San Lazzaro Devasahayam


«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Nel regno di Travancore (Thiruvitankur nella linga locale), situato nell’India Sud occidentale, dal 1720 regnava Martanda Varmâ. Nel XVIII secolo questi territori erano ambiti dalla Compagnia olandese delle Indie. Ma il regno di Travancore si opponeva decisamente a questo dominio straniero e nella battaglia di Colachel (10 agosto 1741), sconfisse i mercenari della Compagnia, liberandosi dai legami coloniali e dalle tasse sul commercio delle spezie, in particolare sul pepe nero.

Diversi soldati della Compagnia furono fatti prigionieri, tra di essi il comandante degli olandesi, Eustache de Lannoy, un cattolico francese, che poi accettò di mettersi al servizio del re che gli diede il compito di modernizzare la flotta e l’esercito del suo regno. Da abile stratega militare, De Lannoy organizzò l’esercito di Travancore secondo lo standard europeo. Introdusse le armi da fuoco, promosse un sistema di tassazione accurato, e fece eseguire lavori d’irrigazione per rendere fertili e coltivabili le terre aride della parte interna del paese, salendo di grado fino a diventare ammiraglio capo. Ebbe infine un ruolo importante nella conversione di Nilakandan, un ufficiale dell’esercito reale.

Il regno di Travancore era uno stato principesco del subcontinente indiano. Comprendeva la maggior parte del Sud dell’attuale stato del Kerala e il presente distretto di Kânyâkumârî dello stato del Tamil Nadu. Aveva come capitale Thiruvananthapuram, l’odierna capitale del Kerala.

L’ampio territorio era incorniciato da alte montagne sui cui versanti prosperavano piantagioni di ogni tipo. Con le spiagge degradanti fino al mare, si godeva di un clima tropicale caldo e umido, ricco di precipitazioni e di piogge monsoniche, con temperature elevate durante tutto l’anno. Nel 1503 era stato la prima colonia portoghese in India, e fu per secoli uno snodo fondamentale per il commercio delle spezie verso il Medio Oriente e l’Europa. Era il regno del cocco, del peperoncino, del pepe nero, delle foglie di curry, del cardamomo, dei semi di senape e dei chiodi di garofano, spezie ancora oggi apprezzate dalla popolazione locale.

Statue of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil – CC BY-SA 3.0

La nascita di Nilam

Nel piccolo villaggio di Nattalam, in una famiglia indù, il 12 aprile 1712 nacque Nilam, detto anche Nilakandan. Ricevette subito il titolo di «pillai» perché apparteneva all’alta casta dominante, i Nair, i cui membri lavoravano come soldati al servizio del re.

La carriera militare

Nilam fu educato da tutori competenti e raggiunse un alto livello di preparazione. Si esercitò anche nelle arti marziali tradizionali, mentre studiava e imparava molte lingue.

Con la meditazione e lo yoga, le arti marziali avevano lo scopo di aiutarlo a dominare il corpo e la mente, infondendo nell’animo serenità e pace per servire la divinità con tutto il cuore. Non erano semplici esercizi fisici per difendersi da attacchi improvvisi, ma strumenti di primaria importanza per portare l’esercitante nella via della pace interiore, nell’autocontrollo e nella pratica della nonviolenza. La morbidezza e la cedevolezza nei movimenti erano qualità essenziali nella pratica delle arti marziali. Non bisognava infatti opporsi alla forza dell’avversario, ma utilizzare piuttosto la sua forza per batterlo.

In quanto indù tradizionalista, Nilakandan si dedicò sempre fedelmente alle devozioni degli dei e all’osservanza religiosa, divenendo un ufficiale presso il tempio di Nilakandaswamy, nel Padmanabha­puram.

Grazie alla sua grande intelligenza e ai suoi talenti, intraprese la carriera militare divenendo ministro del regno di Travancore, come funzionario del palazzo reale addetto al tesoro e alle finanze. Era molto amato dal re, perché era un uomo buono e fedele al suo dovere.

Convertito dalla storia di Giobbe

Con il passare del tempo, quando, dopo alcuni cattivi raccolti e una cattiva gestione, perse i suoi beni, Nilakandan corse il pericolo di perdere anche il posto di lavoro e la sua onorabilità. Fu Eustache de Lannoy a consolarlo narrandogli la storia biblica di Giobbe. Gli raccontò che, messo alla prova da Satana, Giobbe aveva sopportato con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi sette figli e tre figlie morte nel crollo della casa, e anche le sofferenze dovute alla malattia che lo aveva colpito.

Fortemente impressionato da questo personaggio, Nilakandan si avvicinò al cristianesimo e, nonostante fosse ben consapevole dell’ostilità che il re aveva verso i convertiti, chiese di ricevere il battesimo dal gesuita padre Giovanni Battista Buttari. Così il 14 maggio 1745 divenne cristiano, scegliendo per sé il nome di Devasahayam, traduzione in lingua tamil del biblico Lazzaro, o Eleazar, che in ebraico significa «aiuto di Dio».

Si consacrò solennemente a Cristo

Nel giorno del suo battesimo Devasahayam si consacrò solennemente a Cristo: «Nessuno mi ha costretto a venire, sono venuto dalla mia propria volontà. Egli è il mio Dio. Ho deciso di seguirlo e lo farò per tutta la mia vita». La sua vita non fu più la stessa: Devasahayam si dedicò alla proclamazione del Vangelo per quattro anni.

I capi indù non videro di buon occhio la sua conversione al cristianesimo. I bramini cominciarono a muovere false accuse contro Devasahayam presso il re che lo fece arrestare nel febbraio del 1749, intimandogli di ritornare all’induismo.

La conversione di un ministro del re era, infatti, ritenuta un tradimento e un pericolo per la solidità dello stato. Il suo rifiuto di adorare le divinità indù e di prendere parte alle tradizionali feste religiose irritò molto il re e i suoi ufficiali che non tolleravano la sua predicazione sull’uguaglianza di tutti i popoli, il superamento delle caste e l’amicizia con gli intoccabili, cosa proibita per una persona di casta elevata.

Tutti gli sforzi del re risultarono vani e Devasa­hayam rimase fermo nella sua nuova fede e si rifiutò di abbandonare Gesù Cristo. In seguito a ripetuti e inutili tentativi di fargli abiurare la fede cristiana, il re ordinò che venisse torturato a lungo pubblicamente, come monito per coloro che pensavano di convertirsi al cattolicesimo.

Persecuzione e tortura

Gli ufficiali di palazzo e i soldati misero in mostra Devasahayam attraverso il regno in un modo ignominioso e straziante. Fu fatto fatto girare nei villaggi seduto su un bufalo e gli furono offerte ridicole corone di fiori, mentre veniva regolarmente picchiato in pubblico con bastoni e spine. Misero polvere di peperoncino sulle sue ferite per aumentare il dolore e le sofferenze. Lo costrinsero a stare in mezzo a insetti voraci. Lo fecero camminare per molti chilometri sotto il sole cocente, con le mani e i piedi incatenati. Arrivati presso una roccia a Puliyoorkurichy, era molto assetato, ma i soldati si rifiutarono di dargli da bere. Cadde allora in ginocchio e pregò: l’acqua sgorgò e placò la sua sete, e sulla roccia rimasero le impronte delle sue ginocchia.

Gli ufficiali per intensificare le sue sofferenze lo portarono in un posto chiamato Peruvilai dove lo consegnarono ai carnefici. Essi lo legarono strettamente a un albero, impedendogli così di sedersi o sdraiarsi. All’aperto, sotto il sole cocente, la pioggia o il vento, soffrì la fame per sette mesi. Accettò ogni cosa felicemente e offrì tutto per la gloria di Dio. In mezzo a tutte queste sofferenze, la sua fede in Gesù non fu mai scossa ed egli rimase fedele a Cristo, non smise mai di pregare e meditare.

A closer look of the rock where Devasahayam is believed to have prayed and left imprints of his knee and elbow – CC BY-SA 3.0 Jayarathina

Il martirio

A Peruvilai una grande folla cominciò a recarsi presso di lui ogni giorno, per ricevere le sue benedizioni e preghiere. I soldati lentamente cominciavano a essere gentili con lui fino al punto da suggerirgli di fuggire. Venuto a conoscenza della nuova situazione, il re e gli ufficiali di palazzo si sentirono sconfitti nel loro desiderio di far cambiare idea a Devasahayam e, per evitare che ancora più gente diventasse cristiana, ordinarono che fosse portato in una prigione segreta presso Aralvaimozhy, al confine Sud Est del regno.

Anche a Aralvaimozhy le torture continuarono e, giorno dopo giorno, la sua salute divenne precaria. Infine, arrivò il momento supremo del martirio, che egli desiderava da molto tempo.

Il 14 gennaio 1752 gli ufficiali ricevettero l’ordine speciale da parte del re di ucciderlo in segreto. Devasahayam fu svegliato prima della mezzanotte e i soldati lo portarono sulle loro spalle, non essendo in grado di camminare, fino in cima a una collinetta nella foresta di Aralvaimozhy.

Per l’ultima volta egli chiese ai soldati un po’ di tempo per pregare. Nel mezzo della notte si inginocchiò sulla roccia e si abbandonò completamente al Signore.

