Brasile. Un mondo senza carceri
Dentro la pastorale carceraria, con padre Gianfranco Graziola
La prigione non ha mai risolto i problemi sociali. Diventa una forma di controllo della società stessa e della povertà. La Chiesa cerca di dare risposte con la pastorale carceraria. In Brasile c’è un esempio unico al mondo di lavoro di squadra.
Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, trentino, da trent’anni in Brasile, fa parte del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria (Cnpc). Si tratta di un organo della Chiesa brasiliana che ha appena compiuto cinquant’anni, come pure il Consiglio indigenista missionario (Cimi). Entrambe le strutture sono nate sulla scia delle conferenze dell’episcopato latino-americano di Medellin (1968) e di Puebla (1979).
«È un ente unico al mondo. Da noi non esiste la figura del cappellano delle carceri. Si tratta di una pastorale vera e propria, portata avanti da una équipe». Così ci racconta padre Gianfranco, che incontriamo di passaggio a Torino.
Lui «alle carceri» è arrivato un po’ per caso. Ci racconta: «Lavoravo a Roraima, nel Nord del Brasile, ed ero in missione a Catrimani, in foresta amazzonica, con gli Yanomami. Monsignor Roche Paloschi, all’epoca vescovo di Roraima, chiese ai missionari della Consolata qualcuno che andasse a occuparsi di diritti umani, di migranti e di pastorale sociale in seno alla diocesi. Tra le tante pastorali sociali, c’era quella carceraria, ma non stava passando un buon momento. Così chiesero a me, e dalla selva andai a Boa Vista, la capitale. Subito si stabilì un’ottima sintonia con il vescovo. Un giorno, ricordo, un gruppo di donne carcerate durante un evento fece dei cori, e poi mi disse: “Una volta c’era la pastorale carceraria”. «C’è ancora!», risposi con risolutezza, e da allora siamo ripartiti».
Un approccio unico
La pastorale carceraria in Brasile lavora su tre livelli: il coordinamento nazionale, i coordinamenti statali (è un paese federale di 26 stati più la capitale Brasilia) e quelli a livello delle diocesi. È portata avanti dagli agenti di pastorale: preti, suore, vescovi e anche laici, uomini e donne, di tutte le età. Visitano le carceri in tutto il paese settimanalmente, due volte al mese, oppure ogni mese.
Il coordinamento nazionale si trova a São Paulo, perché è lo stato con la maggiore popolazione carceraria del Brasile, 22mila detenuti solo nell’arcidiocesi della metropoli.
Esso si occupa anche dell’approccio politico, dell’intervento in caso di denunce, e di pressione su chi governa (lobbying), oltre che delle visite pastorali.
Padre Gianfranco allarga la visuale a livello continentale: «A livello di America Latina, di Celam (Consiglio episcopale latinoamericano e caraibico), il nostro slogan è “Un mondo senza carceri”.
Ci sono state varie riunioni tra tutte le conferenze episcopali, e c’è questo sogno. Noi non crediamo che il carcere sia la soluzione ai problemi del nostro mondo, al contrario. Infatti, il carcere è fonte di tortura, è una sua espressione moderna, perché un carcerato o una carcerata, secondo la Costituzione brasiliana, dovrebbe perdere il diritto di muoversi liberamente e i diritti politici solo una volta avvenuta la condanna definitiva, ma questo non accade.
Si verifica una serie di violazioni di diritti: tortura (nel senso classico), sovraffollamento, cattiva alimentazione, scarsa cura della salute, pessime condizioni di vita.
Lo stato ci risponde dicendo: allora costruiamo nuovei carceri. Noi sosteniamo, però, che quantie più prigioni si costruiscono, tanto più aumenta il numero della popolazione detenuta.
Per fare un esempio, nei due anni di pandemia, siamo passati da 800mila carcerati a 930mila (in Italia siamo a circa 52mila, nda), di cui circa 50mila sono donne. Queste normalmente hanno a che fare con il traffico di stupefacenti, sono chiamate mule (corrieri, nda)».
