È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.
Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.
In quell’anno organizzammo, alla Casa del Cinema di Roma, un incontro di una settimana, ogni giorno un tema diverso, per festeggiare e ricordare i 50 anni di lavoro di Gianni. A quell’incontro, invitammo gli amici di una vita: da Pietro Mennea a Tommie Smith, da Luis Sepúlveda a Frei Betto a Joan Manuel Serrat, da Stefania Sandrelli a Raffaele La Capria e molti altri. Finimmo quella specie di happening con un concerto di Augusto Enriquez y su mambo band (e con la prima comunione di nostra figlia Paola).
Da quei giorni abbiamo iniziato a dare corpo ai ricordi in forma dinamica, a tramandare la memoria senza aspettare la fine del percorso di una vita, mentre ancora lavoravamo.
Lo spunto ce lo ha dato Jorge Amado, con il suo «Navigazione di cabotaggio» (1992), un libro fatto solo di nomi di amici nel quale il grande scrittore brasiliano aveva dedicato un breve commento a ognuno. Tra loro c’era pure Gianni. Jorge lo avevamo conosciuto anni prima, quando avevamo percorso tutta l’America Latina alla ricerca dei grandi miti latinoamericani del calcio italiano ancora viventi. Fu un’avventura lavorativa molto faticosa, che non ci procurò il guadagno sperato, ma la ricchezza di nuovi amici, tra i quali Amado e Zelia Gattai, la moglie di origine friulana, che ci fecero conoscere Bahia, il candomblé e la cucina afrobrasiliana.
Con Frei Betto
In Brasile, insieme a Jorge Amado, conoscemmo Frei Betto, domenicano, teologo della liberazione che, dopo aver fatto imbustare i resti di una cena conviviale, ci portò a conoscere i bambini di strada, ammassati a dormire in riva al mare nel buio della notte. I bambini, dai 4 ai 10 anni, divisero senza litigare e in silenzio i resti di quel pasto. Per ringraziarci, il più grande, un ragazzino di neanche 10 anni, ci porse un cocco. Quella sera nacque una fratellanza con Frei Betto, ma anche un cambio radicale di visione per me e Gianni.
Betto per noi è prezioso, e più di un fratello. Ha intrecciato la sua vita con la nostra, è stato sempre presente nei momenti belli, ma soprattutto nei momenti bui della nostra famiglia: in un’alba di quasi 20 anni fa mio padre morì per un’operazione che non riuscì a sostenere. Lo misero, come uno «scarto» qualsiasi, avvolto in un telo in uno sgabuzzino dove, nell’angolo, c’erano dei secchi con degli stracci e degli spazzoloni per pulire i pavimenti. Mia madre e mio fratello erano annichiliti dal dolore e non riuscivano a proferire parola, ma Betto, appena arrivato dal Brasile, si fece accompagnare da noi e con le sue parole e la sua benedizione riuscì a riportare luce e dignità alla disperazione.
Nel 2013, in questo percorso nella memoria, abbiamo composto il libro «Il mio Alì» (edito dalla Eri), una raccolta dei principali articoli e delle interviste che Gianni ha fatto a Muhammad Alì, un uomo straordinario, che ha saputo trasformare anche la sua malattia in un’arma di resistenza. Ogni volta che passava per Roma per qualche convegno o invito televisivo, non mancava mai di farci visita, insieme a sua moglie Lonnie. Ricordo Muhammad Alì come un uomo profondamente religioso e veramente spiritoso.
Sentivamo, inoltre, l’esigenza di lasciare una testimonianza sull’idea di giornalismo di Minà, quello tradizionale e d’inchiesta, ma sempre con un’attenzione particolare ai diritti dei più deboli, a coloro che, ovunque nel mondo, si ribellano. È nato allora «Così va il mondo» (edito dal Gruppo Abele), frutto di un dialogo tra Gianni e Giuseppe De Marzo, ecologista italiano, ma anche scrittore ed economista, ripreso poi nel documentario per parlare di pace, giustizia ecologica e libertà. Conosciutisi al Forum social mundial (Fsm) intorno al Duemila, De Marzo e Minà hanno intessuto un dialogo mai sopito, che dura ancora oggi.
Un altro dialogo, nel 2020, Gianni lo ha intrecciato con lo scrittore Fabio Stassi. Da questa collaborazione è nato «Storia di un boxeur latino» (edito da Minimum fax), il libro autobiografico di Minà nel quale, per la prima volta, lui racconta la sua vita, almeno fino agli anni Novanta. Lo ha fatto soprattutto per le sue tre figlie – Marianna, Francesca e Paola -, nella consapevolezza di essere un padre troppo anziano perché le possa accompagnare in un tratto lungo delle loro vite.
Quel titolo è frutto di una sorpresa che feci a Gianni per un regalo di Natale. Lui ama moltissimo l’amico Paolo Conte e le sue canzoni, così chiesi all’autore se potesse dedicare a Minà un suo lavoro. Pochi giorni dopo, mi venne recapitato un cofanetto accompagnato da una bellissima dedica: «All’amico Gianni, un boxeur latino». Dopo questo libro, la stessa casa editrice ha dato alle stampe anche una raccolta di articoli scritti da Gianni sull’indimenticabile Diego Armando Maradona.
Regista cercasi
Ritornando al documentario, avevamo accantonato il progetto, un po’ perché sempre oberati di lavoro, un po’ perché non trovavamo un regista che potesse rendere in modo aderente la storia di Minà: chiunque si faceva avanti, esprimeva perplessità a raccontare temi delicati, come i suoi scoop latinoamericani (Fidel Castro, Chávez, il papa a Cuba, il Fsm, ecc.).
Poco a poco, mi venne l’idea di scrivere un copione sulla sua vita professionale, usandola però come espediente per raccontare la storia del giornalismo e della Tv in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Ci pensavo, ma non speravo, anzi aspiravo. In fondo, la mia professione è sempre stata quella più pratica, meno artistica, di producer. Ma i ferri del mestiere li sapevo usare più che bene, lavorando per Gianni da più di 30 anni. Lo conobbi casualmente nel 1985: avevo bisogno di fare dei lavoretti, mentre stavo aspettando il «concorsone» al Comune di Roma come assistente sociale. Dovevo «sbobinare» su carta le sue interviste che aveva fatto alcuni anni prima ai pugili americani degli anni Settanta. Mentre aspettavo il concorso, lui mi iniziò al montaggio (ma negli orari notturni, perché quelli erano i turni per i «pivelli») con un regista che poi è diventato un mio fraterno amico, Giuseppe Sciacca. Poi, nel tempo, ho ricoperto tutti i ruoli di questo ambiente: segretaria di redazione, programmista regista, segretaria di produzione, produttore esecutivo, produttore. Mi mancava il ruolo da regista.
Gianni, tra fatti e gente
Ho intrecciato la mia vita professionale con Gianni Minà da subito, familiare parecchi anni dopo. Non sono stata né davanti, né dietro di lui, ma ho avuto il privilegio di stare al suo fianco. La soluzione è stata quella di costruire la nostra famiglia intorno al suo lavoro, perché, come disse Enzo Ferrari in una sua intervista, Gianni ha sposato la sua professione, ha aderito ai suoi ideali e non ha mai avuto intenzione di divorziare. Io sono sempre stata d’accordo con lui, perché «rotolando» insieme per il mondo, ho potuto vedere cose tremende e bellissime, persone decenti, immense, derelitte ma anche senza vergogna, ho sfiorato la Storia con la «S» maiuscola, abbiamo corso qualche rischio insieme, ma ne è valsa la pena. Ho capito che Gianni ha sempre voluto fare da ponte tra i fatti e la gente. Come ben riassunse il regista Walter Salles quando, nel 2007, a sorpresa, si presentò a Berlino per consegnargli il premio Berlinale Kamera: «L’opera di Gianni è un’opera che ci fa vedere quello che non ci sarebbe permesso mostrare o vedere o ascoltare se non fosse stato per lui. È guidato da una grande compassione, da una profonda umanità, ma soprattutto da un profondo desiderio di condividere con gli altri».
A Torino
Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» (una produzione Format con Rai Cinema) ha avuto una gestazione laboriosa perché la sua produzione è cominciata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Abbiamo potuto girare gli esterni solo a Torino. Il resto delle interviste è stato registrato a casa nostra. Con un inizio che è una gemma preziosa: i titoli di testa pensati e disegnati da Bruno e Andrea Bozzetto e il loro team. A mano a mano che andavo avanti, facevo visionare a Gianni il premontato, ma lui non commentava mai nulla. Alla visione finale dell’opera, non ho più saputo resistere: «Beh, allora? Che te ne pare?». E lui: «Montaggio sufficiente, ma onesto». Insomma, promossa.
Loredana Macchietti
(*) Loredana Macchietti, producer, è al suo primo documentario come regista.
È sposata con Gianni Minà, ben noto anche ai lettori di MC per la sua rubrica «Persone che conosco».
Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)
Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.
Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.
Uno sguardo alla struttura
Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.
Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.
Principi di fondo
Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.
a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.
Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.
b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.
c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).
Una vita concreta e organizzata
Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.
Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.
Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.
Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.
Il senso della concretezza
Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.
Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).
Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.
Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.
Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.
I contenuti
In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).
Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.
a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.
È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.
Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.
b) Un Dio presente e vigilante.
In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).
c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.
d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.
Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.
L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.
Aprire l’Istituto a un’esperienza nuova, molto coinvolgente e vicina alla gente. Dal dopoguerra si notava che le missioni diventavano sempre più grandi ed estese. Le strutture – dispensari, scuole, cappelle, chiese – erano cresciute, ma mancava l’accompagnamento delle persone.
Mandare giovani missionari che facessero un’esperienza forte fin dalla loro prima destinazione. In effetti, quando sono arrivato io, nel 1982, la cosa che colpiva era vedere missionari tutti molto giovani che mostravano grande spirito di fraternità. Il Congo era diventato un punto di riferimento per tutto l’Istituto: molti di noi volevano andarci, era la missione più desiderata.
Infine, già allora l’Istituto aveva fatto la scelta preferenziale per le periferie, che veniva confermata.
Il pretesto
Il motivo concreto del nostro arrivo in Zaire è stato l’invito da parte dei vescovi del paese di padre Noè Cereda a Kinshasa, per insegnare sociologia all’università. Il Congo dopo la guerra civile degli anni ’60-’64 si è ricostruito intorno alla cultura. L’unità nazionale è stata data dalla chiesa cattolica, che ha rappresentato sempre l’unica istituzione che dava spazio ai giovani.
La chiesa a Kinshasa aveva aperto un’università cattolica, che era più importante della statale. Per fare questo, i vescovi avevano fatto specializzare alcuni preti, oppure li avevano fatti arrivare dall’estero, come padre Noè.
Quando il superiore è andato poi a trovarlo, ha incontrato alcuni vescovi che si sono mostrati sensibili alla nostra presenza. Così, nel 1972, abbiamo aperto, ma non in capitale, bensì a Nord, nella foresta. A Wamba e a Doruma. Una scelta della periferia.
A Kinshasa abbiamo avuto sempre un pied-à-terre, la piccola parrocchia Mater Dei, che ancora oggi è il nostro quartier generale in Congo.
Wamba
Il 7 novembre del 1972 è partito dall’Italia padre Antonio Barbero, il primo (se non si conta padre Noè) a iniziare una missione della Consolata in Congo (vedi sotto).
La due prime missioni sono state Doruma e Wamba, che distano tra loro 400 km di strada sterrata. Wamba, nella diocesi omonima, si trova in piena foresta, dove ci sono anche i Pigmei. Fin da subito i nostri missionari hanno fatto l’opzione per i Pigmei, iniziando visite e accompagnamento. Questi sono sempre stati visti dagli altri congolesi come terza categoria, meno degli animali.
La missione a Wamba è stata caratterizzata da una presenza bella e semplice, senza grandi strutture. Abbiamo retto per tanti anni il centro catechistico, che è stato il cuore della diocesi. Lì i nostri padri formavano le famiglie, per tre o sei mesi, a essere animatrici nei propri villaggi di provenienza. C’era la scuola, la formazione delle donne, e molto altro.
Negli ultimi tempi (negli anni ’90-’91) abbiamo aperto una radio per fare alfabetizzazione. Anche i Pigmei la ascoltavano, in swahili o in kibutu, che è la loro lingua. Il centro è stato in seguito passato alla diocesi.
Dobbiamo ricordarci che Wamba è stato l’epicentro della ribellione dei Simba (1964-65), e che vi sono stati ammazzati il vicario apostolico, Joseph Pierre Albert Wittebols, con 250 altri europei tra cui tanti preti e suore. Prima c’erano i Dehoniani, che però non riuscivano più a reggere tutte le missioni. Noi siamo arrivati dopo la ribellione, nel 1972, quando Mobutu aveva preso il potere. Abbiamo cercato di dare speranza, impegnandoci molto sul piano sociale, e nel centro catechistico.
Padre Piero Manca è stato il pilastro dei catechisti, ha lavorato tantissimo alla promozione umana. Poi c’era padre Angelo Baruffi, che è stato per anni coordinatore di tutte le scuole cattoliche della diocesi. Padre Ivano Magnani, punto di riferimento per tanti giovani preti, anche locali, è stato vicario diocesano. Padre Enrico Casali è stato l’uomo spirituale, lui ha portato molta animazione e ha fondato il gruppo dei Focolarini. C’era pure padre Flavio Pante, che oggi è di nuovo lì, tornato per un secondo periodo, una presenza di spicco, molto apprezzato e molto vicino alla gente.
A Pawa, sempre nella diocesi di Wamba, avevamo il dispensario e seguivamo pure i lebbrosi. Un’altra missione era a Bafwabaka.
Doruma
Più a Nord, sempre nel ’72, abbiamo aperto a Doruma, nella diocesi Dungu-Doruma, vicino al confine con il Sudan. Seguivamo anche alcuni villaggi in Sudan. Alla frontiera c’era un lebbrosario che accompagnavamo.
Doruma è un’altra regione, e vi vive un’altra tribù, gli Azande, gli antichi abitanti del Congo, con il loro sistema di re, e come lingua usano il lingala più antico.
Avevamo anche la parrocchia di Bangadi, e padre Giuseppe Ronco è stato in entrambe.
È una zona molto vasta e, se a Wamba la gente è concentrata, a Doruma è più dispersa.
Erano missioni ereditate dai padri agostiniani, e la presenza missionaria era caratterizzata dalla vicinanza alla gente.
Nelle missioni antiche c’era la vecchia idea della collina con la chiesa, la casa dei padri, la scuola, la falegnameria, ecc. E la gente si radunava attorno. Il cambio di stile missionario che abbiamo vissuto, è stato impostato dai padri Bianchi (i missionari d’Africa), grandi maestri della missione africana, che hanno rovesciato il paradigma: non è la gente che deve venire da noi, ma siamo noi ad andare nelle comunità. I missionari partivano per visitare i villaggi e stavano 10-15 giorni con i loro abitanti.
Quello che ci è mancato è stato lasciare traccia scritta, perché la riflessione è stata fatta. Quello che aiutava i nuovi arrivati, erano i diari della missione, che ancora si tenevano.