Quando finì di pregare, chiese ai soldati di fare il loro dovere, ed essilo fecero. Gli spararono tre volte e Devasahayam cadde sulla roccia gridando: «Gesù, salvami!». Quindi per assicurarsi che fosse morto, gli spararono altri due colpi. Lo gettarono nella foresta perché il suo cadavere venisse divorato dalle belve e così distruggere ogni prova della sua uccisione.

Dopo cinque giorni, i cattolici che vivevano nelle vicinanze vennero a sapere dell’esecuzione. Raccolsero i suoi resti e li seppellirono nella Chiesa di San Francesco Saverio a Kottar, l’attuale cattedrale della Diocesi di Kottar, nello stato di Tamil Nadu.

Una santità riconosciuta

Tomb of Devasahayam Pillai, St. Francis Xavier Cathedral, Kottar, Nagercoil (CC BY-SA 3.0)

Ben presto Devasahayam venne venerato nella regione, e nel 1993 la diocesi di Kottar aprì canonicamente la causa di beatificazione.

La sua santità era ancorata a due capisaldi: anzitutto il grande desiderio di offrirsi a Dio, di appartenergli totalmente donandogli la vita, anche in modo cruento nel martirio. Poi, vivere in ascolto della parola di Dio, sottomettendosi totalmente al servizio della verità del Vangelo nella società. Visse così da vero testimone di Cristo la sua fede battesimale e il suo impegno cristiano. Dopo lunghe ricerche, Benedetto XVI autorizzò la promulgazione del Decreto super martyrio il 28 giugno 2012.

«La Chiesa indiana è grata per questa figura così eroica nel diffondere il Vangelo nella nostra terra anche nelle tribolazioni. È un dono all’India e alla Chiesa universale: sono sicuro che guiderà la vita di molti cristiani» (cardinal Baselios Cleemis, siro-malankarese).

Nella città di Nagercoil (diocesi di Kottar), il 2 dicembre 2012, si svolse la cerimonia di beatificazione, con grandissima partecipazione di popolo.

La canonizzazione è stata poi resa possibile dal riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione, cioè la guarigione nel grembo di una donna indiana di un feto di 20 settimane che la medicina aveva ufficialmente dichiarato morto.

Gli esami ecografici a cui si era sottoposta laa donna avevano riscontrato mancanza di battito cardiaco e di movimento fetale. La donna, di religione cattolica, si fece portare dai genitori dell’acqua attinta dal pozzo di Nattalam, luogo di nascita del beato Lazzaro, di cui era molto devota: la bevve e continuò a pregare. Circa un’ora dopo aver bevuto, la donna sentì che il feto si muoveva. L’attività cardiaca fetale fu accertata da successive ecografie. Il bambino nacque senza parto cesareo, sano e in buone condizioni cliniche generali.

Papa Francesco nel concistoro del 3 maggio 2021 fissò la data di canonizzazione per il 15 maggio 2022.

Monsignor Peter Remigius, vescovo emerito di Kottar, dove si trovano i luoghi di nascita e di martirio di Devasahayam, assicura che «Da quando papa Francesco ha autorizzato il processo di canonizzazione, migliaia di persone stanno accorrendo nel luogo in cui è stato fucilato. In tutte le parrocchie della diocesi c’è grande giubilo, la notizia è diventata virale sui social. Inoltre, la donna del miracolo appartiene alla diocesi e abita molto vicino alla casa natia del beato».

Giuseppe Ronco

 




Chi gioca alla guerra, chi crede nella pace


Incontro con uno dei promotori di Stop #Stopthewarnow

Una rete di 175 enti italiani porta in Ucraina aiuti contro fame e freddo, mette in salvo i più fragili, realizza progetti per l’acqua potabile, ma soprattutto stabilisce relazioni con persone e società civile locale per far crescere la pratica della pace. In Ucraina come in Italia ed Europa.

«Le armi non sono mai state la soluzione», recita un post dell’11 ottobre scorso sul profilo Facebook di «#Stopthewarnow» («ferma la guerra ora»), rete di 175 enti italiani impegnati in azioni nonviolente e umanitarie in Ucraina. Il giorno prima c’era stata la rappresaglia russa per l’attentato ucraino al ponte di Crimea, simbolo del potere del Cremlino: «In poche ore, 83 razzi e 17 droni colpiscono 14 regioni ucraine», prosegue il post. Solo una settimana prima, gli attivisti della rete erano stati a Kiev, nei luoghi che poi sarebbero stati bombardati. «Dopo mesi di terrore […] la guerra continua senza sosta […] – conclude il post -. Chiediamo con forza ai governi e a tutti noi cittadini di mobilitarsi, con ogni azione possibile, a favore di un immediato cessate il fuoco. Ora, prima che sia troppo tardi».

Un rete per la pace

La rete #Stopthewarnow, dal marzo scorso, ha organizzato quattro carovane della pace nei territori ucraini coinvolgendo in totale più di 500 volontari. Ha portato decine di tonnellate di beni alla popolazione; aiutato profughi a fuggire, soprattutto poveri che non ne avrebbero avuto i mezzi; ha portato in salvo decine di orfani e persone con disabilità; ha stabilito una presenza permanente a poca distanza dal fronte per dare aiuto, ad esempio con l’attivazione di dissalatori per fornire acqua potabile a Mykolaïv; ha avviato relazioni con realtà locali impegnate nell’assistenza alle vittime, nella resistenza nonviolenta e nel sostegno agli obiettori di coscienza, sia ucraini che russi.

Fin dai primi giorni della guerra, la rete ha proposto una lettura del conflitto diversa rispetto a quella dominante che vede nelle armi (sempre più potenti) l’unica modalità di difesa, e considera la resistenza nonviolenta una resa.

«La rete è nata per lanciare un messaggio di solidarietà e di opposizione al conflitto in Ucraina e per costruire un’alternativa alla follia della guerra – si legge nella home di stopthewarnow.eu -. È coordinata da una cabina di regia composta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, Pro civitate christiana e dalle reti nazionali Focsiv, Aoi, Rete Italiana Pace e Disarmo, Libera contro le mafie, in rappresentanza delle associazioni aderenti».

Sentiamo Gianpiero Cofano, uno dei promotori della rete, per farci dire com’è nata, cosa fa e con quali obiettivi.

In prima persona

StopTheWarNow, carovana Mykolaiv

«Io sono il segretario generale dell’Associazione comunità papa Giovanni XXIII (in sigla, Apg23, ndr.), nata nel 1968 da don Oreste Benzi e presente oggi in cinquanta paesi del mondo», si presenta Cofano, classe 1975.

«Ho iniziato la mia esperienza come obiettore di coscienza 28 anni fa. Ho vissuto per sei anni in zone di guerra: sono stato nei Balcani, in Kosovo, in Chiapas e altrove. L’Apg23, infatti, ha un corpo specializzato, l’Operazione Colomba, che interviene in situazioni di conflitto».

Quando è iniziata la guerra in Ucraina il 24 febbraio, l’Apg23 aveva una sua famiglia in missione a Leopoli. «Mi chiedevano di evacuare. Allora mi sono mosso per aiutarli, e quella è stata l’occasione per decidere di andare direttamente in Ucraina.

Da lì a una settimana, ci siamo messi in macchina per Leopoli. Era uno dei momenti più drammatici: scappavano dal paese in centinaia di migliaia. Tant’è che quando abbiamo tentato di entrare, le autorità polacche non ce lo consentivano: “Dove volete andare? Questa è una guerra”; e noi: “Sì, ma noi lo facciamo per lavoro”, e dopo il primo giorno di trattative, siamo riusciti a passare.

Si può dire che quello è stato il primo atto di #Stopthewarnow. E vedendo tutte quelle persone scappare, ho pensato: “In centomila scappano, sarebbe bello che in centomila venissero qui a implorare la pace”».

Parlamentari in Ucraina

Dopo i primi giorni concitati, Cofano e il gruppo di Apg23 hanno iniziato a prendere contatti e incontrare i vescovi, la Caritas, le Ong locali e, soprattutto, la gente: «Abbiamo passato diverse notti nei rifugi con la popolazione quando scattavano gli allarmi antiaereo – ci dice -, e così abbiamo sentito i primi racconti della gente che scappava dal fronte dove c’erano state già le prime uccisioni e distruzioni».

Nel frattempo, l’idea di portare 100mila persone in Ucraina, accompagnata dal ricordo delle marce per la pace di Sarajevo, si rafforzava. Ma far arrivare anche solo 10mila persone in quel contesto era impossibile: «Allora ho pensato: “Chiamo i rappresentanti dei cittadini, i parlamentari, per invitarli a venire con noi in Ucraina, e al ritorno portiamo alcuni bambini orfani sfollati dal fronte”. Hanno aderito più di quaranta parlamentari di ogni schieramento: un fatto straordinario! Poi, però, il ministero degli Affari esteri, e l’allora ministro Di Maio, ci hanno bloccati. L’unità di crisi mi convoca per dirmi che “no, voi siete matti, rischiate di far esplodere una guerra mondiale. Se qualcuno dovesse bombardare una delegazione di politici, saremmo costretti a entrare in guerra. È troppo pericoloso, non giocate alla guerra”, io ho risposto che, al massimo, noi crediamo nella pace, non giochiamo alla guerra».

