Io sono tutte le donne

Racconti da «Lingua Madre»

Italia, Polonia, Serbia, Rd Congo, Nigeria
Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia); Daniela Finocchi e Gigi Anataloni


In queste pagine sono riportati alcuni dei racconti che hanno vinto il XIII Concorso Lingua Madre del 2018. Dello stesso Concorso, MC ha già pubblicato diversi testi nell’agosto 2016. Ringraziamo Daniela Finocchi, ideatrice del concorso, per averci offerto questi scritti. Siamo felici di pubblicarli proprio in questi giorni in cui le donne, a cominciare da quelle iraniane, sono protagoniste e promotrici di grandi cambiamenti.

Il Concorso letterario nazionale Lingua Madre

È un progetto permanente di Regione Piemonte e Salone internazionale del libro di Torino, ideato da Daniela Finocchi, nato nel 2005 per dare voce a chi spesso non ce l’ha. Diretto alle donne migranti (o di origine straniera) e alle italiane che vogliano raccontare l’incontro con l’altra, promuove la relazione. Si può partecipare con un racconto o/e una fotografia, da sole, in coppia o in gruppo e ci si può far aiutare da un’altra donna se non si ha dimestichezza con l’italiano scritto.

Ma non si esaurisce con il Premio letterario e fotografico (per chi volesse partecipare, è in corso la XVIII edizione che si concluderà il
15 dicembre). Durante l’anno, infatti, vengono realizzati incontri e iniziative proprie o sviluppate in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati, che coinvolgono direttamente le autrici e le rendono protagoniste. E ancora un podcast, la sezione audioracconti, una borsa di studio annuale destinata a una giovane, speciali online, produzioni video e spettacoli teatrali tratti dai racconti.

A questo si aggiunge l’attività di ricerca su letteratura e migrazione femminile svolta da docenti – straniere e italiane – che fanno parte del gruppo di studio. Un lavoro poi divulgato con volumi di approfondimento, seminari, convegni.

Le 17 antologie con i racconti selezionati delle autrici – da cui sono tratti i racconti qui pubblicati – rappresentano un vero patrimonio della letteratura della migrazione, il 4 novembre verrà presentato il libro Lingua Madre Duemilaventidue – Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27), presso il Circolo dei lettori di Torino.

Il bando e tutte le novità si possono trovare sul sito www.concorsolinguamadre.it

Daniela Finocchi

Sommario

 


Storie vere di donne migranti

Valeria Rubino

Nasce e cresce a Verona. Studia giornalismo e dopo una breve esperienza lavorativa a Londra, nel 2015 – al culmine dell’emergenza sbarchi dei richiedenti asilo giunti tramite la Libia – torna nella sua città. Da allora lavora per una Cooperativa sociale all’interno del progetto «Immigrazione», occupandosi dell’accoglienza dei cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale sul territorio di Verona e provincia.

Il suo racconto, «K.19», ha vinto il premio «Sezione speciale donne italiane» della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la capacità di raccontare senza sconti le violenze subite dalle donne migranti dall’Africa all’Europa. Per lo sguardo di lucida empatia con cui ogni storia è narrata nella sua unicità, mettendo tuttavia in evidenza la comune deumanizzazione che la violenza contro le donne in quanto donne produce in chi la subisce. Per l’azione politica svolta dalla denuncia di crimini contro l’umanità che chi racconta svolge con prosa attenta, senza concedere nulla al pietismo e alla commozione. Malattie, leggi, gravidanze, guerre, stupri diventano voci di tante piccole carte d’identità a cui si aggiunge quella dell’autrice che si riconosce in tutte e soprattutto nell’affermazione della dignità femminile presente in ogni storia».

K.19

K.

K. è nigeriana ed ha 19 anni. È cresciuta senza madre, della quale non sa nulla, con il padre. Il padre che, fin da bambina, la chiudeva a chiave in casa usciva per andare al lavoro, poi tornava la sera pretendendo che la figlia avesse preparato la cena e sistemato la casa. Beveva e si approfittava sessualmente di lei. Un giorno K. è riuscita a fuggire. Non avendo nessuno, ha vagabondato per le strade per mesi. Poi qualcuno le ha offerto la salvezza: un viaggio pagato per l’Europa e un lavoro al suo arrivo. Così K., attraversando Nigeria e Niger è arrivata in Libia. Poi i barconi. Poi la costa. È Italia.

K. arriva alla città cui è stata destinata, in qualità di richiedente asilo.
Una casa, dei pasti caldi, assistenza burocratica e sanitaria, scuola, scoperte.
E un uomo che inizia a chiamarla, per «quel lavoro» che le era stato promesso.
Prostituzione.
Io non sono una prostituta.

Devi restituire ventimila euro.
Per cosa.
Per il viaggio che ti è stato pagato.
Io non sono una prostituta.
Se non accetti faremo del male a tuo padre.
Non mi importa, è un uomo cattivo.
Faremo del male a tua madre.

Ho perso mia madre quando ero bambina, non l’ho mai conosciuta.
L’abbiamo ritrovata, se non vuoi che le venga fatto del male fai quello che ti viene chiesto. Puoi parlarle al telefono, se non ci credi.
A questo punto K. ha parlato con una donna per telefono. Piangeva. La pregava di ascoltarli, di fare quello che le stavano chiedendo, perché avevano minacciato di ucciderla.

K. è una bambina. I traumi che ha subito non le hanno permesso di crescere. Con l’ingenuità di chi ha dieci anni e la consapevolezza di chi ha vissuto la violenza si rivolge all’operatrice della struttura di accoglienza, e le chiede cosa fare.
Nulla. Quella non è tua madre. Vogliono fartelo credere per ricattarti. K., qui c’è qualcuno che può aiutarti.
Rete anti-tratta.

E.

E. è nigeriana e ha 21 anni. È rimasta nel centro di accoglienza dieci giorni, poi è scomparsa. Due mesi dopo ha contattato telefonicamente il centro.
Prostituta. Incinta di una violenza. Aiutami.

La rete anti tratta, contattata con il numero verde, l’ha trovata dove aveva detto di essere. Era fuggita da chi la stava costringendo a vendersi per restituire quello stesso debito che affligge tutte, o quasi tutte, le ragazze nigeriane che arrivano in Europa.

E. è stata inserita in una struttura protetta. I suoi sfruttatori non hanno più saputo nulla di lei, né nessun altro. Chi viene protetto semplicemente scompare.

D.

D. è burkinabè e ha 23 anni. Quando è arrivata in Italia era analfabeta. Ha lasciato in Burkina Faso le violenze della sua famiglia. E la tristezza.

In un anno ha imparato a leggere, scrivere, e l’italiano.
sorride sempre. Aiuta chiunque a fare qualsiasi cosa.
D. è forza e meraviglia.
Ha trovato con le sue sole forze un lavoro, e con il suo contratto in mano ha lasciato il programma di accoglienza, per occuparsi a tempo pieno di una signora anziana, che le vuole bene.

L.

L. è nigeriana e al suo arrivo in Italia ha dichiarato di avere 21 anni. Ma L. aveva il viso di una quindicenne.
Quando è arrivata era incinta. Non se n’era accorto nessuno, in Sicilia. Una ragazzina magrissima, chiusa in un giaccone troppo grande per lei.
Arriva al centro di accoglienza una sera di dicembre.