Quando i missionari tornavano alla sera – ai tropici viene buio presto – si trovavano seduti intorno a una candela, e si raccontavano quello che era successo nella giornata.
Ampliamenti e cambiamenti
A Wamba, negli anni ‘90, si è confermata e rafforzata l’opzione per i Pigmei, aprendo una missione a Bayenga, al centro del loro territorio.
A Doruma, durante la guerra di Kabila (prima guerra del Congo 1996-97), sono passati svariati eserciti e la missione è stata attaccata diverse volte, così si è deciso di lasciarla. Siamo andati ad aprire a M’bengu, nella stessa diocesi. Una località «fuori dal mondo», ancora più sfidante.
Lì abbiamo realizzato una scuola. È una convinzione dei Missionari della Consolata, infatti, quella di investire nella cultura: se aiuti le persone a pensare, il mondo cambia. Non è il pane che ti cambia, anche se è necessario.
Per essere presenti anche in capitale, a Kinshasa, si è deciso di aprire una nostra missione a Samukassa, con i padri Santino Zanchetta e Antonello Rossi. Vi siamo stati 25 anni, per poi passarla alla diocesi.
Nel Nord, nella diocesi di Isiro, avevamo già aperto nel capoluogo (nel ’75), e siamo andati a Neisu (nell’84), che era un piccolo villaggio a 70 km di distanza, dove si andava già a celebrare la messa.
Da Isiro partiva padre Antonello con padre Oscar Goapper. Oscar aveva un interesse particolare per la medicina: un giorno ha cercato di curare una bambina, che però è morta. Ha deciso che non poteva più permettere che questo accadesse. Ha quindi studiato medicina per poi aprire l’ospedale di Neisu. Il villaggio si è ingrandito e adesso è un grosso centro. È oggi un nostro fiore all’occhiello.
Durante la guerra di Kabila non si poteva viaggiare tra la capitale e il Nord, che si raggiungeva solo attraverso l’Uganda. Siamo stati costretti a separare le due realtà (1999). Io ero il superiore delegato a Kinshasa, dove abbiamo aperto due parrocchie e il seminario teologico. Solo quando sono partito nel 2005, destinato a Roma, ho capito tutto quello che avevamo fatto in quegli anni. Il cardinale Frédéric Etsou, aveva fatto un consiglio personale, nel quale aveva chiamato anche me e l’attuale cardinale di Kinshasa.
Verso quale futuro
Il Congo, oggi Rdc, ha bisogno di stabilità, perché è tormentato da sempre. È un paese ricchissimo con molte potenzialità e gente capace, ma ha una corruzione endemica, e tutti ci stanno bene o sanno conviverci. Come ottenere questa stabilità? Con la serietà nel lavoro, educazione alla giustizia e alla pace. È fondamentale. La chiesa, e il nostro Istituto in particolare, non possono tirarsi fuori, perché non si può benedire una situazione di ingiustizia. Onestà e trasparenza, sono priorità da perseguire a tutti i livelli. Insistiamo nel dare la precedenza a situazioni di minoranza o povertà, ecco perché riaffermiamo la scelta preferenziale per i Pigmei.
Nei pressi a Beyenga, esistono piste di atterraggio clandestine, dove arrivano aerei per portare via il coltan (minerale di cobalto e tantalio, ndr) e l’oro. I ragazzi vanno a raccogliere il minerale per i trafficanti, guadagnando 10 dollari alla settimana, quanto prende il papà in un mese di lavoro. Tutto questo complica la situazione sociale. Non si può stare in silenzio.
Sarebbe importante portare il tema dei Pigmei a un livello internazionale: c’è un gruppo di persone che non è rispettata, che va scomparendo, che non ha gli anticorpi per un raffreddore.
L’altra questione importante è la promozione umana, che deve essere portata avanti dalla gente. Anche la cooperazione non ha più senso farla con progetti nostri, ma va fatta con progetti che la popolazione prenda in mano e porti avanti.
Stefano Camerlengo
Dal diario del pioniere della Consolata in Congo
Prime lettere dallo Zaire
È una domenica di inizio dicembre del ‘72. Finalmente padre Antonio raggiunge la sua destinazione, a lungo sognata. Ha viaggiato 25 giorni e visitato diverse località del Nord Zaire. E inizia lì, a pochi passi dal confine con il Sudan, la sua avventura missionaria.
Padre Antonio Barbero è stato il primo missionario della Consolata inviato dall’Istituto per aprire una missione in Congo, all’epoca Zaire. A Kinshasa si trovava già padre Noè Cereda, invitato dalla Conferenza episcopale per impartire lezioni all’università cattolica della capitale.
Padre Antonio è partito il 7 novembre 1972 dall’Italia, aveva 44 anni. Arrivato in Zaire si è diretto nel Nord Est. A Doruma ha iniziato il lavoro della Consolata. È stato poi raggiunto da fratel Alberto Donizetti (partito il 16 dicembre) e dai padri Tiziano Basso, Enrico Casali e Pietro Manca, che avevano lasciato l’Italia il 19 dicembre.
Padre Antonio ha scritto un diario in forma epistolare che rimane un documento importantissimo per tracciare le prime fasi della presenza dell’Imc in Congo-Zaire. Ne riportiamo alcuni passaggi.
Sabato 18 novembre 1972. Padre Antonio si trova a Kisangani, e sta per andare per la prima volta a Isiro, e poi a Wamba e Doruma, sua destinazione di missione.
Il Fokker copre la distanza Kisangani – Isiro in un’ora. Come al solito, sotto di noi si presenta la stessa panoramica: foresta interrotta ogni tanto da corsi d’acqua, da piste tracciate nel verde, villaggi disseminati lungo le piste e i fiumi. […].
La pista è in terra battuta, ma così solida che pare cemento. Il Fokker si ferma proprio davanti all’uscita: i bianchi sono invitati all’ufficio di controllo, solo io vengo scritto nel registro, perché è la prima volta che tocco questo suolo. Mentre attendo le valigie, vedo una suora e vado a domandare se per caso andasse alla procura. Mentre parlo con lei mi si presenta un italiano, signor
Casale dell’Aquila, macellaio a Isiro, il quale si offre di accompagnarmi a St. Anne, dove è parroco padre Colombo, comboniano, superiore regionale. L’accoglienza è più che fraterna […].
Lunedì 20 novembre.
Sono sempre in attesa di un’occasione per recarmi a Wamba. Finalmente se ne presenta una, il curato di Babonde che è venuto in città per compere. Faccio anche io una passeggiata attraverso la città, entro in qualche negozio […]. Molta gente siede oziosa a guardare i passanti. Altrove c’è qualche mamma seduta per terra con il proprio bimbo, davanti a lei una bacinella ripiena di una specie di polpette di manioca, di pane zuccherato […].
Verso le 16, a bordo di un pulmino Wolkswagen, carico un po’ di tutto, prendiamo la via di Wamba. La via diretta è interrotta perché alcuni ponti sono in via di ricostruzione in cemento, perché erano di tronchi d’albero. Quindi prendiamo per Ibambi, facendo così un lungo giro su una strada che non è degna di questo nome. Ci sono tratti in cui anche in prima pare di essere sulle montagne russe. La strada si snoda nella savana arborata, su di un terreno ondulato rossiccio, che qui chiamano «limenite» (laterite, ndr), un terreno di origine vulcanica, un po’ ghiaiosa. Spesso a destra e a sinistra compaiono villaggi formati da casette in mezzo al verde, di costruzione sempre uguale, davanti alle quali giocano molti bambini e prendono il fresco uomini e donne sulle proprie sdraio. Si notano spesso piantagioni di caffè […].
Nel viaggio ci sono molti fiumi da attraversare, ma spesso i ponti sono in totale rovina a causa della guerra e poi dell’incuria.
Martedì 21 novembre.
Il bac è una specie di chiatta fatta di piroghe (tronchi scavati) che sfrutta la corrente per fare attraversare persone, cose, camion e Land Rover. Le operazioni sono così lente che mettono a prova la nostra pazienza, ma non la loro… perché la fretta non è la loro virtù o il loro vizio.
Wamba
Il secondo campo di lavoro della Consolata in Zaire è situato un grado sopra l’Equatore, 120 km da Isiro, ad una altezza media di 500 m, un pianoro ondulato nella savana arborata, per non dire foresta. Vicariato apostolico dal 1949, affidato ai padri dehoniani, diocesi dal ‘59, nel ‘64, il 2 novembre, eccidio del vescovo con 15 padri e altrettante suore, gettati poi nel fiume Wamba e non più ritrovati. In sede è rimasto solo il vescovo nero, mons. Olombe e padre Martin, parroco, con quattro suore vincenziane e tre africane. Diecimila abitanti circa, la metà cattolici […].
La missione doveva essere un gioiello. Costruzioni in mattone: scuole, case per i maestri, conventi, laboratori, tipografia, coltivazioni di caffè, ecc. Di nuovo c’è la cattedrale: opera originale iniziata prima della rivoluzione e terminata due mesi fa. Forma circolare, il tetto in lamiera […]. A me è parsa una nota stridente con le abitazioni del popolo, ma mi si rispose che i neri pretendono che la casa di Dio sia molto più bella e grande della loro, perché deve costituire un ideale, un punto di arrivo.
Mercoledì 22 novembre.
Ebbi una lunga conversazione con il vescovo, in merito alla nostra futura presenza nella sua diocesi. Monsignor Olambo si sente felice, gli pare di rivivere pregustando la gioia di avere del personale giovane, disponibile alla missione per fare rifiorire la cristianità rimasta senza pastori.
Con padre Martin visitai i diversi rioni della città e dovunque passavamo tutti uscivano incontro a salutare e a invitarmi a rimanere con loro. Con questa gente non bisogna elemosinare strette di mano perché sarebbe un insulto il rifiutare la mano. Ci fermiamo all’ospedale: ma non pensate che sia come da noi, ma all’africana. Le medicine sono provviste dallo stato, ma al cibo ci pensano i parenti, e allora quando la mamma è all’ospedale, tutta la famiglia vi si trasferisce e fuori nel cortile vedete tanti fuocherelli e gente seduta intorno a preparare il cibo […].
Doruma
Mercoledì 29 novembre.
Rifaccio i miei bagagli e, appena consumato pranzo alla procura di Isiro, a bordo di un camion ribaltabile carico di fusti di nafta e di provvigioni per il collegio di Dungu, abbordiamo i 220 km che ci separano da Dungu. I fratelli Richard e Fabien si alternano al volante, perché la strada non differisce da quelle descritte precedentemente. Il sole è arrabbiato, in cabina siamo un po’ scomodi: tre persone più gli oggetti delicati, che sono molti. […].
Facciamo sosta a Rungu dove lavorano i padri comboniani italiani […].
Riprendiamo il nostro viaggio, il paesaggio è quasi sempre uguale: foresta a destra e a sinistra, vegetazione lussureggiante […].
Dopo altre due ore di percorso arriviamo alla savana, con erbe che sorpassano i due metri di altezza. Pochissimi si contano gli alberi a basso fusto […]. Però per quasi tutto il percorso nella savana non si è notata la presenza di una capanna, e questo per 30 km circa. […]
Verso le nove finalmente arriviamo a Dungu.
[…]. Rimango ospite dei fratelli per tre giorni, sempre in attesa di una prossima occasione per Doruma. Nel frattempo, visito la missione di Dungu, diventata sede della diocesi, perché più centrale (diocesi di Dungu-Doruma), mentre Doruma è posta verso i confini della diocesi stessa. […].
Sabato 2 dicembre.
Raccolgo i miei effetti per la penultima tappa verso Doruma. Fratel Fabien deve recarsi a Bangadi in serata e il giorno seguente avrebbe fatto vela per Doruma. Ne approfitto anch’io. Si parte verso le due del pomeriggio. Carichiamo come si conviene il pulmino e tra le tante cose trovo un posto anche per la mia piccola persona.
Per la strada più stretta del solito, attraversiamo i fiumi Dungu e Kigali e tra due sponde di alberi e di erba altissima ci dirigiamo a una velocità discreta a seconda dello stato della pista (zairoise). In quattro ore copriamo la distanza di 110 km e giungiamo a Bangadi […].
Domenica 3 dicembre. Era domenica e passando nei villaggi si notava un movimento insolito: mercato lungo i viali alberati, assembramenti di gente attorno alle scuole cappelle dove si erano radunati a fare la preghiera con il catechista. Al nostro passaggio tutti ci salutavano con la mano.
Dopo due lunghe ore di corsa giungemmo finalmente in vista della missione che da mesi cercavo di immaginarmi, senza avere alcuni elementi concreti a cui aggrappare la mia fantasia. Mi assalì una certa emozione che cercai di controllare senza riuscirci pienamente. Alla mia destra vidi subito spuntare tra i palmizi la cattedrale in mattoni rosa pallido, la facciata della missione e il complesso delle scuole primarie e secondarie. Ebbi subito la sensazione dell’ordine, della pulizia, del buon gusto. Erano le 11 del tre dicembre, festa di san Francesco Saverio, grande missionario, il quale impiegò sei mesi per raggiungere le Indie (e io impiegai solo 25 giorni per raggiungere la mia destinazione) […].
Verso le 22 raggiunsi la mia cameretta: ero stanco per tutte le emozioni provate e per il viaggio, tuttavia mi fu difficile prendere sonno. Ringraziai il Signore per avermi concesso di coronare il mio sogno missionario. Pregai san Francesco Saverio perché infondesse in me un po’ del suo spirito apostolico onde non deludere le aspettative di Dio e delle anime a cui ero stato inviato. […].
Antonio Barbero
Padre Antonio ci ha lasciati prematuramente nel febbraio 1982, ma il seme che aveva gettato continua a dare frutto. Selezione dai testi originali a cura di Marco Bello.
La nuova avventura della Consolata in Congo
Kisangani, ultima periferia
Kisangani è la più grande città del Nord del Congo. È snodo per l’Oriente e per le martoriate province dell’Est. Nel periferico quartiere Segama, in continua crescita, padre Honoré ha iniziato una presenza nel 2019. Quasi tre anni dopo è stato affiancato da padre Rinaldo Do. I progetti sono tanti e i bisogni pure.
Kisangani è la terza città del Congo dopo Kinshasa e Lubumbashi. Si affaccia sulle rive del fiume Congo a duemila chilometri dalla sua foce, nella zona equatoriale, centro Nord del paese. Padre Honoré Tsiditeta, congolese di 57 anni, vi è arrivato nel gennaio 2019. Raggiungiamo telefonicamente padre Rinaldo Do sul posto. Missionario della Consolata, in Congo dal 1991, ci racconta la genesi di questa missione, in una zona nuova per l’Istituto. Innanzitutto, ci spiega la scelta: «C’era il desiderio di uscire dalle nostre aree classiche, di Isiro e Kinshasa, e di avere un punto di riferimento, anche logistico. Ci sono, infatti molti problemi con gli aerei, per noi che lavoriamo al Nord. Si arriva qui da Kinshasa ed è importante avere una casa di passaggio, dove ci si possa fermare, per poi prendere un fuoristrada o una moto e arrivare nelle missioni. Così i superiori, qualche hanno fa, hanno cominciato a dialogare con il vescovo di Kisangani, il quale, ben contento, ci ha dato un terreno che era stato comprato dalla diocesi in vista dell’allargamento della città».