Il peso delLa droga
Padre Gianfranco specifica che il riempimento delle carceri è direttamente legato alla legislazione sulla droga: «La grande questione che proponiamo è di non considerare la droga una questione di polizia, ma di salute. In Brasile, se ti trovano con un grammo di droga, anche la più leggera, vai in carcere. Perché stanno seguendo l’approccio di guerra totale agli stupefacenti. È uno degli elementi importanti che oggi alimenta la popolazione carceraria».
Poi la cocaina circola nelle feste di privati a un certo livello, e non c’è il problema morale di consumarla. Inoltre, negli incontri delle élite la polizia non entra.
Il missionario ci ricorda che l’incarceramento in Brasile ha un colore e uno status sociale: finiscono in prigione i neri, i poveri delle periferie, e i giovani. C’è un’alta percentuale di questi ultimi, quasi il 50% ha tra i 18 e i 29 anni. Sotto i 18 è previsto un sistema diverso, chiamato socioeducativo, che non dipende dal sistema penitenziario, ma è simile al carcere minorile.
L’organizzazione
Chiediamo a padre Gianfranco come è organizzata la pastorale carceraria.
«Abbiamo una coordinatrice, la suora tedesca Petra Silvia Pfaller, un vicecoordinatore, padre Almir Ramos, di Santa Catarina, e una coordinatrice della questione delle donne in carcere, Rosilda Ribiero Rodrigues Salamão, perché a livello femminile il carcere ha prerogative particolari. Ad esempio, dal 2014 a oggi, abbiamo avuto un aumento del 700% di incarceramento femminile».
Padre Graziola racconta poi che c’è un nucleo di dipendenti che lavorano nella gestione economica, nell’amministrazione dei progetti e nel settore giuridico, ad esempio per le denunce di tortura, e, infine, sulla comunicazione. «Per la tortura, si lavora non tanto su casi singoli, ma sulla politica. In tempo di pandemia le denunce di tortura sono raddoppiate. Sul nostro sito si può fare denuncia anonima e non anonima. Il settore giuridico, in coordinamento con ogni stato, interpella i giudici, il difensore civico, chiedendo loro di intervenire. Ma non sempre si muovono, a volte danno risposte evasive».
La struttura prevede poi una serie di coordinamenti, con il coinvolgimento di periti. Padre Gianfranco è nella sezione teologica, dopo essere stato il vicecoordinatore nazionale. Lui fa anche parte della presidenza dell’associazione che gestisce i progetti per finanziare la struttura.
L’associazione ha alcuni finanziatori internazionali, come la tedesca Misereor, e altri nazionali. Anche se il missionario non nasconde che trovare finanziamenti è diventato sempre più difficile.
«Le altre conferenze episcopali in America Latina non hanno questa organizzazione. Qualcuna ha il cappellano, stipendiato dallo stato. Noi abbiamo scelto di non dipendere dallo stato».
La pastorale carceraria prevede poi gli agenti di pastorale, tutti volontari. Secondo una ricerca recente, sono circa 5mila.
Giustizia e altri temi
«Uno dei grandi temi su cui lavoriamo, con forte connotazione politica, è quello della giustizia riparativa, o restaurativa, come diciamo in Brasile (cfr. MC dicembre 2013).
Lavoriamo in rete con Espere (la scuola di pace di padre Lionel Narváez Goméz in Colombia, cfr. MC agosto 2018), sulle pratiche di giustizia riparativa. Ma utilizziamo anche la filosofia clinica, che tratta la questione dell’identità e dell’unicità. Un filosofo brasiliano, Lucio Packter, fa un lavoro sulla storia della persona e la sua unicità. Per esempio, in merito alla convinzione: “sono nato delinquente e resto tale”, noi diciamo di no. E ancora lavoriamo sul linguaggio nonviolento.