L., come stai? Di quanti mesi sei? Ti hanno controllata? Il tuo bambino si muove?
L. sorride e risponde bene. Sette. Sì. Sì.

Due ore dopo inizia a stare male. Ambulanza. Ospedale.
Altre due ore dopo L. partorisce un bambino. È maschio. Ed è morto da due o tre giorni.
Funerale.

L. torna al centro, e si aggira come un fantasma.
Dopo qualche tempo, raccoglie le sue quattro cose e senza dire nulla sparisce. Il numero di telefono già dal giorno dopo risulta staccato. L’ennesima carta sim buttata per non farsi più trovare.

S.

S. è nigeriana e ha 3 anni. Quando è arrivata, con i suoi genitori, ne aveva due ed era una bambina inavvicinabile. Respingeva qualunque tipo di contatto iniziando a graffiare, spingere, schiaffeggiare e urlare con tutta la forza della sua voce stridula. La madre sorrideva tristemente dei modi della figlia.

A un anno dal suo arrivo S. corre in braccio alle persone che ha imparato a riconoscere. Gioca, ride, è allegra e impara in fretta. Ha adottato a fratello un bambino di 10 mesi che ha vissuto con lei, e se ne è presa cura.

F.

F. e B. sono eritree e hanno 20 e 23 anni. Al loro arrivo F. era incinta di otto mesi e B. aveva partorito M. pochi giorni prima, in Libia. Si era imbarcata con questo bambino di sei giorni e la ferita del parto non curata, che si era infettata male.
Durante la loro permanenza nel centro F. ha avuto A., una bambina sana e bellissima.

F. è stata curata e il suo bambino ha lentamente preso peso.
Poco tempo dopo, secondo la deroga della legge «Dublino III» che prevede il ricollocamento di richiedenti protezione internazionale in uno degli stati che hanno aderito a tale legge, sono state rilocate e hanno raggiunto i loro parenti, in Europa.

P.

P. è nigeriana e ha 23 anni. Al suo arrivo era debole. Ha scoperto in un ospedale siciliano di essere positiva a Hiv ed Epatite B, probabilmente contratte a causa delle varie, troppe, violenze subite nel suo tentativo di arrivare in Europa.

P. oggi è in cura, e sta bene. È eccentrica e ha un carattere potente. È sorprendentemente positiva e trascina chiunque le si avvicini in una risata.

Si rabbuia quando va alle visite. Quando chi la segue le fa domande sulla sua situazione. Ma ha individuato di chi fidarsi, e queste poche persone godono del privilegio di poter entrare dentro la sua personalità trascinante.

In Italia questo tipo di infezioni, per quanto al momento incurabili, possono essere trattate. Le cure garantite permettono a chi ne beneficia di avere una vita assolutamente normale e di poter decidere di avere bambini senza infettare il o la partner.

P., con le cure e queste informazioni, è rinata. E investe le persone di benessere.

F.

F. è per metà ghanese e per metà nigeriana, e ha 2 anni. Quando è arrivata non li aveva ancora compiuti, e con lei c’era il papà. Storia strana. Le statistiche dimostrano che la stragrande maggioranza di minori che arrivano con un genitore solo sono con la madre.

S., il papà, fatica a prendersi cura della bambina.
Mia moglie è rimasta in Libia. È incinta. C’è stata un’incursione nella nostra casa, hanno iniziato a sparare. A casa c’eravamo solo io e mia figlia, mia moglie era uscita. Ho preso la bambina e sono scappato. Non so come fare. Ho bisogno di aiuto.
La moglie non si trovava.

Sei mesi dopo S. dice che C., sua moglie, è sbarcata in Sicilia.
Partono le pratiche per il ricongiungimento.
F. arriva, devastata dall’esperienza e dalla gravidanza di ormai otto mesi.

L’incontro con F. è emozione strana, perché la bambina sulle prime non la riconosce. È scettica, e si rifugia tra le braccia del padre.
Nei giorni successivi C. riconquista la fiducia di F., piano piano. E un mese dopo nasce S., minuto, ma sano.

M.

M. è nigeriana e ha 24 anni.
Non sto bene, non ho forze, dice.
Pronto soccorso. È malaria. E una gravidanza recente. La malaria non si può curare definitivamente in una persona in gravidanza, perché le cure danneggiano il feto.

M. sapeva. Temeva.
Mi hanno stuprata. In Libia. Non posso tenere il bambino.

Il passo successivo è l’accompagnamento per l’interruzione della gravidanza.
Poi la malaria è stata curata.

M. al suo arrivo era schiacciata dalla vita. Con lentezza si è ripresa.
In Nigeria ero infermiera, dice. Potrei esserlo anche qui.

M. ha iniziato a studiare. Ha ricostruito la sua vita passo a passo.
E avanza, fiera.

J.

J. è gambiana e ha 17 anni. È arrivata con colui che si era dichiarato suo fratello, e che non la lasciava sola un attimo. J. è stata subito ricoverata in ospedale per problemi vari. H., suo fratello, le è rimasto sempre appresso.

Due giorni dopo il rientro dall’ospedale J. è sparita.
H., interpellato, non ne so nulla, diceva.
Non c’era preoccupazione in lui.

Sale, negli operatori del centro, la rabbia. È rabbia di impotenza. È rabbia per aver perso una ragazza minorenne avendo la sensazione che colui che dice di essere suo fratello non lo sia, e l’abbia venduta.
Parte una denuncia che non porterà a nulla. J. è in un buco nero.
H., pressato dalle richieste, dopo qualche giorno scompare anche lui.

W.

W. è eritrea e ha 22 anni. Nel suo paese era un soldato.
Durante l’addestramento ha dovuto subire un’iniezione «per non rimanere incinta». Da allora non le viene la mestruazione.

Questo tipo di pratica viene applicata per evitare di perdere soldati per colpa delle gravidanze, sia che si tratti di una donna che ha avuto un rapporto consensuale sia che si parli di una violenza sessuale. Cose che succedono.

A causa delle esperienze vissute in addestramento (W. non è mai stata in guerra) ha dei problemi di vista e di udito. Dice di sentire qualcosa che le martella dentro la testa.
Le visite hanno escluso problematiche reali.
Traumi, dicono.

U.

U., V., C., H., U., J. sono chi della Nigeria, chi del Camerun e hanno tra i 21 e i 29 anni. Sono tutte mamme e mogli. Sono arrivate con i loro mariti e i loro bambini.

Nella grande casa che è il loro centro di accoglienza sono state fin da subito trattate come invasori. Il paese nel quale vivono non ha mai accettato queste sei famiglie, in tutto dodici adulti e undici bambini, di età compresa tra i due mesi e i tre anni.

Un giorno due uomini, italiani, hanno fatto irruzione nella casa spaventando i bambini, insultando le donne e aggredendo uno dei ragazzi. U. ha bloccato la porta e ha chiamato i carabinieri. Poi ha sporto denuncia, insieme agli altri.

Gli aggressori si sono difesi sostenendo di essere stati trascinati in casa dagli ospiti.
Video girati sul posto dimostrano la loro colpevolezza.

V.

V. è italiana e ha 30 anni. Da due anni e mezzo lavora come operatrice in diversi centri di accoglienza per richiedenti asilo. V. non è straniera, non in Italia, non nel senso stretto del termine. Ma per il tipo di lavoro che fa si ritrova a interiorizzare storie ed esperienze di donne straniere. A subire espressioni razziste per la parte presa in questa invasione.

