture totali di gas proveniente dalla Russia;
Regioni contese: Donbass, regione mineraria (carbone in primis, ma anche ferro, uranio, titanio, manganese, mercurio e gas) di circa 32mila Km2, quattro milioni di abitanti (dato controverso), Donesk e Luhansk come capoluoghi; Crimea, penisola sul Mar Nero di 26.200 Km2 (poco più della Lombardia), due milioni di abitanti e Sebastopoli come capoluogo;
Migranti (anteguerra): circa sei milioni di cittadini (World Migration Report, 2022), la maggior parte in Russia e Polonia; ottavo paese al mondo per fenomeno migratorio;
Ucraini in Italia (anteguerra): 236mila pari al 4,6% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti ucraini in Italia 177mila sono donne, in larga parte occupate nei servizi alla persona (colf e badanti; dati Fondazione Leone Moressa);
Profughi: 6,5 milioni di profughi interni (International organization for migration, Iom, marzo 2022); 4,5 milioni di profughi scappati dal paese (dati Unhcr al 10 aprile 2022), oltre 87mila arrivati in Italia (secondo le cifre del Viminale al 10 aprile).
(a cura di Paolo Moiola)
Le Queens, regine del campo
In un mondo di relazioni sempre più disumane, una squadra di calcio formata da donne – richiedenti asilo, rifugiate e operatrici sociali – sfida violenza, pregiudizi e maschilismo. Accade a Torino.
In una sera estiva del 2017, in una Torino afosa e deserta, è nata l’idea delle Queens. Una squadra di calcio femminile per dare la possibilità a donne richiedenti asilo e rifugiate, supportate dalle operatrici della cooperativa sociale Progetto Tenda, di andare oltre gli schemi, senza curarsi di ciò che gli altri credevano possibile o impossibile.
«Come ogni estate, Balon Mundial aveva promosso il campionato dilettantistico tra le squadre delle comunità di migranti – racconta Anael, operatrice tra le fondatrici della squadra -. Dato che, da alcuni anni, c’era anche un torneo femminile, pensammo che il calcio avrebbe potuto essere lo strumento giusto per metterci in gioco».
Una vera sfida nella sfida: uno sport quasi esclusivamente maschile, con un pubblico in grande maggioranza maschile, da proporre a donne che si sforzavano di riprendere in mano la propria vita, dopo anni di viaggi, violenze e percorsi travagliati e traumatici.
«Sentivamo – prosegue Anael – il bisogno di mettere in gioco le nostre capacità in modo nuovo e inaspettato, indirizzando la nostra energia in qualcosa da costruire insieme, cucendolo sulla nostra pelle ferita. Partendo da una passione condivisa per il calcio, abbiamo quindi messo tutto il nostro entusiasmo nella creazione della squadra».
L’anno dell’esordio: Nigeria, Somalia, Italia
Così, quasi per caso, donne richiedenti asilo e operatrici si sono ritrovate in un gruppo pieno di desideri, un gruppo che avrebbe saputo affrontare insieme vittorie e sconfitte, sempre coeso, con condivisione e fiducia reciproca nonostante le differenze culturali, etniche, linguistiche, di esperienze di vita.
Nonostante solo una delle giocatrici avesse esperienza in questo sport, tutte si sono cimentate nella scoperta e conoscenza delle regole e delle tecniche calcistiche e nei vari ruoli, partecipando con dedizione agli allenamenti e alle partite.
C’era Mary che ha rispolverato i tacchetti abbandonati in Nigeria iniziando così la carriera di bomber delle Queens. C’era la connazionale Esosa che si è lanciata da neofita in questa avventura diventando una giocatrice versatile e preziosa per le sue compagne. C’era Suleqa, giovane donna somala, che ha giocato ogni partita con il velo e che, con determinazione, ha difeso a spada tratta la sua squadra. C’era Rebecca, educatrice giovane e impetuosa (quanto si è arrabbiata quando abbiamo perso le prime partite!). C’era Anael, la «saracinesca», prima portiera delle Queens. C’era Monica che è venuta a lavorare per due settimane con il segno dei tacchetti sul polpaccio. E poi c’erano: Marta che sventolava bandiera e distribuiva bottiglie d’acqua, sorrisi e incoraggiamento; Alessandra con la sua dirigenza esperta e la sua passione e, ultima ma non ultima, Mathilde (belga), vera e propria «tuttofare» della squadra. «Ed è stato così che le educatrici e le donne ospitate nelle strutture si sono confuse in un unico abbraccio sudato – continua Anael -. Tutte insieme abbiamo partecipato al torneo del Balon Mundial. Tra sconfitte e vittorie, ci siamo classificate al quarto posto: un piccolo miracolo!».
L’apertura a tutte: una pioggia di adesioni
L’esperienza del primo anno delle Queens ha dimostrato a tutte come lo sport condiviso possa essere davvero uno spazio di emancipazione, inclusione, gioia e libertà.
Per questo la squadra, dal 2018, ha deciso di aprirsi al territorio, dando la possibilità a tutte le donne interessate a partecipare. «Sono arrivate tante adesioni – raccontano dalla cooperativa – siamo rimaste sorprese dal numero di donne che avevano fatto esperienze pregresse o che avevano sempre desiderato giocare, ma non avevano trovato spazio o coraggio».
Grazie all’arrivo di nuove giocatrici, donne di varie nazionalità, tra cui molte italiane, con storie e situazioni differenti, le Queens sono cresciute e oggi le educatrici della cooperativa si possono dedicare al tifo dalla panchina. Poi, alla fine del torneo estivo del Balon Mundial 2019, si è presentata un’altra grande occasione di crescita: l’associazione organizzatrice del torneo si è voluta avvicinare alla squadra, proprio per quei valori che ogni giorno essa cerca di promuovere (inclusione, equità, empowerment, crescita personale).
È nata così una partnership, in cui le donne hanno iniziato a essere seguite dagli educatori sportivi dell’associazione. A ogni allenamento essi cercano di lavorare sulle competenze personali delle giocatrici. Competenze che le donne possono sviluppare in campo, ma che sono utili anche fuori dal campo, nella vita di tutti i giorni: comunicazione, lavoro di squadra, fiducia in sé stesse, spirito di adattamento.
Il cartellino rosso del Covid
Negli ultimi due anni, purtroppo, l’emergenza sanitaria ha messo a dura prova gli allenamenti della squadra e la possibilità di continuare a vedersi. Per le donne che vivono in comunità partecipare agli allenamenti (tenuti su vari campi della città) è diventato impossibile. La responsabilità di tutelare, oltre che la propria, anche la salute delle altre ospiti e del personale ha impedito loro di continuare ad allenarsi.
Durante il primo lockdown, grazie alla collaborazione con i coach di Balon Mundial, le donne hanno avuto la possibilità di incontrarsi sulla piattaforma Zoom per allenamenti settimanali, ma per molte di loro questa modalità non era abbastanza. Mancava quel contatto umano e quella libertà di correre in campo che aveva permesso loro di dimenticare, almeno per alcune ore a settimana, traumi e sofferenze e ritrovare la fiducia in se stesse. Anche in questo caso l’emergenza causata dal Covid ha colpito più duramente le persone più fragili e vulnerabili.
Attualmente gli allenamenti sono ripresi, pur rispettando tutte le norme e le indicazioni di sicurezza. Finalmente le Queens sono tornate tutte insieme in campo, pronte per il prossimo torneo e le nuove avventure che le aspettano.
Impegno, entusiasmo, voglia di divertirsi e di mettersi alla prova in un nuovo contesto, sono stati e sono gli ingredienti di questo mix energico chiamato Queens.
«Per un calcio oltre i confini, per un calcio oltre il genere», per dirla con le parole del loro slogan.
Bianca Orazi e Sara Lopresti (operatrici Progetto Tenda)
Accoglienza e solidarietà
I miracoli del pallone
Due Onlus di Torino – Progetto Tenda (1999) e Balon Mundial (2012) – hanno trasformato il gioco del calcio in uno strumento per superare la violenza dei confini e dei generi.
