«La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale», ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince.
Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra alle tante vissute nella sua storia.
Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato, e un governo de facto, ovvero non leggitimo, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avvallo di Usa, Canada e altri stati «amici», nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane elette. Fanno eccezione dieci senatori non scaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moise infatti, si era premurato di ritardare le elezioni amministrative locali e quelle parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali.
Il paese è, di fatto, controllato da bande criminali (gang), che si dividono il territorio, sia in capitale Port-au-Prince, sia nelle altre città e nelle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con l’uso massiccio del rapimento a scopo di estorsione (abbiamo approfondito questa situazione su MC nei mesi di gennaio e marzo 2022, articoli reperibili sul sito).
Ultimo atto
Dal 12 settembre scorso, una potente gang, G9 an fanmi ak alye, controlla e blocca il terminale petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, dove sono presenti gli stock di carburante (già successo nell’ottobre 2021). Benzina e gasolio sono diventati introvabili, e la super reperibile sul mercato nero ha raggiunto i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è bloccato. I mezzi di trasposto sono paralizzati, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio).
Il governo de facto, non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppiato il costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, forti movimenti di protesta di strada sono cominciati, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze.
In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si stanno moltiplicando, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese.
Una nuova occupazione?
Così, in un consiglio dei ministri, il 6 ottobre scorso, il governo de facto ha autorizzato il primo ministro a «sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate […]».
Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza.
Una richiesta illegittima da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, questo hanno denunciato i diversi settori della società civile e dell’opposizione politica.
Il gruppo nato da società civile e alcuni partiti di opposizione, il 30 agosto 2021, noto come l’accordo del Montana (firmato appunto in quella data), aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moise. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione.
Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostitutita da Nazioni Unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero.
Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, è stata ad Haiti dove ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince.
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Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.
Marco Bello
Fuoco per dono
Due parole ronzano nella mia testa di questi tempi quando penso a «missione»: «perdono» e «fuoco».
«Fuoco» è stata al centro dell’omelia di papa Francesco il 27 agosto scorso quando ha creato i venti nuovi cardinali, tra cui il nostro Giorgio Marengo, il più giovane di tutti e vescovo di quella che certamente è una delle «diocesi» più piccole del mondo, forse battuta solo da Kirghizistan e Afghanistan.
«Perdono», invece, è stata la parola chiave del «Festival della missione», celebrato a Milano alla fine di settembre. E non semplicemente «perdono», ma «perdono», con quel «per» evidenziato allo scopo di sottolineare la dimensione della gratuità come essenziale della missione.
La gratuità è la qualità più tipica dell’azione di Dio nei nostri confronti tramite Gesù Cristo, e quella fondamentale della missione e della Chiesa. Ma è anche lo stile di ogni vero missionario, che fa del donarsi l’anima del suo apostolato.
Donarsi fino a consumarsi, come legna sul fuoco, come ha fatto padre Camillo Calliari, ad esempio, che ha speso tutta la sua vita per i poveri del Tanzania mantenendo una grande umiltà e non si è mai lasciato gonfiare da un po’ di notorietà venutagli attraverso quel libro affettuoso e ammirato con cui Giorgio Torelli lo ha ritratto, «Baba Camillo».
Il «per dono» del festival di Milano ci ha ricordato il lavoro fatto «per dono» dai grandi missionari e missionarie, come quello fatto dai tanti che si sono lasciati consumare nell’anonimato più assoluto, senza rumore, facendo bene il bene negli angoli più remoti della terra.
Mentre online ascoltavo l’omelia di papa Francesco al concistoro, ho pensato alla mia infanzia, quando la legna e il fuoco erano parte della vita quotidiana, e questo ha suscitato in me ricordi intensi e immagini indimenticabili. Come quella del grande falò di primavera dalle fiamme altissime fatto con i tralci potati dalla vite, un fuoco bellissimo che creava gioia e festa, salutando i freddi intensi dell’inverno e alimentando le speranze di una primavera foriera di prosperi raccolti. Oppure il ricordo invernale delle rosse braci nello scaldino infilato sotto le coperte per creare una coccolosa isola di calore in cui ci si tuffava velocissimi per dormire nella stanza gelida. E le lunghe sere d’inverno passate seduto dentro, proprio dentro, il grande camino nella casa del nonno al caldo rassicurante e duraturo dei ceppi di castagno o di gelso che si consumavano adagio riscaldando la notte, mentre si abbrustolivano le castagne.
Quei ricordi indelebili mi aiutano a capire con vividezza quanto ha detto papa Francesco: «[Il] fuoco, che qui è la fiamma potente dello Spirito di Dio, è Dio stesso come “fuoco divorante”
(Dt 4,24; Eb 12,29), Amore appassionato che tutto purifica, rigenera e trasfigura. […] C’è però un
altro fuoco, quello di brace. Lo troviamo in Giovanni, nel racconto della terza e ultima apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sul lago di Galilea (cfr 21,9-14). Questo fuocherello lo ha acceso Gesù stesso, vicino alla riva, mentre i discepoli erano sulle barche e tiravano su la rete stracolma di pesci. E Simon Pietro arrivò per primo, a nuoto, pieno di gioia (cfr v. 7). Il fuoco di brace è mite, nascosto, ma dura a lungo e serve per cucinare. E lì, sulla riva del lago, crea un ambiente familiare dove i discepoli gustano stupiti e commossi l’intimità con il loro Signore».
Questo fuoco che brucia «con mitezza, con fedeltà, con vicinanza e tenerezza» è lo stile vero della missione. Solo così essa può comunicare «la sua [di Dio] magnanimità, il suo amore senza limiti, senza riserve, senza condizioni, perché nel suo cuore [quello di Gesù e quindi quello del missionario da Lui mandato] brucia la misericordia del Padre».
Mi piace pensare a questo fuoco «mite, nascosto e che dura a lungo». Quanti missionari e missionarie, ma anche catechisti e volontari, stanno riscaldando così il mondo, senza chiasso. Segno di una speranza che non muore, di un amore che è più forte di tutte le guerre, di tutti i bla bla di tanti politici che pensano solo ad apparire, di una fedeltà che non cerca l’applauso, ma ha a cuore le persone concrete, i più deboli e piccoli, i più lontani e ignorati, i più martirizzati e sfruttati. Per dono, come la luce del sole che sorge ogni giorno, senza mai aspettarsi un grazie, ma felice di vedere i semi germogliare, gli uccelli volare, gli uomini danzare. Per dono, consumandosi fino alla fine, per un mondo dove germogli fraternità, amore e bellezza.
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Cartine e mappe
Sono una lettrice ed estimatrice della vostra rivista che leggo con piacere perché interessante, ricca di notizie, aggiornata, con immagini ma soprattutto apprezzo che ogni articolo sia corredato di cartine geografiche che invece difettano in altre riviste.