La nuova missione è nel quartiere Segama, a circa 10 chilometri dal centro di Kisangani. Si tratta di una zona urbana nuova, dove si stanno costruendo molte casette, senza alcuna pianificazione e senza servizi: non c’è acqua né elettricità.
«Vi abitano diverse tipologie di persone. Gente che lascia il centro città, altri sono rifugiati del Congo Brazzaville mandati lì chissà perché o scappati, poi ci sono gli sfollati dalle province di Ituri e Kivu, a causa della guerriglia che continua in tutta quella zona di frontiera con Uganda e Rwanda. Si parla di oltre 100 gruppi armati presenti».
Nell’area di Kisangani c’è pace, assicura padre Rinaldo, ma il quartiere non è così tranquillo, si registra molto banditismo notturno: «La gente desidera la nostra presenza anche perché la chiesa può rendere più stabile la situazione».
Piccoli passi
Nel momento in cui parliamo con padre Rinaldo, si stanno ultimando i lavori della casa, base della missione e anche punto di appoggio per missionari che lavorano in altre zone. Poi si inizierà a costruire la chiesa, e in seguito altri progetti. «Adesso abitiamo in centro presso i padri dehoniani e in procura (centro servizi della diocesi, ndr), e andiamo al cantiere tutti i giorni. Quattro volte alla settimana celebriamo l’Eucarestia (la prima è stata celebrata il 27 gennaio 2019, ndr), e questo lo facciamo sotto tendoni che sono montati e smontati per l’occorrenza. Finita la celebrazione vanno infatti tolti, altrimenti si rischia che li rubino. Ma quando potremo abitare sul posto cominceremo a conoscere la comunità, fare un progetto pastorale, i consigli, le commissioni, perché la chiesa è abbastanza viva. C’è una grande voglia di parrocchia. L’area è proprio in mezzo alla gente, e, per noi, è tutto da iniziare, da conoscere, creare i rapporti personali con gli abitanti. Abbiamo iniziato a visitare qualche malato»
E ancora: «Ci sono problemi per mancanza di elettricità, di acqua. Vengono realizzati pozzi artigianali. Noi ne abbiamo fatto uno e la gente viene a prendere acqua alla missione. Pensiamo di realizzarne anche altri nel quartiere, come anche altri progetti da decidere e portare avanti con la nostra gente».
Padre Rinaldo continua con le motivazioni della scelta: «La nostra è una scelta di periferia, dove c’è la gente che ha bisogno di una presenza della chiesa, di consolazione. Abbiamo poi la prospettiva, in un altro terreno, di costruire un centro sanitario, perché sulla salute la gente è abbandonata. Ci sono tanti piccoli centri nel paese. Anche qui a Kisangani ce ne sono alcuni, ma sono, spesso, gestiti dai missionari o dalla chiesa, oppure ci sono le cliniche private, che però hanno prezzi molto elevati».
Padre Rinaldo ha lavorato nella maggior parte delle missioni della Consolata in Rdc. È arrivato a Kisangani nell’ottobre del 2021, per affiancare padre Honoré. Prima era a Saint Hilaire, a Kinshasa, e prima ancora a Neisu, nella diocesi di Isiro.
«La notte di Pasqua abbiamo potuto accendere delle luci, usando un generatore, grazie alla casa quasi terminata. Cosa che a Natale non avevamo potuto fare. Un passo alla volta. La società elettrica dovrà elettrificare anche il nostro quartiere, ma non si sa quando.
A Kisangani, anche in centro, sovente ci sono tagli di elettricità. Anche se si potrebbe dare luce a tutti, perché passa il fiume Congo e ci sono delle cascate».
Infine ci regala qualche considerazione più generale: «C’è un grande abbandono di questo paese. Siamo stati a celebrare la Pasquetta in una zona della città dove c’è una fabbrica di tessuti. Fino a qualche anno fa impiegava duemila operai, adesso è praticamente chiusa. Ce ne sono un centinaio, ma sono in sciopero, perché da sedici mesi non ricevono salario. Questo succede anche in altre zone del Congo: fabbriche abbandonate, lavoratori non pagati. Vediamo situazioni analoghe di insegnanti, infermieri, agenti dell’amministrazione statale. E il governo fa la sua politica, ha regalato 600 auto, una per ogni deputato e senatore. Per tenerseli buoni, ma si dimentica della gente che lavora. Così, spesso, ci sono scioperi che durano settimane, mesi. La situazione è triste, un paese ricco che non è per nulla gestito».
Marco Bello
Il racconto di due decenni vissuti appassionatamente
Con il cuore, si vince
Un’esperienza particolare. Due decenni da missionario sul campo. Il primo in Zaire, il secondo in Rdc. Il primo da giovane alle prime armi, il secondo da veterano con la barba bianca. Tante diversità, altrettante similitudini, cristallizzate nel tempo. Ma sempre la gioia di essere amico, fratello di tanti.
Due decenni vissuti in tempi diversi, in un paese collocato nel cuore dell’Africa (e con due nomi differenti): gli anni più belli della mia vita missionaria, anche se mescolati a tanta fatica, sogni e non poche delusioni.
Un altro mondo
Era il 20 gennaio del 1980; ricordo che, partito da Roma, dopo solo sei ore di volo toccavo il suolo dello Zaire, e non ci volle molto tempo per rendermi conto di essere bruscamente arrivato in «un altro mondo». Con la prima, grande emozione: dopo neanche tre ore dall’arrivo, essendo domenica, la celebrazione della mia prima messa africana in una piccola cappella nella boscaglia (di eucaliptus), con i canti al ritmo dei tamburi, una lingua incomprensibile, i chierichetti con tanto di tuniche colorate e a piedi nudi che precedevano noi preti a passo di danza e tante facce nere (soprattutto di bambini) che guardavano incuriositi i nuovi venuti.
E, dopo pochi giorni, «l’impresa» di arrivare al Nord del paese, sorvolando l’immensa foresta equatoriale, e l’arrivo, su strade rosse e polverose, a Isiro, la modesta cittadina (sede della nostra casa provinciale) dove, la notte del primo dicembre del ’64, era stata uccisa Anuarite, una giovane suora, durante la tristemente famosa «Ribellione dei Simba» che, scoppiata qualche anno dopo l’indipendenza del Congo (1960), aveva prodotto centinaia di vittime tra i locali e tra i missionari stranieri.
Ricordo anche che al mio arrivo in Zaire, la gente era ancora sotto shock per «il regalo» di Natale 1979 del presidente Mobutu: la «demonetizzazione», cioè il cambio senza preavviso delle banconote, passate dal colore azzurro al verde (come la foresta e le foglie di manioca). Nonostante i missionari si fossero dati da fare per trasportare le persone, con i loro vecchi soldi, dai posti più lontani alle banche cittadine, la maggior parte della popolazione non riuscì a cambiare le ormai inutili banconote, che tenevano celate negli angoli più nascosti delle capanne.
Dopo mesi faticosi per imparare il kiswahili, cominciai a scorrazzare su una vecchia Land Rover per la quarantina di villaggi della nostra estesa parrocchia di Wamba, disseminati tra file di palme, campi di riso e manioca, bananeti e chiazze di alte erbe (con qualche serpente annesso). Sperimentavo, così, la gioia e la difficoltà di testimoniare il vangelo di Gesù, non solo in un’altra lingua e cultura diverse dalle mie, ma anche con «l’aiuto» dei catechisti, senza i quali non avrei potuto avvicinare, conoscere, capire e amare la gente dei villaggi. Mi appassionava lavorare con loro, valorizzando le loro conoscenze, il loro modo di vita, la fede semplice e severa di alcuni che, formati senza zucchero dai missionari belgi, erano passati attraverso il crogiolo della persecuzione (e anche del martirio). Fu questa mia passione per loro (forse) che spinse la mia nomina a responsabile del Centro catechistico diocesano, per sei anni, in cui tentai un’impostazione nuova, per formare non soltanto dei «bravi maestri nella fede», ma dei veri leader e animatori per lo sviluppo umano, l’insegnamento, la salute e, soprattutto, la giustizia e l’onestà in quel contesto difficile e così avaro di sogni per qualche cambiamento.
Ma fu proprio un cambiamento (non certamente da me sognato) a interrompere il mio lavoro missionario con i catechisti. Nel 1990 venivo, infatti, richiamato in Italia per lavorare nelle nostre riviste e nell’animazione missionaria. Confesso che avevo accettato con non poca fatica, perché dover lasciare l’Africa, dopo solo dieci anni, sembrava un’evidente ingiustizia nei miei confronti. Confidavo, però, nel fatto che la permanenza nel Belpaese non sarebbe stata troppo lunga, ma solo una parentesi da smaltire il più in fretta possibile. Invece, i pochi anni previsti si protrassero più del dovuto, fino a metà del 2005 quando, approfittando della nomina del nuovo superiore generale, feci la richiesta di poter ripartire. E così, il 12 gennaio 2006, riprendevo l’aereo per cominciare la seconda tappa della mia avventura missionaria.
Molti mi avevano ricordato che il Congo (ora si chiamava così) che avrei trovato non sarebbe stato sicuramente come l’avevo lasciato: lunghi anni di guerra, violenza e confusione politica avevano stremato la popolazione, rendendola più povera e sfiduciata. Era ormai scomparso dalla scena Mobutu (morto in esilio, in Marocco, nel 1997), lasciando il paese al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini e la guerra civile al proprio interno.
Stavolta, ero stato nominato nientemeno che parroco nella periferia di Kinshasa, in una nostra parrocchia santuario (Mater Dei), dove si venera l’immagine della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II, nella sua prima visita allo Zaire (1980). Avevo accettato l’incarico con molta riluttanza e timore, pensando a ciò che mi aspettava, anche se, un mese dopo il mio arrivo, avevo potuto condividere un momento epocale del nostro Congo: per la prima volta, dopo più di trent’anni, le elezioni libere e democratiche per la scelta del presidente e del nuovo governo. Ho rintracciato nel diario questa annotazione: «30 luglio 2006. Dopo tante voci negative, finalmente la gente può esprimersi anche se la scelta non è certamente libera e oggettiva per via dei troppi candidati e degli interessi immediati. Ma è un’occasione importante e cerco di spiegarlo nelle due messe che celebro qui in parrocchia, pur nel mio povero lingala. Il seggio del quartiere è proprio accanto a noi. Poco prima della chiusura delle urne, faccio una scappata a vedere com’è l’ambiente e a scambiare due chiacchiere con la gente […]». Fondamentale era stata l’opera di coscientizzazione che la chiesa aveva cercato di fare nei mesi precedenti le elezioni: una vera mobilitazione, soprattutto a livello delle piccole comunità di base, per informare, far discutere, capire e scegliere con un po’ di consapevolezza; dibattiti semplici, ma vivaci, sostenuti e guidati da persone preparate e che avevano coinvolto i nostri cristiani in quella svolta storica della loro democrazia.
Nel «cuore» della foresta
Ma l’esperienza di parroco cittadino non durò molto. Dopo tre anni, ricevevo una nuova destinazione, che fortunatamente veniva incontro anche al mio desiderio: il ritorno alla foresta, al Nord del Congo e a Neisu, un piccolo, ma vivace villaggio, diventato famoso per l’ospedale costruito dall’indimenticabile nostro missionario dottore, Oscar Goapper, morto – ahimè – troppo presto. Era il 16 agosto 2009 quando toccavo di nuovo – dopo vent’anni esatti – la pista di atterraggio dell’aeroporto di Isiro. Ma che cambiamento! Un’occhiata alla cittadina, un tempo vivacissima per la varietà di persone, il commercio, le numerose scuole primarie e superiori mi intristì il cuore. E anche quando arrivai a destinazione, Neisu (che in lingua kimgbetu significa cuore) mi sembrò che il tempo si fosse fermato: strade impossibili, case di fango e paglia, gente che si spostava con biciclette stracariche.
Kinshasa era ormai lontanissima e i ricordi dei pochi anni passati laggiù svanirono in fretta, perché ora il mio mondo era proprio questo: una parrocchia nata dal nulla, sapientemente accompagnata da missionari appassionati della gente, un centinaio (104, per l’esattezza) di villaggi, piccoli o modestamente grandi nei quali, accanto a rabbia e rassegnazione c’era ancora spazio per una timida speranza, la voglia di pace e ingarbugliati tentativi per il développement (sviluppo).
Ed è stato qui che, pure invecchiato e reso più fragile dagli acciacchi, dalla malaria (mai avuta prima) e dalla povertà di mezzi, ho gustato di nuovo la gioia di essere ancora fratello, amico, compagno di viaggio per tanti. Ho ripreso a scorrazzare (non più in Land Rover, ma in moto) sugli infiniti sentieri della foresta, costeggiando, magari, qualche tratto della linea ferroviaria costruita dai belgi e ormai invasa dalla vegetazione; sostando, senza fretta, nelle piccole cappelle di ogni villaggio per pregare, istruire i tanti catecumeni che ancora chiedevano di conoscere Gesù; organizzare progetti e iniziative soprattutto per i due «chiodi fissi» dei programmi pastorali di ogni anno: scuola e salute; e appisolarsi per la stanchezza alla sera su una sdraio, mentre bambini e giovani si scatenavano nelle danze in mio onore, attorno al fuoco.
Che sia questa la «missione nuova», o meglio, il modo nuovo di fare missione? E dov’è «il luogo di contatto» tra il Vangelo, i missionari e le persone? «La risposta è chiara: l’ordinarietà della vita di tutti, questo è il territorio della missione. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli e si mette a camminare al loro passo”» (Papa Francesco).
Con il cuore, allora… si vince sempre!
Giacomo Mazzotti
La repubblica democratica di Félix Tshisekedi
Un meccanismo ben oliato
Dopo 18 anni di presidenza di Joseph Kabila, dal 2019 l’Rdc è governato da un gruppo di potere solo in apparenza diverso. Nella realtà, il sistema è uno e collaudato da decenni. E anche le teste sono sovente le stesse.
«Dopo 25 anni di crimini di massa e saccheggio delle nostre risorse da parte dei nostri vicini,
l’autorizzazione del presidente (Félix Tshisekedi, ndr) all’Updf (Uganda people defence force, esercito ugandese, ndr) e gli accordi di cooperazione militare con l’Rdf (Rwanda defence force, ndr) sono inaccettabili. No ai piromani-pompieri! […]». Con questo tweet, il 28 novembre 2021, il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace (2018), commentava l’ingresso in forma ufficiale di truppe ugandesi in Ituri, provincia dell’Est del paese, sancito poi da un accordo militare il 9 dicembre successivo.
Ma perché il presidente Félix Tshisekedi, in carica dal gennaio 2019, è sceso a patti con il nemico di ieri? Come sta gestendo la sicurezza nell’Est del paese, provato da una guerra che dura, praticamente, dal 1998?
Cerchiamo di fare il bilancio della presidenza del figlio del più noto oppositore politico congolese, Etienne Tshisekedi, scomparso nel 2017.
