Xi Jinping piglia tutto
Novità e conferme dal XX Congresso del Partito comunista cinese
A ottobre si è celebrato il ventesimo Congresso del Pcc che ha consacrato Xi Jinping alla guida del partito e del paese per un terzo mandato. È la prima volta dai tempi di Mao. Sicurezza e sviluppo sul lungo termine sono le priorità. E Xi fa modificare lo statuto del partito inserendo i «suoi» principi.
Ciascuna delle città scelte da Xi Jinping per la prima visita dopo aver ricevuto ognuno dei suoi tre mandati, ha un significato simbolico. Shenzen nel 2012, emblema del miracolo economico cinese. Shanghai nel 2017, luogo di fondazione del Partito comunista cinese ma anche principale porta d’accesso della Cina continentale al mondo. Yan’an nel 2022, destinazione finale della «lunga marcia» di Mao Zedong e base del partito comunista cinese dal 1935 al 1948, prima che la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek volgesse a favore dei comunisti. Per avere un indizio sulla direzione del terzo mandato di Xi Jinping bisogna partire da quello che è successo subito dopo il XX Congresso del partito, cioè dalla città scelta per la sua prima visita ufficiale. Un netto cambio rispetto alle scelte operate dopo il XVIII e il XIX Congresso. Il trionfo di Xi va ben al di là della sua scontata conferma: il presidente ha ottenuto una squadra a sua immagine e somiglianza, nonché emendamenti allo statuto del partito che elevano ulteriormente il suo status. Questo ha peraltro messo fine a una serie di prassi e regole non scritte che avevano sempre sorretto il funzionamento delle nomine e della selezione delle cariche apicali. Rendendo manifesto che Xi non solo controlla il partito: Xi ormai è il partito.
Hu Jintao
L’immagine che resterà nella mente di tutti come avvio del terzo mandato di Xi è quella di Hu Jintao, il predecessore, che viene scortato fuori dall’aula durante l’ultima sessione del Congresso. Un episodio controverso sul quale non sapremo mai tutta la verità. Forse esagerato parlare di purga per la dinamica e le circostanze, certamente, però, è riduttivo ascrivere tutto a un semplice «problema di salute», visto che l’anziano leader (il quale pare soffra di una forma di demenza senile) non sembrava d’accordo a lasciare il suo posto. Ma la vera «epurazione» è arrivata lontano dalle telecamere, ed è stata quella di Hu Chunhua. Per lungo tempo considerato un astro nascente della politica cinese, membro della Lega della gioventù comunista, feudo proprio di Hu Jintao, è stato escluso non solo dal Comitato permanente di sette membri, ma persino dal Politburo (tradizionalmente 25 membri, ora inusualmente 24, si dice, per un’esclusione dell’ultimo momento).
Attenzione però a pensare che il cambio di passo sia stato qualcosa di improvviso. Il processo di consolidamento del potere di Xi è avvenuto passo dopo passo, non è frutto di una rivoluzione inattesa. Prima le promesse di riforme economiche e il lancio della Belt and road initiative nel 2013 (la nuova via della seta, ndr), poi la rimozione del vincolo dei due mandati nel 2018. Infine, l’ingresso ufficiale nel terzo atto della «nuova era» di Xi senza che nemmeno si intraveda all’orizzonte un possibile erede.
Il 23 ottobre, quando ha calcato di nuovo il tappeto rosso della Grande sala del popolo in testa alla fila dei sette membri del Comitato permanente, il segretario generale non ha solo ufficializzato il suo terzo mandato, ma ha anche allungato le mani (incognite e imprevisti permettendo) sul quarto.