Vi scrivo perché vorrei che manteneste quest’ultima caratteristica che ritengo utile e istruttiva. Nell’ultimo numero di Missioni Consolata 8-9 scarseggiano. Cordiali saluti.
Carla Guidi 13/08/2022
Grazie dell’apprezzamento e dell’invito all’uso regolare di cartine. A dire la verità qualche volta ci sembra di stancarvi riproponendovele numero dopo numero. Cercheremo di fare del nostro meglio.
Baba Camillo
Spett.le Redazione,
purtroppo baba Camillo ci ha lasciati. Ha trascorso molti anni (40?) in Tanzania, soprattutto
a Kipengere. Mi auguro di leggere presto, sulla vostra rivista, un articolo a lui dedicato che renda merito alla sua persona e alle opere compiute. Ringraziando, cordiali saluti.
B. Panebianco 29/07/2022
Baba Camillo (padre Camillo Calliari nato a Romeno, Trento) è tornato alla casa del Padre lo scorso 25 luglio all’ospedale di Ikonda. Aveva 83 anni, di cui 53 passati in Tanzania. Di questi, ben 34 nella missione di Kipengere.
Su di lui ha scritto un appassionante libro Giorgio Torelli (Baba Camillo, Istituto geografico De Agostini, Novara 1986).
L’ho conosciuto personalmente nel 1985 a Matembwe, dove sono stato alcuni giorni di passaggio anche per incontrare Luciano e Pia, due volontari che venivano da Torino, con il gruppo del campo di lavoro Kisinga ‘85, la missione dove c’erano padre Remo Villa (+ 20/02/2022 a Tura) e padre Masino Barbero (+ 16/09/2021) .
Nella foto scattata allora, baba Camillo (con la barba) sta controllando con padre Aldo Pellizzari (+ 23/08/2003 a Makambako) l’impianto da lui costruito per provvedere l’acqua alla missione situata sulla collina almeno cento metri più in alto. Fornire l’acqua alla gente era una delle sue passioni, come ha scritto Vita Trentina: «Molti i suoi campi di azione, con un’attenzione speciale per quanto riguarda l’acqua: ha costruito vari acquedotti nelle varie realtà dove si è trovato ad operare per agevolare la vita delle persone».
Il desiderio di scrivere di lui (e non solo queste poche righe) c’è, come anche quello di ricordare un altro grande missionario che ci ha appena lasciato, monsignor Luis Augusto Castro Quiroga, vescovo di San Vicente prima e arcivescovo di Tunja in Colombia poi, andato in cielo a 80 anni il 3 agosto 2022, pochi giorni dopo baba Camillo (vedi p. 9 e p. 12). È una promessa.
Taiwan
Sono un dilettante e certamente Lamperti ne sa molto più di me. Però non mi sembra che Taiwan sia il problema più importante per la Cina popolare che da quando Deng Tsiao Ping ha sconfitto la «banda dei 4» ha dato largo spazio all’iniziativa privata e probabilmente agli investimenti in Cina da parte dei loro emigrati arricchitisi in occidente. Se la Cina ha interessi di espansione geografica, sicuramente riguardano l’accesso diretto alla rotta polare resa libera dal disgelo e che dimezza (almeno) il percorso dalla Cina al mare del Nord, che resta il centro dello sviluppo industriale europeo. E per avere un accesso diretto la Cina deve prenderlo, con le buone o con le cattive, alla Russia, che peraltro sta rendendosi militarmente ridicola di fronte al mondo con un esercito potente sulla carta che non riesce a imporsi a quattro gatti male armati di Ucraini.
Claudio Bellavita 30/06/2022
Un cardinale ora, poi Allamano Santo?
Penso che il postulatore della beatificazione del canonico
Allamano abbia quasi finito il suo lavoro. Quale maggior miracolo dell’elevazione a cardinale di un giovane responsabile della più piccola e sperduta missione della Consolata, che vive e celebra sotto una tenda mongola?
Claudio Bellavita 04/07/2022
Lo speriamo anche noi. Se venisse presto anche la notizia della canonizzazione, sarebbe proprio un grande dono!
Scrivete di Pietro di Brazzà
Gentilissima Redazione,
penso che sarebbe interessante e bello far conoscere ai lettori della rivista MC l’esempio umano in Africa di Pietro Savorgnan di Brazzà. Grazie per la vostra attenzione. Pax et bonum.
Giorgio de Francesco Torino, 24/06/2022
Pietro Savorgnan di Brazzà (1852-1905) è un esploratore italiano che ha dato il nome alla città di Brazzaville, da lui fondata nella Repubblica del Congo. Il suo stile era tutto il contrario di quello usato dal contemporaneo re Leopoldo del Belgio nel colonizzare il Congo Zaire. Grazie del suggerimento, è una persona che vale la spesa conoscere meglio.
Di Cambogia e Don Mazzolari
Buongiorno,
leggendo la rivista di luglio, fra gli altri interessanti come l’Iraq, trovo due articoli a me particolarmente cari: Cambogia e Obiezione di coscienza con una citazione relativa a don Primo Mazzolari. Circa la Cambogia avevate già pubblicato una mia testimonianza a fine 2018 (MC 12/2018).
Aggiungo solo che in quell’occasione visitai una missione in una zona periferica di Phnom Penh molto difficile da trovare anche per il tassista poiché non c’erano nomi delle vie. Ero stato incaricato da amici del missionario di cui allego la foto (sotto), ma non ricordo il nome. La Chiesa non era enorme, ma sicuramente molto dignitosa. Circa don Primo Mazzolari, allego una testimonianza che mi era stata richiesta per ricordarlo. Avevo avuto l’opportunità di conoscerlo a 11 anni. Era stato per me un incontro sconvolgente poiché nella sua omelia, sentii parole mai udite prima. Cordiali saluti
Mario Beltrami 09/07/2022
Don Primo Mazzolari, un personaggio scomodo
«Ma come fa a scrivere queste bestialità, gente che dovrebbe invece fargli un monumento…». Non riesco a capire dove voglia andare a parare mio fratello. Sta leggendo un settimanale che entrava in casa mia negli anni ’40-50 e che trattava prevalentemente cronache di vita parrocchiale. Buttando sul tavolo il giornale, mi indica un titolo ben evidenziato in cui riesco a leggere solo un nome: Don Mazzolari. Senza darmi il tempo di leggere altro, comincia a parlare di uno straordinario sacerdote, osteggiato soprattutto da chi avrebbe dovuto essere dalla sua parte. Eravamo a Cremona nel 1951, periodo in cui l’Italia era spaccata in due: democristiani da una parte, comunisti e socialisti dall’altra. Questo sacerdote era in pratica accusato di fare prediche troppo sinistrorse, troppo vicine all’area socialista.