«Toccare la carne viva»

#Stopthewarnow è una rete, a oggi, tra le più grandi in Europa. «Sono 175 enti di qualsiasi tipo – precisa Cofano -. Hanno aderito anche aziende, cooperative, sindacati, fino a tanti movimenti, anche della Chiesa cattolica, associazioni, e così via. Il fattore comune è quello di voler fare azioni di pace, di guardare questo conflitto da un altro punto di vista che non sia soltanto quello dell’invio delle armi, e quindi di sognare una pace nella quale siano protagonisti anche i civili».

Dopo un mese dall’inizio della guerra, #Stopthewarnow ha organizzato una prima carovana: «Ci siamo detti: “Ci sono organizzazioni umanitarie molto più strutturate di noi, però in questo momento non se ne vedono, e gli ucraini hanno bisogno».

Trentadue tonnellate di aiuti, 221 volontari, 67 automezzi, sono partiti il primo aprile da Gorizia per raggiungere Leopoli. «C’erano lunghissime code alla frontiera con la Polonia per uscire dall’Ucraina. Quasi nessuno in ingresso. E gli ucraini dicevano: “Ma cosa fate?”. E noi: “Veniamo a capire cosa state vivendo, a portare un messaggio di pace, stringere, abbracciare, toccare la carne viva”, come dice il papa nel suo ultimo libro sulla pace».

Non lasciamoli soli

All’inizio della guerra, chi aveva i mezzi economici è potuto scappare. Chi, invece, non li aveva, è dovuto rimanere sotto le bombe.

#Stopthewarnow, dopo aver consegnato gli aiuti, ha portato in Italia circa 300 tra bambini, anziani, persone con disabilità, poveri evacuati dalle regioni bombardate di Kramators’k e Mariupol. «Nei mesi successivi abbiamo fatto evacuare altre mille persone, sempre andando a scegliere quelli che non avrebbero avuto nessuna chance», continua Cofano. «La popolazione locale si domanda perché rischiamo la nostra vita per loro. Ma io penso che noi non possiamo preoccuparci di questa guerra solo perché si alza la bolletta energetica. Noi abbiamo il dovere di non lasciarli da soli».

Presenza

Tra le iniziative della rete in Ucraina, c’è anche quella di una presenza permanente a Mykolaïv. «La città si trova a cinque chilometri dal fronte. Durante il giorno passi più tempo nei rifugi antiaereo che fuori. Per noi l’obiettivo più grande è non lasciare nessuno da solo in questo momento in cui la sofferenza e la solitudine possono ammazzare più delle bombe».

Nel mondo, le presenze stabili di operatori nonviolenti sono diverse. L’Operazione Colomba, ad esempio, è presente in Palestina (cfr MC, gennaio 2021, p. 21), in Colombia e altrove.

Dall’inizio di questa guerra, #Stopthewarnow ha deciso di crearne una anche in Ucraina, persone che stanno lì per alcuni mesi, alternandosi, in modo da essere sempre almeno 5 o 6. «Sono piccoli gruppi di giovani selezionati e formati. A Mykolaïv, che è una città industriale sul mare, stiamo sviluppando dei progetti per affrontare il problema dell’acqua. Nei mesi scorsi sono scappate 250mila persone e ne sono rimaste 200mila, di cui l’80% anziani che vivono con i pasti offerti dalle mense di piccole organizzazioni locali. E non c’è acqua, perché l’acquedotto che arriva da Cherson è interrotto, e il sistema che filtrava l’acqua del mare è distrutto. L’acqua potabile arriva soltanto con le autobotti. Allora abbiamo iniziato a costruire dei dissalatori. Ce ne vorrebbero trenta per tutta la città. L’ultimo che abbiamo installato soddisfa circa 5mila persone al giorno».

Oltre all’aiuto materiale, lo scopo della presenza del gruppo a Mykolaïv è la vicinanza con la popolazione. «Andiamo anche nelle zone del fronte. Lì incontriamo anziani che non lasciano i villaggi nei quali hanno vissuto magari 70 anni. Quando andiamo, ci dicono: “State con noi, non fateci morire da soli, non dimenticateci. La vostra presenza ci dà speranza, coraggio”».

«Questa è la pace!»

Nei mesi, la rete ha portato in Ucraina più di 500 civili italiani. «Molti sono membri delle associazioni, ma altri no, come, ad esempio, un ex operaio di 74 anni che è già venuto due volte.

Alla prima carovana avevano aderito 1.250 persone. Poi, per ragioni logistiche e di sicurezza, anche perché in Ucraina c’è la legge marziale e sono vietati gli assembramenti, abbiamo scelto di portarne solo 220. Questo per dire che nel popolo, nella gente semplice, c’è una forte volontà di pace. Un altro esempio è quello di una famiglia: sono venuti a Mykolaïv due genitori e le loro due figlie di 18 e 19 anni. Su un pulmino stracarico, un papà e una mamma si sono assunti la responsabilità di portate sotto le bombe le loro figlie. È straordinario. Una famiglia per la pace che, quando è tornata indietro, ha portato con sé diversi ragazzi con disabilità che ora vivono con loro. Questa è la pace».

La carovana «politica»

L’ultima carovana ufficiale di #Stopthewarnow in ordine di tempo, tra il 26 settembre e il 3 ottobre, è stata quella più «politica»: accanto alla consegna di aiuti alla città di Chernivtsi, dove i volontari hanno constatato l’urgenza di far arrivare aiuti dall’estero a causa della riduzione del sostegno alla popolazione da parte del governo centrale, infatti, la carovana aveva lo scopo principale «di tessere rapporti di cooperazione con la locale società civile, a partire da due temi chiave – si legge in un articolo del 6 ottobre sul sito di Focsiv, la Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana che è tra i promotori della rete -: la necessità di tornare a pensare e costruire la pace in tempo di guerra, ed il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, messo in discussione tanto in Russia quanto in Ucraina».

Il programma della carovana si è snodato tra l’università di Chernivtsi e Kiev, tra incontri con studenti universitari, organizzazioni di volontariato, sindacati, resistenti nonviolenti provenienti dai territori occupati, obiettori, pacifisti, istituzioni diplomatiche, la nunziatura apostolica e professionisti del peace building.

Il tema dell’obiezione è stato uno di quelli trasversali. Quando è scattata la legge marziale con l’inizio della guerra, la legge per l’obiezione di coscienza è stata subito sospesa. I 5mila ragazzi che avevano fatto domanda prima del 24 febbraio ed erano in attesa di una risposta per il servizio civile si trovano oggi in una situazione incerta: sono tutti richiamabili, ma chiedono al governo di svolgere il loro servizio alla nazione in ambito civile.

«C’è chi vuole mettere in atto forme di resistenza nonviolenta in Ucraina – prosegue il nostro interlocutore -. Però in questo momento tu sei obbligato ad andare al fronte se non vuoi rischiare una condanna. Noi cerchiamo di aprire vie di dialogo per sostenere, attraverso atti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, soprattutto europea, coloro che non credono nelle armi, e vogliono percorrere, invece, altre strade. Sia in Ucraina che in Russia gli obiettori sono di più di quelli che si palesano, ma quando c’è la legge marziale da una parte e il controllo totale dell’informazione dall’altra, è difficile capire quanti sono davvero».

Tra le conseguenze concrete della quarta carovana, c’è l’attivazione di «gemellaggi» e supporti a distanza tra realtà affini in Italia e Ucraina. Ad esempio, tra il Movimento nonviolento italiano e il Movimento pacifista ucraino per il pagamento delle spese legali a favore degli obiettori incriminati, o l’avvio di partnership tra università ucraine e i dipartimenti universitari che in Italia ed Europa si occupano dello studio delle strategie della pace.

Operatori di pace

#Stopthewarnow, oltre a operare in Ucraina, cerca di costruire consenso sulla pace e le sue strategie nonviolente in Italia e in Europa. Uno dei segni di questo, sono le manifestazioni per la pace che hanno portato 30mila persone in più di 100 piazze italiane tra il 21 e il 23 ottobre, e la marcia di 100mila del 5 novembre a Roma, promossa dalla rete Pace e Disarmo tramite Europe for Peace, cartello di più di 600 realtà della società civile Europea, a cui anche i missionari italiani e le loro riviste hanno aderito. «Uno degli obiettivi delle carovane in Ucraina è quello di far sì che questa non diventi l’ennesima guerra dimenticata nel mondo – chiosa Cofano -. In uno degli ultimi viaggi fatti a Mykolaïv, ho detto ai volontari: “Voi pensate di essere venuti qui per scaricare i vostri pulmini, come per scaricare le vostre coscienze: ‘Ho portato gli aiuti ai bambini che soffrono e agli anziani’, e quindi di tornare belli leggeri a casa”. Ho detto: “No, mi dispiace, tornerete ancora più pesanti, perché portate a casa l’angoscia, la violenza, il pianto delle persone che avete incontrate. Il nostro vero lavoro comincia adesso, condividendo, testimoniando in Italia quello che abbiamo vissuto”. Io sogno che, quando organizzeremo altre carovane, ci saranno sempre più persone. Allora sì che avremo fatto politica, e che i politici ci terranno in considerazione. Qualcuno mi dice che bisognerebbe parlare con loro, ma io rispondo che dovrebbero venire loro a chiederci cosa abbiamo visto. Perché della guerra non sanno niente, non ci sono mai stati, e hanno votato cose senza conoscere la realtà del paese».