Eppure, V. pensa che non ci siano parti da prendere. Che non ci sia un noi e un loro.
V. sono io. Io sono tutte le donne che hanno creduto di poter meritare una vita diversa.
Sono chi sa di valere quanto e come un uomo, e per questo non vuole vivere sottomessa.

Sono tutte le donne che sanno di avere diritto all’istruzione. Alla felicità. Alla salute. A un equilibrio mentale.
Sono quelle donne che sanno di non essere prostitute e di poter combattere per fermare il traffico di esseri umani.
Sono chi vuole poter decidere quando e come avere un bambino.
Sono chi ha partorito bambini morti o malati perché ha dovuto affrontare la gravidanza in viaggio.
Sono le donne che hanno dovuto abortire e quelle che hanno voluto abortire, perché era l’unica scelta che era rimasta nelle loro mani. Perché quando il corpo è oggetto e viene usato, e non è rispettato, alle donne rimane solo l’aborto.
Sono le donne che non hanno potuto abortire perché era troppo tardi. Sono le donne che hanno messo al mondo figli indesiderati, e li hanno amati.

Sono tutte le donne che trovano la forza di denunciare le aggressioni che hanno subito.
Sono coloro che sono sfruttate. Che sono state vendute. Che sono sparite. Che sono morte.
Sono le donne oggi bloccate nei centri di detenzione in Libia.

Sono le donne traumatizzate; traumatizzate e segnate, e quelle che dai traumi hanno trovato la forza di reagire. Sono le donne che conoscono i propri diritti e combattono per vederli rispettati.
Io sono tutte le centinaia di donne che ho incontrato, sfiorato, conosciuto in questi anni.
Sono le donne che non ho incontrato, che non incontrerò e che continueranno a prendere parte a questo fisiologico flusso mondiale di affermazione della dignità femminile.

Valeria Rubino


Sul filo della memoria e delle radici

Dunja Badnjević

Nasce a Belgrado nel 1945 e vive in Italia da più di cinquant’anni. Ha lavorato come redattrice e attualmente si occupa di traduzione e promozione della letteratura serba, croata e bosniaca. Ha tradotto per Adelphi, Guanda, Editori riuniti, Bordeaux ed., Newton Compton e altre case editrici. Per la collana meridiani della Mondadori ha curaro e tradotto Ivo Andric, romanzi e racconti. Con il suo primo libro, L’isola nuda, edito da Bollati Boringhieri, ha ottenuto diversi riconoscimenti nazionali.

Il suo racconto, Ricordi rubati, ha vinto il Premio speciale Torino Film Festival della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Costruito in maniera secca ed essenziale, sa raccontare in poche pagine una storia complessa e animata da più personaggi, tutti con fisionomie ben definite. Ha ritmo, tempo, senso della narrazione. E non perde mai di vista il filo della memoria e delle radici, che rappresentano la base, intelligente e attuale, della storia».

Ricordi rubati

«Ha ucciso un uomo per delle foto?», chiese il poliziotto.
Rigirai i polsi stretti nelle manette: «Sì, l’ho fatto… Non potevo non farlo».

Sono arrivati al tramonto. Avevo chiuso le stalle e i pollai, stavo per preparare la cena. Il mio vecchio era in cortile, da quando i figli se ne sono andati si mette sempre sotto il ciliegio, dove una volta c’era la loro altalena. È lontana l’Australia, non possono venire a trovarci spesso. Ci mandano le fotografie, tutte a colori, con i nipotini che si vede che crescono bene. Noi le sfogliamo, le abbiamo tutte sistemate negli album e così li sentiamo più vicini. Ci bastano i ricordi. L’importante è questo, che loro stanno bene. La nostra è sempre stata una terra povera, difficile viverci.

Dicevo, sono arrivati senza preavviso. Una decina di uomini robusti, con i fucili in mano. Dietro a loro, nascosto, il mio vicino, Kresimir. Un uomo arcigno, mingherlino, la moglie come lui, inacidita, non hanno avuto figli. Veniva spesso a controllare: le vostre pecore sono più grasse, le vostre mucche danno più latte, i vostri alberi danno più frutti.

«Se hai bisogno serviti pure», gli dicevo. «Tanto a noi due vecchi ormai basta poco». Lui mugugnava qualcosa fra sé e se ne andava.

«Avete poco tempo per andarvene», ci ordinarono quelli in uniforme. «Siete serbi e questa non è più la vostra terra. Prendete il vostro carro e via!».

«Come, via, come andarsene? La nostra famiglia vive qui da secoli. Ci ha portato qui Maria Teresa per difendere i confini del suo impero e da allora è la nostra casa. La casa dei nostri padri, nonni, bisnonni…».

«Poche chiacchiere, vecchia! Le cose sono cambiate! Tu e i tuoi avete perso la guerra. Ora questa terra deve ripulirsi dai bastardi!».

«Sì, ripulirsi!», ripeteva anche Kresimir, gli occhi lucidi dalla contentezza.

«Dove ci porterete», chiesi, «e per quanto tempo? Il mio uomo è vecchio ormai, non ce la farà a fare molta strada».

«Prendete il carro e sparite. In Serbia, andrete, dove vi aspettano i vostri!».

I nostri, i loro. Questa guerra noi non l’abbiamo voluta. Ne sentivamo parlare, il vecchio teneva la radio sempre accesa e si faceva il segno della croce. «Basta che non arrivino qui», diceva.

Io ringraziavo Iddio che i figli erano lontani, molti giovani sono morti in questi pochi anni. Senza nemmeno sapere perché morivano.

«Forza», l’uomo in uniforme ormai si era spazientito. «Ci resta poco tempo». Ci fecero montare sul carro, io presi le redini e il cavallo si mosse. Feci per chiudere la casa, ma me lo impedirono. «Ora via, poi si vedrà!». Dietro a loro il vicino Kresimir ridacchiava.

Viaggiammo una notte intera. Un convoglio di vecchi, con poche masserizie accatastate sui carri. Fu il viaggio più lungo della mia vita. All’alba arrivammo alla periferia di una grande città. Qualcuno disse che quella era Belgrado. Ci fermarono e ci fecero spostare sul ciglio della strada.

«Mia moglie sta male!», si sentì da uno dei carri. Dalle case vicine cominciò ad arrivare la gente con brocche d’acqua e qualche panino. Ringraziammo con un groppo in gola.

«Che ci facciamo qui?», si lamentava un altro vecchio. «Voglio morire là dove sono nato. I giovani possono anche rifarsi una vita, per noi ormai è tardi…».

Ci fecero rimanere lì fermi per diverse ore. Non entrammo in città. La sera vennero dei soldati in altre uniformi. Ci scortarono, come vergognandosi, verso Sud, in campagna. Ci sistemarono nei prefabbricati tutti insieme, poi col tempo ci dettero case di mattoni. Vuote. Due letti, un fornello. Qualche coperta. I nuovi vicini senza tante parole portavano quel che potevano. Erano gentili, ma si vedeva che soffrivano anche loro.

Si fece qualche conoscenza. Si parlò delle nostre vite passate, dei figli. «Avete qualche foto?», ci chiesero.

«Le foto, le foto», ripeteva ormai in continuazione anche il mio vecchio. Ormai tutto ingobbito, seduto su uno sgabello davanti alla casa, lo sguardo fisso in lontananza. «Le foto!», supplicava.

