La crisi dell’acqua ora è globale
I fiumi dell’Amazzonia sono inquinati dal mercurio, in Africa orientale quattro stagioni delle piogge consecutive non hanno avuto precipitazioni sufficienti. Di siccità e di lotta agli sprechi idrici si parla da almeno sessant’anni, ma ora la crisi è davvero planetaria.
«L’Africa orientale è in agonia, flagellata dalla più avara siccità degli ultimi 15 anni. Da Gibuti attraverso l’Etiopia fino al Sudan meridionale, lungo la Somalia, il Kenya e l’Uganda, la terra è una fornace bianca, come ossa decrepite». E ancora: «L’inclemenza delle stagioni che, da qualche anno in Kenya e da due anni in Tanganyika non accenna a finire, ha gettato intere popolazioni nella terribile condizione di non potersi sfamare. Lunghi periodi di siccità hanno bruciato i raccolti; successive piogge torrenziali hanno travolto ogni cosa nella loro furia. […] le stagioni hanno perso quella regolarità propria dei paesi tropicali».
Ognuno di questi virgolettati potrebbe riferirsi alla difficile situazione in cui si trova l’Africa orientale in questo momento; invece, il primo è preso da un articolo del Newsweek, The grim famine of 1980, apparso nell’agosto del 1980 e pubblicato in una libera traduzione su Missioni Consolata nel dicembre dello stesso anno, mentre il secondo viene da un articolo pubblicato su Missioni Consolata nell’aprile del 1962, sessanta anni fa.
Ma le assonanze con l’oggi non si limitano al Corno d’Africa: anche in Italia, chi ha almeno quarant’anni potrebbe avere avuto un déjà vu ascoltando le raccomandazioni diffuse dal ministero della Transizione ecologica su come evitare lo spreco di acqua@ nei mesi della scorsa estate, in cui l’Europa ha vissuto la più grave siccità degli ultimi 500 anni.
Le indicazioni, infatti, ricordavano quelle delle campagne degli anni Ottanta, che erano spesso promosse dagli enti locali: «Potabile, non sprecabile», recitavano ad esempio i poster affissi lungo le strade di una città emiliana. Addirittura del 1977 era la campagna di Pubblicità progresso «A difesa dell’acqua»@ che mostrava – proprio come l’articolo su MC del 1962 – i due opposti volti della crisi idrica: l’eccesso e la scarsità di acqua.
Questi precedenti non servono a ridimensionare il problema, al contrario: danno la misura del suo aggravarsi dopo decenni di azioni poco incisive. Se le emergenze idriche erano già tali decenni fa, quando il cambiamento climatico non era, come ora, un fenomeno conclamato con effetti planetari e la popolazione mondiale era la metà di quella odierna, è chiaro il motivo per cui oggi tante fonti istituzionali, accademiche e giornalistiche parlano senza mezzi termini di crisi idrica globale.
I numeri della crisi
Secondo il più recente rapporto di UNWater, il meccanismo di coordinamento delle agenzie Onu che si occupa di acqua e sanificazione, sono 2,3 miliardi gli abitanti del pianeta che vivono in zone con stress idrico, nelle quali cioè si estrae il 25% o più delle risorse rinnovabili di acqua dolce. Di questi, 733 milioni abitano in territori in cui lo stress idrico è alto (fra il 75 e il 100% delle risorse rinnovabili estratte) o critico (oltre il 100%). Le persone che vivono in aree dove si registra una grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno sono quattro miliardi, poco meno di metà della popolazione mondiale@.
Il rapporto cita le stime di Acquastat, il portale statistico dell’agenzia Onu per l’alimentazione e l’agricoltura, Fao, secondo le quali «il prelievo globale di acqua dolce era probabilmente di circa 600 chilometri cubi all’anno nel 1900 ed è aumentato a 3.880 chilometri cubi all’anno nel 2017. Il tasso di aumento è stato particolarmente elevato (circa il 3% all’anno) durante il periodo dal 1950 al 1980, in parte a causa di un maggiore tasso di crescita della popolazione e in parte per il rapido aumento dello sfruttamento delle acque sotterranee, in particolare per l’irrigazione. Il tasso di incremento è oggi di circa l’1% annuo, in sintonia con l’attuale tasso di crescita della popolazione» mondiale e, mentre esso si è stabilizzato nei paesi sviluppati, continua ad aumentare nelle economie emergenti e nei paesi a medio e basso reddito.