Prossime tappe

Mentre scriviamo queste righe, #Stopthewarnow continua a ideare iniziative per i prossimi tempi: «In questi giorni stiamo valutando una proposta con un’organizzazione americana di andare a fare gli scudi umani a Zaporižžja, attorno alla centrale nucleare. Scudi umani internazionali a protezione della centrale nucleare, in un territorio controllato dai russi, sperando di fare da deterrente al bombardamento. Stiamo cercando un accordo anche con l’Aiea, l’agenzia atomica internazionale, che sta monitorando il sito. Abbiamo poi già deciso di compiere una nuova carovana in Ucraina: vogliamo continuare sulla scia delle precedenti, anche perché creano un effetto moltiplicatore di sensibilizzazione in Italia.

Continuiamo, poi, la nostra presenza a Mykolaïv, nonostante stia diventando sempre più dura anche per noi. Con la campagna per l’acqua in quella città dobbiamo fare presto, perché non si può trivellare con il ghiaccio.

Il comune denominatore delle realtà che compongono #Stopthewarnow è di partire dai bisogni rilevati dal basso nei luoghi della guerra, e poi quello di abitare il conflitto. Quindi vivremo con loro anche questo duro inverno. Staremo con loro: questa è la scelta di fondo. Non faremo tanto? Faremo nulla? Però saremo lì con loro. Sarà utile o non utile? Non dimenticarli sarà già una cosa utile».

Luca Lorusso

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Non c’è un domani senza biodiversità


Invasione e distruzione degli habitat

L’uomo sta occupando, distruggendoli o modificandoli, gli habitat di molte specie animali. Ciò mette a rischio sia la loro sopravvivenza che l’equilibrio ambientale, favorendo al tempo stesso la diffusione delle malattie di origine zoonotica.

La copertina del «Living planet report 2022» del WWF.

Negli ultimi cinquanta anni, il consumo di risorse legato alle attività umane ha portato a una drastica riduzione di esemplari nelle popolazioni di vertebrati, al punto che si sta ormai parlando di sesta estinzione di massa. Secondo il Living planet report 2022 del Wwf, siamo arrivati a un calo medio, rispetto al 1970, del 69% degli individui nelle popolazioni di specie di vertebrati (mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci) analizzate dal Living planet index, che studia quasi 32mila popolazioni di oltre 5mila specie diverse. Questo non significa che abbiamo perso il 69% dei vertebrati terrestri, ma che in media ciascuna specie di vertebrati si è ridotta di questo valore.

Habitat e Occupazione umana

Si stima che, nel 2018, solo un quarto della superficie terrestre disponibile fosse libera dall’impatto umano e che nel 2050 lo sarà soltanto il 10%. L’occupazione del suolo per le molteplici attività umane, dalla produzione di cibo e di energia alla costruzione di infrastrutture e di miniere, porta alla privazione per le specie animali di habitat che sono essenziali per la loro sopravvivenza.

I peggiori trend tra le popolazioni di vertebrati analizzate si ritrovano in America Latina e nella regione dei Caraibi, con un calo medio del 94% dal 1970. Seguono l’Africa con il 66% e la regione dell’Asia-Pacifico con il 55%. In Nord America si è registrato un calo del 20%, mentre in Europa e in Asia centrale del 18%, ma questi dati non sono più confortanti dei precedenti, perché, in queste tre regioni, gran parte della biodiversità era già andata persa nei decenni precedenti. Tra le specie analizzate, quelle di acqua dolce hanno subito la riduzione più drastica, con un declino medio dell’83%. Attualmente tra l’1 e il 2,5% delle specie di vertebrati si è già estinto, mentre le popolazioni rimanenti e la loro diversità genetica sono diminuite notevolmente. In particolare, il 46% degli anfibi, il 25% dei mammiferi e il 13% degli uccelli si stanno avvicinando all’estinzione.

Rettili e temperature

Per quanto riguarda i rettili, finora meno studiati di altre specie, un recente studio apparso su «Nature» e condotto da Neil Cox e Bruce Young (che hanno studiato la situazione conservazionistica di 10.196 specie di rettili) è giunto alla conclusione che un rettile su cinque è a rischio estinzione. Tra i rettili in pericolo maggiore troviamo le tartarughe, con il 58% di specie appartenenti a quest’ordine che rischiano di sparire nei prossimi vent’anni. Seguono coccodrilli e alligatori, di cui il 50% delle specie è a rischio. Tra gli squamati, cioè lucertole e serpenti, sono il 19% le specie a rischio, in particolare gli iguanidi. Le specie che rischiano maggiormente l’estinzione sono quelle che vivono nelle foreste, essendo il loro ecosistema più alterato sia dalla deforestazione che dall’espansione urbana. Questo studio ha anche messo in luce il nesso tra l’aumento della temperatura e il rischio estinzione per i rettili. In molte loro specie, infatti, il sesso è determinato dalla temperatura, per cui un costante rialzo termico rischia di alterare significativamente le proporzioni tra maschi e femmine.

Tuttavia, i resoconti sulle specie minacciate di estinzione non descrivono in modo esaustivo il quadro attuale. Secondo uno studio di Gerardo Ceballos, ecologo dell’Università nazionale autonoma del Messico, un terzo delle specie, che più di tutte si stanno assottigliando, non fa attualmente parte dell’elenco delle specie a rischio. Il 32% delle specie di vertebrati considerate nello studio ha avuto perdite notevoli sia nel numero, che nel range di distribuzione. In particolare tutte le specie di mammiferi studiate hanno subito una riduzione di oltre il 30% del loro habitat, ma più del 40% ne ha perso oltre l’80%. Tali perdite sono ascrivibili a varie cause: il continuo aumento della popolazione umana (con uno sfruttamento eccessivo delle risorse), la distruzione degli habitat naturali, la caccia e la pesca sconsiderate, l’inquinamento conseguente alle attività umane e l’invasione di specie aliene (non autoctone) favorita dall’uomo.

Ecosistemi, specie e specializzazione

Generalmente, quando parliamo di perdita della biodiversità, facciamo riferimento al numero delle specie a rischio in determinate aree. Tuttavia, è sbagliato considerare solo il numero delle specie a rischio perché, all’interno del proprio ecosistema, ogni specie svolge un ruolo dettato dalla sua specializzazione. Se la specie in questione va incontro all’estinzione, la sua specializzazione andrà persa per sempre a meno che tale specie non venga rimpiazzata da un’altra con analoga specializzazione e quindi con simili strategie di sopravvivenza. Poiché in un ecosistema non sempre questo avviene, c’è il rischio della perdita non solo della biodiversità, ma della diversità funzionale. In questo caso, la perdita di una specie non rimpiazzata lascia un vuoto, che può avere gravi ripercussioni su tutte le altre specie animali e vegetali dell’ecosistema, che sarà progressivamente compromesso. Le strategie di conservazione non possono essere, quindi, uguali in tutto il mondo. In altre parole, vi sono aree in cui l’estinzione di una specie non comporta necessariamente l’alterazione dell’ecosistema; al contrario, in altre aree la perdita di una specie insostituibile può portare a un crollo della diversità funzionale e al conseguente sbilanciamento dell’ecosistema. È perciò fondamentale conoscere il ruolo ecologico delle singole specie, in modo da concentrare gli interventi di protezione sulle specie che svolgono un ruolo cruciale nel loro ecosistema. Ad esempio, nella ecozona indo-malese – comprendente l’India, parte della Cina e del Pakistan e una serie di isole dell’Oceano Indiano tra cui Taiwan e le Filippine – ci sono specie di mammiferi e di uccelli la cui estinzione comporterebbe un calo di oltre il 20% della diversità funzionale. In Europa, invece, la diversità funzionale crollerebbe del 30% se si arrivasse all’estinzione di determinate specie di rettili, di anfibi e di pesci d’acqua dolce.

Un esemplare di camaleonte. Foto AQagraphy – Pixabay.

La situazione Italiana

In Italia sono piuttosto numerose le specie a rischio di estinzione o che lo sono state in passato. Tra queste abbiamo il lupo, la lince, l’orso bruno, lo stambecco, il cervo sardo, la foca monaca, la lontra, l’aquila reale, il gipeto, il grifone, il gallo cedrone e la starna. In seguito all’occupazione e allo sfruttamento del suolo, molto spesso gli habitat naturali vengono frammentati, cioè suddivisi in sottoaree tra loro parzialmente connesse o totalmente isolate. Questo può essere dovuto alla costruzione di barriere artificiali come strade, impianti sciistici, linee elettriche o ferroviarie, canali artificiali, ecc., che impediscono la libera circolazione degli animali nel loro areale di distribuzione. Vengono così a formarsi sottoaree a macchia di leopardo, con la suddivisione della popolazione di una specie in sottopopolazioni scarsamente in contatto tra loro. Queste ultime sono meno consistenti numericamente rispetto alla popolazione originale e più vulnerabili alle fluttuazioni climatiche, alle possibili epidemie, al deterioramento genetico dovuto a endogamia, cioè all’incrocio tra individui consanguinei, e ai fattori di disturbo antropico. Inoltre, in presenza di frammentazione, l’habitat di una specie è maggiormente a contatto con l’habitat di altre specie. Questo può comportare maggiori casi di predazione, competizione e parassitismo. In pratica le sottopopolazioni di una specie dislocate in aree distanziate tra loro e con scarsa o nulla possibilità di contatto sono maggiormente a rischio di estinzione, perché il distanziamento tra le diverse aree impedisce di fatto la ricolonizzazione laddove la popolazione si sia estinta per qualsivoglia motivo.