Xi, atto terzo
Ma come sarà il terzo mandato di Xi? Partiamo dall’economia. «Mi aspettavo qualche messaggio un po’ più favorevole alla crescita, ma credo che la preoccupazione di Xi sia soprattutto a lungo termine. Egli punta a una crescita di qualità superiore per la Cina, senza preoccuparsi troppo della traiettoria di crescita a breve termine. Questo è un po’ deludente, perché ci sono molte sfide legate alla crescita nell’immediato», dice Victor Shih Ho Miu Lam, moderatore della San Diego University e autore di diversi libri sul sistema economico e politico cinesi. Una di queste è certamente la strategia «zero Covid». In molti speravano che dopo il congresso le restrizioni si rilassassero. In un’inusuale protesta pochi giorni prima dell’appuntamento politico, a Pechino sono apparsi anche degli striscioni che criticavano direttamente il leader. Altre scritte sono apparse in diverse città cinesi. Ma Xi si è intestato il successo della gestione sanitaria che, nella narrativa di Pechino, rappresenta un segnale della superiorità del suo modello rispetto a quello occidentale, nonché la prova del rispetto dei «diritti umani». Con caratteristiche cinesi, ovviamente. Il mancato ripensamento delle politiche sul Covid è reso evidente anche dalla scelta di Li Qiang come prossimo premier. Capo del partito a Shanghai, è colui che ha gestito il disastroso lockdown dei mesi scorsi. Evento che sembrava averlo tagliato fuori dalla corsa per un ruolo di primo piano, nonostante la dimestichezza in campo amministrativo e la familiarità con i tanti investitori internazionali che popolano Shanghai, e che hanno vissuto, però, con sgomento la recente fase dei restringimenti. «All’interno del partito, Li non è mai stato squalificato, perché ha solo applicato l’approccio alla pandemia voluto da Xi. Di certo, la sua promozione è basata anche e soprattutto sulla lealtà e lo stretto rapporto che ha con Xi», dice Shih.
Tutto rientra nel mantra della «sicurezza», la parola più utilizzata da Xi nella sua relazione politica dopo le classiche «partito», «popolo» e «nazione». Un’ossessione dovuta al fatto che la Cina si sente sotto attacco sul fronte economico. Le ultime mosse di Joe Biden sui semiconduttori, infatti, hanno portato Xi a chiedere un’accelerazione sul fronte dell’autosufficienza tecnologica. Ma ha anche portato a una pioggia di promozioni per una nuova classe di «tecnocrati» con esperienza e formazione tecnologica e scientifica, in particolare nel settore dell’aerospazio. Un cambio di passo rispetto al passato. Se finora la gestione delle nomine era garantita da una serie di legami e rapporti costruiti all’interno di diverse fazioni, ora l’unica fazione rimasta è quella di Xi, e i nuovi «tecnocrati» sono figure con maggiori competenze, ma minori intrecci relazionali.
Con una Cina sotto attacco, il partito sente il bisogno di avere ulteriore controllo sociale, a partire dal fronte interno. «Sviluppo e sicurezza per Xi sono la stessa cosa. C’è bisogno di sviluppo ma anche di molta sicurezza, soprattutto controllata dal partito. Per Xi, anche se la Cina diventasse incredibilmente ricca non avrebbe senso se non fosse controllata dal partito», sostiene Shih. Ed ecco allora la presenza più massiccia dello stato nell’economia, con il settore privato e, in particolare, quello tecnologico «rettificati» per seguire le necessità strategiche della politica e geopolitica cinese.
I principi di Xi
L’inserimento nello statuto del partito di altri due principi utilizzati da Xi negli ultimi anni rinforza il messaggio: con la «prosperità comune» si chiarisce che la ricchezza va redistribuita e che il partito eviterà eccessivi accentramenti di potere e ricchezze private; con la «doppia circolazione», invece, si ribadisce che il focus deve essere quello di stimolare i consumi interni e ridurre la dipendenza dalle esportazioni, e dunque dall’esterno.
È un sistema dove l’unico a mantenere il controllo è il partito, e dunque Xi. Ciò significa che, nero su bianco, Xi è il nucleo del partito. Criticarlo ora significa mettersi automaticamente fuori dal partito.