Un giorno mi decisi. Presi il treno e dopo diverse ore mi ritrovai al confine. Dopo molte spiegazioni mi fecero un «passi» per l’estero. Quell’estero che era la casa in cui avevo vissuto. La vita che avevo vissuto. Un po’ a piedi, un po’ sui camion di brava gente, arrivai a casa mia.

Trovai il vicino Kresimir sotto il ciliegio e la sua famiglia in casa nostra. Non l’avevano nemmeno ripulita, tutto era rimasto uguale. Le piante si stavano seccando, i fiori erano appassiti. Mi si strinse il cuore ma mi avvicinai. Sulla sedia accanto all’uscio, un fucile. Cattiva coscienza?

«Finalmente ce l’hai fatta!», gli dissi. «Ora hai quello che hai sempre invidiato».

«Questa ora è casa nostra e tu te ne devi andare. Altrimenti chiamo la polizia!», mi rispose.

«Niente polizia, ormai l’ho capito e non chiedo giustizia. E non ti chiedo nemmeno quel poco di valori che sono rimasti fra quelle mura. Voglio solo i miei album, il vecchio ne ha bisogno!

«Quali album? Non li ho visti qui».

«Ce n’erano tanti, con delle foto, ben rilegati, tanto tu che ci fai con le foto della nostra vita?».

«Marija!», gridò Kresimir e uscì la moglie, piccola e mingherlina come lui. «La vecchia cerca le foto, le hai viste forse?».

«Le nostre foto», ripetei «quelle dei miei figli, dei miei nipoti, della nostra giovinezza, dei nostri giorni felici, della nostra casa, delle nostre vite». Ormai piangevo.

«Non ci sono», rispose Marija, incerta «e se c’erano le abbiamo buttate».

«Dove buttate, perché buttate?», balbettai.

«Dai, vecchia, vattene», mi apostrofò Kresimir. «Hai perso tutto, che te ne fai delle foto?».

Sentii la mia testa girare. Come stessi morendo. Qui, davanti alla mia casa, con degli estranei che mi negavano anche la memoria. Che uccidevano anche il ricordo. Che mi privavano della mia vita.

Non so come, presi il fucile. Non ho mai sparato in vita mia. Vidi Kresimir alzarsi e correre verso casa. Premetti il grilletto. Lui cadde e Marija gridò.

Poi siete arrivati voi. Fate quel che volete. Io sono già morta.

Dunja Badnjević

Immagini della città di Mostar distrutta dalla guerra – 1994


Adozioni internazionali: l’amore più forte del sangue

Dorota Czalbowska

Nasce a Varsavia, in Polonia, nel 1962. Compie gli studi in pieno regime comunista. Nel 1989 si trasferisce in Italia per lavoro, dove, con il tempo, forma anche la sua famiglia. Negli anni porta a termine la sua specializzazione linguistica ed entra in contatto con la complessa realtà delle adozioni internazionali. Il suo racconto La ragazza con le trecce, è pubblicato nell’antologia Lingua Madre Duemilaquattordici. Racconti di donne straniere in Italia (Edizioni SEB27).

Con Parole perdute, ha vinto il secondo premio (Premio speciale consulta femminile regionale del Piemonte) della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per la disinvoltura narrativa con cui l’impresa della genitorialità è rappresentata senza retorica e senza idealizzazione, ma quale occasione di comprensione dell’umano nell’esperienza dell’adozione: tema complesso, estremamente e da tempo connesso con la migrazione, sempre attuale. Per la capacità di narrare, con prosa evocativa, il valore delle origini senza farne una questione di appartenenza, bensì un passato da condividere fra genitori e figlio, perché «le storie irrisolte» non ostacolino le possibilità di esistenza».

Parole perdute

A tutti i genitori coraggiosi, che ho avuto il grande privilegio di conoscere e che mi hanno permesso di fare una piccola parte nella loro meravigliosa avventura di vita…

La macchina sobbalzava sull’asfalto malridotto, ma non mi importava nulla dei colpi che mi scuotevano, sorpassavo le vetture presenti quella mattina sul mio tragitto come se fossero avversari da sconfiggere. L’aria fuori dal finestrino era soffocante come lo erano i miei pensieri. Mi era venuta voglia di fumare. La ripetizione di quel gesto, un tempo usuale, mi era riapparsa con l’impetuosità di un uragano. Al cervello non erano bastati cinque anni di astinenza da quel vecchio vizio del quale non andavo fiero.

Nei momenti di panico più assoluto, la mente richiama automatismi a lei confidenziali; è un inganno in grado di calmare i nervi.

In testa mi rimbalzavano le parole della tua maestra: «C’è stata una rissa con i compagni di classe, suo figlio ha battuto la testa e ha perso i sensi. Abbiamo già avvisato sua moglie, sta andando in ospedale».

Dovevamo aspettarcelo, non era la prima volta che ci facevi preoccupare. Trovarsi a soli nove anni lontano dalla propria terra e doversi fidare di due sconosciuti, che neppure parlavano la tua lingua, sarebbe stato difficile per chiunque.

La corsa in ospedale sembrava interminabile, così come lo è il tuo cammino attraverso un paese a te sconosciuto, un transitare da una lingua a un’altra, un fluttuare tra idiomi vecchi e nuovi, una continua ricerca di parole capaci di riempire il vuoto della tua identità. Sei in un incessante tumulto di emozioni e laddove le tue fuoriescono con l’irruenza di un fiume in piena inducendoti a comportamenti a volte insopportabili, le nostre devono tacere per calmare le tue.

Correvo per salvarti un’altra volta. All’interno della macchina e con le mani serrate sul volante sembravo un animale in gabbia. Se solo fossi riuscito a trovare il modo per comunicare con te. Una violenta raffica di immagini affollava la mia mente che, senza alcuno sforzo, cercava di ripercorrere la tua vita prima di noi. Pensavo al tuo mondo, definito dalle mura della tua casa, dove gli odori della minestra e dell’alcool si confondevano in un tutt’uno e dove le urla e le violenze tra tuo padre e tua madre, ubriachi e ruvidi, facevano parte del tuo quotidiano.

Hai visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere e che hanno fatto precipitare la tua vita in un abisso senza più riferimenti. La tua famiglia non era più in grado di crescerti e come un soffio di vento ti è stata portata via.

Sei rimasto solo e senza più parole.

Come esprimere così tanto indicibile smarrimento? Forse pensavi che dimenticando la tua lingua e sradicandoti da essa, avresti fatto scomparire anche i ricordi. Così, da quando sei stato portato all’orfanotrofio, ti sei ammutolito. Per non annegare nel vortice che ti ha inghiottito, hai fatto come hai potuto, sostituendo il parlare con singhiozzi, suoni stonati, inciampi, rabbia. Le parole d’affetto di un tempo le hai rimpiazzate con altrettante vuote e assordanti come tamburi nel deserto. È stato così che, solo osservandoti, ho capito che il cambiare la propria lingua è un processo paragonabile a una guerra. Per trovare un modo nuovo di esprimerti e per ricostruirti hai dovuto prima sacrificare pezzi di te; per te non è stata un’opportunità, è stato un incubo.

Ho abbandonato la macchina nel piazzale dell’ospedale ed ho attraversato le porte scorrevoli del pronto soccorso. Eri in coma.