Cultura dell’accoglienza e della solidarietà, inclusione sociale, educazione al fair play, rispetto delle regole, risoluzione dei conflitti. Sembra essere soltanto un elenco di belle parole e buone intenzioni. Eppure, soprattutto di questi tempi, è fondamentale mantenere obiettivi alti che superino le miserie dell’oggi. A tutto questo ambiscono due Onlus di Torino.
Progetto tenda
Progetto Tenda – si legge su progettotenda.net – è una cooperativa sociale nata nel 1999 con l’obiettivo di occuparsi di percorsi d’inserimento nella società dei soggetti più fragili, con una particolare attenzione alle donne. Negli anni la cooperativa – attualmente guidata da Cristina Avonto, Valentina Melchionda e Cristina Apicella – ha sostenuto i percorsi di richiedenti asilo, rifugiati, donne vittime di tratta, mamme con bambini, famiglie in povertà, donne e uomini senza dimora, minori stranieri non accompagnati.
Ogni giorno le addette di Progetto Tenda lavorano per accogliere persone in difficoltà e diffondere la cultura dell’accoglienza e della solidarietà.
La sua mission è migliorare la vita delle persone in difficoltà e più fragili promuovendo percorsi di comunità per sostenere l’incontro tra le persone, nativi e migranti, donne e uomini, senza alcuna discriminazione, sostenendo ogni percorso individuale, ogni scelta e orientamento sessuale, religioso, di appartenenza etnica o politica e permettendo a ogni individuo di autoderminarsi nella costruzione del proprio percorso di vita.
La filosofia di Progetto Tenda è così riassunta sul sito dell’associazione: «Crediamo che la comprensione della diversità, più che l’integrazione in un predefinito modello culturale, sia la chiave per realizzare il nostro obiettivo: una società più pacifica, più aperta e più giusta, in cui siano garantiti uguali diritti a tutti quanti».
Come suggerisce il nome, la Tenda offre in primis servizi di prima necessità (vitto, alloggio e sportello lavoro), ma ha in essere anche attività lavorative proprie come un catering («Mondi a tavola») e una gelateria («Gelateria popolare+»). Il progetto delle Queens è nato nel 2017, trovando, due anni dopo, un socio in un’altra grande realtà di Torino: Balon Mundial.
Balon mundial
L’Associazione sportiva dilettantistica Balon Mundial Onlus è una realtà abbastanza recente: ha compiuto 10 anni lo scorso gennaio, essendo nata nel gennaio del 2012. Le attività dell’associazione torinese si concentrano sullo sport e, in particolare, sul calcio inteso come strumento capace di abbattere ogni tipo di barriera e pregiudizio.
«Il calcio – si legge su balonmundial.it – è uno sport universale. È lo sport più praticato al mondo. Davanti a un pallone non importa quale sia il colore della tua pelle, la tua religione, che tu sia uomo o donna. Davanti ad un pallone siamo tutti e tutte uguali».
«Metti in gioco le differenze» è lo slogan che descrive il metodo di lavoro di Balon Mundial. Significa confrontarsi con gli altri, saper mettere in discussione le proprie conoscenze e certezze ma, soprattutto, saper ascoltare per imparare da chi propone un pensiero diverso. «Un insegnante è una persona che spiega le cose. Un educatore è una persona capace di essere un esempio».
Balon Mundial Onlus – attualmente guidata da Tommaso Pozzato e Luca Dalvit e da un gruppo di coach, formatori, educatori, mediatori e project manager – organizza vari tornei e «la Coppa del mondo delle comunità migranti» tra squadre composte da migranti provenienti dalla stessa nazione residenti a Torino. L’ultima edizione, quella del 2019 (poi è arrivato il Covid), ha sancito la vittoria del Perù in campo maschile e dell’Italia Avis in quello femminile.
Ha incontrato la fotografia per caso. Così come i suoi primi soggetti: i migranti. Ora vede il suo lavoro come una missione. Al centro c’è l’essere umano, con la sua storia. E non come mezzo per fare soldi o diventare famosi.
Francesco Malavolta è un fotogiornalista. Vive a Roma, dove lavora come addetto stampa per un viceministro, ma è originario della Calabria: «Sono nato a Corigliano Calabro, ho vissuto 22 anni a Palermo e ora sono a Roma per lavoro, ma in realtà non sento di appartenere a nessun luogo specifico. Stando sempre in giro, i posti in cui vivo sono come dormitori, appartengo a tutti i mondi che ho raccontato e non a uno in particolare», racconta Francesco.
È impegnato da oltre vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano il nostro continente.
Un lavoro svolto in un contesto spazio temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di una Europa sempre più blindata e difficile da raggiungere via terra o via mare. Da molti anni collabora con l’Unione europea, varie agenzie di stampa internazionali, come Associated Press, nonché organizzazioni internazionali quali Unhcr (Alto commissariato per i rifugiati) e Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni).
Un incontro
L’incontro con la fotografia è stato casuale. Si potrebbe dire – per usare le sue parole – che è stata la fotografia a «sceglierlo». Da sempre appassionato di immagine in senso lato, non aveva sviluppato una vera consapevolezza oltre la passione.
Ricorda se stesso ragazzo quando, a 14 o 15 anni, internet non c’era e la sua finestra sul mondo erano le riviste, che sfogliava e dalle quali strappava gli articoli contenenti notizie e immagini che lo colpivano particolarmente. Francesco, infatti, è sempre stato attratto dall’immagine, dalla sua potenza evocativa, specialmente quando è unita a una storia che va oltre la foto.
Poi un giorno la fotografia è entrata a far parte della sua vita, trasformandosi in un lavoro.
Francesco paragona questo incontro a un altro, altrettanto casuale e altrettanto carico di significato: quello con il primo soggetto delle sue fotografie.
Si trovava in Puglia, al porto di Brindisi, quando ha assistito a uno sbarco di albanesi in fuga dalla dittatura. Era una coda del grande esodo iniziato nel 1991.
Francesco si è sentito immediatamente attratto da quella moltitudine di persone che, scappando, aveva deciso di inseguire un sogno di libertà.
Per questo, da oltre vent’anni, la sua fotografia è legata quasi interamente – ma non esclusivamente – alla documentazione dei flussi migratori in tutta Europa e paesi limitrofi lungo le rotte di terra e di mare.
La migrazione, lo spostamento, sono tratti peculiari della natura umana. L’umanità è da sempre in movimento, e questo movimento assume tratti tanto più drammatici quanto più si cerca di ostacolarlo amplificando paure e posizioni illogiche e anacronistiche. Gli scatti di Francesco recano testimonianza delle migrazioni e del loro evolversi concentrandosi sui loro protagonisti. Ogni scatto è il racconto di una storia. Ogni storia, un tentativo di salvare la peculiarità della vita ritratta, sfuggendo alla logica spersonalizzante che presenta le migrazioni come «fenomeni idraulici» e anonimi. L’obiettivo di Francesco è, infatti, rendere omaggio a un’umanità caparbia che, un passo alla volta, guadagna centimetri di libertà.
La fotografia necessaria
Davanti a quello sbarco di albandesi, a quell’umanità disperata e disorientata, Francesco non ha potuto far altro che porsi delle domande fondamentali.
«Chi sono queste persone? Perché scappano? Che storia hanno alle spalle? Perché fanno una scelta così importante come lasciare la propria terra e la propria casa? Cosa li spinge a muoversi verso l’ignoto rischiando così tanto?».
Francesco ha capito che l’unica cosa che poteva fare era approfondire: «Guai se un fotografo si muove in un qualunque posto del mondo senza saperne la storia profonda. È necessario studiare, confrontarsi, andare a fondo nelle storie e nella vita delle persone per poter poi raccontare con la giusta cura e il giusto approfondimento, altrimenti si rischia l’approssimazione, che equivale a una mancanza di rispetto».
Francesco ha iniziato così a studiare: cultura, usi, pensiero, politica, modo di vivere. Tutto ciò che caratterizzava la realtà che desiderava conoscere e raccontare.
Pur amando e apprezzando tutti i generi di fotografia, perché ognuno è una forma d’arte e, come tale, importante, ritrarre gli esseri umani, per lui, è l’unico tipo di fotografia necessaria, anzi fondamentale. Attraverso un «frame», infatti, si congela un attimo di un’intera esistenza, ma se insieme alla fotografia si trova il modo giusto per raccontare la storia che le sta alle spalle e la giusta informazione, allora quello scatto diventa eterno, e può fare la differenza.