Un mandato
Thisekedi è stato eletto il 30 dicembre 2018, in elezioni posticipate di due anni, senza motivazione ufficiale, da Joséph Kabila. Questi governava dal 2001, quando aveva preso il potere alla morte del padre Laurent Désiré Kabila, facendosi poi eleggere per due volte consecutive (2006 e 2011).
«L’arrivo al potere di Tshisekedi è, di fatto, il risultato di un accordo tra questi e Kabila, che avrebbe lasciato il campo libero, a patto che non si andasse a “frugare” nel passato. L’accordo sarebbe stato concluso a Nairobi», ci dice un nostro contatto congolese. Joseph Kabila resta di fatto un uomo molto ricco e potente in Congo, ha molti affari da seguire, anche nel settore minerario, per cui gradisce non essere disturbato.
Il primo governo dell’era Tshisekedi era in coabitazione con la coalizione di Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), che aveva riportato, alle stesse elezioni, una maggioranza all’Assemblea nazionale. Qui il Cach (coalizione facente capo a Tshisekedi), poteva contare su una cinquantina di deputati su 500. Si trattava, in qualche modo, di un governo di coalizione di 66 posti, dei quali 23 erano andati al Cach e 42 al Fcc (cfr MC ottobre 2019). Ma a inizio dicembre 2020 Tshisekedi rompe la coalizione, con la scusa che «non permette di mettere in opera il programma di governo». E poi affida a un fuoriuscito eccellente del Fcc, Modeste Bahati Lukwabo, presidente del Senato, la missione di «informatore» per verificare i numeri di una nuova coalizione, che chiama l’Union sacrée (l’unione sacra). Di fatto Tshisekedi aveva «operato» per assicurarsi il cambio di casacca di un buon numero di parlamentari.
«Il politico congolese, il parlamentare in generale, è come una prostituta, va con chi offre di più. Anche quelli che erano con Kabila, erano lì perché lui offriva di più. La coalizione dell’ex presidente esiste ancora, ma ha perso molti parlamentari. Con la maggioranza che ha adesso, Félix può fare molte cose». Il presidente è dunque riuscito ad «acquisire» una maggioranza confortevole e, dopo un paio di mesi di negoziazioni (perché accontentare tutti non era facile) ha varato, il 12 aprile 2021, il suo nuovo governo, questa volta a lui totalmente fedele. Il premier è Sama Lukonde Kyenge, e ne fanno parte, oltre a uomini e donne (sono il 27% su 57 posti) del Cach, gente di Moise Katumbi, di Jean-Pierre Bemba e molti transfughi del Fcc che hanno mollato Kabila.
A tutto campo
Continua la nostra fonte: «Tshisekedi è poi riuscito a modificare la Corte costituzionale, in modo da controllarla. Non è stato facile, perché l’ha cambiata senza usare le procedure costituzionali.
Inoltre, ha imposto anche il presidente del Consiglio nazionale elettorale indipendente (Ceni), in modo arbitrario». Il Ceni è un organo per il quale la neutralità è fondamentale, in quanto ha il ruolo di organizzare le elezioni. All’imposizione di Denis Kadima, un suo fedelissimo, ha cercato di opporsi la Conferenza dei vescovi cattolici del Congo (Cenco), ma senza grande successo.
«La corruzione è il sistema, per cui pagando, tra l’altro con soldi pubblici, si ottiene qualsiasi cosa. Lo scorso anno (2021) il presidente ha regalato un fuoristrada del valore di circa 50mila dollari a ognuno dei 500 deputati». Si parla di circa 25 milioni di dollari, sottratti a opere per la popolazione, come scuole, strade, centri di salute.
Secondo il nostro interlocutore, inoltre «il problema grosso è che Tshisekedi, si è circondato di nullafacenti, spesso disonesti, di cui molti vivevano all’estero da anni, e alcuni sono stati pure arrestati nei paesi in cui erano residenti».
Siamo verso la fine del mandato, in quanto le elezioni sono previste per il 2023, ma «per le questioni sociali ed economiche, le cose stanno peggio di quando c’erano Mobutu, Laurent
Désiré Kabila, o addirittura Joseph Kabila. Perché la cricca al potere è una sorta di gruppo mafioso, tribalista. Tshisekedi ha messo tutta gente della sua etnia nei posti chiave».
Fronte dell’Est
Torniamo a Est, dove la guerra non si è mai realmente fermata dal 1998. È la seconda guerra del Congo.
Uno degli obiettivi del presidente e del suo governo era riportare la stabilità nella regione. Qui imperversano un centinaio di gruppi armati e di sbandati, alcuni legati al Rwanda (come l’M23) altri ai ribelli ugandesi (come l’Adf, Allied defence force). C’è poi la presenza dei caschi blu dell’Onu, la Monusco (operativa dal febbraio 2000, con circa 17mila effettivi).
Qui, più precisamente nel Nord Kivu, il 22 febbraio 2021 sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Vittime eccellenti tra milioni di morti nell’area. L’inchiesta è ferma su un binario morto, come ha recentemente denunciato Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore, chiedendo verità e giustizia.
Il presidente Tshisekedi, nel maggio 2021, ha dichiarato lo «stato di assedio» in due province dell’Est, il Nord Kivu e l’Ituri. Il che vuol dire sospendere gli eletti e le assemblee locali, sostituire i governatori con dei militari, e dare all’esercito potere di controllo del territorio. Ovvero la militarizzazione dell’area. Nonostante questo, gli attacchi ai civili e gli scontri non sono cessati, anzi. A fine marzo scorso è riaffiorato l’M23, gruppo paramilitare appoggiato dal Rwanda, che era stato sconfitto nel 2013. Tale milizia è strumentale allo sfruttamento delle risorse minerarie della regione da parte del piccolo, ma bellicoso, paese guidato da Paul Kagame. Tra fine marzo e inizio aprile, ha condotto diversi massacri, in villaggi nella zona di Rutshuru, Nord Kivu, nei pressi del confine triplo con Uganda e Rwanda (cittadina a 70 km da Goma, la stessa zona dell’assassinio di Attanasio).
Relazioni internazionali
«Tshisekedi ha avuto un avvicinamento al regime di Kigali, dicendo che Kagame è un suo fratello. La moglie del presidente congolese ha parenti altolocati in Rwanda. Così, invece di mettere fine all’insicurezza all’Est, come aveva promesso, Tshisekedi ha fatto accordi con i carnefici. Gli stessi governatori militari, che ha imposto con lo stato di assedio, sono persone dal passato molto opaco».
Nel mese di maggio dello scorso anno, un’impresa ugandese ha vinto diversi appalti per la costruzione di strade nel Nord Kivu, verso l’Uganda. L’accordo punta anche a proteggere i cantieri, oltre a combattere l’Afd, ribelli ugandesi, di matrice islamista, attivi dal 1995 e basati in queste aree del Congo.
«Ma in queste terre così ricche, un’impresa che scava per fare strade, può facilmente portare via minerali».
Ricordiamo che l’Rdc è il primo produttore mondiale di cobalto, essenziale per le batterie e i dispositivi elettronici, con 174mila tonnellate all’anno (70% del totale). È il primo produttore africano di rame, e grande produttore di diamanti, oro, zinco. La ricchezza del suo sottosuolo è stata definita uno «scandalo geologico». Minerali che vengono sfruttati da altri: «Si calcola che su 41 miliardi di dollari prodotti ogni anno dalle miniere del Congo, solo un miliardo resti nel paese». Con un Pil pro capite di 540 dollari all’anno (Banca Mondiale, 2020), è come dire che l’intera popolazione, 90 milioni, sopravvive con 1,5 dollari al giorno.
Il 29 marzo scorso Félix Tshisekedi ha firmato per fare entrare l’Rdc nel East african community (Eac, il mercato comune Est africano), che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Questi paesi vedono l’Rdc come un paese di enormi ricchezze (da sfruttare), ma anche un grande mercato per il loro export, che vedrà, grazie a questa firma, ridursi drasticamente i dazi doganali. Non è chiaro, invece, il beneficio che ne avrà il Congo, la cui fragile economia rischia contraccolpi negativi.
È del 14 aprile una notizia inquietante. Il Regno Unito ha firmato un accordo con il Rwanda per cui questo accoglierà i migranti e richiedenti asilo indesiderati sul suo territorio in cambio di 120 milioni di sterline. I militanti dei diritti umani hanno bocciato il progetto come inumano e barbaro. Anche l’opposizione britannica è contraria e l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu vi si oppone con fermezza, in quanto contrario alla convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Il Rwanda è un paese piccolo e sovrappopolato, con una densità di quasi 500 abitanti al km2, 2,5 volte quella dell’Italia. «Dove pensate che Kagame voglia mettere i migranti deportati dal Regno Unito?».
Questo è il paese che Papa Francesco visiterà dal 2 al 5 luglio prossimo, fermandosi a Kinshasa e Goma, per poi proseguire per il Sud Sudan.
Marco Bello
Hanno firmato il dossier:
Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
Antonio Barbero. Nato a Marene (Cn), nel 1928, ha aperto le prime missioni della Consolata in Zaire. È scomparso prematuramente a Torino nel 1982. Ringraziamo padre Mario Barbero, fratello di padre Antonio, per averci messo a disposizione le lettere originali dalle quali abbiamo tratto alcuni stralci.
Giacomo Mazzotti. Missionario della Consolata in Zaire (1980-90) e in Rdc (2006-2016), redattore della rivista Amico (‘90-2005). Oggi postulatore per la causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano.
Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.
Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.
Vi andai e rimasi contento.
Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.
Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».
«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».
Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».
Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.
Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.
Persone e comunità distrutte
Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.
La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.
C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.
Il perdono è liberazione
Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?
C’è una parola fondamentale: il perdono.
Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.
C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?
Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.
Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.
Il perdono è spezzare quella catena.
Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.
Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.
Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.
Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.
Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.
Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.
È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.
La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.
Non sei ciò che hai fatto
Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.
Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».
Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».
E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».
Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».
Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.
Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.
A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.
Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.
Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.
La riconciliazione
Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.
Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.
Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.
La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.
Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.
Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.
Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.
Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo
Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.
Iniziamo con la memoria.
Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».
Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.
Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.
Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.
Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.
Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.
Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…
Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.
I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.
È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.
I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.
Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.
In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.
Ricostruire persone e situazioni infrante
Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?
Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».
Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».
Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».
Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.
Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.
Gianfranco Testa
L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.
L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.
Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.
Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.
A differenza delle organizzazioni non profit (Onlus, Aps, OdV, ecc.), le Società Benefit fanno parte della realtà for profit, non rinunciando a mantenere il proprio scopo di lucro. A esso aggiungono però il perseguimento di uno o più benefici su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni, oltre ad altri portatori di interesse, ovvero l’ecosistema all’interno del quale le Sb orientano il proprio agire quotidiano e di medio lungo periodo. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente, con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci (shareholder) e l’interesse della collettività (stakeholder).
Un approccio fortemente «cristiano»
Tale approccio al mondo del lavoro e dell’impresa recepisce anche i valori e le indicazioni che vengono dalla dottrina sociale della Chiesa.
Era il 2015 quando, nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco si esprimeva nei seguenti termini: «Il lavoro dovrebbe essere il principale ambito di sviluppo personale, dove si mettono in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti» (LS, 127).
In seguito, il concetto è stato ulteriormente ribadito e approfondito nell’enciclica Fratelli tutti, ancora più incentrata sul tema dell’amicizia sociale. Ne citiamo un passaggio, a titolo di esempio: «L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti. Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza.
Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (FT, 123).
Parole forti e incisive, che certamente hanno avuto un ruolo importante nel plasmare la mentalità di quei soggetti, imprenditori socialmente orientati e politici che, animati da spirito di servizio per il bene della comunità, hanno investito tempo e risorse affinché il «modello Benefit» si potesse realizzare e sviluppare.
Fenomeno in espansione
Se nel 2017 si parlava di Società Benefit come di un fenomeno nuovo, nato sulla scia delle B Corp (Benefit Corporation) statunitensi. Oggi quello che ci troviamo di fronte è una solida realtà. A fine 2021 le Sb in Italia hanno sfondato quota mille, il doppio rispetto al solo anno precedente, a conferma di una crescita esponenziale. Non c’è regione della penisola che non presenti almeno una realtà produttiva caratterizzata dalla forma giuridica introdotta dalla legge entrata in vigore nel 2016. A inizio 2022 in Lombardia erano oltre 300 e sul podio vi è anche il Lazio (oltre 120) con l’Emilia Romagna (oltre 100).
A dispetto della pandemia, pertanto, il numero delle Società Benefit in Italia è aumentato. Un’ulteriore conferma del successo che sta prendendo forma, è l’inclusione della «categoria Società Benefit» tra quelle contemplate nell’«Oscar di bilancio», premio organizzato da Ferpi – Federazione relazioni pubbliche italiana – con Borsa italiana e Università Bocconi, che viene assegnato fin dal 1954 alle imprese più meritevoli nelle attività di rendicontazione finanziaria e che rappresenta il riconoscimento più importante nell’ambito della comunicazione dei risultati di impresa.
Un impatto da condividere
Un elemento fondamentale nella disciplina delle Società Benefit è rappresentato dal fatto che, annualmente, tali realtà hanno l’obbligo di produrre una «Relazione di impatto» che sia pubblica, possibilmente realizzata da un ente terzo indipendente, che metta di fronte ai propri azionisti e ai propri clienti quanto concretamente realizzato nel corso dell’anno precedente per avvicinarsi al raggiungimento delle «Finalità di beneficio comune» dichiarate nello statuto. Si tratta di un aspetto fondamentale, utile a evitare i tristemente noti fenomeni di greenwashing o social washing, che fanno sì che l’impegno verso la sostenibilità sia solo una questione di marketing, senza un reale impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità.
La capacità di comunicare in maniera trasparente ed efficace il perseguimento del beneficio comune è uno degli asset strategici più importanti per una Società Benefit. La comunicazione non finanziaria, ovvero la redazione annuale della «Relazione di impatto» rappresenta, infatti, non solo una opportunità di comunicazione e di posizionamento nel mercato, ma un vero e proprio strumento di gestione, relativo all’intero andamento della vita aziendale. Ad oggi, le Società Benefit sono le uniche realtà tra le imprese profit non quotate in Borsa a dovere redigere una comunicazione non finanziaria da allegare al bilancio, il che rappresenta un unicum nell’intera Unione europea, con l’Italia che costituisce l’esempio a cui guardare.
Un virtuosismo contagioso
Diventare Società Benefit rappresenta, certamente, un grande impegno e una grande responsabilità sociale, ma anche una immensa soddisfazione. Oltre a una dichiarazione di intenti, è una strada percorsa concretamente da numerose realtà che hanno saputo coniugare la ricerca del profitto con un concreto impegno sociale. A titolo di esempio segnaliamo due aziende torinesi che si sono distinte per il loro operato, anche durante la pandemia.
Il Festival dell’economia civile, svoltosi a Firenze a fine 2020, ha nominato l’azienda cosmetica torinese Reynaldi Srl SB «Ambasciatrice dell’economia civile» per l’impegno nella produzione responsabile dal punto di vista sociale e ambientale, investendo al contempo in formazione e attivando progetti di cooperazione in Burkina Faso, Kenya e Sudan per la produzione di materie prime di altissima qualità da utilizzare in ambito cosmetico, riconoscendo alle comunità locali un giusto prezzo, una concreta possibilità di crescita e la garanzia di richiesta continuativa.