Se scompaiono  gli impollinatori

Quando pensiamo alle specie in via d’estinzione, siamo portati a pensare solitamente ad animali di grossa taglia, come il rinoceronte nero o l’elefante asiatico, ma ci sono specie di animali piccoli e piccolissimi, la cui forte diminuzione ci riguarda molto da vicino. Si tratta degli impollinatori, per lo più insetti, ma non solo, la cui attività è fondamentale per favorire l’impollinazione delle piante, da cui dipendono per buona parte la nostra alimentazione e la nostra economia. La riproduzione di almeno il 75% delle piante da fiore e dei raccolti di tutto il mondo dipende dagli impollinatori. Tra questi: api, vespe, farfalle, mammiferi come i pipistrelli e uccelli come i colibrì. Già nel 2010 gli scienziati erano giunti alla conclusione che oltre il 40% degli insetti di tutto il mondo era a rischio di estinzione e che il ritmo della loro moria è otto volte superiore a quello dei mammiferi e degli uccelli.

Sono tre le principali cause della progressiva riduzione degli impollinatori: l’uso dei pesticidi, il modo in cui sfruttiamo il suolo con la predilezione per le monocolture e soprattutto la distruzione dell’habitat. Anche l’aumento delle temperature globali ha un ruolo nella riduzione degli impollinatori, ma si trova solo al quarto posto. Per capire la portata del danno che deriverebbe dalla scomparsa degli impollinatori, basta pensare che, negli ultimi 50 anni, tra i cibi consumati, quelli la cui produzione dipende dagli impollinatori sono aumentati del 300% e fanno muovere un mercato globale del valore di 577 miliardi di dollari. Dobbiamo anche considerare che, finora, ci siamo resi conto della diminuzione solo delle specie di impollinatori che conosciamo, ma la quantità di specie, soprattutto di insetti, a noi ancora sconosciuta è altissima quindi la valutazione del numero delle specie di impollinatori a rischio di estinzione o già estinte è certamente sottostimata. Secondo un recente studio di Matt Devis e Jens Christian Svenning del «Center for biodiversity dynamics in a changing world» (Danimarca), gli esseri umani sterminano le specie animali e vegetali così rapidamente che l’evoluzione, come meccanismo di autodifesa della natura, non può porvi rimedio. Secondo questi ricercatori, nel corso degli ultimi 450 milioni di anni ci sono stati cinque grandi sconvolgimenti con alterazioni ambientali tali che buona parte delle specie animali e vegetali presenti sul nostro pianeta si è estinta. Dopo ciascuna estinzione di massa, l’evoluzione, con i suoi tempi, ha colmato le lacune con nuove specie, ma nel caso dei mammiferi, considerando i loro tempi di diversificazione, per riportare la biodiversità a ciò che era prima della comparsa dell’uomo moderno ci vorrebbero 5-7 milioni di anni e 3-5 milioni solo per riottenere l’attuale biodiversità, dato che è in corso la sesta estinzione di massa, questa volta causata dall’uomo.

Con la perdita delle specie, perdiamo non solo le loro funzioni ecologiche talvolta uniche, ma anche i milioni di anni di storia evolutiva che queste specie rappresentavano.

Habitat, pandemie E zoonosi

C’è un altro aspetto che dovremmo prendere in attenta considerazione. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’uomo sta rivelando il suo effetto boomerang sotto forma di pandemie o comunque di diffusione di malattie di origine zoonotica, che sono all’origine di circa un miliardo di casi di malattia e di milioni di morti ogni anno a livello globale.

Le zoonosi attualmente conosciute sono oltre 200, tra cui: rabbia, leptospirosi, Hiv, Ebola, antrace, Sars, Mers (queste ultime due causate da Coronavirus), febbre gialla, dengue, malattia di Lyme, tifo esantematico, malaria e non dimentichiamoci della peste, che non è mai stata completamente debellata.

Fino a qualche tempo fa si riteneva erroneamente che gli ambienti naturali intatti fossero pericolosi serbatoi dei virus e degli altri agenti patogeni portatori di queste malattie, ma studi recenti hanno completamente smontato questa tesi dimostrando, al contrario, che è la distruzione degli habitat che crea le condizioni ottimali per la trasmissione all’uomo degli agenti eziologici.La riduzione delle specie predatrici a seguito delle attività umane può rivelarsi molto pericolosa per la nostra salute.

Rosanna Novara Topino

Un esemplare di zecca (sempre più diffusa). Foto Erik Karits – Pixabay.


Biodiversità e zoonosi

La diffusione della zecca

La malattia di Lyme o borrelliosi è una malattia diffusa in Nord America, Europa e Asia e trasmessa dalle punture delle zecche del genere Ixodes. Questa malattia presenta alcuni sintomi tipici come eritema migrante, febbre, mal di testa, debolezza e affaticamento ma, se non si interviene precocemente con una cura antibiotica, l’infezione può diffondersi andando a interessare articolazioni, cuore, muscoli, reni, fegato, cute, sistema nervoso centrale (causando in questo caso encefalite o mielite). Il suo agente eziologico è un batterio, la Borrelia burgdorferi, che ha come vettore la zecca, ma presenta diversi ospiti tra i vertebrati soprattutto mammiferi, alcuni dei quali risultano essere serbatoi altamente competenti, cioè capaci di ospitare e di trasmettere il batterio molto meglio di altri. Tra questi ultimi vi sono il peromisco dai piedi bianchi, una varietà di topo diffusa nel continente americano dal Canada fino al Nicaragua e il toporagno, specie assai diffusa anche da noi nelle aree verdi, soprattutto nei parchi e nei boschi. Le zecche non trasmettono l’infezione alla prole, ma si contaminano infestando un ospite infetto, mentre ne succhiano il sangue che serve loro per completare le tre fasi del loro ciclo vitale (larva, ninfa, adulto) e per riprodursi. Le zecche adulte passano l’inverno ben rigonfie di sangue e in primavera depongono le uova, da cui a metà estate nascono le larve. Poiché necessitano di pasti a base di sangue ma hanno scarsa mobilità, questi aracnidi devono mettersi in posizione ottimale, per esempio sulla cima di un filo d’erba, per attaccarsi a un ospite vertebrato di passaggio. Date le loro piccole dimensioni, peromischi e toporagni sono gli ospiti ottimali delle larve di zecca e, se sono infettati dalla Borrellia, passano loro agevolmente il batterio; le zecche lo trasmetteranno poi ad altri ospiti con le loro punture. Peraltro la varietà degli ospiti delle zecche è elevatissima, potendo comprendere animali di svariate dimensioni come scoiattoli, opossum, conigli selvatici, volpi, cervi, cinghiali e, occasionalmente, l’uomo. Non tutti questi però si rivelano dei serbatoi altamente competenti come i topi e i toporagni. L’essere umano, ad esempio, non lo è in alcun modo, quindi non trasmette la malattia ad altre persone.

Gli studiosi hanno osservato che la diffusione delle zecche è particolarmente alta dopo le annate ricche di ghiande delle querce, frutti di cui sono particolarmente ghiotti i peromischi e i toporagni, che hanno elevatissimi tassi di riproduzione e ciascuno dei quali può arrivare a ospitare fino a una settantina di larve di zecca, che allo stadio adulto infestano solitamente animali di grossa taglia, come i cervi, utilizzati come supporto per la riproduzione. Si è osservato che è più facile essere punti da una zecca in un parco o piccolo boschetto, dove la fauna è rappresentata da poche specie e quindi i peromischi e i toporagni hanno pochi predatori, piuttosto che in un grande bosco ricco di specie come scoiattoli, opossum, falchi, furetti e gufi, che ne limitano la presenza. Questo dimostra come la biodiversità sia indispensabile per il controllo delle zoonosi.

RNT

 




La crisi dell’acqua ora è globale


I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.

«L’Africa orientale è in agonia, flagellata dalla più avara siccità degli ultimi 15 anni. Da Gibuti attraverso l’Etiopia fino al Sudan meridionale, lungo la Somalia, il Kenya e l’Uganda, la terra è una fornace bianca, come ossa decrepite». E ancora: «L’inclemenza delle stagioni che, da qualche anno in Kenya e da due anni in Tanganyika non accenna a finire, ha gettato intere popolazioni nella terribile condizione di non potersi sfamare. Lunghi periodi di siccità hanno bruciato i raccolti; successive piogge torrenziali hanno travolto ogni cosa nella loro furia. […] le stagioni hanno perso quella regolarità propria dei paesi tropicali».