Le storie che i fotogiornalisti raccontano sono tutte diverse l’una dall’altra, come diverse sono le identità delle persone raccontate. Questo ci tiene a sottolineare Francesco. Egli, infatti, dedica la stessa cura, la stessa attenzione e lo stesso amore a ogni storia raccolta.
L’identità di ogni individuo è al centro della sua fotografia. Allo stesso tempo Malavolta ha capito che, sebbene le storie di migrazione siano tutte diverse, condividono qualcosa di fondamentale: il dolore, la perdita, la mancanza.
Egli, con la sua macchina fotografica, cerca di raccontare «la verità più vicina alla verità», per usare le sue parole, e lo fa partendo dalle origini della storia raccontata.
Questo implica un enorme sacrificio, perché significa immergersi totalmente in ogni storia. Aprire ogni canale possibile per dare e ricevere. Il fine ultimo è quello di restituire al pubblico che vedrà le sue immagini la storia più completa, chiara e dettagliata possibile, al netto di preconcetti e disinformazione.
Definendo se stesso, Francesco parla di sé come «un mezzo», nulla di più. Una sorta di amplificatore in grado di divulgare storie che altrimenti finirebbero nel silenzio.
Una missione
Per portare avanti questo mestiere, che è prima di tutto passione e missione vera e propria, Francesco tiene incontri nelle scuole o in qualunque ente sia interessato a comprendere come i popoli si muovono e perché.
I flussi migratori, infatti, vengono spesso narrati in maniera contorta, sbagliata. Si concentra il racconto su uno spazio temporale che va dall’emergenza – la barca in difficoltà, i morti, il salvataggio – alle polemiche successive allo sbarco, senza però concentrarsi su ciò che avviene prima.
In questo modo le persone che si muovono per via terrestre, spostandosi da un punto A a un punto B, difficilmente si vedono.
Francesco ha lavorato principalmente nel bacino del Mediterraneo, nel Canale di Sicilia, nello stretto di Gibilterra, nel Mar Egeo e sulle terre più vicine, quindi Italia, Spagna, le isole greche e i confini terrestri come la rotta balcanica. Ma ha reputato necessario spostarsi poi nei paesi di partenza dei flussi migratori come l’Etiopia, lo Sri Lanka, il Senegal, il Burkina Faso.
Racconta le migliaia di sfollati interni che spesso non arrivano alle coste europee e che sono, in realtà, la gran parte delle persone in movimento. Di loro spesso non si sa nulla.
Alcune storie hanno richiesto a Francesco molta energia come quelle raccolte in Burkina Faso, dove si è trovato a documentare i giovani sfruttati per trovare oro scavando nella roccia a 20-25 metri di profondità.
Calati in miniere, con l’utilizzo di semplici corde, totalmente sprovvisti di sicurezza, fanno un lavoro usurante e sfinente che permette loro appena di sopravvivere. Non è difficile allora immaginare il motivo che li spinge a cercare una vita migliore.
Muoversi, fuggire, cercare un’altra possibilità, è qualcosa di strettamente legato all’animo umano, alla necessità, e non avviene solo in tempi di guerra, ma anche quando la vita diventa impossibile e intollerabile.
Il fine ultimo
Il reportage non è morto, come non è morto il fotogiornalismo, ma sempre di più l’editoria ha problemi a resistere. Oggi il contenitore principale dal quale trarre foto del mondo è il web e bisogna spesso accontentarsi di immagini fatte approssimativamente. Eppure, nell’ultimo decennio il numero di persone che si sono avvicinate al fotogiornalismo è maggiore rispetto a qualsiasi altro momento.
Francesco continua a credere fortemente nel potere del buon fotogiornalismo e porta come esempio ciò che è avvenuto dopo la famosa fotografia di Alan Kurdi: è tato per quell’immagine che la Germania ha aperto i propri confini a oltre mezzo milione di siriani e poi anche ad altri profughi.
C’è una cosa però a cui Francesco tiene particolarmente: il fine ultimo.
«Ai giovani fotografi che decidono di avvicinarsi alla fotografia giornalistica dico sempre di non avere fretta, e di tenere chiaro in mente l’obiettivo finale del proprio lavoro che non è diventare fotografi di successo, ma creare una narrazione che possa cambiare le cose. Non fare foto fini a se stesse per ottenere premi, mostre o pubblicare un libro. Quelli non sono punti di inizio o di arrivo, ma possono essere una distrazione se diventa l’unico fine della propria fotografia.
Bisogna fotografare pensando prima di tutto di ascoltare, raccogliere la storia con responsabilità verso gli altri e verso noi stessi. Se vogliamo fare fotogiornalismo, questo ci deve guidare: la voglia di cambiare le cose, nel nostro piccolo. La fotografia è politica, e può accendere una fiammella là dove il buio avanza e sembra fagocitare tutto».
Francesco ha diversi ricordi di immagini che non avrebbe voluto vedere, fotografie che non avrebbe voluto scattare. Una su tutte è quella delle 368 bare del naufragio di Lampedusa nell’ottobre del 2013. Da quell’immagine in poi, molte saranno le bare che Francesco si troverà a fotografare. Vite disperate, vite stroncate.
È per questo che oggi a 46 anni di cui 44 vissuti in riva al mare, non riesce più a guardare quella distesa di acqua così familiare e così amata con lo stesso sguardo che aveva da ragazzo. Il mare Mediterraneo, con i suoi 40mila morti negli ultimi 20 anni, gli appare come un grande cimitero e pur amandolo, oggi non riesce più a farsi un bagno senza pensare a ciò che «c’è sotto», come ci dice.
Francesco nelle sue presentazioni, mostre, incontri, parla con tutti, ma in particolare ama parlare con i bambini. Nella loro ingenuità, nella loro purezza non vedono differenze tra le persone, e ogni volta che parla con loro, la prima cosa che dice è che devono proseguire proprio su quella strada, su quell’idea di fratellanza che vede le differenze di usanze, tradizioni, luoghi di origine, come ricchezze e non come motivi di discriminazione.
I profughi dell’Ucraina
Dall’inizio del conflitto Russia – Ucraina, Malavolta è impegnato a documentare le migliaia di profughi in fuga dalla guerra sui confini di Polonia, Ungheria e Slovacchia. «Questo conflitto ci mette a dura prova perché in questo nuovo secolo in Europa nessuno si sarebbe aspettato una tale violenza così vicina. Ci sentiamo in pericolo. Vedo una gara di solidarietà incredibile verso i profughi ucraini, questo perché li sentiamo molto più vicini a noi in quanto bianchi e cristiani. Allo stesso tempo mi rendo profondamente conto di quanto altre guerre, come ad esempio quella in Siria, in Afghanistan, in Yemen, non vengono guardate con la stessa attenzione. Proprio lo scorso novembre al confine tra Polonia e Bielorussia, un bimbo siriano è morto assiderato senza che la sua famiglia potesse salvarlo. Non ci sono gli stessi riguardi verso chi viene dalla parte “sbagliata” del mondo».
La speranza di Francesco per il futuro è poter finalmente scattare immagini di luoghi senza muri. Vorrebbe poter fotografare mari senza dover raccontare persone disperate aggrappate a relitti, mentre tendono le mani per essere salvati.
Spera, in futuro, di fotografare persone felici accolte negli aeroporti, con un passaporto in mano.
Il nostro collaboratore Angelo Calianno è tornato in Afghanistan dopo la riconquista del potere da parte dei Talebani. Questo è il suo racconto.
Kabul. Avevo lasciato l’Afghanistan nel 2018. Avevo lasciato un paese devastato dagli attentati dei Talebani che cercavano di destabilizzare il governo. Avevo lasciato un paese dove i clan dei signori della droga si contendevano il dominio sui campi di oppio.
Kabul era un susseguirsi di checkpoint, andirivieni di elicotteri americani, strutture blindate e soldati armati a guardia di banche, ministeri, alberghi. Nonostante questo, nonostante la corruzione dilagante, il paese aveva fatto molti passi in avanti. Molte Ong e compagnie straniere avevano cominciato a investire, le donne erano finalmente più presenti nella politica e nei media, pur rimanendo, quella afghana, una società estremamente patriarcale.