Un altro esempio è la Promos SrL Sb, che pone al centro del proprio operato l’accompagnamento di altre realtà che si affacciano al mondo delle Benefit Corporation aiutandole a migliorare il proprio impatto sociale, ambientale ed economico. Il tutto, senza dimenticarsi di chi è meno fortunato, impegnandosi in progetti di sostegno scolastico per orfani in Kenya, nella regione del Meru, e a Capo Verde, a Mindelo. Si occupa anche della realizzazione di corsi di formazione professionale certificata per donne straniere nel campo dell’assistenza domiciliare e, in collaborazione con la Caritas italiana, sta attivando percorsi di formazione gratuita a livello nazionale per i rifugiati che provengono dall’Ucraina.
Sono solo due testimonianze di un modo diverso di fare impresa, che mette al centro il bene comune, ci invita ad «andare oltre» le logiche del solo profitto e ci ricorda che ciò è davvero possibile.
Paolo Rossi
* Già volontario nel Tharaka, Meru, Kenya, presidente di Col’or Ong di Orbassano (To) e assegnista di ricerca nel campo del Social Business Modelling presso l’Università del Piemonte Orientale.
I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.
Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.
Solo nell’ultimo decennio, il consumo mondiale di petrolio è passato da 4 miliardi di tonnellate nel 2010 a 4,4 nel 2019 registrando un aumento percentuale del 10%. Quanto al gas, il consumo è passato da 3.160 miliardi di metri cubi nel 2010 a 3.903 nel 2019, un aumento percentuale del 23%. Intanto anche un altro combustibile fossile ha registrato un aumento importante. Si tratta del carbone che, pur essendo molto più inquinante, è però meno caro e quindi preferito da paesi come Cina, India, ma anche Polonia, affamati di energia a basso costo per recuperare il terreno perduto sulla strada dello sviluppo industriale. Così il suo uso è passato da 7,2 miliardi di tonnellate nel 2010 a 8 miliardi di tonnellate nel 2019, l’11% in più. Con inevitabili conseguenze sulle emissioni di anidride carbonica, passate da 38,5 gigatonnellate nel 2010 a 43,1 nel 2019.
Dal punto di vista dei prezzi, benché i prodotti energetici siano soggetti a repentini cambiamenti, complessivamente nel secondo decennio del nuovo millennio, si è assistito a un certo ribasso. Segno che l’industria dei combustibili fossili ha saputo rispondere alle maggiori richieste di mercato, producendo addirittura qualcosa di più. Nel caso del petrolio, la quotazione è passata da 79 dollari al barile nel 2010 a 64 dollari nel 2019. Per il gas naturale, invece, siamo passati da 6,7 dollari per milione di Btu (British thermal unit) nel 2010, a 4,45 nel 2019. Ma questa situazione di relativa stabilità si è rotta con l’arrivo del Covid. I lockdown, decretati nel 2020 nelle maggiori economie del mondo, hanno provocato una caduta brusca nel consumo di prodotti energetici per l’arrestarsi di molte attività produttive, la cancellazione di viaggi aerei, la riduzione dei viaggi su strada. Complessivamente nel 2020 il consumo mondiale di petrolio si è ridotto del 9% mentre quello del gas del 2%, provocando una riduzione di prezzo che è stato rispettivamente del 34 e del 23%. Con beneficio anche per il clima, dal momento che il 2020 ha registrato una riduzione nelle emissioni di anidride carbonica nell’ordine di due miliardi di tonnellate. Ma la tregua è durata poco.
Consumi e prezzi
Decisi a voler tornare a crescere, molti governi hanno stanziato somme enormi, tutte a debito, per finanziare spese e investimenti di ogni tipo, finalizzati a rilanciare le proprie economie. Basti citare il Next generation Eu, il piano di investimenti messo a punto dall’Unione europea, del valore di 750 miliardi di euro finalizzato alla transizione ed efficienza energetica, all’ammodernamento dei trasporti, alla ricerca industriale, al rafforzamento dell’edilizia sociale, al sostegno di produzioni strategiche. Come potremmo citare l’American rescue plan, il piano di rilancio americano decretato nel marzo 2021 che destina 1.900 miliardi di dollari a interventi a favore di famiglie, enti pubblici e imprese. Senza dimenticare il pacchetto di stimolo economico del valore di 940 miliardi di dollari decretato a fine 2021 dal governo giapponese.
Ed è successo che la ripartenza contemporanea di tutte le economie mondiali ha creato una crescita inaspettata di domanda di prodotti energetici che il mercato ha immediatamente tradotto in aumento dei prezzi. Nel caso del petrolio, le prime tendenze al rialzo si sono palesate già nel novembre 2020 per proseguire lungo tutto il 2021, fino a raggiungere gli 86 dollari al barile a fine anno. Ma la vera mazzata è stata per il gas naturale che, nel corso del 2021, è passato da 7 a 38 dollari per milione di Btu, un aumento del 400%. Eppure, l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, ha certificato che nel 2021 l’aumento dei consumi di gas è stato solo del 4,6%. Dal che si capisce che qualcuno ha avuto interesse a trasformare in incendio ciò che era solo un focherello. Questo qualcuno è il mondo della finanza che riesce ad agire incontrastata per l’incapacità della politica di metterle dei freni.
il ruolo dei futures
In Europa, uno dei luoghi in cui si determina il prezzo del gas è la Borsa di Amsterdam, dove non si stipulano solo contratti di compravendita a consegna immediata, ma anche contratti futures, tecnicamente a consegna futura la cui vera finalità è scommettere sull’andamento dei prezzi. Chi punta sul rialzo si impegna a comprare a una certa data futura ai prezzi di oggi; chi invece punta sul ribasso si impegna a vendere in futuro ai prezzi d’oggi. Ma quando il contratto giunge a scadenza, fra le parti non avviene nessuno scambio di prodotto fisico. Più semplicemente la parte perdente salda quella vincente versando la differenza fra il prezzo pattuito e quello che, nel frattempo, è maturato. Potrebbe anche succedere che nessuno paghi niente a nessuno come avviene quando le due parti sono diverse solo in apparenza mentre nei fatti sono entrambe espressione della stessa realtà economica che gestisce il gioco speculativo.
Tutti sanno che i contratti futures si stipulano solo per scopi speculativi. Ma poiché il mercato è stupido, o forse fin troppo cinico, non fa differenza fra contratti veri, stipulati per il reale interesse a commerciare, e quelli fasulli, stipulati per guadagnare sulle variazioni di prezzo. E facendo di tutta l’erba un fascio, interpreta come domanda reale quella che in realtà è solo domanda fittizia, creata apposta per mandare alle stelle i prezzi degli scambi reali. Non di rado con conseguenze sociali disastrose. In Europa, l’aumento del prezzo del gas ha fatto esplodere le bollette dell’energia elettrica e del riscaldamento, gettando milioni di famiglie nella disperazione. E anche se non si saprà mai chi ha orchestrato il tutto, è un fatto che nel 2021 le imprese energetiche hanno aumentato considerevolmente i propri profitti. Valga come esempio l’Eni, che è passata da una perdita di 750 milioni di euro nel 2020 a guadagni per 4,5 miliardi nel 2021. O la Shell, che è passata da 5 miliardi di dollari di profitti nel 2020 a 19 miliardi nel 2021. Nel silenzio più assordante della politica che, volendo, potrebbe assumere provvedimenti normativi e fiscali per contenere la finanza speculativa. Ma tant’è: questo sistema non è organizzato per la dignità delle persone, ma per permettere a chi già è ricco di arricchirsi sempre di più.
il gas russo e quello degli altri
Intanto altre nubi si stanno addensando in Europa, gettando pesanti ombre sul futuro del mercato del gas. Si tratta delle «tensioni» con la Russia che è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di gas naturale. L’Unione europea importa il 41% del suo gas da Mosca, ma dopo l’aggressione russa all’Ucraina, sta cercando altri fornitori. Anche l’Italia, che dipende dal gas russo per il 38%, sta cercando delle alternative, ma non è detto che ne trovi di preferibili né da un punto di vista politico, né ambientale. Il governo ha individuato parte della soluzione nel potenziamento di forniture di gas naturale da parte di altri tre paesi con i quali l’Italia è già collegata attraverso gasdotti: Algeria, Libia e Azerbaigian. Peccato che tutti e tre siano classificati come paesi non liberi da parte di Freedom House, l’istituto statunitense che annualmente attribuisce un voto a tutti i paesi del mondo in base al loro rispetto per le libertà civili e i diritti politici.
Il governo italiano è convinto che un altro pezzo di soluzione risieda nel potenziamento di importazione di gas naturale liquefatto (Gnl), che però presenta due generi di problemi: è più costoso ed è più rischioso. Più costoso sia per il trasporto che avviene via nave, sia per il doppio cambio di stato del gas: prima da gassoso a liquido, poi di nuovo da liquido a gassoso. Più rischioso per gli incidenti a cui possono andare incontro le navi da trasporto, ma anche i rigassificatori di solito posti in mare a qualche chilometro dalla costa di fronte a città importanti, come quello che si trova davanti a Livorno. L’Eni ha fatto sapere che le quote aggiuntive di Gnl potrebbero arrivare da Stati Uniti, Mozambico, Qatar, Angola, Repubblica del Congo. Di essi solo gli Stati Uniti sono classificati come paese libero. Tutti gli altri sono classificati come non liberi a eccezione del Mozambico, definito parzialmente libero. Ma, al di là del dato politico, c’è quello sociale: tutte le organizzazioni non governative denunciano che in Africa lo sfruttamento delle materie prime non porta giovamento alla popolazione locale, mentre aggrava le disuguaglianze per l’alto grado di corruzione che arricchisce solo l’élite politica.
Dubbi e speranze
Per finire, due parole sulla posizione degli Usa. Come esportatore di gas, gli Stati Uniti vivono la Russia come un concorrente: ogni metro cubo di gas esportato dalla Russia è un metro cubo di meno che può essere venduto dagli Usa. E allora è spontaneo chiedersi se la politica di isolamento messa in atto nei confronti della Russia, e sollecitata anche all’Unione europea, non sia dettata più da ragioni di egemonia commerciale ed economica che dalla volontà di difendere i valori politici e sociali dell’Ucraina. Se così fosse, si dimostrerebbe come il cinismo dei grandi sia senza limiti, come senza limiti sarebbe il servilismo dei piccoli disposti a tutto pur di assecondare i desiderata della potenza di riferimento.
L’unico modo per uscirne è convertirsi a un altro modello economico non più orientato alla crescita infinita di produzione, vendite e consumo, ma alla costruzione della dignità della persona nel rispetto del senso del limite.
Francesco Gesualdi
Beato Benedict Tshimangadzo Daswa
Il 13 settembre 2015, in un prato a Tshitanini, un paese non lontano dalla cittadina di Thohoyandou nel Nord del
Sudafrica, provincia del Limpopo, il cardinal Angelo Amato ha dichiarato beato Benedict Daswa, un maestro ucciso dalla gente del suo stesso villaggio per aver rifiutato di piegarsi alla stregoneria. Prima della beatificazione il suo corpo era stato riesumato e i suoi resti erano stati trasferiti nella chiesa che aveva contribuito a costruire, a Nweli, uno dei villaggi di Tshitanini.
Tre fatti legano il beato Benedict Daswa al suo paese: è nato il 16 giugno 1946, in quello che sarebbe diventato nel 1976 il giorno dell’inizio della rivolta di Soweto che avrebbe segnato l’inizio della lotta contro l’apartheid, ed è stato ucciso il giorno della fine dell’apartheid (il 2 febbraio 1990). Infine riposa in una chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, patrona del Sudafrica.
Il beato Benedict nasce come Tshimangadzo Samuel Daswa il 16 giugno 1946, figlio primogenito di Tshililo Petrus e Thidziambi Ida Daswa. Ha tre fratelli più piccoli e una sorella. La famiglia, di religione tradizionale, appartiene alla tribù dei Lemba che vivono in quello che un tempo era il bantustan (territorio assegnato a una specifica etnia, ndr) del Venda, nel Nord del Sudafrica, vicino ai confini con Botswana, Zimbabwe e Mozambico. Dopo la morte del padre in un incidente, Daswa si assume la responsabilità dei suoi fratelli più piccoli e, appena comincia a lavorare, contribuisce a pagare per la loro educazione e li incoraggia sempre a studiare.
Durante le vacanze scolastiche va a stare con uno zio a Johannesburg dove trova un lavoro part time. Lavorando, diventa amico di un giovane bianco di fede cattolica. In più, molti dei suoi coetanei e compagni di scuola, dell’etnia Shangaan (un sottogruppo dei Tsonga, che vivono sia in Sudafrica – circa un milione e mezzo – che nel Mozambico e nello Zimbabwe – 4,5 milioni), sono cattolici. Daswa si converte così al cattolicesimo all’età di 17 anni. Prende il nome di Benedict da san Benedetto, il famoso santo del VI secolo, e in onore di Benedetto Risimati, il catechista che istruisce lui e altri sotto un albero (Risimati, vedovo, sarà ordinato sacerdote nel 1970 e morirà a 64 anni nel 1976). Dopo aver ricevuto la cresima da parte dell’abate vescovo benedettino Clemens van Hoek a Sibasa, antica capitale del bantustan, nel 1963, Daswa si dà da fare per insegnare la fede cattolica ai membri più giovani della sua comunità.
Un laico cattolico attivo
Dopo aver conseguito il titolo di studio di maestro, comincia a insegnare nella Tshilivho Primary School di Ha-Dumasi, diventandone preside nel 1979. È attivo nei sindacati degli insegnanti, nello sport e nella vita quotidiana del suo villaggio, Mbahe. Nella comunità, Daswa guida le funzioni domenicali quando il sacerdote non c’è e insegna catechismo ai giovani e agli anziani. Non ha ancora una casa tutta sua, ma d’accordo con la moglie, aiuta a costruire la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione a Nweli, affinché la comunità abbia un luogo decente per pregare. Questa chiesa ospiterà poi la sua tomba.
Amante della terra, coltiva con cura un grande orto, dal quale dona gratuitamente ortaggi ai poveri. Diventa membro, e poi anche segretario, del consiglio dell’headman (capo locale, equivalente più o meno al nostro sindaco, ndr) del villaggio. Nel consiglio si fa notare per la sua risoluta onestà, integrità e amore per la verità.
«Era aperto alla vita, al bene. Era uno che aiutava la gente. L’intero villaggio dipendeva dal suo piccolo orto per le verdure. Alcuni erano così poveri che lui lasciava loro le verdure anche senza pagare», ricorderà suo figlio maggiore, Lufuno, il primo di otto. Benedict sposa Shadi Eveline Monyai nel 1974, solennizzando la loro unione in chiesa nel 1980. Avranno otto figli, l’ultimo dei quali nascerà quattro mesi dopo la sua morte (Shadi, invece, morirà nel 2008).