UNWater raccoglie anche i risultati dei monitoraggi sull’obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che riguarda l’acqua, cioè l’Obiettivo 6, che mira a garantire a tutti l’accessibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e dei servizi igienico sanitari@.
Secondo questi monitoraggi@, sul pianeta una persona su quattro non ha accesso a servizi di acqua potabile gestiti in maniera sicura e 2,3 miliardi di persone non hanno a casa propria servizi ai quali lavarsi le mani con acqua e sapone.
Inoltre, mancano dati sulla qualità dell’acqua a cui accedono tre miliardi di esseri umani: questo significa che tutte queste persone sono potenzialmente a rischio, poiché la salubrità dei fiumi, laghi e bacini sotterranei da cui attingono l’acqua che usano non è verificata e l’utilizzo di queste risorse idriche potrebbe esporle a inquinanti come batteri fecali, metalli pesanti, pesticidi, solventi e altre sostanze chimiche contaminanti.
Il mercurio nei fiumi dell’Amazzonia
Fra i metalli pesanti responsabili dell’inquinamento di laghi e fiumi vi è il mercurio utilizzato nell’estrazione dell’oro: esso si amalgama all’oro separandolo dalla pietra e viene poi vaporizzato per lasciare libera la pepita.
Secondo il rapporto del 2018 dell’agenzia Onu per l’ambiente, Unep@, le attività artigianali e su piccola scala di estrazione dell’oro erano nel 2015 a livello globale il settore da cui derivava la quota più ampia delle immissioni di mercurio nell’aria (838 tonnellate su 2.220, il 37,7%). In America Latina, la quota era più che doppia: sul totale di 409 tonnellate per il continente, 340 tonellate venivano dalle attività minerarie artigianali su piccola scala, raggiungendo l’83%@.
L’Amazzonia vive una situazione particolarmente difficile da questo punto di vista: nel giugno 2021, le Nazioni Unite condannavano in un comunicato stampa@ gli attacchi dei minatori abusivi alle comunità indigene Munduruku, nel Pará, e Yanomami di Palimiú, in Roraima, ed esprimevano preoccupazione per gli alti livelli di contaminazione da mercurio registrati nella zona, specialmente nel pesce, che fornisce l’80% delle proteine nell’alimentazione delle popolazioni locali@.
«Per i popoli indigeni dell’Amazzonia», spiegava padre Jean-Claude Bafutanga, missionario della Consolata che lavora a Baixo Cotingo, Roraima, in un articolo sulla rivista Missões lo scorso marzo@, «la sopravvivenza stessa dipende dall’acqua dei fiumi e degli igarapé», cioè i piccoli corsi d’acqua tributari del Rio delle Amazzoni. Negli ultimi tempi, si legge nell’articolo, con l’invasione dei minatori in Amazzonia, l’acqua del fiume Catrimani e degli altri fiumi della regione si è inquinata, creando problemi di salute alle popolazioni autoctone che bevono continuamente le acque di questi fiumi e mangiano il pesce che in essi vive. Si registrano oggi nei villaggi indigeni malattie e condizioni prima molto più rare: «Cancro, dolori di stomaco continui, impotenza, bambini nati con malformazioni, morti premature per cause non chiare».
Per questo, conclude il missionario, le comunità della zona tengono così tanto a raccogliere fondi per scavare pozzi artesiani, che garantiscono un’acqua più pulita di quella dei fiumi.
Il Kenya e la sua siccità pluriennale
L’Integrated food security phase classification (Ipc) è un’iniziativa che riunisce agenzie governative, agenzie Onu, Ong e altri partner per monitorare le crisi alimentari sul pianeta. Per indicare la gravità della situazione Ipc usa una scala con cinque fasi che descrivono la difficoltà dei nuclei famigliari a soddisfare il proprio bisogno di cibo.
La scala va dalla fase 1, in cui la difficoltà è minima o non c’è, alla fase 5, denominata «catastrofe», in cui è impossibile per le famiglie procurarsi cibo sufficiente. Le fasi intermedie sono:
– la 2, fase di stress,
– la 3, di crisi, e
– la 4, di emergenza.