Atterrando a Kabul oggi, la sensazione è surreale. L’aeroporto è semideserto, a parte la presenza massiccia dei Talebani, schierati in ogni angolo. Capelli e barba lunga, uniforme assemblata con capi d’abbigliamento di diverse nazioni, e armi semiautomatiche americane, sono i Talebani a occupare tutti i checkpoint che, prima di agosto 2021, erano presenziati dall’esercito regolare. La bandiera bianca, con la scritta: «Sono testimone che nessuno merita di essere adorato se non Allah, sono testimone che Maometto è il suo profeta», ha ovunque soppiantato il tricolore nazionale afghano.
Quei giovanissimi «soldati di Allah»
Nei primi incontri, quelli per ottenere i permessi giornalistici e nei posti di blocco, i Talebani si mostrano molto cordiali. Mi offrono del tè e mi chiedono di quali temi voglia occuparmi.
«Mi raccomando, parla bene di noi. Scrivi che, da quando siamo tornati al comando, l’Afghanistan è un posto sicuro». È una delle frasi che più sento pronunciare ogni qual volta vengo fermato o mi trovo a intervistare qualcuno delle forze di sicurezza.
Durante un pranzo, dei giovanissimi Talebani, forse appena diciottenni, con un buon inglese e armati fino ai denti si siedono al mio tavolo.
«Da dove vieni?», mi chiedono. «Sai chi siamo noi?». «Conosco il gruppo a cui appartenete», rispondo. «Vi posso chiedere da quanto tempo vi siete uniti ai Talebani? E com’è stato il vostro addestramento?». «Abbiamo iniziato quando avevamo dieci anni, sulle montagne nella provincia di Helmand. L’addestramento è molto duro. Ci insegnano a sparare, combattere, si marcia al freddo e sulle montagne, a volte per mesi», raccontano.
«E se qualcuno non volesse più far parte dei Talebani e non volesse più combattere?». Mi guardano stupiti. Sorridono come se avessi chiesto qualcosa di estremamente stupido. «Siamo soldati di Allah, non smetteremo mai di combattere».
«Siete soddisfatti ora che gli americani sono andati via e ci siete voi al comando del paese?», insisto. «Ora siamo contenti. Gli americani sono il male. Prima di noi c’era solo degrado, la gente si ubriacava, c’era corruzione ovunque. Sei il benvenuto qui, che Allah ti protegga».
In realtà, nessuno di questi ragazzi aveva mai visto Kabul prima di agosto. A loro la capitale era stata descritta come un luogo fuori controllo, fatto di vizi e perdizione. Prima di andare via i due giovani mi chiedono se posso regalare loro del credito telefonico per usare internet. «Le giornate nei posti di blocco sono molto lunghe e ci annoiamo tanto», mi confessano.
Ci metto poco però a capire che la situazione è tutt’altro che migliorata come i Talebani vorrebbero farmi credere. I principali attentatori in passato erano Talebani. Con loro al comando ovviamente gli attentati sono diminuiti. Le esplosioni, che spesso si odono in giro per le città principali, sono quelle causate dagli ordigni piazzati dai miliziani dell’Isis-k (la fazione afghana dello Stato islamico), oggi principali oppositori del regime talebano.
Camminando per Kabul, più di metà di quelli che erano affollatissimi negozi, caffè, sale da tè, ora sono chiusi o deserti. Il numero di chi chiede l’elemosina per strada, soprattutto bambini, è decuplicato. Fuori dalle banche ci sono file dal mattino presto: è possibile prelevare un massimo di 200 dollari al mese, ma solo fino ad esaurimento del contante. Molto spesso quando arriva il proprio turno, non ci sono più banconote. È così da agosto. Le code più lunghe, chilometriche, si trovano fuori dall’ambasciata iraniana e pakistana. Centinaia di persone provano a chiedere un visto per fuggire in uno dei paesi confinanti.
L’amarezza del professore
Scuole e università sono vuote. In una di queste incontro Mohammed, professore di ricerca ed educazione linguistica all’Università di Kabul. «Fino ad agosto – mi racconta – insegnavo a 160 studenti, di cui il 65% erano donne. Quando sono arrivati i Talebani, non hanno avuto bisogno di vietare nulla. La gente era talmente spaventata che, chi non è fuggito verso l’aeroporto, si è chiuso in casa senza uscire per settimane. Io ho ancora il mio posto di lavoro, anche se, come vedi, agli studenti non è ancora permesso frequentare le lezioni. Abbiamo provato a contattare le autorità talebane, dicendo di essere disposti a dividere le classi tra donne e uomini, anche in giorni diversi. La loro risposta è stata: “Vedremo”. Ma sono già passati vari mesi senza nessuna comunicazione».
«Cosa pensi di tutte le persone che sono fuggite? Tu vorresti andare via?». «Non posso biasimare chi è scappato – risponde il professore -. Le persone, soprattutto i giovani, vogliono un futuro che qui non si vede più. Non si gioca con il futuro. Mi rattrista molto che, soprattutto le menti più brillanti, i giovani più istruiti, siano fuggiti. Io personalmente non andrei mai via per due ragioni: la prima è che non ho più l’età per farlo. Trasferirsi in un paese straniero, ricominciare la propria vita da zero, è una cosa che puoi fare solo se hai molti anni da vivere davanti a te. La seconda è che io amo l’Afghanistan, non voglio lasciare i miei studenti, se me ne andassi io, chi ci sarebbe per loro? Che punto di riferimento avrebbero?».
Gli chiedo se sia possibile un futuro senza Talebani. «Arrivati a questo punto, non so come potrebbero andare via. Molto probabilmente per sovvertirli ci vorrebbe un altro conflitto ma questo paese ha già sofferto abbastanza, generazioni sono cresciute vedendo solo guerra e occupazione».
«Che soluzione potrebbe esserci allora?», insisto. «Io penso che l’unico scenario possibile sia quello in cui le forze internazionali facciano pressione sui Talebani affinché includano nel governo, tutte le minoranze attualmente escluse: Sciiti, Hazara, Uzbeki, Tagiki. L’altro aspetto fondamentale da tenere vivo è quello dell’istruzione. Senza scuola, se non ci sono fondi e soldi per gli insegnanti, non c’è possibilità di cambiare le cose. Una persona istruita può avere un effetto positivo anche sui Talebani. Io ho constatato personalmente molta differenza tra quelli che sono da qualche mese a Kabul e quelli che sono ancora nelle zone rurali. Il contatto con la società, con persone che hanno un’istruzione, potrebbe farli ragionare e, magari, aprire nuove possibilità».
Verso l’Iran, l’Uzbekistan o il Pakistan
Non tutti però riescono ad accettare la realtà di oggi, l’obiettivo principale di quasi tutti gli afghani che incontro rimane quello di andare via. Ci sono pochi voli disponibili in uscita, circa due a settimana, al momento operati solo da due compagnie aree (Qam air e Ariana) e solo per due destinazioni: Islamabad in Pakistan e Dubai negli Emirati arabi. I costi, poi, sono esorbitanti per chi vive qui con uno stipendio di settanta dollari al mese. Un biglietto aereo, di sola andata, costa attorno ai mille dollari, sempre che si possegga un visto o un permesso valido per il paese di destinazione. Per molti, quindi, l’unica soluzione è uscire dal paese via terra. Legalmente, oggi ci sono tre possibilità: l’Iran, l’Uzbekistan (che, però, apre e chiude continuamente il valico per ragioni di sicurezza) e il Pakistan.
In questi giorni, il passaggio uzbeko è nuovamente chiuso. Quindi, decido di andare verso l’unico valico possibile per me: il corridoio di Torkaham verso il Pakistan.
Partendo da Kabul con un taxi condiviso, attraverso Jalalabad proseguendo verso Est. L’atmosfera e l’approccio nei miei confronti, da parte dei Talebani, cambia totalmente rispetto a Kabul.
In queste zone molti di loro sono nati e cresciuti tra le montagne, non sanno leggere o scrivere, non parlano altra lingua che non sia il pashtun (la lingua ufficiale in Afghanistan è il daari), e sono estremamente sospettosi e aggressivi.