Ognuno di questi virgolettati potrebbe riferirsi alla difficile situazione in cui si trova l’Africa orientale in questo momento; invece, il primo è preso da un articolo del Newsweek, The grim famine of 1980, apparso nell’agosto del 1980 e pubblicato in una libera traduzione su Missioni Consolata nel dicembre dello stesso anno, mentre il secondo viene da un articolo pubblicato su Missioni Consolata nell’aprile del 1962, sessanta anni fa.

Ma le assonanze con l’oggi non si limitano al Corno d’Africa: anche in Italia, chi ha almeno quarant’anni potrebbe avere avuto un déjà vu ascoltando le raccomandazioni diffuse dal ministero della Transizione ecologica su come evitare lo spreco di acqua@  nei mesi della scorsa estate, in cui l’Europa ha vissuto la più grave siccità degli ultimi 500 anni.

Le indicazioni, infatti, ricordavano quelle delle campagne degli anni Ottanta, che erano spesso promosse dagli enti locali: «Potabile, non sprecabile», recitavano ad esempio i poster affissi lungo le strade di una città emiliana. Addirittura del 1977 era la campagna di Pubblicità progresso «A difesa dell’acqua»@ che mostrava – proprio come l’articolo su MC del 1962 – i due opposti volti della crisi idrica: l’eccesso e la scarsità di acqua.

Questi precedenti non servono a ridimensionare il problema, al contrario: danno la misura del suo aggravarsi dopo decenni di azioni poco incisive. Se le emergenze idriche erano già tali decenni fa, quando il cambiamento climatico non era, come ora, un fenomeno conclamato con effetti planetari e la popolazione mondiale era la metà di quella odierna, è chiaro il motivo per cui oggi tante fonti istituzionali, accademiche e giornalistiche parlano senza mezzi termini di crisi idrica globale.

Siccità in Kenya, dove anche gli elefanti muoiono di sete. Nei dintorni d Isiolo, Nord del Kenya.

I numeri della crisi

Secondo il più recente rapporto di UNWater, il meccanismo di coordinamento delle agenzie Onu che si occupa di acqua e sanificazione, sono 2,3 miliardi gli abitanti del pianeta che vivono in zone con stress idrico, nelle quali cioè si estrae il 25% o più delle risorse rinnovabili di acqua dolce. Di questi, 733 milioni abitano in territori in cui lo stress idrico è alto (fra il 75 e il 100% delle risorse rinnovabili estratte) o critico (oltre il 100%). Le persone che vivono in aree dove si registra una grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno sono quattro miliardi, poco meno di metà della popolazione mondiale@.

Il rapporto cita le stime di Acquastat, il portale statistico dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, secondo le quali «il prelievo globale di acqua dolce era probabilmente di circa 600 chilometri cubi all’anno nel 1900 ed è aumentato a 3.880 chilometri cubi all’anno nel 2017. Il tasso di aumento è stato particolarmente elevato (circa il 3% all’anno) durante il periodo dal 1950 al 1980, in parte a causa di un maggiore tasso di crescita della popolazione e in parte per il rapido aumento dello sfruttamento delle acque sotterranee, in particolare per l’irrigazione. Il tasso di incremento è oggi di circa l’1% annuo, in sintonia con l’attuale tasso di crescita della popolazione» mondiale e, mentre esso si è stabilizzato nei paesi sviluppati, continua ad aumentare nelle economie emergenti e nei paesi a medio e basso reddito.

UNWater raccoglie anche i risultati dei monitoraggi sull’obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che riguarda l’acqua, cioè l’Obiettivo 6, che mira a garantire a tutti l’accessibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e dei servizi igienico sanitari@.

Secondo questi monitoraggi@, sul pianeta una persona su quattro non ha accesso a servizi di acqua potabile gestiti in maniera sicura e 2,3 miliardi di persone non hanno a casa propria servizi ai quali lavarsi le mani con acqua e sapone.

Inoltre, mancano dati sulla qualità dell’acqua a cui accedono tre miliardi di esseri umani: questo significa che tutte queste persone sono potenzialmente a rischio, poiché la salubrità dei fiumi, laghi e bacini sotterranei da cui attingono l’acqua che usano non è verificata e l’utilizzo di queste risorse idriche potrebbe esporle a inquinanti come batteri fecali, metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze chimiche contaminanti.

Garimpo Rio Madeira / © Alberto César Araújo – Amazonia Real

Il mercurio nei fiumi dell’Amazzonia

Fra i metalli pesanti responsabili dell’inquinamento di laghi e fiumi vi è il mercurio utilizzato nell’estrazione dell’oro: esso si amalgama all’oro separandolo dalla pietra e viene poi vaporizzato per lasciare libera la pepita.

Secondo il rapporto del 2018 dell’agenzia Onu per l’ambiente, Unep@, le attività artigianali e su piccola scala di estrazione dell’oro erano nel 2015 a livello globale il settore da cui derivava la quota più ampia delle immissioni di mercurio nell’aria (838 tonnellate su 2.220, il 37,7%). In America Latina, la quota era più che doppia: sul totale di 409 tonnellate per il continente, 340 tonellate venivano dalle attività minerarie artigianali su piccola scala, raggiungendo l’83%@.

L’Amazzonia vive una situazione particolarmente difficile da questo punto di vista: nel giugno 2021, le Nazioni Unite condannavano in un comunicato stampa@ gli attacchi dei minatori abusivi alle comunità indigene Munduruku, nel Pará, e Yanomami di Palimiú, in Roraima, ed esprimevano preoccupazione per gli alti livelli di contaminazione da mercurio registrati nella zona, specialmente nel pesce, che fornisce l’80% delle proteine nell’alimentazione delle popolazioni locali@.

«Per i popoli indigeni dell’Amazzonia», spiegava padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata che lavora a Baixo Cotingo, Roraima, in un articolo sulla rivista Missões lo scorso marzo@, «la sopravvivenza stessa dipende dall’acqua dei fiumi e degli igarapé», cioè i piccoli corsi d’acqua tributari del Rio delle Amazzoni. Negli ultimi tempi, si legge nell’articolo, con l’invasione dei minatori in Amazzonia, l’acqua del fiume Catrimani e degli altri fiumi della regione si è inquinata, creando problemi di salute alle popolazioni autoctone che bevono continuamente le acque di questi fiumi e mangiano il pesce che in essi vive. Si registrano oggi nei villaggi indigeni malattie e condizioni prima molto più rare: «Cancro, dolori di stomaco continui, impotenza, bambini nati con malformazioni, morti premature per cause non chiare».

Per questo, conclude il missionario, le comunità della zona tengono così tanto a raccogliere fondi per scavare pozzi artesiani, che garantiscono un’acqua più pulita di quella dei fiumi.

In cerca di acqua nel Baxio Cotingo, Roraima, Brasile

Il Kenya e la sua siccità pluriennale

L’Integrated food security phase classification (Ipc) è un’iniziativa che riunisce agenzie governative, agenzie Onu, Ong e altri partner per monitorare le crisi alimentari sul pianeta. Per indicare la gravità della situazione Ipc usa una scala con cinque fasi che descrivono la difficoltà dei nuclei famigliari a soddisfare il proprio bisogno di cibo.

La scala va dalla fase 1, in cui la difficoltà è minima o non c’è, alla fase 5, denominata «catastrofe», in cui è impossibile per le famiglie procurarsi cibo sufficiente. Le fasi intermedie sono:
– la 2, fase di stress,
– la 3, di crisi, e
– la 4, di emergenza.

Secondo Ipc, lo scorso settembre in Kenya 3,5 milioni di persone si trovavano in una condizione di insicurezza alimentare acuta, con 2,7 milioni di persone in fase 3 e poco meno di 800mila in fase 4. (Vedi su Nigrizia  il testo «Kenya: alla Cop 27 l’eco del dramma climatico»).

L’insicurezza alimentare, si legge nell’analisi pubblicata da Reliefweb, il servizio informazioni dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari@, è causata da un combinarsi di diversi shock, primo fra tutti la quarta stagione delle piogge consecutiva con precipitazioni insufficienti. Si aggiungono poi i conflitti locali per le risorse e l’aumento dei costi del cibo a causa della guerra in Ucraina. Le contee più colpite sono Isiolo, Turkana, Garissa, Mandera, Marsabit, Samburu, Wajir e Baringo, zone in cui vivono prevalentemente popolazioni che si dedicano alla pastorizia. Per i mesi da ottobre a dicembre, Ipc prevede un ulteriore peggioramento, con una proiezione che stima a 4,4 milioni le persone in fase di crisi, emergenza o catastrofe.

«Gli ultimi due anni sono stati pessimi», riporta da Isiolo, nel centro del Kenya, padre Joseph Kihwaga, missionario della Consolata, «non ha piovuto per niente. Molti animali sono morti, le persone hanno fame. Anche gli animali selvatici soffrono per questa situazione. Abbiamo dovuto allontanare degli elefanti che, attirati dall’acqua del nostro pozzo, sono arrivati dentro al complesso della missione distruggendo recinto e campi coltivati. Finora sono due le persone uccise da elefanti che vagavano fuori dal parco di notte. C’è paura anche per i bambini, che escono quando è ancora buio per andare a scuola e rischiano di incontrarli».