A me, poco più che undicenne, chierichetto, cresciuto in una famiglia molto religiosa, frequentante solo ambienti oratoriani, queste parole sembravano abbastanza forti, ma ero troppo legato al mio fratellone, ormai uomo, di 16 anni più vecchio, per metterle in discussione.
Mio fratello era nato nel 1924, ancora giovanissimo era stato chiamato alle armi da cui aveva poi disertato per unirsi ai partigiani. Aveva presumibilmente sentito parlare di Don Mazzolari proprio in quel periodo.
Una domenica di primavera, forse maggio, mi chiama mentre stavo finendo i compiti:
«Dai, prendi la bicicletta, andiamo a fare un bel giro, devo incontrare amici in un paese a una trentina di chilometri».
Parlare di macchine allora era quasi fantascienza e i 30+30 chilometri, fra andata e ritorno, era cosa normalissima in una zona piatta come il tagliere della polenta, dove il ciclismo era lo sport più popolare. Senza quasi rendermene conto, dopo aver attraversato diversi paesi: «Ci siamo», mi dice. Il cartello all’entrata del paese indicava Bozzolo, località che non avevo mai sentito prima. Davanti a un bar, in prossimità della chiesa, un gruppo di giovani ci saluta calorosamente. Uno in particolare si rivolge a me:
«Benvenuto campione. Sei bartaliano o coppiano?». Il dualismo Bartali-Coppi era allora più sentito di qualsiasi derby calcistico.
Mio fratello, dopo aver dato la mano a tutti, mi invita a fare un giro perché dovevano parlare. Mi avrebbe raggiunto più tardi per la messa direttamente in chiesa.
Fu una messa per me straordinaria che mi fece conoscere
una faccia nuova della Chiesa di Cristo. Nell’omelia di questo sacerdote udii parole semplici ma capaci di arrivare a tutti. Parole che non avevo mai sentito in centinaia di prediche. Si rivolgeva alla gente come stesse parlando a tu per tu con ognuno di loro. Ebbi persino l’impressione che, ogni volta che si girava dalla mia parte, mi sorridesse e, rivolgendosi direttamente a me, cercasse di farmi capire le brutture, le disuguaglianze, le incongruenze che governavano il mondo affinché io mi dessi da fare per migliorarle (questo ovviamente nella mia fantasia).
«Quello è Don Primo, uno che ha aiutato tanta gente e ha ricevuto solo pedate. Dai suoi superiori in particolare, vescovo compreso».
Il giovane che mi aveva dato il benvenuto mi avvicinò all’uscita della Chiesa dicendomi, quasi sottovoce, parole che il mio condizionamento di allora rifiutava di credere. Continuò creandomi un certo fastidio:
«Figurati che vive qui confinato come se fosse in galera. Non può nemmeno andare a predicare in altre chiese».
Seppi più tardi da mio fratello, a cui avevo riferito la cosa, che quel giovane era stato uno dei più convinti partigiani (come lo erano tutti gli altri), ora era iscritto al Partito comunista, e, purtroppo, tutto ciò che aveva detto su Don Mazzolari corrispondeva al vero.
Il mio più grande rammarico è stato per anni quello di non essere riuscito a parlare direttamente con lui, soprattutto quando ho cercato di conoscerlo meglio attraverso i suoi scritti. Quando ho cercato di capire meglio chi fosse Don Primo Mazzolari e la grandezza di ciò che aveva fatto ma, purtroppo, era ormai scaduto il tempo.
Ebbi tuttavia la grande soddisfazione, qualche anno più tardi, nel vedere questo povero prete di campagna ma grandissimo uomo, riconosciuto come tale anche dai più autorevoli rappresentanti del Cattolicesimo. Rivalutato da due fra i personaggi che cambiarono radicalmente il volto della Chiesa di quegli anni.
Nel 1957, infatti, il Cardinal Montini, futuro Paolo VI, lo volle come predicatore alla Missione di Milano e nel 1959 Papa Giovanni XXIII lo ricevette in Vaticano con tutti gli onori definendolo «La tromba dello Spirito Santo in terra padana».
Mario Beltrami
Risparmio carta
Buongiorno, prego depennare dalle vostre liste di invio la signora G. M. […] La signora è deceduta 13 anni fa e la vostra rivista non interessa più a nessuno, quindi, per evitare a voi spese d’invio inutili, spese di stampa, carta buttata, lavoro per il postino, etc, etc, etc, prego non inviare più la vostra rivista, grazie.
16/08/2022
Come vi ho già comunicato in passato (la prima volta molti anni fa) la signora M. P. Anna, mia madre, è purtroppo deceduta nel 2009. Quindi risparmiate una copia e non inviate più la rivista.
11/07/2022
Spett. Redazione,
sono la figlia di Alessandra B. M. abbonata alla vostra rivista. Vi informo che, poiché la mamma non è più in grado di leggere e non risiede più al solito indirizzo, intende disdire l’abbonamento alla vostra rivista.
Ringrazio per l’attenzione e porgo cordiali saluti anche a nome della mamma.
L. M. 08/07/2022
Ho riportato qui alcuni messaggi ricevuti che chiedono la cancellazione dell’invio della rivista. Purtroppo, non tutte le richieste sono gentili come quella della signora Alessandra che ringraziamo di cuore. Altre volte hanno un tono accusatorio, come se noi avessimo per anni approfittato della bontà dei nostri lettori per spillare i loro soldi.
Fateci sapere comunque in tempo, che non volete più la rivista. Non è nostra intenzione invadere la vostra privacy.
Colgo anche l’occasione per ringraziare di cuore quei vicini di casa che ci avvisano del decesso o del trasferimento di uno dei nostri lettori. Grazie.
Una parola sul tema del risparmio di carta, in questi tempi in cui il suo prezzo è andato alle stelle e la cura dell’ambiente ci sta a cuore.
Primo: il vero spreco della carta avviene con gli imballaggi, sempre più invadenti, e con i milioni di copie di stampe pubblicitarie che riempiono le cassette postali, non certo con i giornali o le riviste di informazione che fanno fatica a trovare la carta necessaria.
Secondo: «il depennamento» di un indirizzo fa risparmiare i soldi della spedizione, ma la copia viene comunque stampata, almeno fino a quando non si fa un nuovo contratto con la tipografia che deve provvedere con ampio anticipo la carta necessaria alla stampa.
Da ultimo un invito a far conoscere la nostra rivista ai vostri amici, anche nelle scuole. Contribuirebbe a aggiungere sempre nuovi lettori.
MC non rifugge dai nuovi mezzi di comunicazione su cui sta investendo cercando di mantenere la qualità dell’informazione senza cedere alla banalizzazione. Ma crediamo ancora con forza nella carta stampata come mezzo di conoscenza, riflessione e approfondimento. Siamo convinti che i temi legati alla «missione» non debbano essere bruciati nell’usa e getta del consumismo informatico.