La zona a Est di Jalalabad, ovvero la provincia del Nangarhar, è conosciuta per molti motivi. Luogo nevralgico per tutti gli scambi commerciali in entrata e uscita (incluso l’oppio) verso Est, in passato è stato la regione di provenienza della maggior parte dei seguaci di Bin Laden e, prima ancora, di molti mujaheddin che combatterono contro i russi negli anni Ottanta. Per anni, il Nangarhar è stato teatro di scontro tra le forze armate governative e i Talebani. Oggi, nuovamente, è uno dei principali campi di battaglia tra Talebani e Isis-k. Già una dozzina di chilometri prima del valico, è possibile vedere una coda di centinaia di camion: sono fermi lì da un mese aspettando il permesso di poter passare. Gli autisti vivono tra la cabina del loro mezzo e l’asfalto, stendendosi su un tappeto per mangiare e riposare.
In coda al confine, in balia delle guardie
Visto che, con gli stranieri, i Talebani si comportano diversamente per dimostrare che sono «cambiati», decido di fingermi tagiko per testimoniare cosa accade su questo confine alle persone «comuni». Cominciando l’attraversamento del corridoio di uscita, nessuno mi chiede documenti (probabilmente perché nessuno di questi Talebani sa leggere). Siamo migliaia, divisi in due file indiane di cui non si vede la fine. Le famiglie affittano delle grandi carriole di legno per appoggiarvi i bagagli, i bambini, o far riposare gli anziani.
Parlo con alcuni ragazzi in coda con me: «Ci vogliono giorni per percorrere questi due chilometri che ci separano dal Pakistan. Molto spesso arrivati quasi al cancello, ci rimandano indietro perché non abbiamo i documenti in regola, così c’è gente che è in coda da una settimana».
I Talebani qui sono molto violenti, prendono a bastonate chiunque si sporga fuori dalla fila, o provi a scavalcare un paio di posizioni. Un ragazzo tira fuori un telefono, una guardia dei talebani lo prende, controlla alcune foto sullo schermo e comincia a picchiarlo con pugni sulla testa. Il ragazzo cade e viene trascinato fuori dalla fila, lasciato poi a lato del marciapiede.
Passano 15 ore solo per fare i primi 500 metri. Quando i Talebani aprono il cancello tra un settore e l’altro, ci picchiano con i bastoni dietro le ginocchia. La gente corre, cade, viene calpestata dagli altri. I bambini perdono la mano dei genitori e piangono sommersi dalla folla. Arrivati al cancello successivo, ci si ferma di nuovo.
Botte per tutti (ma in nome di Allah)
Una donna viene rispedita indietro, le vengono lanciati via i bagagli, i suoi figli piangono. Prova a protestare contro una delle guardie, questa la colpisce con il calcio del fucile. La donna prova rialzarsi ma cade a terra e viene trascinata via. Alcuni dei Talebani, per tenere a bada la folla, sparano in aria. Tutti ci sediamo per terra e, dopo pochi minuti, queste scene ricominciano daccapo, così per ore.
Un ragazzo accanto a me dice: «I Talebani prendono la nostra voglia di andare via come un tradimento. Pensavano che, arrivati loro al comando, le persone li avrebbero osannati, che a pochi sarebbe venuto in mente di scappare perché scappare è come rinnegare la loro autorità. Loro sono davvero convinti di essere nel giusto, di agire in nome di Allah e, quindi, noi che cerchiamo un futuro senza di loro siamo come dei disertori di un esercito. Ecco perché agiscono così, perché ci prendono a bastonate e a calci».
L’attesa continua. La notte fa molto freddo, siamo a metà percorso ora, in un tunnel fatto di lamiera e rete metallica. C’è ghiaccio ovunque, impossibile dormire, ci stringiamo l’uno all’altro avvolgendoci con coperte di lana. Alcuni ragazzini passano vendendo tè caldo e qualcosa da mangiare. Sono passate 24 ore dall’inizio della mia fila. Approfittando del buio e di alcuni buchi nella recinzione, dalle colline intorno arrivano uomini e ragazzi che provano a passare illegalmente. La gente è solidale con loro, fanno spazio serrando le fila. Qualcuno non è abbastanza veloce e viene visto, picchiato e trascinato via, ributtato al di là della rete.
Stanchezza, fame, freddo, sonno
Dopo 33 ore, raggiungo l’ultimo cancello. Qui devo mostrare la mia identità. Tiro fuori il passaporto e il permesso giornalistico, ma il Talebano di guardia non riconosce i documenti: comincia a urlare. Provo a spiegare di essere un reporter, ma lui parla solo pashtun, allora comincia a picchiarmi con un bastone. Provo a proteggermi, cado. Un altro soldato mi riporta all’inizio della fila per motivi che non comprendo.
Passano altre tre ore, io e altre centinaia di afghani siamo bloccati a un passo dal Pakistan. La gente è agitata, è stanca, ha freddo, sonno, fame. Comincia una calca che le due guardie al cancello non riescono a contenere: sfondiamo l’ultimo blocco passandogli sopra. Cadiamo, ci rialziamo, in una delle cadute un ragazzo su una sedia a rotelle mi passa sopra una caviglia. La gente corre verso l’ultimo cancello, esausta.
Ci vuole ancora qualche ora per sbrigare le pratiche di ingresso in Pakistan. Rivestiti i panni del cittadino europeo, le mie sono abbastanza veloci. In totale ho impiegato 40 ore per attraversare il confine, senza dormire, senza bagni, con quel poco cibo venduto per strada. Per migliaia di afghani, invece, la tortura continua in Pakistan. Molti arrivano con documenti non validi e vengono rispediti dall’altra parte del confine dove, per giorni, continueranno a provare il passaggio. Ancora e ancora.
Coperte, bicchieri e il sogno di tornare
Le persone conosciute e con cui ho parlato durante le interminabili ore dell’uscita verso il Pakistan sono state tante.
Cosa si porta con sé quando si va via per sempre? Alcuni avevano solo le proprie coperte, bellissime coperte afghane di lana cucite a mano. Altri una confezione di bicchieri di vetro, altri un piccolo zainetto con un cambio, i bambini un giocattolo a testa.
A un uomo, in fila con la sua famiglia accanto a me, quando gli ho chiesto cosa avesse deciso di portare, mi ha risposto: «Nulla, se non il necessario per sopravvivere in questi giorni di attraversamento. Dentro di me porto la bellezza dell’Afghanistan, i suoi colori. I miei figli sono troppo piccoli e non ricorderanno cosa stanno lasciando. Io sono troppo vecchio e non penso riuscirò mai a tornare, ma loro sì, sono sicuro che lo faranno. Ecco perché non sto portando niente se non un tasbih (il rosario musulmano), il Corano con la parola di Allah, ma soprattutto l’amore per il mio paese che cercherò di raccontare ai miei figli. Possano loro tornare qui, in un paese finalmente in pace».
Angelo Calianno
Gli invisibili
Hazara e profughi, un futuro oscuro
Oltre alla storica minoranza sciita degli Hazara, altri gruppi della popolazione afghana non sono considerati dai Talebani. Come i rifugiati interni (Idp), residenti in villaggi senza nome.
Kabul. L’Afghanistan, soprattutto nella sua storia recente, è stato luogo di continui stravolgimenti politici e sociali: invasioni, guerre interne, regimi estremisti, missioni militari e, per ultimo, un ulteriore ritorno dei Talebani. In tutti questi cambi sono quasi sempre le stesse categorie di persone ad avere la peggio, fettei della popolazione totalmente tagliate fuori da qualsiasi scenario, anche dall’ultimo, quello nato nell’agosto 2021.
Le minoranze etniche come gli Hazara, musulmani sciiti, già bersaglio storico dei Talebani, vivono oggi ai margini della società, venendo arrestati con i pretesti più assurdi e sperimentando una situazione di costante terrore.
Gli Hazara sono vittime di un vero e proprio genocidio già dal 1880, quando è cominciato il dominio delle tribù pashtun. Per anni i massacri si sono susseguiti fino a portare il loro numero dall’80% al 20% della popolazione del paese. Uno dei capitoli più tristi nella storia di questa minoranza sciita, è stato scritto proprio con i Talebani al comando nel 2001, quando decine di Hazara sono stati giustiziati per le strade di Bamiyan. Nel momento in cui i Talebani sono tornati al potere, a Kabul il quartiere sciita si è chiuso su se stesso per settimane. Ricordando le stragi del passato, gli Hazara si sono nascosti nelle proprie case chiudendo mercati, negozi e qualsiasi attività pubblica.