In una frazione di secondo un pensiero mi ha abbagliato come fosse stato un lampo; quando ti risveglierai in quale lingua parlerai, in quale lingua ti dovrò parlare io? E se non fossi in grado di capirti? Il polacco risiede nelle viscere più profonde del tuo essere, è la tua conoscenza inconscia, la tua vera identità e nessuno potrà mai portartelo via, nemmeno tu.

Mentre stavo per telefonare ad Anna, la nostra insegnante di polacco, per dirle di tenersi pronta in caso di necessità, ho sentito una voce rassicurante che mi invitava a sedermi vicino al letto dove eri sdraiato. Tua madre era già lì, più silenziosa del solito, assorta nei suoi pensieri che sistemava meticolosamente le lenzuola del tuo letto. Ci avevano consigliato di parlarti, di farti sentire le nostre voci e di raccontare storie per cercare di risvegliare la tua memoria. Cosa potevamo raccontarti noi, mi domandavo? Un padre e una madre che non condividevano con te alcun passato, a cosa potevano appellarsi, cosa potevano rievocare? Non avevamo ricordi, soltanto la strada ancora da costruire e da percorrere insieme a te.

Ci sentiamo affaticati, stremati, impotenti ma sappiamo che quello che stai vivendo tu è mille volte peggio.

Sono rimasto immobile senza dire una parola. Fissavo i macchinari ai quali eri attaccato osservando la tua quiete del tutto insolita. Vederti in quello stato mi faceva uno strano effetto e accelerava in me il bisogno di trovare una storia da raccontare. All’improvviso mi è apparso il ricordo del nostro viaggio verso di te, il ricordo di quanto volessimo sentirci pronti ma anche di quanto non ci rendessimo conto dell’utopia delle nostre aspettative.

Non si è mai pronti del tutto per questo tipo di esperienze.

Volevamo che diventassi nostro figlio e che rimanesse traccia di quanto tenessimo a te e per questo abbiamo varcato la soglia del nostro coraggio iniziando a studiare il polacco. Una lingua difficile, è vero, ma non aveva importanza visto che era l’unico modo che avevamo per addentrarci nel tuo mondo, nella tua storia, nelle tue radici. Pensavamo che entrando in confidenza con essa sarebbe stato più facile comprendere le esperienze e i dolori che ti portavi dentro. Durante le lezioni, immaginavamo e improvvisavamo situazioni impensabili, dalle più divertenti alle più difficili, alternando frasi di uso comune e giornaliero a frasi più profonde e intime. Per noi Anna era diventata una specie di ponte che ci avrebbe aiutati a raggiungerti e ad accorciare le distanze. Gradualmente, insieme a lei, abbiamo incominciato anche ad apprezzare il tuo paese, nonostante fosse difficile farlo fino in fondo, ma allo stesso tempo sapevamo che il nostro compito, un giorno sarebbe stato anche quello di accompagnarti nel tuo passato. Saresti cresciuto e avresti cercato le tue origini, lungo un percorso inverso, ma necessario per fare pace con chi la pace te l’aveva negata.

Il nostro primo incontro con te è stato sorprendente, sei stato all’altezza della situazione e noi siamo riusciti a contenere le nostre paure e le nostre emozioni. Anna ci ha sempre raccontato di quanto il tuo popolo fosse ospitale e accogliente. E così è stato. Ci hanno fatto molti complimenti per il nostro polacco, anche per le parole pronunciate in modo buffo e goffo, ma piene di sentimento e di affetto. Ogni nostro tentativo di intavolare un discorso che avesse un minimo di senso, aveva come unico scopo quello di essere compresi da te. Ci scrutavi come se stessi facendo un calcolo di probabilità della riuscita dell’operazione, misuravi il grado di fiducia da concederci e parlavi con occhi attenti ai quali nulla sfuggiva, nemmeno la più impercettibile smorfia. A volte accennavi un sorriso. Eravamo avvolti da un uragano emotivo in grado di spazzare via un intero paese, tanto che mentre cercavamo di risultare disinvolti, i nostri nervi erano tesi come corde di violino.

Noi grandi siamo fatti così, spesso ci vergogniamo di mostrare le nostre fragilità per paura di risultare ridicoli.

L’averti conosciuto ci ha confermato ciò che già sapevamo, che saremo ritornati in Polonia a prenderti per portarti via con noi. Ci sentivamo leggeri e felici. Abbiamo continuato a studiare la tua lingua, ma questa volta tutto ci sembrava diverso, anche i suoni delle parole, una volta ostili, erano diventate la più bella delle musiche. La nostra motivazione e la determinazione erano cresciute a dismisura. Ci stavamo preparando con precisione ingegneristica a costruire non solo ponti, ma vere e proprie opere architettoniche, fatte di parole inedite e di sentimenti nuovi.

Purtroppo, con il tuo arrivo in Italia, inaspettatamente tutto è diventato difficile al punto di dare pugni contro i muri, fino a farci sentire svuotati; ci sfidavi, alzavi la voce, cercavi lo scontro, i tuoi improvvisi attacchi di aggressività erano diventati sempre più frequenti.

La tua rabbia era provocante, a volte addirittura autolesiva, sapevi che, facendo del male a te stesso, avresti ferito anche noi. Era il tuo modo di chiederci di non abbandonarti perché, al contrario di ciò che dimostravi, avevi bisogno di noi per cercare di cancellare quel senso di colpa che sentivi dentro. Volevi essere amato incondizionatamente, volevi essere accettato anche se picchiavi e mordevi, anche se non facevi i compiti e ritenevi stupide le tue maestre. Il tuo inconscio ti restituiva scenari impressi nella tua mente, come la mia che richiamava l’odore della sigaretta. In questo siamo uguali, smarriti, indifesi e spaventati, ma non possiamo più permetterci di lasciare al passato le nostre storie irrisolte. Non si può restare aggrappati alle cose, bisogna dare un senso a tutto, anche al dolore, per lasciarlo andare, per permettere alle parole di rifiorire e di scrivere un nuovo capitolo della stessa storia.

Sentivo la gola secca che strozzava ogni mio tentativo di dare forma verbale ai miei pensieri, come quando fai un brutto sogno e vorresti gridare ma rimani intrappolato nel tuo spasmo. Ma mentre stringevo la tua mano guardando il vuoto oltre il vetro della finestra, ho percepito le tue piccole dita agitarsi e poco dopo anche un filo della tua voce. Una scossa improvvisa ha attraversato il mio corpo e solo in quel momento ho avuto la chiarezza che il nostro e il tuo senso di appartenenza non sarebbe più stato soltanto un paese o una lingua, ma il sentire e percepire la vita insieme a te.

Dorota Czalbowska


Aicha Fuamba

Nasce nel 1994 in Congo. Giunta in Italia, nel 2014 si iscrive al liceo di scienze umane a Rovigo. Dopo un anno, per il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, si trasferisce a Pantelleria, con l’intento di terminare gli studi liceali. Problemi economici costringono il nucleo familiare a ripartire per recarsi a Genova. Rimasta sola, accanto a sé ha una persona che la sta aiutando in attesa di sostenere gli esami di maturità, per poi cercare la sua strada, forse altrove.