È tempo per una nuova Colombia
Dallo scorso 7 agosto il paese latinoamericano è guidato da Gustavo Petro e Francia Márquez, un politico di sinistra e un’afrocolombiana. In queste pagine Angelo Casadei, missionario della Consolata, racconta il proprio stupore davanti a un cambio considerato epocale.
Arrivai in Colombia per la prima volta nel 1986, poco dopo l’assalto e la terribile strage (101 morti) al Palazzo di giustizia di Bogotá, compiuta dal gruppo guerrigliero M-19 (novembre 1985).
In quegli anni, il paese era in pieno boom (bonanza, in spagnolo) della coca e le Farc, il principale gruppo guerrigliero, avevano trovato nel traffico della droga un mezzo per finanziare la loro guerra contro lo stato. Era pure il tempo del grande narcotrafficante Pablo Escobar (1949-1993), che con la sua guerra mise in ginocchio l’intero paese.
Il 9 marzo del 1990 l’M-19 depose le armi (pagando l’accordo con l’assassinio di molti suoi leader) e iniziò a partecipare attivamente alla vita politica: all’assemblea costituente e al rinnovo della Carta costituzionale (1991), nella quale le popolazioni indigene e gli afrocolombiani, fino ad allora invisibili, trovarono finalmente spazio con diritti e doveri.
Gli anni di Uribe
Nel 2002, le elezioni presidenziali furono vinte da Álvaro Uribe Vélez che aveva creato un suo partito. Una volta salito al potere, Uribe iniziò una guerra sfrenata contro la guerriglia e in modo particolare contro le Farc, definendo queste un gruppo terrorista davanti alla comunità nazionale e internazionale.
Quando – era il 2005 – per la seconda volta tornai in Colombia, trovai una popolazione esausta per tanta violenza e una guerra di cui non vedeva la fine. Nel 2006, Uribe venne riconfermato presidente governando fino al 2010. Suo successore venne eletto Juan Manuel Santos, già ministro della difesa del suo governo. Santos però si allontanò dalla politica uribista facendosi promotore di un accordo di pace.
Nel 2014 venne rieletto proprio per portare a termine questo percorso di pacificazione che, dopo un lungo e travagliato cammino, si chiuse con gli accordi firmati in territorio neutrale, a Cuba, il 26 settembre 2016.
Nel 2018, alla presidenza del paese arrivò Iván Duque, un altro delfino di Uribe, anzi una sua brutta copia che avrebbe alimentato il malcontento tra la popolazione, soprattutto tra i giovani i quali, mossi anche da gruppi di sinistra, nel 2021 avrebbero organizzato i paros nacionales (scioperi nazionali) contro alcune riforme governative che ancora una volta andavano a favorire il sistema politico vigente e le classi più elevate.
Il 19 giugno 2022 (nel secondo turno elettorale), dopo un’intensa campagna con tensioni e conflitti, il popolo colombiano ha eletto presidente della Repubblica Gustavo Francisco Petro Urrego e Francia Elena Márquez Mina come vicepresidente.
Una svolta storica
Sicuramente l’elezione di Gustavo Petro e Francia Márquez segna un cambio profondo nella storia colombiana, un punto di rottura nella politica nazionale e internazionale. L’elezione di un ex guerrigliero di sinistra e di una donna afro proveniente da una classe povera è qualcosa d’impensabile fino a qualche anno fa.
La Colombia è stata sempre governata da politici della destra e dai ricchi che dominano il paese fin dall’indipendenza dalla Spagna (luglio 1810). Pertanto, quello che è successo il 19 giugno 2022 è una pagina nuova e inaspettata.
È un fatto che queste elezioni abbiano dato un «giro» completo alla politica della Colombia, un paese «dove si vive il classismo, il razzismo, la violenza e la paura dei poveri», come direbbe la giornalista Yolanda Ruiz.
Esse hanno rappresentato l’emergere dell’«altra Colombia», della Colombia emarginata e messa alla periferia della vita. Esse hanno significato l’emergere di gruppi e settori storicamente discriminati ed esclusi, come sono i giovani, le donne, gli afrocolombiani, gli indigeni, i contadini e le minoranze sessuali.
Analizzando il risultato delle votazioni, un’altra impressione è che il paese ha messo in luce una forte polarizzazione politica sia per il numero di candidati presentatisi sia per le poche migliaia di voti che hanno separato Gustavo Petro dal suo rivale Rodolfo Hernández.
Alla fine di tutto nessuno ignora che l’elezione di Gustavo Petro e di Francia Márquez rappresenta una grande sfida per il paese e per il mondo: per la sua novità e per i possibili ostacoli che si potranno incontrare lungo questo nuovo cammino.
È sicuramente vero che sono molti i rischi che aleggiano sulla presidenza di Gustavo Petro. I maggiori sono la frattura sociale, lo scontento diffuso, la violenza. L’opposizione di certo non lo lascerà governare facilmente, come pure gli enti di controllo, gli apparati della giustizia, i gestori della finanza pubblica, e lo stesso esercito. In una parte dei colombiani c’è, inoltre, il timore che la Colombia intraprenda una strada come quella del vicino Venezuela.
La realtà è molto diversa. Ci troviamo davanti a un popolo lavoratore che, in questi anni, ha sostenuto l’economia, anche nei duri momenti della pandemia. Penso che, se la Colombia avesse voluto un cambiamento, in questo momento storico non avrebbe potuto che trovarlo nel presidente eletto.
Una coppia unica
Gustavo Petro ha una grande esperienza politica che ha coltivato e sperimentato prima come sindaco di Bogotà, poi facendo parte dell’opposizione.
Petro è stato anche l’unico dei candidati che avesse un progetto di governo chiaro e preciso che punta molto sulla pace, la giustizia, l’educazione, l’ambiente e sull’appoggio alle classi povere. D’altra parte, per prima cosa, il neopresidente ha chiesto collaborazione all’opposizione per governare insieme e fare crescere il paese.
Al suo fianco, Petro si trova Francia Márquez, altra grandissima novità della storia politica colombiana: un evento nell’evento.
È, infatti, la prima volta che una donna afrocolombiana, proveniente dalle classi povere e madre sola, arriva nelle alte sfere del potere. Si tratta di una forma di rivincita storica del popolo afrocolombiano, discriminato ed escluso. Speriamo che sia questo l’inizio di un grande processo di emancipazione e di consolidamento dell’altra Colombia, quella emarginata, ghettizzata e senza dignità.
L’Uribismo di Iván Duque
Qual è il bilancio sul governo uscito di scena? Non è facile esprimere un giudizio sulla presidenza di Iván Duque. La sua elezione aveva significato il ritorno al potere dell’«uribismo». Duque è stato il successore di Juan
Manuel Santos, un altro discepolo di Álvaro Uribe che però, una volta eletto, aveva preso le distanze dal maestro (soprattutto firmando un accordo di pace mai accettato dall’ex presidente).