La sua fede influisce profondamente sul suo modo di comportarsi, preoccupato com’è di vivere più il Vangelo che le tradizioni locali, e per questo è anche pesantemente criticato. Fa anche dei lavori che la tradizione ritiene riservati alle donne, come raccogliere legna e lavare i vestiti nel fiume, ma per lui condividere la cura dei bambini e le faccende domestiche con sua moglie fa parte dell’impegno matrimoniale.
Lufuno Daswa, che avrà 14 anni quando suo padre verrà ucciso, in seguito lo ricorderà come «un leader naturale» nella sua famiglia e nella Chiesa. «Tutta la famiglia era unita grazie a lui. Era un gran lavoratore. Era un visionario. Aveva piani per il futuro. Aveva fatto progetti per la nostra famiglia, per la nostra educazione. Era il 1980, ma già allora ci ha mandato nella migliore scuola della regione, la Catholic St. Brendan’s school. Noi potevamo andare da lui liberamente, come da un amico. Era tutto ciò che si poteva chiedere da un padre».
Tra fede e stregoneria
Sono proprio le sue scelte di fede a metterlo presto in conflitto con alcuni degli abitanti del villaggio e membri del consiglio del capo. Essi si risentono per la sua opposizione alla pratica della stregoneria, una pratica profondamente legata alla cultura tradizionale. Il conflitto ha origini nel calcio. Nel 1976, infatti, Benedict fonda una squadra chiamata Mbahe Eleven Computers. Dopo che la squadra subisce una serie di sconfitte, gli suggeriscono di chiamare un sangoma (guaritore stregone tradizionale, ndr) per fare dei riti propiziatori per far vincere la squadra. Benedict si oppone all’idea, ma nella votazione viene sconfitto, e lo stregone viene chiamato. Così lascia il club e forma una nuova squadra, gli Mbahe Freedom Rebels. Quella decisione scatena una lunga campagna di odio e gelosia nei suoi confronti da parte di alcuni. Viene perfino accusato di essere lui stesso uno stregone da gente invidiosa del suo successo, della sua bella famiglia, dell’orto che prospera e dell’amicizia che ha con il capo del villaggio.
Nel 1989 la crisi si acuisce. A novembre ci sono una serie di insoliti e fortissimi temporali con lampi, tuoni e soprattutto tanti fulmini che incendiano anche alcune capanne. Questo fenomeno si ripete di nuovo il 25 gennaio 1990. Per questo il 28 gennaio il capo villaggio convoca una riunione straordinaria del consiglio per vedere cosa fare. Benedict non riesce a essere presente all’incontro fin dall’inizio. Quando arriva il consiglio ha già deciso di cercare l’aiuto di un sangoma per scovare la «strega» che ha causato tutti quei fulmini. Ovviamente il sangoma non farà niente gratis, così per pagarlo decidono di richiedere cinque rand (più o meno l’equivalente di un euro, ndr) a ogni membro della comunità. Benedict cerca invano di far capire che i fenomeni meteorologici sono naturali e quindi non possono essere attribuiti alle streghe. Sottolinea anche che l’ascolto del reponso dello stregone causerà la morte di qualche persona innocente, ma inutilmente. Ci sono anche altri leader religiosi nel consiglio, ma la paura è più forte della loro fede.
Daswa allora si rifiuta di contribuire, sottolineando che l’uso di un guaritore tradizionale costituisce stregoneria e quindi è in conflitto con la sua fede. Così diversi membri del consiglio si sentono offesi per quella che percepiscono come una mancanza di rispetto per le loro convinzioni e cominciano a complottare per ucciderlo.
Una data importante
Il 2 febbraio 1990 – la festa della Presentazione del Signore al tempio – è una giornata intensa. Quel venerdì, è il giorno in cui il presidente Frederik Willem de Klerk annuncia la legalizzazione dei movimenti di liberazione (dell’African national congress – Anc, del Panafrican congress e del Partito comunista sudafricano) e la liberazione di Nelson Mandela. Daswa comincia il giorno lavorando nel suo orto dove raccoglie un bel po’ di cavoli, li mette in ceste che carica sul suo pickup, poi va fino a Makwarela dal medico per portare sua cognata con il bambino malato. Da lì si reca direttamente a Thohoyandou per consegnare al parroco, padre John Finn, tutto il carico di cavoli per i poveri. Mentre torna a casa incontra un giovane che cammina con un sacco di farina sulle spalle e gli dà un passaggio.
Riprende poi il viaggio per tornare a casa a Mbahe, quando alle 19.30, arrivando vicino alcampo da calcio degli Eleven Computers, nei pressi della scuola di cui lui è preside, vede la strada bloccata da tronchi e sassi. Benedict scende dal pickup per rimuovere i tronchi e subito un gruppo di uomini gli è addosso, lo pestano a sangue e lo colpiscono con pietre.
Sanguinante, scappa attraverso il campo da calcio trovando riparo nella cucina di un rondavel (capanna rotonda tradizionale, ndr). Ma gli assalitori lo inseguono e minacciano di morte la proprietaria della capanna perché riveli il nascondiglio di Daswa. Due ragazzi lo tirano fuori a forza dal rondavel. Lui ne abbraccia uno, implorando per la sua vita. Un uomo però gli dà addosso brandendo una mazza di legno e gli sferra il colpo fatale. Benedict prega dicendo: «Dio, nelle tue mani, ricevi il mio spirito». Il colpo lo butta a terra con la testa rotta. Gli assalitori gli versano acqua bollente sulla testa, per assicurarsi che la loro vittima sia morta. E fuggono.
Più forte del male
Il fratello di Benedict, Thanyani, è il primo membro della famiglia ad arrivare dove si trova il suo corpo. Quando la loro madre vede ciò che è stato fatto a suo figlio, sviene. Nei giorni che precedono il funerale di Benedict, padre Finn, le suore del Santo Rosario e la comunità cattolica vanno a casa Daswa ogni sera per pregare con la famiglia. «Ho un ricordo molto distinto: è stata la prima e unica volta che ho percepito la presenza del male», dirà padre Finn ricordando l’atmosfera di paura, tensione e ostilità nel villaggio.
Gli assassini non saranno mai condannati per mancanza di prove. Alcuni di loro continueranno ad andare ai Daswas (i centri dove si distribuisce cibo per i poveri, ndr) per ricevere frutta e verdura.
Lufuno Daswa, il figlio, ricorderà la sua ultima conversazione con il padre: «Stavo andando al secondo anno di scuola secondaria. Mi ha accompagnato alla
St. Brendan’s. Abbiamo chiacchierato a lungo. Mi stava insegnando alcune parole in sepedi, su come salutare mia madre. Abbiamo pregato e poi ci siamo abbracciati. Poi ha chiuso la portiera della macchina e io ho chiuso la mia, e lui se n’è andato. Penso che fosse il 22 gennaio, poco più di una settimana prima della sua scomparsa». Il funerale di Benedict è celebrato il 10 febbraio, il giorno prima del rilascio dal carcere di Nelson Mandela, nella chiesa di Nweli che Daswa ha contribuito a costruire. È presieduta da padre Finn con altri sacerdoti. Tutto il clero indossa paramenti rossi in riconoscimento della loro convinzione che Benedict sia morto martire per la sua fede.
Ricordo di un martire
All’inizio, la devozione a Daswa cresce localmente, fino a quando, alcuni anni dopo, il vescovo Hugh Slattery di Tzaneen ne viene a conoscenza. Il vescovo, che più avanti scriverà un libro sulla vita di Benedict Daswa, apre un’inchiesta sulla morte del martire nel 2005 e la completa nel 2009, quando viene inviata in Vaticano.
Nell’ottobre 2014, i consultori teologi della Congregazione per le cause dei santi raccomandano all’unanimità che Daswa sia dichiarato martire.
Benedict Daswa è beatificato il 13 settembre 2015 dal cardinale Angelo Amato, a nome di papa Francesco. Il successore di mons. Slattery, mons. João Rodrigues, presenta il decreto di beatificazione alla folla di oltre 35mila persone, tra cui il vicepresidente Cyril Ramaphosa.
I canti della celebrazione, a cui partecipano la madre, il fratello e la moglie con gli otto figli, sono sentiti a chilometri di distanza. C’è padre Augustine O’Brien che ha battezzato Daswa nel 1963, e padre John Finn, che ha celebrato il suo funerale.
Il cardinale Amato ricorda che Daswa è stato un uomo buono e gentile e, soprattutto «è stato un vero missionario di Cristo che è riuscito a convincere i suoi compagni ad abbracciare la fede cattolica».
Il vicepresidente Ramaphosa sottolinea come la beatificazione sia un motivo di grande gioia per tutto il Sudafrica e che è la prima volta che la Chiesa cattolica riconosce come martire di Cristo un sudafricano.
Daswa è stato un uomo che ha avuto il coraggio di pagare di persona per quello che riteneva giusto, combattere la stegoneria per difendere la vita di anziane donne innocenti, pur sapendo di rischiare di perdere la sua stessa vita.
La festa di Daswa è il 1 ° febbraio.
tradotto e adattato da «Southern Cross», giugno 2021
Daswa e la politica
Nato il 16 giugno e martirizzato il 2 febbraio, due date molto importanti in Sudafrica. Daswa era politicamente schierato?
Non so se lo fosse o meno, ma certo era dalla parte della giustizia e dei poveri. Le persone di profonda fede, anche se dicono di non essere politicamente schierate, tendono a mettersi nei guai con il potere sia per il loro comportamento sia perché si fanno domande come: «Perché siamo poveri?». La loro preoccupazione di alleviare tutto ciò che mantiene le persone in schiavitù, li fa entrare in contatto con i poteri politici in modi che possono causare ad alcuni di loro persecuzione o addirittura la morte.
Penso poi che per noi cattolici il 2 febbraio abbia un significato più profondo di quello legato alla storia politica. È la festa della Presentazione del Signore. Molto interessante che quando Gesù fu presentato a Dio nel Tempio, la vita di Daswa fu presentata a Dio suo creatore. Che giorno per essere chiamati alla vita eterna.
suor Tshifhiwa Munzhedzi Op, postulatrice della causa di beatificazione
Cosa rende speciale il beato Daswa?
Se non fosse stato martirizzato, Daswa sarebbe stato uno dei tanti santi sconosciuti della Chiesa. Cosa lo rende così vicino alla gente? Cosa c’è in lui che affascina i comuni fedeli? In primo luogo affascina come padre di famiglia.
La Chiesa ha molti santi, ma la maggior parte di loro sono religiosi. Il beato Daswa era sposato, un normale padre di famiglia, con figli e che lavorava come farebbe qualsiasi papà per sostenere la propria famiglia. D’altra parte, il suo processo di canonizzazione mostra proprio che i santi sono persone comuni che fanno cose ordinarie. È il modo in cui svolgono queste attività quotidiane che li rende diversi. Ognuna delle loro azioni è influenzata dalla loro fede in Dio e si connette costantemente con il loro Creatore. Questo è ciò che ha vissuto il beato
Daswa.
In secondo luogo, attira come educatore.
Daswa ha svolto il suo lavoro non solo concentrandosi sui risultati in classe. Vedeva i suoi allievi come esseri umani che hanno bisogno di essere guidati in tutti gli aspetti della vita. Lo ha fatto, e così ha insegnato loro responsabilità e abilità della vita. Era pronto a sostenere l’educazione dei suoi alunni anche quando era contro la volontà di genitori che non ne capivano proprio l’importanza. Nell’educare i bambini, ha aiutato a educare anche i genitori.
In terzo luogo, convince come convertito.
Come i primi cristiani, la sua conversione al cristianesimo è stata completa. Ha accettato Dio e ha vissuto la sua vita dedicandosi alla costruzione di quella relazione con Lui senza essere timido o vergognarsi di riconoscerlo in pubblico.
In quarto luogo, è una persona semplice.
Anche se il beato Daswa è andato a scuola e ha poi raggiunto una posizione sociale importante, è sempre rimasta in lui una grande semplicità. Penso che questa caratteristica lo renda attraente per le persone. È come se anche io potessi diventare quello che era lui. Penso che sia in quella semplicità che Cristo ha potuto trovare una casa dove dimorare.
E quinto, è esemplare la sua generosità.
Daswa era generoso, eppure non sembrava essere uno che potesse essere ingannato facilmente. Condivideva ciò che aveva con coloro che non avevano, ma si aspettava anche che la persona crescesse e si elevasse seguendo il suo esempio. Era ben consapevole che uno stomaco vuoto non può svolgere il suo lavoro come dovrebbe. Così, aveva schemi di alimentazione per i suoi alunni e dava frutta e verdura dal suo giardino ai vicini bisognosi.
suor Tshifhiwa Munzhedzi Op, postulatrice della causa di beatificazione
Un Vescovo servo di consolazione
L’ordinazione episcopale del primo missionario della Consolata venezuelano nominato ausiliare di Caracas, ha coronato le celebrazioni del 50° anniversario della presenza dell’Istituto nel paese.
In una bella e sentita celebrazione nella chiesa di San Giovanni Bosco, nella capitale del Venezuela, sabato 12 marzo, il cardinal Baltazar Porras, amministratore apostolico dell’arcidiocesi, accompagnato da monsignor Jesús Gonzáles de Zárate, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, e monsignor Raúl Biord Castillo, Sdb, vescovo di La Guajira, hanno consacrato i due nuovi vescovi ausiliari di Caracas: monsignor Lisandro
Rivas, missionario della Consolata, che fino a ora era stato rettore del Pontificio collegio San Paolo di Roma, e monsignor Carlos Márquez Delima, del clero della medesima arcidiocesi.
Celebravano con loro una ventina di vescovi, tra cui monsignor Francisco Múnera Correa, arcivescovo di Cartagena de Indias e monsignor Joaquín Humberto Pinzón, del vicario apostolico di Puerto Leguizamo Solano, ambedue consolatini dalla Colombia.
Il superiore generale, padre Stefano Camerlengo, introducendo la celebrazione, ha ricordato ai due nuovi vescovi che l’episcopato nella Chiesa non è un ruolo di potere destinato a valorizzare la carriera di chi lo riceve, ma un servizio per il bene di tutti, per la crescita e il cammino della comunità. Li ha chiamati «beati», per ricordare loro che, secondo il Vangelo, il termine «beati» deve essere tradotto così: vescovi che stanno «in piedi, in cammino, in marcia, poveri, perché Dio cammina e combatte con voi ed è per voi garanzia di felicità e fonte di gioia eterna. E questo è il servizio per il quale sono chiamati: aiutarci a stare in piedi». Ha poi concluso invitandoli a essere testimoni delle Beatitudini e, con le parole del beato Allamano, a camminare nel Signore: «Avanti in Domino».
Chi è Lisandro rivas
Monsignor Lisandro è nato in un paesino sui monti vicino a Boconó, nello stato di Trujillo, Venezuela. Figlio di Allirio Domingo Rivas e Durán Estéfana, ha una sorella, Lisay. La mamma, donna di profonda fede, lo ha formato a una religiosità semplice e concreta alla scuola di una vita dedicata al lavoro della terra.