Con Sofia Teresa Bisi (insegnate, nata nel 1970 a Rovigo) ha scritto a quattro mani il racconto Per Aspera ad Astra, vincendo il primo premio della XIII edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, con la seguente motivazione: «Per il racconto dell’orrore dell’esperienza dell’Africa, del Mediterraneo, dell’Europa, reso possibile dalla relazione di affidamento tra docente e discente. Per la capacità narrativa di trasformare, con il racconto, l’esperienza soggettiva di atrocità, a cui la cronaca drammaticamente abitua, in memoria collettiva. Per il senso civico che presiede all’idea che la condivisione del racconto del dramma migratorio attivi la sopportabilità del ricordo, nell’agire dell’ascolto in relazione. Il racconto è una sorta di Odissea al femminile, in cui la guerra è di altri e la patria e la famiglia sono luoghi frammentati dove non è possibile tornare. Una babele, anche linguistica, all’interno di rapporti di sangue; il tutto narrato in modo mosso e contraddittorio, dove le parole e lo stile ricalcano ed esprimono i sobbalzi dell’animo, le discordanze e le incongruenze dei sentimenti. Il modo in cui viene descritta la storia rispecchia il coraggio di chi lo narra, tenendo il lettore con il fiato sospeso fino alle ultime parole».

Per Aspera ad Astra

L’inizio

Mia mamma Leonnie è nata e cresciuta in Congo, cattolica; papà è del Niger, musulmano. Si sono conosciuti e innamorati in Congo; nel 1992 sono nati due gemelli: i miei fratelli hanno nomi islamici, Hassan e Housseini, e altri con cui li chiamava mamma: Rolly e Roland. Nel 1994 sono nata io e nel 1996 mia sorella Kerene.

Un giorno papà dice a mamma: «Voglio andare in Niger a far visita alla mia famiglia. Porto i bambini». Solo Kerene resta a casa, perché troppo piccola. Papà ha deciso: dobbiamo restare in Niger e avere una cultura come la sua. Mamma aspetterà sei anni il nostro ritorno.

Papà mi affida alla nonna paterna, che mi vuole bene, e anch’io inizio ad amarla. I gemelli invece restano dal fratello di papà, perché lui e sua moglie non hanno figli. Nonna insiste che papà si risposi con una donna musulmana. Così, per rispetto, accetta: è una festa bellissima, dove io non riesco a non essere felice. Poi papà porta tutta la sua famiglia in Niger, anche Kerene.

Mamma sembra impazzita, si dispera, rompe gli oggetti in casa, anche se è in gravidanza. Viani nasce dopo poco; mamma è sola a partorire. Quando il piccolo ha sei mesi, mamma e papà si vedono e litigano; lui la caccia e va a vivere in Francia. La situazione per mamma si fa gravissima: ha un figlio non riconosciuto, vivono per strada. Poi in Niger incontra Camille, un insegnante del Congo, si innamorano: lui accoglie lei con Viani; dalla loro unione nasce Raiss. Per cambiare vita decidono di andare in Libia, ma prima la mamma vuole vedere me e mia sorella: staccarsi da noi le dà un grande dolore. Ci diciamo poche parole, ma è davvero bello! Sento che il legame di sangue può sistemare tutto. In Libia mamma e Camille hanno aiuti e lavoro: la loro vita sembra perfetta.

Io mi rendo conto di non capire la lingua di mia madre, ma quando mi chiama le basta sentire la mia voce, nel dialetto Jarma che uso con la nonna.

Il villaggio

Arrivarci è un’avventura. Viverci una sfida quotidiana. Dove vivo non ci sono più di dieci capanne. Ogni giorno faccio provvista d’acqua e le pulizie; nei boschi invece cerco legna per il fuoco. Ho paura dei temporali: tremo perché potrebbero portarsi via tutto. Quando piove il paesaggio si fa lussureggiante, gli alberi crescono veloci offrendo cibi buonissimi che io corro a cercare.

In quelle comunità la vita trascorre metodica: gli uomini lavorano la terra e le donne si occupano di attività manuali come cucinare. Chi può tiene degli animali, ma la nonna è troppo anziana per accudirli. I negozi non ci sono, neppure la scuola. Qualche volta passa qualcuno con la stoffa, così le donne confezionano vestiti. Non ci sono neppure gli ospedali, ma le donne più esperte sanno curare con le piante. Ricordo una medicina amarissima ma eccezionale per farmi stare bene. Le donne partoriscono in casa, aiutate da abili levatrici. Ci si sposta con dei carretti trascinati da ann, simili agli asini; nessuno ha la bicicletta. Solo adesso mi rendo conto di aver perso tempo inutilmente. La nonna è vecchia e io la accudisco, la aiuto in tutto. Mi piace anche andare a trovare i miei amici, ma lei ha paura che qualcuno mi faccia del male, non vuole sentire odore di un ragazzo addosso a me.

La mia vita cambia nella più grande Kiota, che ha persino un ospedale: una struttura fatiscente e sporca. Una volta devo andarci perché sto male, ma mi rifiuto di stendermi sul lettino! A Kiota c’è il capo dei musulmani del Niger e mantiene salde le tradizioni legate a religione e famiglia.

Qui succede un fatto terribile. Vivo vicino a mio zio e a sua moglie, hanno cinque figli. Un giorno, tornando da scuola, la sua bambina di sette anni è presa e violentata: io e la zia la troviamo in un lago di sangue, con ferite sul corpo e nell’anima. A lungo discuto perché sono vittime di maldicenze. Rimasta di nuovo incinta, il giorno del parto, mia zia è accompagnata all’ospedale con problemi di salute: il bambino non respira; lei è distrutta e malata. Da quel giorno decido che da grande farò l’ostetrica.

Sposarsi?

A 15 anni i miei fratelli chiamano spesso la mamma e le chiedono di venire a prenderci: c’è il rischio che ci facciano sposare; là decidono le famiglie. Così mamma, da sola, riattraversa il deserto e ci chiede di seguirla in Libia. Non so descrivere l’emozione che provo in quel momento: sento la mia vita, le certezze, gli affetti, tutto in totale confusione! «Non so cosa fare», dico, con la bocca così secca che sembra legata con una corda. «Sto bene qui con la nonna. Lei mi ama».

La nonna mi conosce e avverte qualcosa di strano. «Cos’hai bambina mia?», mi chiede. «Cosa ti preoccupa?». Io provo un nodo in gola quando mi fa domande, mi sembra di tradirla. Nonostante ciò, siamo decise a partire.

La fuga

Il piano ha così inizio. Mamma ci invita ad accompagnarla nella capitale. «È solo per fare alcune commissioni», diciamo. Così usciamo da casa senza niente, ma un dolore e un senso di vuoto mi appesantiscono il respiro e le gambe. Di notte saliamo su un pullman che ci porta al famigerato camion per la traversata del deserto. Per il viaggio, mamma compera tutto il necessario, come gli spaghetti e il gari di manioca, cibi che si preparano velocemente, ma il bagaglio permesso è minimo.

Il guidatore è di poche parole, si sottopone a ritmi incredibili. Intorno a noi c’è solo deserto, raramente si vede qualche albero. Non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione così difficile. Improvvisamente vedo la precarietà della vita, lo sforzo, la fame, il freddo, la sete, il sonno. Tutti insidiosi e insopportabili. Il mio carattere ottimista mi fa considerare tutto come un gioco, senza farmi domande. Mamma invece è terrorizzata. Spesso capita di dover fare dei tratti a piedi sulle dune di sabbia; lei è grossa e fa tanta fatica, così io e Kerene la aiutiamo. Per dormire ci si appoggia per terra, tutti vicini, sopra i vestiti di ricambio.