Sono tutti temi sui quali abbiamo lavorato molto in questo ultimo periodo e, data la pandemia, abbiamo anche dato un’attenzione particolare alle persone stesse che operano nella pastorale. Si tratta di avere cura di chi opera, di chi si prende cura».
L’agenda
Padre Gianfranco si entusiasma quando spiega l’approccio della pastorale con le famiglie dei carcerati. «È molto cresciuto il lavoro che facciamo con i parenti dei detenuti. Appoggiamo le famiglie, cercando di dare loro più margine di manovra per difendere i congiunti (impoderamento, in brasiliano, ndr). Le accompagniamo in un processo che porti a “un mondo senza carceri”. Per questo abbiamo creato un’agenda per il “desencaceramento” in dieci punti, che è stata sottoscritta da cinquanta entità impegnate nel settore (vedi box). È nata nel 2013 dal fatto che visitavamo il carcere, vedevamo, denunciavamo, ma non succedeva nulla. Da lì si è originata una riflessione e poi questo decalogo.
Oggi è una rete molto grande che va avanti in un lavoro di squadra. E sono i parenti che portano avanti questa agenda. Noi stiamo nella retroguardia. All’inizio ci davano dei pazzi, ma da questa agenda è nato un meccanismo, riconosciuto dallo stato, di lotta alla tortura. Si tratta del Comitato nazionale e statale: ci sono periti indipendenti a livello nazionale che sistematicamente visitano le carceri e verificano se ci sono casi di tortura. È pagato dallo stato federale, è un ente governativo, ma è stato proposto da noi. Nel comitato c’è un rappresentante delle famiglie. Questo strumento si è affermato dopo l’eccidio del 2019 a Manaus (morirono 55 detenuti, nda)».
Uno dei punti concerne la droga, e propone non solo la depenalizzazione, ma la decriminalizzazione. Questo non vede tutti d’accordo neppure all’interno della chiesa brasiliana, perché c’è una questione morale.
Quando fare lobbying
Chiediamo a padre Gianfranco come funziona quando c’è una denuncia. «Ad esempio, c’è un problema e ci arriva una denuncia. Gli avvocati entrano in contatto con il coordinatore della pastorale carceraria in quello stato e si cerca di indagare. A livello centrale abbiamo relazioni con molte altre entità nazionali e internazionali che lavorano per i diritti umani. Facciamo lobbying di tipo politico. C’è stata la visita dell’alto commissariato per i diritti umani dell’Onu, per denunce. La stessa Suprema corte brasiliana dice che il carcere in Brasile è anticostituzionale.
Si lavora sui diversi livelli, diocesano, statale e federale. Si fanno pressioni.
Noi, rispetto ad altre istituzioni, ci siamo costruiti una credibilità molto grande. Se c’è qualche problema, ci chiamano.
Ma oltre alla parte che riguarda i diritti umani, c’è l’impegno pastorale. La promozione umana e l’evangelizzazione sono parte della cura della persona. Quindi facciamo celebrazioni, diamo sacramenti, abbiamo agenti di pastorale presenti».
Prigioni private
In Brasile si sta diffondendo la privatizzazione delle carceri. Ne esistono due forme: la cogestione e la privatizzazione totale.
Nel primo caso, il penitenziario esiste già, viene mantenuto il direttore che, di norma, è un militare, e tutto il resto viene appaltato a privati (cibo, sanità, agenti penitenziari, ecc.). La guardia esterna, invece, non può mai essere data a privati.
Nel secondo caso, lo stato assegna un terreno a un’impresa. Su questo, il privato costruisce l’infrastruttura. Il direttore è appannaggio dello stato, ma tutto il resto è del privato.