Loyangallani, El Molo Bay, Ol Molo Village. L’isola di Komote nel 2009.

Padre Mark Githonga, missionario della Consolata a Loyiangalani, sul lago Turkana (Nord del Kenya), scrive confermando che il governo ha imposto il coprifuoco a causa dei conflitti tribali locali. «Qui non piove da quattro anni», riferisce, «eppure il lago Turkana si è ingrandito@, inondando le zone costiere dalle quali le comunità locali, specialmente di etnia El Molo, erano solite pescare».

Sullo sfondo l’isola di Komote come è oggi, 2022

Il cibo, continua padre Mark, arriva qui portato da commercianti provenienti dalla zona centrale del paese. I prezzi però sono proibitivi a causa dei costi di trasporto e di stoccaggio e per le condizioni di insicurezza legate ai conflitti tribali. Le comunità che vivono sull’isola di Komote (nelle due foto qui sotto del 2009 e del 2022, ndr) sono fra quelle più in difficoltà, perché non c’è più abbastanza acqua pulita da incanalare negli impianti idrici che raggiungono l’isola dalla terraferma.

Non va meglio ad Adu, vicino a Malindi, città costiera bagnata dall’Oceano Indiano: «Nei sei anni dal 2016 a oggi, solo nel 2018 abbiamo avuto precipitazioni sufficienti», scrive padre Urbanus Mutunga. Le soluzioni tentate dal governo e da diverse Ong non sono bastate: ci sono vasche per raccogliere l’acqua piovana, ma sono vuote dal 2018, mentre il programma nutrizionale nelle scuole non esiste più, e così i tassi di abbandono scolastico aumentano. «C’è una migrazione di massa dai villaggi verso le città di Malindi, Lamu e Mombasa, le persone vanno a cercare lavoro e cibo ma spesso si trovano costrette a fare lavori umili o a prostituirsi per sopravvivere».

Chiara Giovetti


Acqua dolce

Sulla terra ci sono in totale 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua: un volume che possiamo immaginarci come una sfera dal diametro di 1.400 chilometri, la lunghezza del Madagascar.

Di quest’acqua il 97,5% è salata, il 2,5% è acqua dolce.

Solo l’1,2% di questa acqua dolce è facilmente fruibile (in superficie) per l’uomo, il resto è sottoterra (30,1%) oppure in forma di ghiaccio (68,7%).

Il 70% dell’acqua dolce disponibile è usata per l’agricoltura, il 19% per l’industria e l’11% per l’uso domestico.

Vedi il video, in inglese con sottotitoli in italiano, realizzato dal World water assessment programme (Wwap)@, programma dell’Unesco finanziato dal Governo italiano e con sede a Perugia@.

 

 




«I giovani avranno visioni»


Avverrà: ci sarà un tempo nel quale i bambini profeteranno, i giovani avranno visioni, gli anziani faranno sogni.
Allora la promessa realizzata sarà visibile, comunicabile, esperibile. E l’eternità sarà la durata dell’amore, e l’amore sarà origine e orizzonte della vita.

Sarà un tempo nel quale non mancheranno i segni del sangue e del fuoco, e nuvole di fumo saliranno al cielo come grida dal fondo di un pozzo, o di un rifugio antiaereo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue (cfr. At 2,17-21; Gl 3,1-5).

Nuove stragi d’innocenti si aggiungeranno a quelle passate. La speranza vacillerà, assieme alla fiducia nell’amore.

E avverrà: in quegli ultimi giorni, che saranno gli ultimi disperati, lo Spirito condurrà nel cuore di ciascuno la certezza della vita amata che non muore, dell’esistenza custodita e ricapitolata in Dio, salvata, guarita, unificata in quel piccolo adagiato in una mangiatoia, in quell’uomo che cammina nella polvere del mondo portando nei piedi i segni di un chiodo.

Avverrà, ed è già avvenuto. Saranno giorni, ed è già oggi, nei quali la morte non sarà meno dolorosa, ma non sarà l’ultima parola, la tenebra non sarà meno fitta, ma non sarà definitiva, e tutti i figli di Dio narreranno ai loro fratelli la gioia.

In attesa operosa della luce,

buon Avvento e buon Natale da amico.

Luca Lorusso

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Donne e libertà senza frontiere

Una pluralità di sguardi al femminile

Una raccolta di interventi di donne su come far uscire dall’angolo il ruolo femminile nella società. Uno sguardo sulla deriva securitaria e punitiva della nostra democrazia. Un racconto laicale e femminile di missione ad gentes e di famiglia multiculturale tra Kenya e Italia.

Adesso tocca a noi

Mentre scrivo, in Iran le proteste durano già da qualche settimana. Iniziate dopo la morte, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, una ragazza arrestata dalla «polizia morale» perché non portava correttamente il velo, ancora non si fermano.

Secondo l’Iran human rights, a inizio novembre, sono già morte 277 persone, tra cui 40 minori.

Al grido di «donna, vita, libertà», nel mondo si sono moltiplicate le manifestazioni a sostegno della contestazione.

Mi sembra quindi doveroso segnalare un’uscita recente per Edizioni Terrasanta: Adesso tocca a noi. Donne, leadership e altri misfatti. A curarlo è Chiara Tintori, politologa e saggista che ha svolto attività di ricerca e di docenza in varie università italiane. Fino al 2018 ha lavorato nella redazione della rivista «Aggiornamenti Sociali».

L’Italia non è l’Iran, certo, però anche qui, da anni, il ruolo della donna continua a essere marginale nei processi decisionali.

Adesso tocca a noi non è un libro rivendicativo sulla parità tra uomo e donna, ma porta la testimonianza di donne che, là dove sono, stanno provando a fare la differenza. Quella stessa differenza che, quando è assente, frena lo sviluppo sociale, politico ed economico del paese.

Le voci femminili di questo libro (da Susanna Camusso a Letizia Moratti, da Maura Gangitano a Cristina Simonelli) ci ricordano che riconoscere alle donne ciò che meritano, sulla base di competenze e talenti, è una questione di dignità che riguarda non solo il valore delle persone, ma anche la dimensione etica e culturale della nostra società.

Difficilmente il nostro ritardo verrà colmato dal fatto che oggi il presidente del Consiglio dei ministri in Italia è una donna, se non crescerà la consapevolezza che il «pinkwashing» dietro il quale spesso ci nascondiamo rivela debolezza culturale.

Per comprendere meglio le radici di quanto sta capitando nella regione persiana può essere utile recuperare un libro del 2016, edito da Bompiani: Finché non saremo liberi, del premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a riceverlo. Con il suo impegno da avvocato per i diritti umani, difendendo soprattutto le donne e i bambini dal brutale regime iraniano, ha ispirato una generazione intera. Per questo il governo ha cercato di ostacolarla, ha intercettato le sue telefonate, ha messo sotto sorveglianza il suo ufficio, l’ha fatta pedinare, ha minacciato lei e i suoi cari con metodi violenti.

Nel libro ripercorre non solo la sua vicenda personale, ma la contestualizza rendendo comprensibile ai nostri occhi la follia alla quale stiamo assistendo in questi giorni.

Il malinteso della vittima

Guardando la questione femminile da un altro punto di vista, segnalo Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, uscito in settembre per Edizioni Gruppo Abele e scritto dalla sociologa e filosofa del diritto Tamar Pitch.

Il libro è una critica serrata alla deriva securitaria della società che trasforma tutte le persone, e le donne in particolare, in potenziali vittime.

«Il termine “sicurezza” – spiega l’autrice – si è spogliato, ormai da parecchi anni, delle caratteristiche sociali cui era legato (lavoro, salute, diritti): oggi ci si sente al sicuro con condizioni che ci proteggono individualmente dal rischio di diventare “vittime” di comportamenti dannosi. Da qui l’assunto che tutte e tutti siamo vittime potenziali; quindi fenomeni sociali complessi vengono governati con il codice penale e, di fatto, si criminalizza la povertà, la marginalità sociale, l’immigrazione. Ma com’è successo tutto questo? E soprattutto, com’è successo che a questa deriva securitaria aderiscano “movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce? Perché, in particolare, questo succede in un movimento come quello femminista, che è ri-nato (in Italia, ma non solo) contro la rappresentanza (ognuna parla per sé, a partire da sé), nel contesto delle spinte antiautoritarie degli anni Sessanta?”».

Senza frontiere

L’ultima segnalazione riguarda il volume Senza frontiere. Diario di una missionaria laica in Kenya. Arriva dall’Editrice Ave e porta la firma di Patrizia Manzone, originaria di Monforte d’Alba (Cn), classe 1979. Laureata in Scienze religiose e attiva nella pastorale giovanile e missionaria della diocesi di Alba, nel 2008 è inviata come laica missionaria a Marsabit, diocesi nel Nord del Kenya, legata fin dagli anni Sessanta a quella di Alba.

Trascorre quattordici anni in terra keniana, durante i quali si sposa con Michael, farmacista a Nairobi. Nel 2022, con il marito keniano e i tre figli, intraprende una nuova missione, in Italia, come «Famiglia missionaria a km 0» nella parrocchia di Cherasco, sempre nel cuneese.