Iván Duque è stato eletto presidente come il consacrato di Álvaro Uribe. Grazie a quest’ultimo, egli è passato dall’anonimato a figura di primo piano nella politica nazionale. Anzi, secondo alcuni, Duque è stato una specie di reincarnazione di Álvaro Uribe e il suo progetto si è identificato con l’«uribismo».
La presidenza di Iván Duque può essere classificata come una sorta d’esperimento. L’apparente improvvisazione nella selezione dei membri dell’esecutivo (con continui cambiamenti) e l’attuazione d’iniziative e progetti estemporanei ne sono la prova.
Sul suo bilancio complessivo ci sono pareri differenti: la presidenza Duque ha cioè generato sentimenti contrastanti, alcuni di approvazione, altri di disapprovazione.
Mons. Luis Castro, costruttore di pace
Nel percorso colombiano verso la pace va ricordato mons. Luis Augusto Castro Quiroga, missionario della Consolata, morto a 80 anni lo scorso 3 agosto. Lui è stato coinvolto in prima persona negli accordi di pace: è stato ai colloqui di Cuba, ha parlato a favore delle vittime, ha dialogato con molti ex guerriglieri. È sempre stato in favore dell’accordo di pace, perché – diceva – «un cattivo accordo è sempre meglio che la guerra».
Non è diventato cardinale di Bogotá perché ha sempre parlato chiaro per la pace e contro la politica di guerra dell’allora presidente Uribe.
A parte l’opera di mons. Castro, in questi ultimi anni, la Chiesa cattolica colombiana ha avuto notevoli cambiamenti impegnandosi di più in ambito sociale.
Nell’ultimo processo elettorale, non si è allineata con nessuno dei candidati alla presidenza. Al secondo turno, ha rispettato le proposte dei candidati rimasti in lotta: quella di Gustavo Petro e quella di Rodolfo Hernández. E ha invitato a esercitare il diritto al voto. In occasione delle ultime elezioni la partecipazione è stata, in effetti, molto alta rispetto alle votazioni precedenti. Finalmente molti giovani hanno esercitato il loro diritto di scelta.
All’inizio della mia seconda esperienza missionaria in Colombia, i superiori mi avevano destinato a Remolino del Caguán (Caquetá), terra di narcotraffico e con una forte presenza di guerriglia. All’epoca, quando m’incontravo con alcuni comandanti delle Farc, tutti mi confermavano che, per cambiare la situazione, bisognava arrivare al potere a tutti i costi e, l’unico modo – argomentavano ,- era attraverso le armi perché il sistema politico colombiano – incentrato su 46 famiglie che da oltre 200 anni detengono il potere – si disinteressava delle classi più povere della nazione.
La storia ha invece preso un cammino diverso con gli accordi di pace, lo scioglimento delle Farc e, infine, la vittoria di un ex guerrigliero e di una donna afrocolombiana.
Il popolo colombiano
Vivendo in questo bellissimo paese ormai da anni, sono stato testimone delle sue mille contraddizioni con un popolo che, da decenni, vive in mezzo alla violenza e all’ingiustizia, ma nonostante tutto rimane pieno di speranza e con una voglia di vivere straordinaria; un popolo accogliente, felice e sempre pronto a fare festa; un popolo lavoratore, mal retribuito ma con una grande capacità di superare le avversità per costruire un futuro diverso e migliore.
«Portiamo un messaggio di speranza e futuro per la nostra nazione violata e spezzata. Verità scomode che sfidano la nostra dignità, un messaggio per tutti come esseri umani, al di là delle opzioni politiche o ideologiche, delle culture e delle credenze religiose, dell’etnia e del genere». E ancora: «Invitiamo a guarire il corpo fisico e simbolico, multiculturale e multietnico che formiamo come cittadini e cittadine di questa nazione».
Sono due passaggi iniziali di Hay futuro si hay verdad, la relazione finale della Commissione della verità (Comisión del esclarecimiento de la verdad, Cev), presentata a Bogotà lo scorso 28 di giugno. Un lavoro di ricostruzione storica presieduto dal sacerdote gesuita Francisco José de Roux Rengifo, durato quattro anni e passato attraverso migliaia di interviste a testimoni, vittime e carnefici.
i numeri della guerra
«C’è un futuro se c’è verità» sarebbe una lettura appassionante se non fosse il «racconto» di una guerra interna che, tra il 1985 e il 2016 (anche se, in realtà, il conflitto colombiano ebbe inizio già negli anni Sessanta), ha prodotto 450.664 omicidi (80% civili, 20% combattenti, 91% uomini, 9% donne).
Secondo i dati raccolti dalla Cev, i responsabili di questi morti sono per il 45% i paramilitari, per il 21% le Farc e per il 12% le forze dello stato.
Gli omicidi, però, sono soltanto uno degli aspetti della guerra civile. Sono stati conteggiati 121.768 casi di scomparsa (desaparición forzada) e 50mila sequestri (opera questi al 40% delle Farc e al 24% dei paramilitari). Senza dimenticare i reclutamenti forzati: sono stati almeno 30mila le bambine e i bambini reclutati attorno ai 15 anni per entrare nelle Farc o nei gruppi paramilitari.
Infine, un altro numero drammatico: 7.752.964 persone sfollate (più del 10% della popolazione colombiana), con il 51% di adulti e il 49% di minori, 52% di donne e 48% di uomini. Una «moltitudine errante» che ha dovuto abbandonare case, terreni, animali, amicizie. Oltre che per i contadini (campesinos y campesinas, dice la relazione), il conflitto armato è stato particolarmente distruttivo per le comunità etniche, indigene e afrocolombiane.
La sfida odierna
Il primo volume (su 10 totali) della relazione finale si chiude parlando di riconciliazione. «Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l’impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi mai più e togliere le armi dalla politica. Significa accettare che siamo molti – in varia misura, per azione o omissione – i responsabili della tragedia. Significa rispettare l’altro, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Che non ci sia più impunità. Che quelli che continuano la guerra lo capiscano che non hanno il diritto di continuare a farlo […]. Che dobbiamo costruire dalle differenze con speranza e fiducia collettiva».
Il lavoro della Cev è stato straordinario ed encomiabile. Ora, però, arriva il difficile: passare dalle parole ai fatti, dalla guerra alla costruzione della pace. Vedremo se i colombiani ne saranno capaci. Vedremo se Gustavo Petro e Francia Márquez saranno in grado di spingere il paese nella giusta direzione. Detto questo, è inutile negare quanto la speranza tende a nascondere: la sfida sarà enorme. Come già hanno mostrato le prime settimane di governo: il 2 settembre, sette agenti di polizia sono stati uccisi in un attentato nel dipartimento di Huila.