Nella cogestione c’è super affollamento, mentre nel secondo caso no. Si tratta però di penitenziari disumani, molto tecnologici, nei quali non ci sono contatti tra detenuti. Ci racconta padre Gianfranco: «Ad esempio, ho incontrato in una di queste strutture una persona paraplegica abbandonata in una situazione tale da non potersi muovere. Ha insultato il direttore in mia presenza, chiedendo di tornare al sistema superaffollato, dicendo che “almeno ho qualcuno con cui stare”. Sono quasi dei lager».
Carandiru
Il 2 ottobre scorso ricorreva il trentennale del maggiore eccidio accaduto in un carcere brasiliano. Avvenne a Carandiru, a São Paulo. I morti ufficiali furono 111, ma si sa che furono molti di più. Furono portati via con i camion dell’immondizia. A tutt’oggi gli autori sono impuniti. «Carandiru è un po’ il simbolo della lotta contro il carcere. Nel 2017, negli stati di Roraima, Amazonas e Rio Grande do Norte ci furono quasi 200 morti per scontri nelle prigioni. Nel 2019 a Manaus morirono 55 detenuti. I funzionari dicono che sono le fazioni interne in lotta tra di loro. Ma noi rispondiamo: guardate che i responsabili siete voi, il sistema giudiziario. Durante la presidenza Bolsonaro, inoltre, gli agenti penitenziari sono stati autorizzati a portare le armi, per cui abbiamo assistito a una militarizzazione delle carceri», il che può ulteriormente peggiorare la situazione. Chiediamo a padre Gianfranco quali siano le maggiori difficoltà incontrate oggi dalla pastorale carceraria.
«Stiamo vivendo un momento difficile, perché molti agenti di pastorale si sono dovuti ritirare perché anziani e non se la sentono più.
Inoltre, ci sono difficoltà di relazione con i movimenti pentecostali e neo pentecostali. Stanno entrando nella pastorale, vogliono convertire tutti e hanno un aspetto moralistico che noi non abbiamo. Vanno a predicare, in modo molto emotivo, creando un po’ di conflitto, non ascoltano la gente. Noi siamo una pastorale di ascolto della persona, sulla quale c’è la nostra attenzione. È un approccio che parte dalla giustizia riparativa».
Marco Bello
Le richieste dei movimenti della società civile e della Chiesa
Agenda nazionale per il «descarceramento
Il decalogo, scritto inizialmente nel novembre 2013 da movimenti e organizzazioni sociali, allo scopo di promuovere la modifica del sistema carcerario, era centrato sull’esigenza di un programma per la riduzione concreta e rapida della popolazione detenuta. Nel 2016, tale agenda è stata attualizzata e ha ricevuto ulteriore appoggio da collettivi, organizzazioni e pastorali sociali. Nel primo incontro nazionale per il «desencarceramento» (traducibile come riduzione del peso delle carceri nella società), realizzato a São Paulo l’8 ottobre 2016, gli enti che assumevano l’agenda erano 30, mentre al secondo incontro, l’anno successivo, è stata sottoscritta da oltre 40.
Di seguito la sintesi del decalogo. Per approfondire si veda sul sito carceraria.org.br le versioni in portoghese, inglese e tedesco.
- Sospensione di qualsiasi costruzione di nuove carceri o struttura detentiva.
- Esigenza di riduzione massiccia della popolazione carceraria e della violenza prodotta nelle prigioni.
- Modifiche legislative per limitare al massimo la prigione preventiva.
- Contro la criminalizzazione dell’uso e del commercio di droga.
- Riduzione massima del sistema penale e recupero della autonomia comunitaria per la risoluzione nonviolenta dei conflitti.
- 6. Aumentare le garanzie della Legge di esecuzione penale (Lep).
- Apertura del carcere e creazione di meccanismi di controllo popolare (sempre in ambito della Lep).
- Proibizione della privatizzazione del sistema carcerario.
- Prevenzione e lotta alla tortura.
- Smilitarizzazione della polizia e della società.
Ma.Bel.
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La versione integrale è disponibile sul sito: carceraria.org.br/agenda-nacional-pelo-desencarceramento.