Il viaggio è lungo e a un tratto ho dolori lancinanti alla pancia: senza medicine inizio a temere il peggio. C’è però un ragazzo vicino a me, che parla un dialetto diverso dal mio: prende un tappo d’acqua, dice delle preghiere e me la fa bere. Non so se sia magia o miracolo, ma poi sto meglio!

I momenti più bui si presentano al centro del deserto, nella città di Dirq. I soldi sono finiti ma il viaggio è ancora lungo. Mamma finge che vada tutto bene, ma deve vendere gli oggetti più utili, anche la torcia.

A un controllo perdiamo le speranze. Le guardie non credono alla nostra parentela, perché mamma parla in francese e noi in dialetto e temono che ci abbia rapite. Dopo tanta paura, sono i gemelli a confermare per telefono la nostra sincerità. Ma le difficoltà non vogliono finire. Non torna nessuno a prenderci, a farci risalire sul camion. Bisogna avere soldi, molti soldi. E così ci troviamo rinchiusi in un recinto, dietro un muro altissimo. Dopo qualche giorno in quell’inferno, papà trova i soldi per il viaggio. Un suo amico ci permette di lavarci e cambiarci, ci dà vestiti puliti, cibo e un’auto.

In Libia

Siamo stanchissimi, ma alla frontiera ci aspettano nuovi problemi: siamo senza soldi e documenti. Rischiamo, preghiamo. Alla fine, arriviamo a Saba e si avvera un desiderio: ci laviamo e mangiamo tutti fino a scoppiare! Incontro i miei fratelli: Viani, Raiss ed Hernst, il più piccolino. «Sono bellissimi», penso, «ma non so come parleremo: non conosco la loro lingua». Ci sistemiamo con persone di tante zone dell’Africa, ma io soffro di nostalgia, vorrei tornare in Niger. Così io e Kerene pensiamo a salvarci con un gesto vile: rubiamo dei soldi a mamma e di nascosto andiamo a telefonare alla zia.

«Zia, sei tu?»

«Aicha, Kerene?» la voce le trema ma sembra felice.

«Chi vi ha portate via?» Le spieghiamo l’accaduto e le diamo informazioni per trovarci.

Il nostro unico pensiero è tornare, ma ancora oggi non mi so perdonare un gesto così vile.

Un’altra vita

Dopo poco io e mia sorella confessiamo a mamma il nostro gesto. Lei piange e basta. «Dobbiamo sbrigarci», dice «Non c’è un attimo da perdere». Lei sa quanto stiamo rischiando, così partiamo subito: un’altra avventura, un altro camion. Ricordo con terrore la sensazione di soffocamento là dentro. Prego, spero, aspetto. Sono giorni interminabili: fuori dalla città, in attesa di sconosciuti.

«Loro sono malvagi», sento dire degli uomini che gestiscono i camion.

«Vogliono soldi, tanti soldi».

«Non li abbiamo per tutti», sussurrano mamma e Camille. «Come faremo? Quelli là non hanno pazienza!».

Alla fine, è deciso: io, mamma e Viani stiamo alle porte di Tripoli ad aspettare il carico successivo. Così inizia il mio incubo. Di notte ci portano in un luogo lontano da tutto, orribile. Ci picchiano a sangue e abbandonano. «Mamma, dove siamo?» sussurro, nella speranza che lei mi conforti. La sua voce trema. «Corriamo, dai!», ci dice. Le ferite sarebbero rimaste per sempre, ma il dolore non la ferma. Corriamo piangendo e tenendoci forte per mano. Dopo un po’ ci separiamo: Viani è veloce e leggero come una piuma, mamma non ce la fa. Siamo senza scarpe e impauriti. «Ci saranno case, persone, animali feroci?»

A un certo punto vediamo un alto recinto.

«Dai, saltiamo!»

Io lo scavalco per prima, in fretta e agile.

«Coraggio!», dico. «Non è difficile».

Viani mi segue, ma la mamma si blocca.

«Andate. Vi raggiungo tra poco» ci dice. Ci vuole solo vedere salvi. Invece l’aspettiamo e andiamo insieme.

È tardissimo, abbiamo fame e sonno, non sappiamo quanti altri pericoli ci aspettano.

Camminiamo fino al giorno successivo, poi vediamo una casa.

«Sarà abitata?», ci chiediamo

«Non importa», risponde mamma. «Chi sa parlare l’arabo come me, qui è al sicuro bambini miei». Lei ci rassicura, non lascia trasparire lo sconforto.

Ci avviciniamo e troviamo qualcuno con cui parlare. Sono minuti lunghissimi, in cui ci pare di contrattare il nostro destino.

«Davvero ci portano?». Esultiamo io e Viani.

Forse è il nostro giorno fortunato. Troviamo un passaggio per la capitale, e anche un paio di scarpe! Ci sono tante persone, africani di diverse etnie, ognuno con una storia diversa, ma siamo preoccupate di non riuscire a trovare Camille e i miei fratelli. Che strano! Le amicizie fatte nei momenti più difficili sembrano destinate a essere più forti e a durare.

Dopo due giorni, ritroviamo i nostri familiari. Un’emozione immensa!

«Non dobbiamo più separarci!», è la nostra promessa.

La nuova amica del Congo ci ospita per un po’, mentre cerchiamo di sistemarci.

Mamma e papà trovano un impiego e noi una scuola. Mamma però mi preoccupa: mangia poco, dimagrisce, ha paura che qualcuno dell’ambasciata ci porti via. Cerchiamo allora di organizzarci un’identità nuova: decidiamo di non usare più la lingua del Niger e ci diamo dei nuovi nomi: Kerene diventa Habiba e io, invece di Aicha, mi faccio chiamare Bellevie.

Nuovi incubi

Sembra troppo bello per essere vero. Nel 2011 la Libia viene sconvolta dalla guerra.
I bombardamenti sono sempre più frequenti, così decidiamo di sospendere la scuola.
Intanto ci giunge notizia che ci sono dei ponti aerei per il ritorno degli stranieri nelle loro nazioni.

«Non ci torno più!», dicevamo tutti.

«Tornare in Niger vuol dire azzerare tutto. Ammettere di essere scappati. Essere puniti».

«Che ne dite dell’Italia?», dicono mamma e Camille.

«Italia» ci risuona nella mente a vuoto.

«La Francia è il mio sogno», dice mamma. Forse dall’Italia sarà facile arrivarci.

Bisogna sbrigarsi e preparare tutto. Il problema sono ancora i soldi: ne servono tantissimi. Iniziamo quindi la procedura per la partenza. Chi gestisce i migranti li ammassa fuori città, in case disabitate in attesa del momento per partire. Sono strutture terribili: usiamo gli alberi come bagno e stiamo in silenzio, anche se la solidarietà che si crea è unica.

È il 9 aprile 2011. È il cuore della notte. Nascondendoci dalla sorveglianza armata ci imbarchiamo mentre intorno a noi si sente minaccioso il rumore delle bombe che ci gela il sangue.

All’inizio il mare è calmo e il vento appare buono. L’arrivo a Lampedusa è previsto per la mattina successiva. L’indomani, però, la barca è ancora in alto mare. Gira voce che sia rotta o che chi la sta guidando abbia perso la rotta.