Secondo Ipc, lo scorso settembre in Kenya 3,5 milioni di persone si trovavano in una condizione di insicurezza alimentare acuta, con 2,7 milioni di persone in fase 3 e poco meno di 800mila in fase 4. (Vedi su Nigrizia il testo «Kenya: alla Cop 27 l’eco del dramma climatico»).
L’insicurezza alimentare, si legge nell’analisi pubblicata da Reliefweb, il servizio informazioni dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari@, è causata da un combinarsi di diversi shock, primo fra tutti la quarta stagione delle piogge consecutiva con precipitazioni insufficienti. Si aggiungono poi i conflitti locali per le risorse e l’aumento dei costi del cibo a causa della guerra in Ucraina. Le contee più colpite sono Isiolo, Turkana, Garissa, Mandera, Marsabit, Samburu, Wajir e Baringo, zone in cui vivono prevalentemente popolazioni che si dedicano alla pastorizia. Per i mesi da ottobre a dicembre, Ipc prevede un ulteriore peggioramento, con una proiezione che stima a 4,4 milioni le persone in fase di crisi, emergenza o catastrofe.
«Gli ultimi due anni sono stati pessimi», riporta da Isiolo, nel centro del Kenya, padre Joseph Kihwaga, missionario della Consolata, «non ha piovuto per niente. Molti animali sono morti, le persone hanno fame. Anche gli animali selvatici soffrono per questa situazione. Abbiamo dovuto allontanare degli elefanti che, attirati dall’acqua del nostro pozzo, sono arrivati dentro al complesso della missione distruggendo recinto e campi coltivati. Finora sono due le persone uccise da elefanti che vagavano fuori dal parco di notte. C’è paura anche per i bambini, che escono quando è ancora buio per andare a scuola e rischiano di incontrarli».
Padre Mark Githonga, missionario della Consolata a Loyiangalani, sul lago Turkana (Nord del Kenya), scrive confermando che il governo ha imposto il coprifuoco a causa dei conflitti tribali locali. «Qui non piove da quattro anni», riferisce, «eppure il lago Turkana si è ingrandito@, inondando le zone costiere dalle quali le comunità locali, specialmente di etnia El Molo, erano solite pescare».
Il cibo, continua padre Mark, arriva qui portato da commercianti provenienti dalla zona centrale del paese. I prezzi però sono proibitivi a causa dei costi di trasporto e di stoccaggio e per le condizioni di insicurezza legate ai conflitti tribali. Le comunità che vivono sull’isola di Komote (nelle due foto qui sotto del 2009 e del 2022, ndr) sono fra quelle più in difficoltà, perché non c’è più abbastanza acqua pulita da incanalare negli impianti idrici che raggiungono l’isola dalla terraferma.
Non va meglio ad Adu, vicino a Malindi, città costiera bagnata dall’Oceano Indiano: «Nei sei anni dal 2016 a oggi, solo nel 2018 abbiamo avuto precipitazioni sufficienti», scrive padre Urbanus Mutunga. Le soluzioni tentate dal governo e da diverse Ong non sono bastate: ci sono vasche per raccogliere l’acqua piovana, ma sono vuote dal 2018, mentre il programma nutrizionale nelle scuole non esiste più, e così i tassi di abbandono scolastico aumentano. «C’è una migrazione di massa dai villaggi verso le città di Malindi, Lamu e Mombasa, le persone vanno a cercare lavoro e cibo ma spesso si trovano costrette a fare lavori umili o a prostituirsi per sopravvivere».
Chiara Giovetti
Acqua dolce
Sulla terra ci sono in totale 1,4 miliardi di chilometri cubi di acqua: un volume che possiamo immaginarci come una sfera dal diametro di 1.400 chilometri, la lunghezza del Madagascar.
Di quest’acqua il 97,5% è salata, il 2,5% è acqua dolce.
Solo l’1,2% di questa acqua dolce è facilmente fruibile (in superficie) per l’uomo, il resto è sottoterra (30,1%) oppure in forma di ghiaccio (68,7%).
Il 70% dell’acqua dolce disponibile è usata per l’agricoltura, il 19% per l’industria e l’11% per l’uso domestico.
Vedi il video, in inglese con sottotitoli in italiano, realizzato dal World water assessment programme (Wwap)@, programma dell’Unesco finanziato dal Governo italiano e con sede a Perugia@.