Un afghano non è soltanto afghano
Nel quartiere sciita incontro Hassan (nome di fantasia), che è uscito da poco di prigione. I Talebani lo hanno arrestato semplicemente perché stava facendo un filmato con il telefonino a una fila in banca. È stato picchiato e lasciato senza cibo per tre giorni.
«Io gestivo un hotel a Bamiyan, al Nord. Gli affari andavano abbastanza bene fino all’arrivo dei Talebani. Con una ruspa essi hanno abbattuto le colonne d’entrata e il muro circostante, chiudendo poi l’hotel. Il pretesto è stato che l’albergo aveva un nome inglese sull’insegna. Quindi, mi hanno accusato di gestire una discoteca o una casa d’appuntamenti per infedeli. Ovviamente sapevano benissimo che non era così, ma contro gli Hazara, usano qualsiasi scusa».
Chiedo ad Hassan: «La vostra etnia è stata sempre la più perseguitata in Afghanistan. Credi che possano ricominciare stragi come quelle di venti anni fa?». «Non lo sappiamo ancora – risponde -. Non riusciamo a capire cosa davvero abbiano in mente. Io penso che stiano cambiando modo di agire, sono sicuro ci odino ancora in quanto sciiti e hazara, questo non cambia. Forse però hanno capito che sterminarci, ucciderci per strada, attira troppa attenzione mediatica. Per noi è impossibile però dimenticare che, soltanto fino allo scorso agosto, i Talebani facevano saltare in aria le nostre scuole, moschee, mercati. Siamo stati sempre il loro bersaglio principale, la notte spesso si aggirano qui per queste strade con la scusa di pattugliare e cercare sovversivi. Con loro al comando siamo tutti terrorizzati».
«Si stanno organizzando soccorsi e mobilitazioni internazionali sia per provare a fare arrivare degli aiuti, sia per far uscire e offrire asilo a chi è in pericolo. Qual è la situazione della vostra etnia?». «Per molti – spiega Hassan -, in Occidente, un afghano è un afghano e basta. Non capiscono quanto qui la situazione sia divisa tra etnie, religioni, clan. A noi non arriva nulla. Molto spesso gli aiuti che vengono dai paesi occidentali devono avere il nullaosta dei Talebani per essere distribuiti. Quindi, noi non abbiamo diritto a nulla. Come ti ho detto, forse hanno cambiato metodo, ma i Talebani che vedi per le strade, sono gli stessi che fino ad agosto volevano cancellarci dalla faccia della terra».
Peraltro, i Talebani non sono l’unica fonte di preoccupazione, nel quartiere sciita di Kabul. Anche l’Isis-k, la fazione afghana dello Stato islamico, rivale dei Talebani, essendo sunnita ha giurato guerra agli Hazara, mettendo a segno i principali attentati degli ultimi mesi.
Villaggio «numero 52»
Oltre agli Hazara, ci sono altri gruppi relegati ai margini del nuovo ordine che i Talebani hanno promesso di costruire. Migliaia sono infatti gli afghani isolati nelle zone rurali e gli Idp (Internal displaced people), i rifugiati interni. Gli Idp sono profughi nel proprio paese, persone che hanno dovuto abbandonare le loro case, spesso perché nel mezzo dei conflitti o perché in aree al centro delle lotte per il controllo dei campi di oppio. Oggi, in Afghanistan gli Idp sono 250mila. Vivono in villaggi di fortuna nelle periferie di città più grandi. Le abitazioni sono fatte con mura di fango e tetti in lamiera. Già prima di agosto queste comunità sopravvivevano a stento e solo grazie al lavoro di alcuni di loro e all’aiuto di alcune Ong. Con la fuga della maggior parte delle organizzazioni internazionali e l’economia pressoché ferma, questa gente rischia di essere decimata, soprattutto in inverno, quando nevica e la temperatura, di notte, scende anche a dieci sotto zero. Si pensi che questi villaggi non hanno nemmeno un nome: vengono contrassegnati con un numero.
Il villaggio in cui mi trovo porta il numero 52. Ad accogliermi c’è Sherin Shafi. «Da quanto sei il capo del villaggio? Chi ti ha eletto?», gli chiedo. «Occupo questo posto ormai da 13 anni. Vengo eletto dagli abitanti, sono loro che scelgono da chi farsi rappresentare».
Sommergo Sherin con le mie domande. E lui, con pazienza, risponde: «Siamo circa 300 persone. Come vedi, queste sono le condizioni in cui viviamo. Ci siamo sempre arrangiati, abbiamo un pozzo per l’acqua, generatori per l’elettricità, ma continuiamo a vivere in tende e case di fango. Ora, visto il raddoppio del prezzo di tutto, compreso il gas, non so come potremo riscaldarci. Qui il freddo è un grande nemico. Fino a poco tempo fa alcuni di noi lavoravano in città, ma ora è quasi tutto fermo. Al momento non riceviamo nessun aiuto, e anche i Talebani, qui non si sono mai visti».
Sherin Shafi mi guida attraverso le viuzze del villaggio, stradine che non hanno asfalto ma solo terra battuta e fango. Tra questi vicoli ci sono anche delle scuole: piccole strutture con insegnanti volontari che insegnano a ragazzi dai 6 ai 14 anni le materie principali. Le classi sono divise tra uomini e donne in orari diversi.
È qui che incontro Sayed, uno dei maestri: «Ho studiato in Pakistan quando ero giovane. Lì ho imparato anche un po’ di inglese. Insegno quasi a titolo gratuito. Fino all’arrivo dei Talebani, le famiglie mi davano quel che potevano, spesso mi pagavano con del cibo. Adesso, nessuno più lavora, questa gente è abbandonata. Pochissimi si interessavano a loro già prima dei Talebani, ora che anche quasi tutte le organizzazioni umanitarie sono andate via, non so che futuro potranno avere. Io continuerò a insegnare. L’istruzione, il sapere, la conoscenza, sono tra le poche cose che non ti possono togliere, le uniche che possono dare una speranza. Per questo continuo a insegnare, e lo faccio con ragazzi di tutte le età, con chiunque voglia imparare, come vedi in questa classe».
A Kandahar, in fila per la farina e i legumi
Sono ancora tanti gli «invisibili», quelli che non sono rientrati nei piani di evacuazione di agosto e che non potranno, comunque, mai permettersi il denaro per poter andare via. In alcuni luoghi in particolare, come a Kandahar, la situazione è drammatica.
Kandahar è – e lo era anche prima del ritorno dei Talebani – una delle province più conservatrici dell’Afghanistan. Qui è quasi impossibile vedere una donna adulta che non abbia il viso coperto dal burqa. Anche a Kandahar per muoversi e intervistare qualcuno, ho bisogno di permessi speciali rilasciati dal capo locale dei Talebani che, pure qui, si dimostra particolarmente cordiale nei miei confronti, raccomandandomi di fargli fare «bella figura» quando scriverò.
Come a Kabul, anche a Kandahar la percezione che si ha per le strade non suggerisce una situazione tranquilla. Decine di checkpoint con guardie armate, centinaia di persone in coda ad aspettare gli aiuti: un sacco di farina, un sacchetto di legumi. Le Ong internazionali rimaste qui, a lavorare sono pochissime. Sono ancora presenti la Croce Rossa internazionale e il World food program. Altre organizzazioni come Emergency e Medici senza frontiere cercano di inviare aiuti direttamente negli ospedali ancora funzionanti.
Mi reco al centro di distribuzione del World food program dove una dozzina di uomini scaricano grandi sacchi di farina destinati ai bisognosi.