Paolo Moiola
Le relazioni internazionali dei governi latinoamericani
Da Washington a Pechino?
La nuova Colombia nata con l’elezione di Gustavo Petro va ad allungare l’elenco di paesi latinoamericani guidati da rappresentanti delle sinistre. Ad oggi, infatti, sono in carica Andrés Obrador in Messico, Alberto Fernández in Argentina, poi Luis Arce in Bolivia, Pedro Castillo in Perú, Xiomara Castro in Honduras, Gabriel Boric in Cile, oltre ai tre leader più discussi: Nicolás Maduro in Venezuela, Miguel-Diaz Canel a Cuba e, soprattutto, Daniel Ortega in Nicaragua. In attesa dei risultati delle elezioni di questo ottobre quando, in Brasile, l’ex presidente Lula potrebbe sostituire Jair
Bolsonaro, uomo dell’ultradestra, distruttore dell’Amazzonia e imputato di genocidio.
Sono presidenti di sinistra (pur con una pluralità di sfumature, anche consistenti, di rosso) che si trovano a governare paesi con alcuni tratti comuni. Il primo è dato da società caratterizzate da enormi diseguaglianze con i ricchi che s’intascano la gran parte delle ricchezze, come raccontano i rapporti delle Nazioni Unite (Pnud). Una disparità sociale ed economica che viene amplificata dal colore della pelle e dall’etnia: afrodiscendenti e indigeni sono sempre discriminati rispetto ai bianchi e ai meticci, come ha evidenziato anche la pandemia da Covid-19.
Altro tratto comune è la religione cristiana e la sua influenza sulle società latinoamericane. Tutti i paesi sono a maggioranza cattolica, ma le nuove Chiese evangeliche e pentecostali, schierate a destra (senza se e senza ma), stanno crescendo anno dopo anno, spostando milioni di voti.
La tela cinese
E poi c’è il rapporto con gli Stati Uniti, un rapporto che potremmo definire di odio e amore. Odio che nasce dagli errori storici fatti da Washington nel continente, a iniziare dal golpe cileno del 1973. Amore perché è in quel paese che milioni di latinoamericani vorrebbero trasferirsi (come dimostrano le ininterrotte ondate migratorie). Nel frattempo, negli ultimi decenni, in America Latina è arrivata in forze la Cina con il suo capitalismo di stato. Verso Pechino non esiste (e probabilmente mai esisterà) un’attrazione, ma c’è un forte interesse economico per i suoi investimenti nell’area. Com’è stato confermato nel corso del 14.mo Summit dei Brics (l’alleanza a trazione cinese tra Brasile, Russia, India, Sudafrica e appunto Cina), organizzato da Pechino lo scorso 23 giugno.
Gli Stati Uniti e i paesi occidentali (con l’Unione europea in testa) possono ancora recuperare il terreno perduto in America Latina. Se faranno emenda degli errori del passato e se metteranno da parte gli atteggiamenti neocolonialisti, puntando invece su relazioni di pari dignità.
Paolo Moiola
Brasile. «Ma il futuro è indigeno»
Questo mese il Brasile sceglierà il proprio presidente tra Bolsonaro e Lula. Gli ultimi quattro anni sono stati drammatici per il paese. Anche per questo, la «Commissione pastorale della terra» (Cpt) e il «Consiglio indigenista missionario» (Cimi) sono sempre stati in prima linea.
È prassi consolidata che le promesse fatte durante le campagne elettorali vengano dimenticate o sminuite appena la tornata elettorale sia terminata. Come sempre, ci sono però delle eccezioni. Nel 2018, il candidato Bolsonaro promise «di non demarcare un altro centimetro di terre indigene» (não demarcar mais nenhum centímetro de terras indígenas). Dopo quattro anni di governo, non soltanto quella sua promessa è stata mantenuta, ma è andata ben oltre. Infatti, è stata permessa e incentivata l’invasione delle terre indigene da parte di garimpeiros, grileiros, latifundiários e madeireiros. Sempre nel 2018, il candidato Bolsonaro disse: «Per l’amor di Dio, oggi un indigeno costruisce una casa in mezzo alla spiaggia e arriva la Funai a dire che ora lì c’è una riserva indigena. Se sarò eletto, darò alla Funai un coltello, ma al collo. Non c’è altro modo».
Anche questa promessa è stata mantenuta: la «Fondazione nazionale per l’indio» (Funai) è stata smantellata e trasformata in una organizzazione anti indigenista (Ina-Inesc, Fundação anti-indígena. Un retrato da Funai sob o governo Bolsonaro, giugno 2022).
«Dio, patria e famiglia»
Bolsonaro si è presentato alle elezioni del 2022 forte dell’appoggio dei suoi due eserciti: quello ufficiale dei militari (suo vice designato è il generale Braga Netto) e quello ufficioso delle Chiese neoevangeliche (o evangelicali).
Tanto che, alla convention per il lancio della candidatura alla rielezione (lo scorso 24 luglio), il primo intervento è stato quello di Marco Feliciano, deputato federale e pastore evangelico, che ha parlato di una battaglia del bene contro il male e della vittoria di Bolsonaro in nome di Gesù. Insomma, la campagna del presidente uscente è ripartita da «Dios, patria e familia», seguendo il canovaccio scelto anche dall’ex presidente Donald Trump e da molti politici europei.
Abituata a un dibattito interno e ad assumere posizioni più scomode, la Chiesa cattolica del Brasile non ha dato indicazione su chi votare, ma è intervenuta sui temi specifici. Detto questo, alcuni suoi organismi non hanno fatto mistero di non volere la rielezione di Bolsonaro. La Commissione pastorale della terra (Comissão pastoral da terra, Cpt), nella sua Carta pública. Manifesto sobre as eleições 2022, ha parlato della gravità del momento e denunciato con parole chiare l’autoritarismo del governo uscente, guidato da «un ex capitano espulso dall’esercito». E ha dichiarato di appoggiare «candidature contadine o candidati impegnati nell’agenda della riforma agraria, della demarcazione delle terre indigene e dei territori dei popoli e delle comunità tradizionali, dell’ecologia e dell’agroecologia e della vita dignitosa nelle campagne, nelle acque e nelle foreste».
Per parte sua, il Consiglio indigenista missionario (Conselho indigenista missionário, Cimi) non si è smentito continuando a dare un contributo essenziale alla causa indigena e amazzonica, sempre cercando di evitare posizioni neocolonialiste o paternalistiche. Per esempio, l’arcidiocesi di Porto Velho, guidata da dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, a luglio ha ospitato leader indigeni e rappresentanti di Cimi, Cpt, Via campesina e Caritas brasiliana per l’incontro «Ascolto sinodale, riflessioni e prospettive di azioni in difesa dell’Amazzonia». L’obiettivo era quello di riflettere – si legge nel documento finale – «sull’attuale congiuntura delle politiche pubbliche di natura genocida, ecocida, etnocida e della persecuzione e criminalizzazione dei movimenti e delle organizzazioni sociali, nonché dei leader indigeni e rurali e dei difensori dei diritti umani, sociali e ambientali». Si parla di una «legalizzazione dell’illegalità» da parte del governo Bolsonaro, come sta accadendo per l’attività mineraria nelle terre indigene o l’utilizzo di agrotossici cancerogeni, proibiti fuori dal Brasile.