La stessa necessità di controllo esiste anche sul fronte esterno. «Xi continua a vedere complotti occidentali che cercano di minare la Cina. Per questo al congresso si è concentrato molto sui concetti di lotta e di sicurezza». Se fino a poco tempo fa i leader cinesi parlavano soprattutto di «opportunità strategiche», ora Xi parla di «pericoli» e «acque tempestose» da navigare con ambizione e mano ferma che, evidentemente, possono essere garantire solo un «timoniere» senza distrazioni interne e con una squadra compatta e pronta a combattere senza mettere in discussione la rotta intrapresa.
Oltre lo stretto
Dopo aver risolto la questione di Hong Kong e portato, come detto da Xi, l’ex colonia britannica dal «caos» alla «stabilità», il mirino si sposta al di là dello stretto (di Taiwan, ndr). L’inedito inserimento, nello statuto, dell’opposizione alla «indipendenza di Taiwan» svela che la questione di Taipei sarà una delle priorità del terzo mandato di Xi. Anche sullo stretto, la Cina si percepisce o si racconta come sotto attacco di «interferenze esterne», in particolare quelle americane. Il messaggio arrivato dal Congresso è chiaro: Pechino non arretra sul tema della «riunificazione», che considera legato a doppio filo con quello più vasto del «ringiovanimento nazionale» e della realizzazione di una società «socialista, forte e armoniosa» entro il centenario della Repubblica popolare nel 2049.
«Xi ha voluto segnalare che il tema di Taiwan avrà una priorità maggiore nei prossimi cinque anni e che ritiene urgente fare dei progressi sul percorso di unificazione», spiega Wen Ti-sung, analista dell’Australian national university.
In che modo Xi intende fare progressi? «Probabilmente attraverso l’integrazione economica e il lavoro del fronte unito, piuttosto che tramite l’uso della forza», sostiene Wen. «Xi sta segnalando la minaccia di una crescente internazionalizzazione della questione di Taiwan, che è una delle sempre sfuggenti linee rosse della Repubblica popolare. In termini militari, Pechino raddoppierà gli sforzi e la presenza sullo stretto per negare agli attori stranieri la capacità militare di intervenire in una eventuale contingenza sul posto. Cercherà di limitare la libertà d’azione dell’esercito taiwanese, istituzionalizzando la presenza al di là della linea mediana in modo da intaccare il suo morale, sperando di far capitolare le resistenze», aggiunge.
L’emendamento allo statuto potrebbe rappresentare la base per una nuova misura normativa che allarghi lo spettro dell’attuale legge anti secessione per provare a recidere i rapporti tra mondo imprenditoriale taiwanese e partito di governo in vista delle elezioni presidenziali del 2024, che saranno in sostanza presentate come una scelta tra pace (col più dialogante Kuomintang) o guerra (col Partito progressista democratico che dovrebbe candidare William Lai, figura ben più radicale dell’attuale presidente Tsai Ing-wen).
Nel frattempo, procede spedito l’ammodernamento dell’esercito, e a capo della Commissione militare centrale, presieduta sempre da Xi, sono stati posti generali con grande esperienza «taiwanese». A partire da He Weidong, che ha guidato le esercitazioni militari senza precedenti che hanno fatto seguito alla visita di Nancy Pelosi a Taipei nell’agosto scorso.
Sistemi di deterrenza
Forse la Cina non vuole la guerra, o non la vuole ancora. Ma di certo si sta preparando a combatterla qualora fosse necessario. O qualora sentisse che il tempo non è più dalla sua parte come ha sempre pensato. Non a caso il XX Congresso apre anche a un rafforzamento dell’arsenale nucleare. Xi ha infatti preannunciato «un forte sistema di deterrenza strategica». Secondo il Pentagono, la Cina potrebbe avere circa 700 testate nucleari trasportabili nel 2027 e almeno mille nel 2030.
La dottrina cinese impone di non utilizzare per primi le armi nucleari, ma Pechino vuole rafforzare la sua deterrenza mentre la rivalità con Washington sembra ormai su un piano inclinato. «In fin dei conti – avverte Shih -, la decisione di utilizzare un’opzione militare su Taiwan dipende da una sola persona, Xi Jinping, e la decisione di una sola persona, come stiamo vedendo nel caso della Russia, può essere altamente imprevedibile».