Abdullah, il responsabile, racconta: «Lavoro qui come volontario da sei anni, ma non ho mai visto così tanta gente aver bisogno di cibo come in questo momento. Le donne che vedi fanno la fila per ricevere un aiuto. Noi le registriamo in modo che nessuno prenda il cibo due volte o prima del proprio turno. Possiamo distribuire un sacco di farina per 250-300 persone al giorno. Al mese sono migliaia, ma continua a non bastare. Sono felice di fare questo lavoro, sto aiutando il mio paese e ne sono orgoglioso, mi chiedo però, senza aiuti come questo del World food program, cosa avrebbe da mangiare questa gente. E, in ogni caso, la sola farina non basta: molti ormai mangiano quasi sempre e solo pane. Vai all’ospedale centrale, lì potrai farti un’idea della gravità della situazione».
Fame e malnutrizione
L’ospedale principale di Kandahar è pieno come mai prima d’ora, chiedo il perché al direttore,
Mirawais: «Prima del ritorno del regime, le strade che collegavano Kandahar a molti villaggi, erano impossibili da praticare perché teatro di scontri tra il governo e i Talebani, o tra Talebani e Isis. Ora queste strade sono riaperte, quindi, tutte quelle persone che non riuscivano a raggiungerci fino a poco tempo fa, ora si riversano qui di continuo, tanto che non abbiamo, come hai visto, più posti letto. Uno dei problemi principali lo abbiamo nel reparto pediatrico, tutti i bambini che vedrai sono ricoverati per problemi dovuti alla malnutrizione. Questa gente non mangia. I genitori hanno cominciato a razionare il cibo, quasi sempre derivati della farina, ma mancano proteine e vitamine».
Entro nel reparto pediatrico accompagnato da un’infermiera. La ragazza batte due colpi alla porta per avvertire le mamme dei bambini di coprirsi testa e volto. I letti sono pochi, alcuni bambini devono dividerlo con altri piccoli pazienti e le loro mamme. Alcuni sono piccolissimi, causa la malnutrizione. Alla nascita sono sviluppati pochissimo. L’odore è tremendo, è sangue rappreso: «Un bambino ha avuto una forte emorragia. Siamo così in emergenza che non abbiamo nemmeno il tempo di pulire», mi confessa un’infermiera.
Secondo il World food program, una persona su tre in Afghanistan soffre la fame e due milioni di bambini vivono in un pericoloso stato di malnutrizione.
Angelo Calianno
Le donne
La forza e il coraggio delle escluse
Le donne afghane sono le più colpite dal ritorno dei Talebani al potere. A parte la questione del burqa, alla maggior parte di loro non è più permesso lavorare.
Kabul. La data del 15 agosto 2021 ha cambiato la vita di molte persone in Afghanistan. Tra le persone a cui è stata totalmente stravolta, ci sono sicuramente le donne. Ricordando quello che accadeva con il regime talebano venti anni fa, ovvero l’obbligo del burqa, le esecuzioni pubbliche, le lapidazioni, le donne sono state le prime ad essere terrorizzate dal ritorno degli estremisti. Molte sono le donne e ragazze, soprattutto attiviste, che hanno trovato rifugio nei paesi europei, Stati Uniti e Canada, ma tante altre sono ancora qui con la voglia di lottare e la paura per la propria vita.
A quasi nessuna di loro è più permesso lavorare: insegnanti, avvocatesse, parlamentari, giornaliste. Di recente, i Talebani hanno dato il via libera (ma soltanto per necessità) al reintegro di alcune di loro in alcuni campi: medici e infermiere nei reparti femminili e pediatrici, ai cancelli di sicurezza per la perquisizione delle donne. Ad altre, come ad esempio negli uffici ministeriali, è permesso entrare solo indossando il burqa (che, almeno per ora, non è obbligatorio sempre e comunque).
Che il cambiamento dei Talebani del 2022 sia falso lo si è visto lo scorso 23 marzo quando le ragazze delle scuole superiori sono state rimandate a casa, producendo sconcerto e lacrime tra le studentesse.
Il divieto della pratica sportiva
Ho intervistato diverse donne, ma l’ho sempre dovuto fare in segreto, fingendomi un amico di famiglia che andava a trovarle nelle loro case, spesso accompagnato da altri uomini, ad esempio i fratelli.
Prima del ritorno del regime talebano, le donne afghane eccellevano anche negli sport. In particolare, la squadra femminile di pallacanestro su sedia a rotelle, aveva ottenuto moltissime vittorie nei campionati asiatici. Lo sport aveva dato una seconda occasione a queste ragazze, donne e disabili in un contesto patriarcale. Il successo nello sport, i viaggi per raggiungere i tornei, rappresentavano una grandissima occasione di riscatto. Ora, come per tante altre attività, alle donne non è più permesso praticare sport. Arzo Amiri ha 24 anni. Arzo ha perso una gamba quando era piccola a causa della polio. Oggi è una fisioterapista presso il centro di riabilitazione della Croce Rossa internazionale e, inoltre, una delle migliori giocatrici della squadra di pallacanestro in carrozzina.
«Arzo, fortunatamente tu puoi continuare a lavorare. Essendo la Croce Rossa un’organizzazione internazionale, non devi sottostare alle regole dei Talebani». Arzo conferma: «Sì, è vero. Mi ritengo molto fortunata, soprattutto in questo momento di profonda crisi dove la gente non ha da mangiare, avere ancora un posto di lavoro è un dono». Le chiedo della pratica sportiva che è stata vietata alle donne. «Sono molto triste di non poter praticare più la pallacanestro. Lo sport mi faceva dimenticare di essere disabile. Lì sul campo, tutte su una sedia a rotelle, siamo tutte uguali. E poi, la nostra squadra era molto forte, abbiamo vinto molto e viaggiato per tutta l’Asia».
Arzo e la sua famiglia mi invitano a entrare in casa. Abitano in una parte estremamente povera di Kabul, dove fa molto freddo e i vicoli sono pieni d fango, ghiaccio e neve. Ci sono solo due stanze, una di queste viene usata per tutto: come sala da pranzo, sala da tè e, la notte, con le coperte sul tappeto, diventa una delle camere da letto. Non c’è riscaldamento e spesso manca la corrente. La stanza è illuminata da una lampada a kerosene che funge anche da stufa.
«Ci sono dei momenti in cui mi sento molto depressa – confessa Arzo -. Vivo con i miei genitori, sorelle e fratelli, siamo in dodici. In questo momento sono l’unica a guadagnare qualcosa, dall’arrivo dei Talebani tutti nella mia famiglia hanno perso il lavoro». «Che futuro vedi per te e per i tuoi familiari? Vorresti andare via?», le chiedo. «L’Afghanistan è un paese bellissimo, io però vorrei andare via se ne avessi la possibilità. Non vedo futuro qui e, soprattutto, per me lo sport è una parte fondamentale della mia esistenza e senza il quale non riesco a immaginare la mia vita».
L’esempio di Mahbouba Seraj
Sicuramente in Afghanistan una delle voci femminili più potenti è quella di Mahbouba Seraj, principale attivista per i diritti delle donne afghane e, secondo il settimanale Time, una delle cento donne più influenti al mondo.
Nata a Kabul nel 1948 e nipote del re Khan, Mahbouba Seraj e suo marito vengono arrestati nel 1978, quando la Russia invade il paese. Fugge così negli Stati Uniti, nazione che le dà asilo. Nel 2003, a due anni dalla caduta del regime talebano, decide di tornare in Afghanistan per fondare il primo rifugio dedicato a donne e bambini vittime di violenza. Prima del suo ritorno, la violenza domestica non era nemmeno considerata reato. Incontro Mahbouba Seraj a casa sua.
«Mahbouba, lei era rifugiata negli Stati Uniti, ha un passaporto Usa, cosa l’ha spinta a tornare qui nel 2003?». «Ricordo esattamente il momento in cui ho preso la decisione di tornare. Ci sono state due scene in televisione: una quella della distruzione dei grandi Buddha di Bamiyan. La seconda, atroce, quella di una donna, giustiziata in strada con un colpo di pistola alla testa. Dopo quelle scene, non potevo più rimanere negli Stati Uniti. Appena ho potuto, sono quindi tornata Kabul come donna che voleva proteggere le donne afghane».