A metà agosto è invece uscito l’annuale rapporto del Cimi, Relatório – Violência contra os povos indígenas no Brasil, Dados de 2021. Come previsto, contiene tantissime notizie negative: d’altra parte, sotto il governo Bolsonaro la situazione non poteva che peggiorare. Tuttavia, scrive Antônio Eduardo Cerqueira de Oliveira, segretario esecutivo del Cimi, il movimento indigeno non è rimasto a guardare scendendo in strada a Brasilia e in tutto il Brasile.
Da parte sua, il presidente Dom Roque chiude la propria presentazione con queste parole: «Dobbiamo denunciare la brutalità e la codardia dei tiranni che mutilano le vite sulla madre terra, che profanano e assaltano i luoghi sacri dei popoli. Continueremo a protestare e combattere, senza risparmiare gli sforzi, per la fine della violenza e il rispetto della vita. Basta con le atrocità».
«Sì, anch’io posso agire»
Come abbiamo visto, informarsi in maniera seria sull’Amazzonia e sui popoli indigeni è possibile. Tuttavia, come sempre, l’enormità delle questioni può spaventare e far dire: «Ma io come posso essere utile?». Le strade ci sono. Per esempio, l’ultimo rapporto (è del luglio 2022) pubblicato dall’«Osservatorio dell’agroimpresa in Brasile» (De olho nos ruralistas. Observatório do agronegócio no Brasil) indica con nome e cognome le imprese, brasiliane e internazionali, che finanziano l’allevamento bovino causa primaria del disboscamento dell’Amazzonia, casa dei popoli indigeni e scrigno naturale del mondo.
Un’altra inchiesta condotta da Repórter Brasil (25 luglio) ha seguito il percorso compiuto dall’oro estratto illegalmente in Amazzonia (Terra indigena Yanomami e Terra indigena Kayapó). È stato scoperto che quell’oro passa per le imprese di raffinazione Chimet (Italia) e Marsam (Brasile) e finisce nei prodotti (cellulari e computer) di Apple, Microsoft, Amazon e Google.
Informarsi compiutamente e rifiutare i prodotti delle imprese non etiche e non trasparenti sarebbe già un’utile scelta politica e un concreto comportamento ambientalista. Indipendentemente da chi, tra Lula o Bolsonaro, entrerà nel Palácio do Planalto, a Brasilia.
Paolo Moiola
Il libro
Laboratorio Amazzonia
Da qualche anno l’Amazzonia è divenuta argomento di discussione a livello globale (*). La ragione è presto detta. «L’Amazzonia è una terra chiave, è un luogo simbolo, è un laboratorio in cui sperimentare l’ecologia integrale. Purtroppo, fino ad ora, il bilancio è negativo, gravemente negativo. Saremo in grado di invertire la tendenza?». Sono le parole preoccupate con cui papa Francesco conclude la sua breve prefazione ad «Amazzonia. Viaggio al tempo della fine», un diario di viaggio del vaticanista Raffaele Luise (Edizioni Appunti di Viaggio, giugno 2022).
Il viaggio del giornalista si snoda tra Belém a Tabatinga, passando per Manaus, sempre accompagnato da missionari che, da molto tempo, operano nella regione amazzonica. Come mons. Carlo Verzeletti, che dice: «Oggi l’Amazzonia è di moda. Ma non esiste una sola Amazzonia. Ce ne sono molte – puntualizza -. Prima di tutto, certamente la grande foresta e i suoi popoli originari. Solo salvando loro possiamo difendere tutte le realtà amazzoniche» (pag. 34). I nemici più prossimi sono i diversi invasori: fazendeiros, garimpeiros, madeireiros. Tanto che dom Carlo non esita a parlare di «biocidio» ed «ecocidio» (pag. 28).
Nel capitolo dedicato alla Vale do Javari (la valle del fiume Javari, lungo il confine con il Perù), recentemente (giugno 2022) uscita anche sui media internazionali a causa dell’assassinio del giornalista britannico dom Phillips e dell’indigenista brasiliano Bruno Araújo Pereira, l’autore parla anche dell’invasione e dei danni causati dai missionari appartenenti alle nuove Chiese evangeliche e pentecostali, ricche di soldi, arroganza e fondamentalismo religioso.
Interessante è il parallelo che Luise fa tra la figura dello sciamano e quella dello scienziato: «Non può non colpirci l’inquietante consonanza della profezia cosmoecologica sciamanica con i teorici del cambiamento climatico e dell’Antropocene» (pag. 212). Per concludere che la sfida più impellente è quella di passare dall’Antropocene (l’era attuale in cui l’uomo ha modificato l’ambiente) all’Ecozoico (un’era che abbia al centro l’ecologia).
«Amazzonia. Viaggio al tempo della fine» è un libro che ha il pregio di essere molto scorrevole (anche perché quasi senza note, fonti, date) e di proporre al lettore una visione complessiva e, soprattutto, empatica dell’Amazzonia brasiliana. Con alcuni limiti: utilizza ancora un termine ormai giustamente desueto come «indios», altri termini inaccurati (come «riverinhos» invece di «ribeirinhos»); fa un uso smodato di aggettivi, superlativi e punti esclamativi; spesso l’autore indulge troppo in annotazioni da diario personale. Detto questo, il lavoro di Raffaele Luise merita di essere letto perché ogni informazione in più può aiutare a capire e difendere quel che resta del laboratorio Amazzonia e dei suoi popoli indigeni.
Paolo Moiola
(*) A conferma di come l’Amazzonia sia argomento di grande interesse, è uscito un altro lavoro: «Viaggio sul fiume mondo. Amazzonia» di Angelo Ferracuti e Giovanni Marrozzini, Mondadori, agosto 2022.
Benvenuti ad Aguas Santas
Un progetto di accoglienza di migranti e rifugiati. Un servizio vissuto dai volontari della Fundação Allamano di Aguas Santas, nel Nord del Portogallo, come una chiamata alla missione ad gentes in Europa. Il Vangelo vissuto e portato alle periferie.