Dopo aver conosciuto i Missionari della Consolata, ha iniziato il suo percorso formativo a Caracas; ha poi studiato filosofia all’istituto Juan German Roscio a Los Teques, e continuato la teologia in Inghilterra. Ordinato sacerdote il 19 agosto 1995, il giovane andino ha preso le sue valigie e iniziato il viaggio che lo ha condotto nelle missioni del Kenya, dove ha lavorato per cinque anni nel Meru, prima a Kagaene, poi nell’antica missione di Mekinduri e, da ultimo, quando queste sono state consegnate alla diocesi, nella nuova missione di Kagaene.
Nel 2001 l’Istituto gli ha chiesto di ritornare in patria per fare il formatore nel seminario, dove ha svolto un intenso lavoro di accompagnamento dei futuri sacerdoti, oltre a dedicarsi a diversi impegni nell’ambito di «Giustizia e pace», specialmente al servizio dei carcerati. Incaricato della formazione dei «Laici della Consolata», è stato di grande aiuto per la crescita di questo gruppo. In seguito, l’Istituto lo ha inviato come rettore del Seminario Imc di Bogotà, in Colombia, e poi a Roma, al servizio del Collegio pontificio San Paolo di Propaganda Fide, chiamato anche seminario missionario.
Qui ha ricevuto la notizia della sua designazione per il nuovo servizio pastorale in Venezuela. Padre Lisandro ricorda: «A Roma sono stato in comunità con 192 sacerdoti diocesani che provenivano da 45 paesi del mondo. Ciò mi ha permesso di sentirmi come un fratello universale».
La diocesi che lo riceve
Caracas è la diocesi della capitale venezuelana, città con oltre tre milioni di abitanti. Essendo la sede del governo, è stata la prima che ha risentito l’effetto di tutti i confronti e scontri che hanno segnato il paese durante più di vent’anni di «rivoluzione bolivariana». L’arcidiocesi ha più di 5 milioni di abitanti e, come ha ricordato il cardinale Baltazar Porras, richiede un governo pastorale di grande complessità.
In questa diocesi i Missionari della Consolata sono presenti da più di 50 anni (vedi dossier in MC novembre 2021). In Caracas hanno la Casa regionale, il seminario propedeutico e filosofico e, da più di vent’anni, la parrocchia San Joaquin e Santa Ana a Carapita, un quartiere periferico tra i più poveri della città. Lì il nuovo vescovo ha poi celebrato la sua prima messa il 13 marzo.
Vescovo e missionario
Il cardinal Baltazar Porras, in riferimento al fatto che padre Lisandro appartiene a un istituto missionario, ha insistito: «Adesso dovrai vivere lo spirito missionario in cui sei cresciuto e che hai vissuto oltremare in questa terra caraqueña».
In effetti, la nomina di monsignor Lisandro Rivas come vescovo ausiliare di Caracas, avvenuta precisamente nel mese in cui i Missionari della Consolata completavano la celebrazione del 50° di presenza nel paese, è stata interpretata come un segno provvidenziale. In un paese che è stato straziato da conflitti politici e da una complessa crisi umanitaria ancora in corso, la direzione verso cui orientare il servizio pastorale non può essere altra che: «Consolate, consolate il mio popolo. Ditegli che il suo peccato è stato già perdonato».
Il nuovo vescovo è ben cosciente che la gente è molto provata e scoraggiata dalla situazione che sta vivendo. Per questo vuole una evangelizzazione che crei vicinanza ed empatia. Nel suo servizio di consolazione vuole stare con la gente, ascoltarla e accompagnarla, non solo dentro la chiesa ma là dove vive, per ricostruire insieme il paese. In questo impegno sa bene di non essere solo, ma di avere il supporto di tutta la famiglia della Consolata: padri, suore, laici e amici.
traduzione e adattamento di Gigi Anataloni
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Rimesse e rifugiati
Il 16 giugno è la Giornata mondiale delle rimesse familiari, mentre il 20 giugno è la Giornata mondiale del rifugiato. Due occasioni per farsi un’idea dell’ampiezza di questi fenomeni e per riflettere sulla vita delle persone che vivono lontano da casa e sul contributo che danno alle comunità di origine e di soggiorno.
Secondo le proiezioni diffuse lo scorso novembre dalla Banca Mondiale, le rimesse dei lavoratori migranti verso i paesi a medio e basso reddito avrebbero raggiunto nel 2021 i 589 miliardi di dollari, con un incremento del 7,3% rispetto al 2020, quando si erano attestate sui 549 miliardi. La ripresa del 2021, sottolinea la Banca, fa seguito alla tenuta osservata nei flussi del 2020, quando le rimesse si erano ridotte solo dell’1,7% rispetto all’anno prima, nonostante il pianeta si trovasse, a causa della pandemia da coronavirus, in una delle più profonde recessioni di sempre e le prime stime avessero indicato un possibile calo delle rimesse del 19,7%@.
Il fenomeno, si legge sul sito ufficiale della Giornata mondiale delle rimesse familiari, interessa un miliardo di persone, cioè circa una persona ogni otto, il 14% della popolazione mondiale: sono infatti 200 milioni i lavoratori migranti che inviano risorse e 800 milioni i loro familiari che le ricevono. Le famiglie beneficiarie usano tre quarti del denaro ricevuto per soddisfare bisogni primari: cibo, istruzione, cure mediche@.
Sempre secondo i dati presenti sul sito, il totale delle rimesse mondiali – considerando quindi tutti i paesi del mondo e non solo quelli a basso e medio reddito – sarebbe pari a 859 miliardi di dollari. La metà dei fondi inviati va alle aree rurali e per ottanta paesi queste risorse rappresenterebbero oltre il 3% del Pil.
Secondo le stime, che saranno poi corrette o confermate nel corso di quest’anno, i primi dieci paesi riceventi nel 2021 sono stati India (87 miliardi di dollari), Cina e Messico (53), Filippine (36), Egitto e Pakistan (33), Bangladesh (12), Vietnam e Nigeria (18) e Ucraina (16). Per alcuni paesi il peso delle rimesse sull’economia nazionale è decisivo: per Tonga, rappresenta il 44% del Pil, per il Libano il 35%, il 30% per il Kirghizistan.
Nel 2021, secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), l’aiuto pubblico allo sviluppo a livello globale è stato di 178,9 miliardi di dollari: un terzo delle rimesse verso i paesi a medio e basso reddito@.
Difficoltà di misurazione
Non è facile quantificare con precisione i volumi delle rimesse familiari. La difficoltà emerge già dal confronto fra il dato riportato dal sito della Giornata mondiale circa il totale delle rimesse planetarie, gli 859 miliardi di dollari citati sopra, e il totale dei flussi di rimesse indicati dalla Banca Mondiale, secondo la quale sarebbero pari a 751 miliardi di dollari.
Come osserva uno studio del Migration data portal, un portale sulla migrazione curato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) insieme ad altri partner, fra cui l’Agenzia per la cooperazione tedesca, occorre innanzitutto chiarire che Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale usano, per determinare il volume delle rimesse, i dati statistici relativi alla bilancia dei pagamenti nazionale fornita dalle banche centrali dei vari paesi. In particolare, a comporre le rimesse contribuiscono due voci: da un lato, i compensi percepiti dai lavoratori dipendenti nel paese ospitante, a loro volta composti dai redditi dei lavoratori migranti temporanei e del personale di ambasciate, organizzazioni internazionali e società straniere; dall’altro, i trasferimenti personali da un paese all’altro, fatti da privati in favore di privati@.
La categoria «compensi dei dipendenti» può contribuire a «sovrastimare in modo significativo le rimesse dei migranti se un paese ha una grande presenza delle Nazioni Unite e/o di un’ambasciata e ospita fabbriche di società transnazionali che impiegano un gran numero di lavoratori. Questi dipendenti possono essere contati come “non residenti” o migranti nel paese e i loro stipendi essere registrati come rimesse».
Quanto ai trasferimenti personali, la categoria comprende le transazioni che vanno da un paese all’altro, a prescindere dal fatto che a inviare o ricevere denaro sia un migrante: per questo, l’invio di somme anche consistenti di denaro da parte di investitori privati o delle diaspore per effettuare investimenti, acquisti o altre transazioni finanziarie possono finire nel computo, anche se è difficile immaginare che queste operazioni siano rimesse familiari.
Se questi fattori portano a sovrastimare i volumi, ce ne sono altri che invece possono contribuire a sottostimarli: il Fondo monetario e la Banca Mondiale, spiega lo studio su Migration data portal, si concentrano sui fondi trasferiti attraverso i canali ufficiali, cioè le banche, mentre le piccole transazioni fatte tramite le agenzie come Western Union, le poste o i servizi via cellulare, come Sendwave legato a Mpesa per l’East Africa, non sempre sono inclusi, meno ancora lo sono i passaggi di fondi informali tramite parenti e amici. «Poiché questi trasferimenti non sistematicamente inclusi nella bilancia dei pagamenti possono avere volumi significativi, specialmente fra paesi del Sud del mondo, è possibile che i dati ufficiali sottostimino il fenomeno fino al 50%».
Costi alti per l’invio
Secondo quanto riportato da Ifad, il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite, in media i migranti inviano a casa una cifra compresa fra 200 e 300 dollari ogni mese o bimestre. Questa cifra, chiarisce Ifad, rappresenta solo il 15% di ciò che guadagnano, mentre l’85% rimane nei paesi ospitanti. Tuttavia, la cifra inviata può rappresentare fino al 60% del reddito familiare@.
I costi dell’invio dei fondi sono piuttosto elevati: in media il 6,4% della somma inviata nel secondo trimestre del 2021, con picchi fino all’8% nell’Africa subsahariana. Va un po’ meglio se si utilizzano i canali digitali, che nel primo trimestre dell’anno scorso hanno permesso di abbassare i costi fino al 5,1%. In entrambi i casi, comunque, i costi rimangono piuttosto lontani dalla soglia del 3% entro il 2030 indicata dall’obiettivo di sviluppo sostenibile 10c.
Le limitazioni di movimento imposte con i lockdown hanno fatto aumentare le transazioni digitali, che hanno raggiunto i 12,7 miliardi di dollari crescendo del 65% rispetto all’anno precedente.
Ma il principale ostacolo all’uso degli strumenti digitali continua a essere il fatto che questi necessitano di un conto corrente per essere attivati: moltissimi migranti e i loro familiari continuano a non avere conti correnti nei loro paesi d’origine.
Ai costi elevati si aggiungono poi in alcuni casi i rischi legati al mal funzionamento degli intermediari: lo scorso aprile il New York Times riportava una denuncia da parte dell’ufficio per la protezione finanziaria dei consumatori e del procuratore generale dello stato di New York ai danni della società di trasferimento fondi MoneyGram, accusata di aver danneggiato i consumatori ritardando inutilmente le transazioni, non effettuando i rimborsi delle commissioni richieste quando gli invii non venivano completati in tempo e omettendo di indagare e correggere gli errori commessi nei trasferimenti@.
Rifugiati in aumento
Secondo i dati aggiornati allo scorso novembre dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), c’erano nel 2021 nel mondo 48 milioni di sfollati interni, 26,6 milioni di rifugiati e 4,4 milioni di richiedenti asilo, per un totale di 84 milioni di persone: più o meno l’equivalente della popolazione della Germania.
Circa il 42%, cioè 35 milioni, sono bambini sotto i 18 anni. Due su tre di questi provenivano da cinque paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar, mentre il 39% era ospitato in cinque paesi: Turchia (3,7 milioni), Colombia (1,7), Uganda (1,5), Pakistan (1,4) e Germania (1,2). Sono i paesi in via di sviluppo ad accogliere l’85% dei rifugiati e tre rifugiati su quattro sono ospitati nei paesi limitrofi a quelli di partenza.
Un’altra grande crisi umanitaria del pianeta è quella dello Yemen, con 4,3 milioni di sfollati interni, dei quali il 79% sono donne e bambini, e oltre 23 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria. Nell’aggiornamento di aprile 2022, l’Alto commissariato riportava che per garantire assistenza a queste persone nell’anno in corso erano necessari 291,3 milioni di dollari, ma al 12 aprile solo 49,2 milioni erano stati messi a disposizione dai vari donatori dell’Unhcr@. Resta poi irrisolta anche la crisi siriana, con 6,7 milioni di sfollati interni e 6,6 milioni di rifugiati nel mondo, di cui 5,6 milioni accolti nei paesi confinanti con la Siria@.
Chiara Giovetti
Ucraina, rimesse e rifugiati
Secondo i dati disponibili sul sito dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, al 26 aprile erano 5.317.219 le persone che avevano lasciato l’Ucraina dallo scoppio della guerra, il 24 febbraio. Di questi, 2,9 milioni si erano spostati in Polonia, 793mila in Romania, 627mila in Russia, 507mila in Ungheria, 437mila in Moldavia, 360mila in Slovacchia e poco meno di 25mila in Bielorussia@.
A metà 2020 gli ucraini che vivevano al di fuori del paese erano 6.139.144, di cui 2.778.617 uomini e 3.360.527 donne, più o meno equamente divisi tra Europa e Federazione russa. L’Unione europea ne ospitava circa 833mila, di cui quasi 290mila in Germania, 272mila in Polonia e poco meno di 250mila in Italia@.
La Banca mondiale riporta i dati più recenti della banca nazionale ucraina, secondo i quali le rimesse dei lavoratori ucraini verso il paese avevano superato nel 2021 i 19 miliardi e rappresentavano il 12% del Pil, cioè tre volte tanto il valore dell’investimento diretto estero. La stima per il 2022 è che i trasferimenti aumentino dell’8%: è infatti probabile che la quota di rimesse dei lavoratori ucraini dalla Russia, già diminuita dal 27% al 5% negli ultimi sei anni, subisca un ulteriore, drastico calo a causa della guerra, ma venga più che compensata dalle rimesse provenienti dalla Polonia e dagli altri paesi che ospitano lavoratori ucraini@.
C.G.
Le giornate mondiali Onu, storia
La Giornata mondiale dei diritti umani è la prima delle giornate mondiali stabilite dalle Nazioni unite: si celebra il 10 dicembre e fu approvata dall’Assemblea generale Onu nel 1950, per commemorare la proclamazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione universale dei diritti umani. Tale Dichiarazione è a tutt’oggi il documento più tradotto nel mondo: oltre 500 lingue. Per capire il peso di questa giornata è forse utile ricordare che fu stabilita cinque anni dopo la fine di una guerra che aveva causato decine di milioni di morti e aveva visto, appunto, i diritti umani violati e negati con una sistematicità, un’ampiezza e una ferocia forse mai viste prima nella storia dell’umanità.
Queste giornate, precisa il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite, «sono un’occasione per informare le persone su questioni importanti, per mobilitare le forze politiche nell’incanalare le risorse per risolvere problemi globali e per celebrare e rafforzare i successi dell’umanità».
Le giornate mondiali vengono proclamate dall’Assemblea generale su proposta degli stati membri e, in alcuni casi, dalle agenzie specializzate dell’Onu che vogliono portare l’attenzione su un tema specifico di propria competenza: ad esempio, la giornata mondiale per la libertà di stampa (3 maggio) è stata introdotta dall’Unesco e in seguito adottata dall’Assemblea generale.