«Mahbouba, si sarebbe mai aspettata che i Talebani potessero riprendere il paese così in fretta?». «Debbo essere sincera: no, assolutamente non me lo aspettavo. Per me è stato incredibile. Non sono riuscita a realizzare subito quello che davvero stava accadendo». Le chiedo se abbia intenzione di rimanere qui. «Sì, rimarrò qui. Ora più che mai ci sono tantissime persone che hanno bisogno di me, di organizzazioni come la mia». Domando se si senta in pericolo, se abbia ricevuto delle minacce. «No – risponde -, non mi sento in pericolo e non ho ricevuto alcuna minaccia. Penso di essere ormai un nome troppo conosciuto fuori del paese. Danneggiare me vorrebbe dire attirare troppa attenzione mediatica, soprattutto ora che i Talebani vogliono dare al mondo un’immagine diversa di sé».
«Lei crede che siano davvero cambiati?». «È difficile dirlo. Come si può dimenticare che, chi è al comando ora, è lo stesso gruppo che, fino ad agosto scorso, uccideva migliaia di civili con i suoi attentati? Io non penso che siano cambiati, ma sicuramente sono cambiate le cose. Ora il mondo ha gli occhi su di noi: internet, reporter, social media, fin quando sarà così, per i Talebani sarà impossibile tornare a fare quello che facevano 20 anni fa».
Joe Biden e Ashraf Ghani, delusioni presidenziali
«Torniamo un attimo ai giorni della riconquista talebana. Cosa è accaduto qui, come si è sentita?». «Sono stati giorni folli, soprattutto le prime 48 ore. La gente correva verso l’aeroporto calpestandosi. Sembravano polli a cui avevano tagliato la testa: impazziti. Per me è stato tremendo, soprattutto sentire le parole di Biden, è stato come uno schiaffo in faccia. In una delle sue conferenze stampa, Biden ha detto che il suo istinto gli suggeriva che lasciare l’Afghanistan era la cosa giusta da fare. Quindi, noi ci stiamo giocando la vita e il futuro per il suo “istinto”? È una cosa assurda. Un’altra cosa vorrei aggiungere, prendendomene la responsabilità: il nostro presidente Ashraf Ghani si è comportato da codardo, fuggendo e mettendosi da parte immediatamente. È una cosa che non gli perdonerò mai».
Domando a Mahbouba cosa pensi lei delle migliaia di persone scappate dal paese. «Non la trovo una cosa giusta, è come arrendersi e consegnare il paese nelle mani del regime. Ognuno però è responsabile per la propria vita, non sta a me giudicare quanta paura si può provare in quei momenti. Quello che mi consola – e di cui sono sicura – è che tante persone fuggite non hanno dimenticato l’Afghanistan e anche a distanza, stanno facendo e faranno tanto per aiutare chi è rimasto qui».
«Qual è la situazione delle donne ora e come procede il suo lavoro di attivista dopo questi mesi caotici?». «Purtroppo, al momento non c’è nessun lavoro sul fronte dell’attivismo, nel senso che le priorità sono altre. La gente non ha da mangiare, non ha vestiti per l’inverno, dobbiamo prima di tutto pensare a questi beni essenziali. Io al momento ospito 120 persone nelle mie case rifugio e con il mio team cerchiamo di consegnare cibo e qualcosa di caldo a chi è rimasto nelle zone rurali».
Le chiedo come si possa aiutare l’Afghanistan per provare a cambiare le cose. «Quello che si può fare e continuare a chiedere, ognuno al proprio governo, di monitorare l’Afghanistan e di avere una propria rappresentanza qui: diplomatici, giornalisti, Ong. In questo momento, questa è l’unica speranza che abbiamo per poter arrivare a qualche cambiamento».
«Mahbouba, come vede il futuro della donna afghana?». «È difficile dire che futuro abbiano le donne, soprattutto adesso che a molte di loro è vietato lavorare. Di una cosa però sono sicura: le donne rimaste in Afghanistan e anche le afghane che sono andate via, sono istruite, competenti e coraggiose. Sono certa che, per questo paese, il prossimo cambiamento, la prossima rivoluzione partirà proprio da loro».
Angelo Calianno
Dall’Olanda, Raziya Masumi
Il burqa è la cancellazione dell’identità
Sono tante le donne afghane che vivono all’estero e che si stanno battendo per aiutare le afghane rimaste in patria. Raziya Masumi è una di queste. Avvocatessa, Raziya è andata via da Kabul per studiare, tre anni fa. Oggi vive all’Aia, dove si occupa dei diritti delle donne e soprattutto, in questo momento, di dare sostegno e aiuto a chi non è potuto scappare. Contatto Raziya tramite internet.
Raziya, in questi giorni si è parlato molto dello sport femminile. Ho parlato con alcune sportive a cui non è permesso più praticarlo. Quali sono le motivazioni secondo te?
«Il contesto afghano è molto maschilista. A parte i Talebani, è una società dove il ruolo della donna è sempre stato secondario. I Talebani, così come molti uomini, estremizzano una condizione già esistente. Per loro, come accade per molti lavori, lo sport deve essere un campo esclusivamente maschile. Quindi, vedono la donna come qualcuno che cerca di invaderlo. Negli ultimi 20 anni c’era stata una grande ripresa. Il numero delle donne che studiava è stato crescente di anno in anno. Oggi, di nuovo, sembra che i Talebani vogliano cancellare quasi l’identità della donna afghana. Il burqa, ad esempio: forzare qualcuno a coprire interamente il volto è un tentativo di omologare tutte le donne nello stesso ruolo, senza alcuna distinzione, individualità o identità».
Purtroppo, molte persone sono scappate. Cosa hai pensato quando hai visto, dall’estero, tutta quella gente che correva per salire su un aereo. Pensi che un giorno, una parte di quelle persone vorrà o potrà tornare?
«Le immagini di quei giorni di agosto a Kabul, rimarranno per sempre nella memoria di tutti. È stato un evento tragicamente storico. Ti assicuro però che nessuna di quelle persone avrebbe voluto lasciare l’Afghanistan, noi amiamo il nostro paese. Tutta quella gente si è sentita costretta a scappare per disperazione, per paura. Quelle persone in quel momento non hanno visto nessuna alternativa. Sono sicura che, con le condizioni giuste, quindi se ci fosse la pace e le basi per costruire un futuro, tutti torneremmo in Afghanistan».
L’altra grande migrazione dall’Afghanistan si è avuta durante l’invasione da parte dei russi. Che differenze trovi tra oggi e quei tempi?
«Sono casi molto diversi. Molti di quelli che sono fuggiti 40 anni fa, non avevano nessuna istruzione. Oggi dall’Afghanistan fuggono ingegneri, professori, attivisti, giornalisti. Un altro aspetto importante rispetto a 40 anni fa è l’accesso alle comunicazioni: con i social media e internet oggi tutti possono raccontare la propria storia, mentre sappiamo pochissimo delle persone che sono fuggite in passato».
Sei molto impegnata per la causa delle donne afghane. Come le stai aiutando nel concreto?
«Ricevo decine e decine di telefonate ogni giorno. Cercare di fare qualcosa oggi è molto complicato, anche perché i canali classici di aiuto, come i bonifici bancari o la presenza di Ong sul campo, sono tutti sospesi. Ho creato un podcast che sto trasmettendo qui in Olanda. Ho raccolto la voce di alcune donne che mi raccontano la propria storia. Pian piano, con il mio gruppo, stiamo traducendo queste registrazioni in modo da poterle trasmettere ovunque in Europa, almeno per cominciare. In maniera più immediata poi, stiamo creando una campagna di raccolta fondi online. I fondi raccolti serviranno prima di tutto per beni di prima necessità, in secondo luogo vorremmo supportare gli insegnanti e poter offrire loro uno stipendio e materiale scolastico per gli studenti. I soldi, anche se in maniera lenta, possono adesso essere ricevuti in Afghanistan con Western Union, MoneyGram, ecc. In loco poi abbiamo diversi volontari che si occuperanno della distribuzione».
An.Ca.
Ha firmato questo dossier
Angelo Calianno – Laureato in storia antica, è reporter e fotografo freelance. Ha viaggiato in America Latina, Africa, Asia e Medio Oriente, specializzandosi in conflitti riguardanti l’estremismo islamista. Collabora con molte riviste italiane tra cui Missioni Consolata. All’estero lavora soprattutto per Byline Times. Il suo sito è: www.senzacodice.com.