Ecco, al di là delle incognite sul fronte economico, è proprio questa la chiave per capire che cosa potrà succedere nel terzo mandato di Xi. In passato il partito ha sempre ritenuto che il tempo giocasse a suo favore. Se ora cambiasse definitivamente prospettiva, convinto da un’America che ha ormai chiarito definitivamente che considera la Cina il primo rivale strategico nel lungo termine, potrebbe diventare impaziente. E la già tanta confusione sotto il cielo, parafrasando Mao Zedong, potrebbe stavolta non portare a una situazione eccellente.
Lorenzo Lamperti
Firmato il rinnovo dell’accordo con il Vaticano
L’arte del possibile
La Santa sede rinnova l’accordo con Pechino sulla nomina dei vescovi, facendo un passo avanti nei rapporti bilaterali con il gigante asiatico. Papa Francesco ha a cuore i cattolici cinesi, una minoranza importante.
Poprio nelle ore in cui a Pechino si consumava l’ultimo capitolo del XX Congresso del Partito comunista cinese, nella Città del Vaticano veniva annunciato il rinnovo dell’accordo sulla nomina dei vescovi. Si tratta della seconda conferma del primo accordo biennale firmato nel settembre 2018. Sarà in vigore dunque fino al 2024. La Santa sede ha spiegato che «si impegna a continuare un dialogo rispettoso e costruttivo con la parte cinese per una produttiva attuazione dell’accordo e un ulteriore sviluppo delle relazioni bilaterali, al fine di promuovere la missione della Chiesa cattolica e il bene del popolo cinese». I termini dell’accordo non sono mai stati resi pubblici, creando qualche dubbio tra i critici. Anche perché le segnalazioni di rimozione di croci e chiusure di luoghi di culto sono proseguite negli ultimi anni. Nelle scorse settimane è iniziato il processo a carico di Joseph Zen, l’ex cardinale di Hong Kong che è entrato nel mirino delle autorità ai sensi della legge di sicurezza nazionale e che è sempre stato molto critico sulla distensione dei rapporti tra Vaticano e Pechino.
Il partito comunista cerca d’altronde di «sinizzare» le fedi religiose e farle entrare in armonia con le famose «caratteristiche cinesi», di cui l’unico possibile custode è il partito stesso.
Il cardinale Pietro Parolin ha spiegato che «Papa Francesco, con determinazione e paziente lungimiranza, ha deciso di proseguire su questa strada non nell’illusione di trovare la perfezione nelle regole umane, ma nella concreta speranza di poter assicurare alle comunità cattoliche cinesi, anche in un contesto così complesso, la guida di pastori degni e adatti al compito loro affidato».
Lo scorso luglio, anche il pontefice ha difeso l’accordo: «La diplomazia è l’arte del possibile e del fare le cose perché il possibile diventi realtà», ha detto papa Bergoglio. Ricordando il dialogo mantenuto dal Vaticano con i governi comunisti dell’Europa orientale durante la guerra fredda. D’altronde il Vaticano ha sempre sottolineato l’obiettivo pastorale di un accordo teso a tutelare i fedeli cinesi che sono pochi in proporzione a un paese da circa un miliardo e mezzo di abitanti, ma parecchi come numeri assoluti (si stimano in 16 milioni). E di fronte al rischio di una nuova guerra fredda, o di una terza guerra mondiale frammentata, come paventato già da tempo da papa Francesco, la Santa sede ritiene di dover tenere aperto un canale di dialogo con un paese così grande e così influente come la Repubblica popolare cinese, nonostante intrattenga anche rapporti diplomatici ufficiali con la Repubblica di Cina, cioè Taiwan.
Lorenzo Lamperti
Archivio MC
• Taiwan. Vento europeo sullo stretto, Lorenzo Lamperti, luglio 2022.
• Cina, Xinjiang. Autonomia made in Pechino (dossier), Piergiorgio Pescali, gennaio 2021.
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