Ogni pace e ogni guerra hanno una storia
Una giornalista racconta alcuni dei molti conflitti dimenticati del mondo, e ci dice che ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace. Un diplomatico italiano racconta gli ultimi giorni della Nato in Afghanistan, cercando anzitutto le radici lontane di un fallimento e di una speranza.
La meccanica della pace
Quando La meccanica della pace, firmato da Elena Pasquini, esce a metà luglio con People, è piena estate, e la guerra in Ucraina ha compiuto molte devastazioni. All’orizzonte non c’è alcuna speranza né di un cessate il fuoco, né, tantomeno, di una pace tra le parti. Di fronte a questo scenario che non favorisce l’ottimismo, mi sembra cosa buona e giusta consigliarvene la lettura.
Pasquini è una brava e capace giornalista che, da oltre venti anni, con grande sensibilità, osserva da vicino le crisi internazionali. Soprattutto quelle umanitarie, che sono sempre tante, troppe e molto spesso fuori dal circuito dell’informazione.
Esistono, ma non esistono.
Nel suo La meccanica della pace, non solo ci porta nei luoghi dimenticati dalle cronache di guerra in Africa, Medio Oriente e America Latina, ma ci racconta esperienze che dicono una pace possibile da trovare.
«Ogni guerra è diversa, ogni guerra distrugge qualcosa in maniera definitiva, vite, beni, risorse, storia, radici – scrive l’autrice -, ma ogni guerra insegna qualcosa su come si può fare la pace e che la pace è possibile. La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati è “il più drenante” e logorante dei lavori».
Esiste quindi un meccanismo che mette in relazione gli opposti. La diatriba tra Caino e Abele non deve avere per forza un finale scontato. A loro è mancato un mediatore, o una mediatrice.
Nelle dieci storie raccolte nel libro, non a caso, molte protagoniste dei processi di pacificazione sono donne.
Per costruire la pace senza usare la guerra serve tanta voglia di sporcarsi le mani, grande determinazione, enorme spirito di adattamento, rispetto per tutti, ma proprio tutti, gli attori in campo. E no, non servono eroi.
«Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce – scrive Elena Pasquini -. Pace compiuta o parziale, che inizia quando si accoglie l’esistenza dell’altro, il nemico, e dove “nessuno vince tutto e nessuno perde tutto”. Serve qualcuno che inneschi la scintilla, che accenda la luce, che riconosca la realtà e metta in moto il meccanismo».
Chissà se e quando questa logica lineare, semplice nella sua essenzialità, inizierà a prendere il sopravvento sul linguaggio della violenza.
L’ultimo aereo da Kabul
C’è un altro libro, uscito quasi in contemporanea con Piemme, che, invece, racconta la storia di un fallimento diplomatico e porta la firma di Stefano Pontecorvo, già ambasciatore italiano in Pakistan, ma soprattutto rappresentante civile della Nato in Afghanistan.
È lui l’uomo che ha coordinato, nell’aeroporto di Kabul, l’evacuazione dei civili afgani in fuga dal ritorno dei taliban, in un contesto che definire apocalittico pare misurato.
Era la fine del mese di agosto dello scorso anno.
L’ultimo aereo da Kabul. Cronaca di una missione impossibile è un libro fondamentale, soprattutto per un motivo: alla catastrofe finale il suo autore dedica solo due capitoli, il nono e il decimo. Gli altri otto sono una approfondita analisi storica del contesto che ha preceduto tutto quello che abbiamo visto un anno fa, partendo dagli albori della storia afgana, ed entrando nelle dinamiche tribali, religiose, economiche. Tutto quasi completamente ignorato nei vent’anni di presenza militare occidentale in quel paese.
Pontecorvo, che è figlio di diplomatici, già da bambino viveva in quella fetta di Asia e, in quell’aerea sospesa tra cultura araba e persiana, all’ombra di Cina e India, vi ha trascorso più tempo che in Italia.
«Alle 18.21 di venerdì 27 agosto 2021 terminò formalmente l’avventura afgana della Nato – scrive l’ex ambasciatore -. In quel momento il C130 italiano sul quale ero imbarcato, ultimo rappresentante dell’Alleanza atlantica a lasciare il paese, passò il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan. Per la prima volta in vent’anni l’Afghanistan era senza presenza Nato. Lasciammo il paese e lo lasciammo male, in mano a quegli stessi talebani che avevamo cacciato dal potere in poche settimane venti anni prima. E lasciammo un paese che aveva creduto in noi e una popolazione condannata ancora una volta, non certo per scelta, a un futuro ben diverso da quello che le avevamo fatto intravedere».
Avere ignorato la storia del contesto, averne ignorato i meccanismi (per recuperare il lessico della Pasquini), ha prodotto una sequela di errori che alla fine si sono sommati alla decisione presa dall’allora presidente Donald Trump di lasciare del tutto e definitivamente l’Afghanistan per motivi di pura politica interna.
L’ultimo aereo da Kabul è una sorta di manuale, un compendio di «cose da non fare se» ti occupi di diplomazia, se devi sanare ferite, se devi chiedere a tribù che si odiano da secoli di fare un governo insieme.
Interessante è, ovviamente, anche il punto di vista di Pontecorvo: uomo occidentale, che ha vissuto l’Oriente, ne è stato contaminato ed è stato chiamato a scrivere una delle pagine più tragiche della sua storia recente.
Traspare spesso nelle sue parole un senso di amarezza che però attenua nelle ultime pagine del libro, quando si chiede: ne è valsa la pena andare laggiù per vent’anni se il risultato è stato questo? La risposta è: sì. «Conosciamo la storia del bambino che mette il dito nel foro di una parete della diga e impedisce all’acqua di […] allargare la falla, salvando il suo villaggio dall’inondazione. […] Quel bambino è la Nato. Fino a che abbiamo tenuto il dito […], il sistema ha retto per gli afgani e per noi. […] Abbiamo lasciato un Afghanistan ben diverso da come lo abbiamo trovato. Vent’anni fa non vi erano praticamente scuole, sanità, educazione, le donne vivevano nel Medioevo. […] Tutto questo è cambiato e lo abbiamo cambiato noi. […] L’età media afgana è di 28 anni, una intera generazione è crescita esposta alla guerra, ai troppi morti causati da essa, ma anche avendo negli occhi un modello alternativo e la consapevolezza di cosa significhi vivere una vita diversa. Per l’Afghanistan vi è ancora una speranza».
Sante Altizio