«Ricordo il giorno in cui, incontrando il mio viceparroco in oratorio, gli dissi: “A diciotto anni andrò in Africa!” – racconta Patrizia Manzone -. Lui mi chiese stupito: “Per fare cosa?”. Sono rimasta in silenzio: io volevo solo “stare”. Ma stare per fare cosa? Niente di eccezionale, le stesse cose che faccio qui. “Essere cristiana con loro, tra loro”, mi viene da rispondere adesso. Vivere il più vicino possibile alla gente del posto, consapevole che io non sarò mai un’africana (perché ho sempre una garanzia, una casa, una famiglia, un ospedale europei dove posso tornare), e continuare a imparare da loro la libertà e la semplicità dei figli di Dio e dare quello che sono».

In un’intervista a «La Stampa» di qualche tempo fa raccontava: «In questi anni di permanenza in Kenya, abbiamo cercato di aprire gli occhi, abbandonando la nostra zona “comfort” che ci fa sentire giusti, sicuri e protetti, per metterci in ascolto di culture e modi di vivere diversi dal nostro […]. Alla base […] il concetto di scambio, per mettere a frutto le capacità della persona e non un’assistenza caritativa a senso unico, che intrappola e rende dipendenti».

Un piccolo semplice manifesto per un mondo migliore. Dall’Iran fino al Kenya, passando da casa nostra.

Sante Altizio




Sommario MC Dicembre 2022


Disponibile online dal 10 dicembre. – Clicca su titoli o immagini per andare al testo desiderato. |


Editoriale

A Gesù Bambino

Caro Gesù Bambino,
quando sei nato c’era la «pax romana». Che fosse pace lo dicevano i dominatori del tempo e i loro lacchè, ovviamente. In realtà la maggioranza delle persone viveva sotto una servitù diffusa, drogata da «panem et circenses». Se nascessi oggi, troveresti invece la «pax atomica», «garantita» da oltre 13mila testate nucleari. Una vera follia, visto che se ne esplodessero anche solo 600, ogni forma di vita sarebbe estinta per sempre su tutta la terra. Nessuno, per ora, sembra davvero intenzionato a lanciare la prima. E speriamo non lo sia mai.

Dossier

Stati Uniti

Alaska, ultima frontiera

Nel 49.mo stato degli Usa – posto a ridosso del Circolo polare artico – il cambio climatico è molto più evidente che altrove. Come dimostra il rapido scioglimento dei ghiacciai con tutte le conseguenze che ciò comporta. Eppure, oggi si discute su come portare le trivellazioni petrolifere in altre aree dello stato. Aree ancora intonse e selvagge.


Articoli

(Photo by Koki Kataoka / Yomiuri / The Yomiuri Shimbun via AFP)

Cina

Novità e conferme dal XX Congresso del Partito comunista cinese

Xi Jinping piglia tutto

A ottobre si è celebrato il ventesimo Congresso del Pcc che ha consacrato Xi Jinping alla guida del partito e del paese per un terzo mandato. È la prima volta dai tempi di Mao. Sicurezza e sviluppo sul lungo termine sono le priorità. E Xi fa modificare lo statuto del partito inserendo i «suoi» principi.

(Photo by Alexandre Gondim / Agência Estado / Agência Estado via AFP)

Brasile

Dentro la pastorale carceraria, con padre Gianfranco Graziola

Un mondo senza carceri

La prigione non ha mai risolto i problemi sociali. Diventa una forma di controllo della società stessa e della povertà. La Chiesa cerca di dare risposte con la pastorale carceraria. In Brasile c’è un esempio unico al mondo di lavoro di squadra.

Montenegro

Una diversità bioculturale da salvare nel cuore dei Balcani

L’altopiano della discordia

L’altopiano di Sinjajevina ha una biodiversità unica. Si è costituita grazie a secoli di gestione come «bene comune» da parte delle comunità pastorali native. Da alcuni anni è minacciato da un centro militare installato dal governo. Ma attivisti di tutto il mondo vogliono salvarlo.

La torre dell’orologio, chiamata «Spasskaja» (del Salvatore), al Cremlino. Foto Aburiakov – Pixabay.

Russia

La guerra vista dalla capitale

Mosca soffre (ma non piange)

Anche nella capitale russa la guerra in Ucraina (già «operazione speciale») si fa sentire, ma il popolo russo è abituato alle privazioni. Che però pesano molto su istituzioni prestigiose come l’Accademia delle scienze.

Ucraina

Incontro con uno dei promotori di #Stopthewarnow

Chi gioca alla guerra, chi crede nella pace

Una rete di 175 enti italiani porta in Ucraina aiuti contro fame e freddo, mette in salvo i più fragili, realizza progetti per l’acqua potabile, ma soprattutto stabilisce relazioni con persone e società civile locale per far crescere la pratica della pace. In Ucraina come in Italia ed Europa.

 


Rubriche

Padre Egidio Pedenzini

Noi e voi

«Ace olleng’ lpateri Egidio»,
tante grazie padre Egidio (Pedenzini),
più breve ricordo di padre Mario Biestra
su invito di un lettore.

 

 

 

E la chiamano economia

I costi degli eserciti

La spesa militare continua a crescere. Nei paesi ricchi come in quelli poveri.  I soldi vengono sottratti alla sanità, all’istruzione, alla sicurezza sociale. Un domani senza eserciti rimane un sogno lontano.

Esodo 20

Uno sguardo dall’alto

Durante la lettura del libro dell’Esodo abbiamo cercato di concentrare l’attenzione sul testo biblico, perché fosse quello la nostra guida. Nello stesso tempo, però, abbiamo tentato di segnalare che quel testo non si vuole limitare a raccontare una bella storia (c’è anche questo, nella Bibbia), ma ha anche un intento educativo e propone un percorso di crescita nel rapporto con Dio.

Anche per questo, forse soprattutto per questo, leggiamo testi antichi. Perché ci parlano sì dei tempi ormai passati, ma continuano a valere per l’umanità di sempre. Vogliamo ora provare a riprendere il discorso, sempre a partire dal libro, ma stavolta nel suo complesso, e guardando maggiormente alla sua validità per l’oggi.

I perdenti special

San Lazzaro Devasahayam

«La canonizzazione del beato Lazzaro, chiamato Devasahayam, è un’affermazione del suo essere stato discepolo di Gesù, avendo vissuto pienamente il Vangelo nella sua vita. Era un laico, e questo rivela che la santità è per ogni persona, non solo per i religiosi. Oggi parliamo sempre più spesso della vocazione dei laici nella Chiesa, e qui c’è un laico indiano, un padre di famiglia, che ha offerto una testimonianza vera e genuina dei valori del Vangelo. Amava i poveri e i Dalit ed era un potente testimone dello Spirito di Cristo» (card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai).

Un esemplare di tartaruga (rettile a rischio estinzione). Foto David Mark – Pixabay.

Madre Terra

Invasione e distruzione degli habitat

Non c’è un domani senza biodiversità

L’uomo sta occupando, distruggendoli o modificandoli, gli habitat di molte specie animali. Ciò mette a rischio sia la loro sopravvivenza che l’equilibrio ambientale, favorendo al tempo stesso la diffusione delle malattie di origine zoonotica.

Cooperando

La crisi dell’acqua ora è globale

I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.

 

Amico

«I giovani avranno visioni»

Avverrà: ci sarà un tempo nel quale i bambini profeteranno, i giovani avranno visioni, gli anziani faranno sogni.
Allora la promessa realizzata sarà visibile, comunicabile, esperibile. E l’eternità sarà la durata dell’amore, e l’amore sarà origine e orizzonte della vita.
Sarà un tempo nel quale non mancheranno i segni del sangue e del fuoco, e nuvole di fumo saliranno al cielo come grida dal fondo di un pozzo, o di un rifugio antiaereo.
Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue (cfr. At 2,17-21; Gl 3,1-5).

Nuove stragi d’innocenti si aggiungeranno a quelle passate. La speranza vacillerà, assieme alla fiducia nell’amore.

E avverrà: in quegli ultimi giorni, che saranno gli ultimi disperati, lo Spirito condurrà nel cuore di ciascuno la certezza della vita amata che non muore, dell’esistenza custodita e ricapitolata in Dio, salvata, guarita, unificata in quel piccolo adagiato in una mangiatoia, in quell’uomo che cammina nella polvere del mondo portando nei piedi i segni di un chiodo.
Avverrà, ed è già avvenuto. Saranno giorni, ed è già oggi, nei quali la morte non sarà meno dolorosa, ma non sarà l’ultima parola, la tenebra non sarà meno fitta, ma non sarà definitiva, e tutti i figli di Dio narreranno ai loro fratelli la gioia.

In attesa operosa della luce, Buon Avvento e buon Natale da amico.

Librarsi

Una pluralità di sguardi al femminile

Donne e libertà senza frontiere

Una raccolta di interventi di donne su come far uscire dall’angolo il ruolo femminile nella società. Uno sguardo sulla deriva securitaria e punitiva della nostra democrazia. Un racconto laicale e femminile di missione ad gentes e di famiglia multiculturale tra Kenya e Italia.

 


Indice dell’anno 2022

Tutti i titoli dei testi dell’anno organizzati per continente e nazione, argomento, rubriche e tanto altro.