All’improvviso ci arriva l’ordine di liberarci di gioielli e oggetti preziosi, perché siamo vittima di un incantesimo e dobbiamo gettare in mare tutto. Adesso mamma è davvero spaventata.

Da musulmana inizio, dunque, a pregare con il Corano in mano e mia sorella accanto. Per questo litigo con mamma, che è cattolica e attribuisce la colpa dei problemi di viaggio al Corano.

«Buttatelo in mare se volete arrivare sani e salvi». Ci dice sempre più forte.
«No! Non faremo un gesto simile. Se vuoi buttare qualcosa, lancia in mare la tua Bibbia», diciamo offese.

La lite fa emergere vecchie tensioni; il nostro legame non è mai stato del tutto «normale»; ho vissuto troppo a lungo lontana da lei; non riesco nemmeno a darle del tu.
Affrontiamo quattro lunghi giorni in condizioni spaventose. Già dal terzo non c’è più da mangiare: la fame e la sete si aggiungono a sonno e paura.

All’improvviso si scorgono delle luci: sembra uno scoglio, invece si delinea l’aspetto di una piccola città.

«È Pantelleria! Siamo arrivati!».

Il mare però sembra fare di tutto per non permetterci di sbarcare: è agitatissimo, ci fa urtare tra di noi. Le onde sbattono contro la barca che si impenna vistosamente. 192 vite si sentono più fragili che mai; poi da una piccola imbarcazione pochi marinai di Pantelleria ci vedono in difficoltà, ci raggiungono e ci invitano a seguirli al porto. Ma la nostra barca sembra non voglia essere guidata: in un’ora e mezza le nostre vite vengono segnate per sempre.

Il mare è davvero troppo agitato: ci fa sbattere tra di noi e colpisce spaventosamente il barcone che sembra impazzito. Mamma è pallida e non parla: guarda Camille. Dopo poco mi dà la mano: sento che mi è impossibile rifiutare quel gesto, che poi fa anche con Kerene.

Le onde sono sempre più alte, impediscono di vedere intorno; ma vicino ci sono gli scogli: un impatto forte, terribile causa uno squarcio sulla fiancata dell’imbarcazione. Trattengo il fiato, ho il cuore in gola, mi sento viva e quindi mi metto a pregare: «Dio, ti prego, fa’ che non succeda più…». La barca incontra un’onda enorme, tutto cambia prospettiva in un attimo: siamo catapultati in mare. È tutto un gridare, agitarsi, aggrapparsi a qualunque cosa. Chi si cerca, chi nuota, chi resta immobile: molti di noi non sanno nuotare e sopportano il loro atroce destino. Io ho un salvagente che papà ha comprato prima di partire; all’improvviso sento che qualcuno me lo vuole strappare. Per reazione decido di afferrarlo con più forza: non so nuotare.

La Guardia Costiera e i volontari arrivano e ci aiutano a uscire dall’acqua. «Non mi sembra vero», mi viene da dire. «Grazie», dico in un modo che forse si capisce solo nel mio sguardo.

«Kerene! Camille! Mamma!» iniziamo a cercarci.

«Mamma! Mamma! No!»

Non l’ho salvata, nessuno la trova. Sento sirene e vedo ambulanze. Mi mancano le forze, Kerene sviene, ci portano in ospedale. Vedo un’amica di mamma, lei mi abbraccia forte, in silenzio. Poco dopo vedo un ragazzo conosciuto in Libia. «Prega», mi dice, ma io sento al petto un male cattivo e profondo. Non riesco a prendere sonno: i capogiri, la paura, le tensioni sembrano sfogarsi su di me tutti insieme. Incontro i bambini, salvi per fortuna, e poi papà, su una sedia a rotelle, con lo sguardo perso e senza forze. Nessuno però ha visto mamma.

Nell’isola dobbiamo ripensare la nostra vita, anche se non ci fanno mancare niente. Il giorno peggiore è quando ci accompagnano in obitorio per riconoscere la nostra mamma bella e giovane, stesa in un tavolo, ghiacciata, con i suoi vestiti addosso. È la prima volta che vedo una persona morta. «Non c’è più, non la rivedremo mai più», è tutto quello che riesco a pensare. Al funerale ci sono tante persone: i militari, il sindaco e gli altri superstiti.

Dopo pochi giorni, decido di telefonare a papà per informarlo della scomparsa della mamma. Lui è dispiaciuto ma non dice altro, neanche che ha voglia di incontrarci.

Per un po’ restiamo ospiti da una famiglia di Pantelleria: Mariano e Giuseppina ci trattano come parenti. Dopo sei mesi, andiamo a Trapani per i documenti di soggiorno. A me sembra una specie di prigione: si sta nelle stanze e si mangia tutti assieme in una sala grandissima. Qualche volta si fanno i turni per mangiare. Nel campo di Trapani, dopo qualche settimana, arriva papà dalla Francia, con la nuova moglie e una figlia.

«Ho già parlato con l’assistente sociale: ha detto che è giusto che veniate con me».

Io, Kerene e Viani siamo preoccupati. Al telefono con la nonna ho capito che papà vuole riportarci in Niger, non in Francia con lui. È difficile dirgli di no: lo dobbiamo fare in tribunale a Palermo, per restare con Camille, che ora lavora in aeroporto e così è riuscito ad affittare una casa per tutti noi.

Io e Kerene ci iscriviamo in terza media, Viani e Raiss alle elementari ed Ernest all’asilo. Per noi la lingua italiana è difficilissima, l’assenza di mamma è penosa e abbiamo tante responsabilità. Io e Kerene vogliamo prendere i sacramenti, come desiderava la mamma, ma soffro perché io e Camille litighiamo spesso.

Il mio più grande desiderio è andare a trovare la nonna per Natale: lei mi dà pace e affetto. Il visto è difficile da avere; aspetto notizie dall’ambasciata. Al telefono dico: «Nonna, tra un po’ ritorno da te!».

«Bambina mia, che notizia meravigliosa. Ho voglia di abbracciarti!».

Ma l’ennesima tragedia non si fa aspettare: lei muore l’11 novembre. Non serve più il visto. Dolori e rimpianti mi creano incubi e crisi di pianto. Non riesco a trovare pace, e la scuola, iniziata con ritardo, è una preoccupazione forte.

Oggi frequento il Liceo delle scienze umane a Pantelleria. La mia famiglia è sparsa per il mondo. Resto con i miei sogni: laurearmi, diventare ostetrica, sposarmi, avere dei gemelli e vivere in una città movimentata.

Aicha Fuamba
e Sofia Teresa Bisi


Hanno firmato il dossier:

Daniela Finocchi, ideatrice e direttrice del Concorso nazionale Lingua Madre.

Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia), partecipanti e concorrenti al Clm 2018.

Gigi Anataloni, direttore di MC, ha curato e coordinato questo dossier.

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Il prossimo concorso sarà nel 2023. I racconti vanno presentati entro il 15 dicembre 2022. Per maggiori informazioni:

 

 

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Italia, Polonia, Serbia, Rd Congo, Nigeria
Dorota Czalbowska (Polonia), Aicha Fuamba (Rd Congo) e Sofia Teresa Bisi (Italia) Dunja Badnjević (Serbia), Valeria Rubino (Italia); Daniela Finocchi e Gigi Anataloni

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