Di solito, per ogni giornata mondiale viene predisposto un sito, o almeno una pagina web, dai quali è possibile scaricare materiale informativo e di sensibilizzazione e anche trovare gli eventi organizzati nel proprio paese e nel mondo in occasione della ricorrenza.
Fra le giornate mondiali più note e celebrate vi sono la Giornata internazionale della donna, l’8 marzo, quella della Terra, il 22 aprile e la Giornata internazionale della pace il 21 settembre.
Il «santuario» è quello della Madonna Consolata di Torino e la «vita» è quella del sacerdote Giacomo Camisassa. Così il biografo annota la venuta del giovane e attivo sacerdote Giacomo Camisassa al santuario da tutti considerato il cuore pulsante della spiritualità mariana del popolo torinese. Siamo nel 1880. Lo ha invitato don Giuseppe Allamano, appena nominato rettore, con una lettera dal tono familiare ma che sa vedere lontano: «Veda mio caro, faremo d’accordo un po’ di bene […] e procureremo di onorare il culto della cara nostra Madre la Consolata».
Di indole e carattere diverso, i due sacerdoti si completano mirabilmente nell’avventura di rendere nuovamente il santuario della Vergine Consolata quello che, per secoli, pur tra alti e bassi, è sempre stato considerato la casa della Madonna del popolo torinese, dove in tempi di calamità si prega per ottenere la guarigione, in tempi di guerre si supplica per la pace, e ogni giorno nella preghiera la gente trova consolazione e coraggio, avvicinandosi a Dio attraverso la Vergine Maria.
I primi anni assieme risultano per i due sacerdoti di intenso lavoro e i risultati si notano subito, come afferma Lorenzo Sales nella biografia del beato Allamano: «Sante Messe a tutte le ore; confessionali provvisti sempre di confessori; comunione distribuita ai fedeli quasi di continuo; cerimonie ben fatte; pulizia della chiesa curata fino allo scrupolo; nella sacrestia, per turno, sempre un sacerdote a ricevere i fedeli; poi ordine e puntualità massima; poi ancora e soprattutto preghiera e santità di vita». E la gente accorre numerosa al santuario, non solo in occasione delle festività, ma tutti i giorni.
Incoraggiati dall’arcivescovo, i nostri due sacerdoti mettono poi mano, con entusiasmo, ai lavori di ristrutturazione del santuario che necessita di un restyling radicale e non solo di un abbellimento superficiale. I fedeli aumentano e c’è anche bisogno di un ampliamento, impresa non facile dato il sito angusto in cui si trova la chiesa. E don Camisassa, che segue ogni cosa, suggerisce, progetta con le maestranze perché il risultato sia il migliore possibile. Anche le offerte non vengono a mancare perché la gente nota subito in quei due sacerdoti zelo, impegno e tanto amore alla Vergine Consolata.
L’Allamano e il Camisassa sanno pure guardare lontano. Non solo Torino ma tutto il mondo ha bisogno di avvicinarsi a Dio, passando per la mediazione della Vergine Maria. Ai due Istituti Missionari, che essi fondano all’ombra del santuario, danno il nome di «Consolata» con la missione di annunciare Cristo a tutti i popoli e la consolazione di Dio ai più poveri.
Anche ora dal Cielo continuano a intercedere e proteggere.
padre Piero Trabucco
Anno del Confondatore
I missionari e le missionarie della Consolata hanno dedicato l’anno 2022 al ricordo riconoscente del canonico Giacomo Camisassa, confondatore dei loro istituti, nel centenario della sua morte (18 agosto 1922). Egli fu vicerettore del Santuario della Consolata, amico e fedele collaboratore, compagno nel cammino del rettore, il beato Allamano, per ben 42 anni.
Giacomo Camisassa (1854-1922)
Nacque a Caramagna Piemonte (To). Dopo aver frequentato la bottega di un fabbro, nel 1868 entrò nell’oratorio salesiano di Torino, quindi nel seminario diocesano di Chieri per gli studi filosofici e, nel 1873, passò al seminario di Torino per la teologia. Qui ebbe assistente e direttore spirituale Giuseppe Allamano. Fu ordinato sacerdote nel 1878. Dal 1880 fu accanto all’Allamano come economo, poi come vicerettore del santuario e del convitto ecclesiastico della Consolata. Collaborò con l’Allamano alla fondazione dei missionari e delle missionarie della Consolata (1901 e 1910). Insieme all’Allamano fondò e diresse la rivista «La Consolata» che servì per far conoscere la vita del santuario e delle missioni. Dopo una breve malattia, morì il 18 agosto 1922. A buon diritto è riconosciuto «confondatore» degli Istituti dei missionari e delle missionarie della Consolata.
Amico al suo fianco
Così si sono espressi i superiori generali dei nostri Istituti parlando del Camisassa: «Egli fu un vero uomo di Dio, tutto dedito al Regno, alla Chiesa, alla Missione, ai nostri Istituti, capace di vivere “la beatitudine di essere secondo” coltivando un’amicizia profondissima, intensa, fedele, rispettosa con colui che egli considerava “padre”, il beato Giuseppe Allamano».
Il Camisassa è una figura importantissima nella vita del fondatore e, di conseguenza, anche per la nostra storia missionaria; merita, perciò, di essere ricordato e celebrato con speciale riconoscenza. È lo stesso fondatore a ricordarcelo: «Se non avessi avuto al mio fianco il can. Camisassa, non avrei fatto quello che ho fatto».
«Faremo d’accordo un po’ di bene»
Sono parole scritte a Giacomo Camisassa, nella lettera del settembre 1880, con la quale Giuseppe Allamano lo invitava e lo incoraggiava ad accettare l’incarico come economo nel santuario della Consolata. Il delicato incarico come rettore del santuario della Consolata, il fondatore lo aveva accettato con la condizione di poter lui stesso scegliere un collaboratore. La scelta del Camisassa non gli fu difficile, conoscendo il giovane sacerdote da quando l’Allamano era direttore spirituale in seminario.
«Faremo d’accordo un po’ di bene»: un’espressione che porta in sé un programma su come avrebbero portato avanti insieme l’incarico a loro affidato di guardarsi attorno e cogliere i bisogni e i movimenti dello Spirito, per dare risposte concrete non rimanendo solo in quello che era il loro dovere. I due non hanno fatto solo «un po’ di bene» ma attraverso la loro grande intesa e profonda comunione, hanno compiuto tanto bene nei 42 anni alla Consolata (1880 – 1922), intraprendendo iniziative di vario rilievo sempre nella ricerca della volontà di Dio, attenti ai segni che provenivano dalla realtà, dalla chiesa, dalla missione, nella realizzazione del «bene fatto bene senza rumore», e così facendo hanno portato frutti che perdurano nel tempo.
Confondatore
Ciò consente di riconoscere e riflettere sul suo ruolo nella fondazione e sviluppo dei nostri due Istituti. Egli ha lavorato costantemente e in maniera accuratissima per aiutare a «fondare» i nostri Istituti; era attento, premuroso e delicato nel suo rapporto con ogni missionario e missionaria. Non era solo un collaboratore, ma un vero fratello di cui l’Allamano ha potuto fidarsi, confidandogli preoccupazioni, gioie, desideri e anche la sua stessa vita spirituale… e tutto ciò era vicendevole, perché del fondatore il Camisassa aveva una stima e una fiducia illimitata.
Il Camisassa era la persona che stava sempre a fianco dell’Allamano con la sua genialità inventiva, la sua ampiezza di vedute; mai attirava l’attenzione su di sé, ci teneva ad essere secondo in maniera umile e discreta, anche se l’Allamano lo incoraggiava a portare avanti le sue intuizioni e progetti, sia nella giovane missione del Kenya come a Torino dove aveva tanti impegni.
Un progetto pensato e realizzato insieme
Il Camisassa ha visto nascere e crescere i nostri due Istituti e si è impegnato con tutte le sue forze fisiche e spirituali perché si realizzasse quello che era il sogno dell’Allamano; anzi, hanno sognato, insieme, pianificato, pregato e valutato, prima di prendere ogni decisione; ma lui fece tutto questo, senza mai passare davanti al fondatore.
Nella sua visita in Kenya, effettuata fra il 1911 e il 1912, il Camisassa informava dettagliatamente l’Allamano sullo sviluppo e tutto ciò che accadeva nelle missioni, in modo che il fondatore potesse valutare l’operato dei suoi missionari, il loro stato di salute, il livello spirituale, i sentimenti, le reazioni nelle varie situazioni missionarie, sia nel progresso e nei successi, come anche nelle difficoltà, che non sono mai mancate.
Sicuramente l’Allamano, nei primi passi della missione in Kenya, trovò nel Camisassa la persona sicura per portare avanti l’esecuzione delle varie imprese dei missionari, un esecutore intelligentissimo, rapido, pratico, risoluto, instancabile, una persona che si intendeva di tutto, non trascurava niente e incoraggiava i missionari a fare le cose nel migliore modo possibile.
L’unità dei due era così profonda, da poter affermare che abbiano percorso le strade della missione insieme, anche se l’Allamano non ha mai potuto visitare le missioni a causa della sua fragile salute; ma, attraverso il Camisassa, ha trovato il modo di essere presente nella vita dei suoi missionari e missionarie.
Costoro, riconoscenti per la sua opera, chiedono al Signore che il confondatore interceda per loro e li guidi dal cielo in quello zelo missionario e fedeltà a Dio e alla missione, che mai gli sono mancati in vita.
Direzioni generali Imc/Mc
Due olivi e due lampade
Nell’anno centenario della morte del canonico Giacomo Camisassa (18 agosto 2022), confondatore delle famiglie dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, padre Giuseppe Ronco, nella festa del beato Allamano celebrata il 16 di febbraio di quest’anno, ha parlato della loro amicizia durata tutta la vita.
La vita del beato Allamano fu sempre orientata al Signore nell’ascolto della sua Parola, tesa alla realizzazione della sua volontà, per essere strumento del programma missionario che lo Spirito e la Consolata gli avevano stampato nel cuore. Fondò due istituti missionari per l’evangelizzazione dei popoli.
Gli fu accanto, nell’opera, il canonico Giacomo Camisassa, chiamato «Confondatore» quando l’Allamano era ancora vivo. Anzi, l’Allamano stesso attribuì al Camisassa la qualifica di «Fondatore» insieme con lui dell’Istituto missioni Consolata, e mons. Perlo, scrivendo al card. Willem Marinus Van Rossum definì l’Allamano e il Camisassa «Venerati Fondatori».
Mi pare opportuno, nell’anno centenario della morte del canonico Camisassa, riflettere sull’amicizia, fondata su Cristo, che si stabilì tra lui e l’Allamano. «Ci siamo sempre amati in Dio», diceva l’Allamano.
Tra loro, infatti, ci fu un’intesa straordinaria, sorgente di una stretta collaborazione che portò i due canonici alla realizzazione di opere grandiose. Il segreto di questa profonda amicizia è da ricercare nella loro spiritualità, fatta di concretezza e di carità semplice, ispirata alle intuizioni e agli esempi del Cafasso e volta al bene dei vicini e dei popoli lontani.
Fu un’amicizia che il canonico Nicola
Baravalle, nella sua testimonianza per il processo di beatificazione dell’Allamano, illuminò con un versetto biblico tratto dall’Apocalisse, descrivendone il senso più profondo: «Sunt duo olivae et duo candelabra lucentia ante Dominum», «Sono due olivi e due lampade che stanno davanti al Signore della terra» (Ap 11,4).
È risaputo come nella Chiesa l’amicizia spirituale tra due santi abbia sovente prodotto opere grandiose e tracciato itinerari di santità. Basti pensare ai legami di amicizia tra san John Henry Newman e Ambrose St. John. Entrambi inglesi e anglicani, insieme si convertirono al cattolicesimo, insieme entrarono nell’Oratorio di Filippo Neri, insieme vennero a Roma per studiare teologia e insieme furono ordinati sacerdoti. Insieme ritornarono in Inghilterra a lavorare, collaborando in tutto e abitando la stessa casa. La loro amicizia durò 32 anni e Newman volle essere sepolto nella stessa tomba di Ambrose.
Per l’Allamano e il Camisassa, l’amicizia fu uno stile di vita a cui sempre si ispirò il loro concreto modo di vivere e la loro attività.
Leggendo le lettere del Camisassa risulta che tra lui e l’Allamano l’intesa era piena. Nel loro vivere insieme si vedeva la complementarietà tra colui che pensa e colui che è capace di tradurre il pensiero nella vita quotidiana. Erano ambedue umili e tendenti a nascondersi.
Quanto l’Allamano stimasse il Camisassa, oltre ad averlo dimostrato con tutta la vita, appare anche dalle affermazioni proferite durante la sua malattia: «Era sempre intento a sacrificarsi, pur di risparmiare me; era un uomo che aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà».
Sperimentava la beatitudine di essere secondo!
L’amicizia tra l’Allamano e il Camisassa fu caratterizzata da uno spirito di sinodalità molto vivo. Pensavano e realizzavano tutto insieme, dialogando e dicendosi «sempre la verità». La loro amicizia e collaborazione sacerdotale, durata tutta la vita senza alcuna incrinatura, si manifestò in modo particolare nella fondazione dei due Istituti, rispettando ognuno il proprio ruolo, pur nella condivisione dello stesso ideale. C’era un desiderio ardente di comunione e di dialogo in vista di arrivare all’unità di intenti. Agivano insieme e concordi per il bene della missione e dei missionari. Ogni sera si incontravano e si comunicavano gli avvenimenti della giornata, non solo per un semplice scambio di notizie, ma nel desiderio di scoprire la volontà di Dio su di loro e sui loro progetti apostolici.
«Passavamo in questo mio studio lunghe ore… Qui nacque il progetto dell’Istituto, qui si è parlato di andare in Africa… insomma tutto si combinava qui». Dopo aver affiancato e sostenuto per 42 anni il canonico Allamano, il canonico Giacomo Camisassa fu il primo a cedere con la salute, e la sua sofferenza maggiore era quella di recare pena all’Allamano.
Erano circa le 20.00 del 18 agosto 1922; faceva caldo e umido: davvero estivo. Tutti erano a cena, quando nel suo delirio, all’improvviso, il Camisassa riuscì ad alzarsi dal letto, fece alcuni passi, barcollò e cadde: era morto.
Dice il canonico Nicola Baravalle: «Il canonico Allamano assistette all’agonia ed alla morte dell’amico senza una lacrima. E poi, portatosi in chiesa, appena inginocchiato proruppe in un pianto dirottissimo e restò parecchio assorto in Dio». È bello vedere l’Allamano piangere la morte dell’amico, portando davanti a Dio la ricchezza di una vita vissuta nell’amore.
Il 26 agosto 1922 ne diede notizia ai missionari in Kenya: «Le ultime parole del nostro caro defunto furono sull’unione tra i nostri missionari, gli uomini con le donne. Fu un’ultima volontà d’amore. Sta a noi essere fedeli a esso: è sacro! Egli viveva per noi e per le nostre missioni, e l’ultimo giorno lo passò pensando e parlando dell’Istituto».