«Oggi abbiamo 28 ospiti. Sono tutti uomini, arrivati da noi dopo lunghi viaggi e brutte esperienze. A parte due quarantenni, gli altri hanno tra i 20 e i 30 anni. Gli ultimi due sono arrivati dall’Afghanistan». José Miranda, laico volontario della Fondazione Allamano, ci racconta l’accoglienza di profughi iniziata nel 2020 nella casa dei Missionari della Consolata di Aguas Santas, 10 km dalla città di Oporto, Nord del Portogallo. «Gli altri vengono da Pakistan, Togo, Camerun, Nigeria, Guinea Bissau, Guinea Conakry, Ghana, Mali, Gambia, Senegal».
I più poveri tra i poveri
Incontriamo José tramite una videochiamata. Camicia azzurra, occhiali tondi, capelli rasati a zero. Occhi sorridenti. Mani grosse ed espressive.
Ci parla di quella che considera un’attività di vera missione ad gentes in Europa, una delle risposte che i Missionari della Consolata stanno dando all’appello di papa Francesco di portare il Vangelo alle periferie.
«Abbiamo iniziato tre anni fa con un’accoglienza molto breve: l’Alto commissariato per le migrazioni, un organo del governo portoghese, ci aveva chiesto una disponibilità di qualche settimana. Solo letto e cibo. Nient’altro. Come un albergo. I migranti sono i più poveri tra i poveri. Da quell’esperienza abbiamo iniziato a pensare a un progetto di accoglienza più strutturato per accompagnarli all’autonomia».
Incontro ai bisognosi
José parla benissimo l’italiano: è stato dal 1995 al 1998 tra Rivoli (To), Vittorio Veneto (Tv) e Roma. «Ho 46 anni. Da piccolo abitavo vicino ai missionari di Aguas Santas. Andavo a giocare a pallone da loro. Poi mi hanno invitato nel gruppo dei giovani missionari della Consolata. Avevo 16 anni. Due anni dopo sono entrato in seminario a Lisbona. In seguito sono andato a Rivoli per imparare l’italiano nel 1995. Nel 1996 a Vittorio Veneto per il noviziato, e nell’agosto del 1997 a Roma per studiare teologia, ma dopo un anno sono tornato a Porto dai miei. Adesso sono sposato e ho due figli di 13 e 20 anni.
Lavoro in una ditta che trasporta container. Parlo sempre con tante persone di tutto il mondo. È un lavoro che mi piace.
Nel frattempo, sono rimasto legato all’Imc, e da qualche anno sono un volontario della Fondazione Allamano, nata dieci anni fa dalla volontà dei Missionari della Consolata di avere un “braccio sociale operativo” in un quartiere popolato da molti anziani e famiglie in difficoltà».
«C’è molta gente arrivata qui per il lavoro – spiega José -. Gli anziani, i bambini e i giovani sono i più bisognosi. L’idea era quella di fare qualcosa per loro: distribuire pacchi alimentari, aprire un centro diurno con attività ricreative e culturali, offrire servizi domiciliari nell’area della salute e sociale (la Fondazione supporta anche la fattoria pedagogica e gli orti comunitari nel centro Imc di Cacém, cfr MC 5/2022, nda).
La Fondazione è amministrata da volontari e diretta da Ana, assistente sociale, e Jacinto, che gestisce gli spazi interni e esterni della struttura.
La sua sede è nella casa Imc: un ex seminario dove ora vivono sette padri della Consolata più Delfino che ha fatto la professione a fine luglio».
I primi ospiti e il Covid
Quando la Fondazione ha deciso d’impegnarsi nell’accoglienza, i volontari hanno visitato altre realtà già attive, come i gesuiti di Lisbona. «Siamo stati a Lisbona a marzo 2020. Una settimana dopo si è fermato tutto per il Covid. Eravamo pronti per i primi nove rifugiati provenienti dai centri di accoglienza di Torino e Bari, ma la pandemia li ha tenuti bloccati fino a novembre.
Nel frattempo, però, l’Alto commissariato, a maggio 2020, ci ha chiesto di accogliere Michael, un ventiquattrenne del Ghana, in Portogallo da sei mesi.
È stato molto bello iniziare con lui. Durante il lockdown Michael ci ha aiutato in tutte le attività della casa. È un ragazzo molto in gamba, umile, con un sorriso facile. Gli piace ballare. Ha dato una mano anche nell’animazione missionaria, veniva agli incontri, stava con i giovani.
Michael ha attraversato l’Africa fino alla Libia dove ha lavorato per un po’. Dopo due o tre mesi senza essere pagato, sono arrivati alcuni uomini con le armi dicendo a tutti: “Nessuno vi pagherà, ma vi possiamo portare in Europa. Che ne dite?”. Quando qualcuno ha detto di no, l’hanno ammazzato. Allora tutti sono partiti. Dopo due notti nel mare, li ha raccolti una nave che li ha portati a Lampedusa. Un anno dopo Michael è arrivato in Portogallo».
I primi nove ospiti dall’Italia sono arrivati ad Aguas Santas a novembre 2020. Nella casa Imc la Fondazione Allamano ha allestito nove stanze con tre letti e un bagno ciascuna. «Si sta bene da noi – prosegue José -. L’Alto commissariato è venuto a visitarci, e ci ha detto che la nostra ospitalità è la più bella del Portogallo. Essere solo in tre per stanza, invece che in 10 o 15, permette ai rifugiati di avere un po’ di spazio personale».
Lingua e lavoro
Il protocollo di accoglienza prevede un’ospitalità di 18 mesi. È il tempo per iniziare un processo di integrazione e autonomia.
«Se vuoi rimanere nel paese, devi imparare la lingua – dice José -. Il portoghese non è facile, però, anche se alcuni di loro non erano mai andati a scuola, tutti hanno avuto molta buona volontà».
José ci racconta che tutti gli ospiti hanno iniziato a lavorare già dopo tre mesi. «Le aziende erano tutte contente. La maggior parte di loro è andata a lavorare nel settore delle costruzioni civili. Quattro hanno partecipato a un progetto di una multinazionale dell’arredamento, e hanno lavorato lì per otto mesi imparando anche il portoghese. Finito il progetto, due sono stati assunti, e sono molto contenti. Ora li stanno anche aiutando a trovare un’abitazione propria».
Cominciando a lavorare e a parlare portoghese, i rifugiati iniziano a essere autonomi.
Convivenza interculturale e interreligiosa
Dopo i primi nove arrivati a novembre 2020, a gennaio sono arrivati due ragazzi diciottenni dal Pakistan, tramite un altro programma per rifugiati in Grecia.
Gli ospiti già presenti erano tutti di origine africana. I due pachistani, perciò, apparivano molto diversi per la loro cultura. «Anche gli altri, però, erano tutti diversi tra loro. L’Africa ha molte culture. In più, ogni ragazzo ha una sua storia, ed è arrivato qui con uno scopo personale», dice José accennando alla grande quota di «diversità» presente nel piccolo gruppo di ospiti.
«Oggi sono ventotto. Sono arrivati un po’ per volta in gruppetti di due, tre o quattro. Noi abbiamo sempre detto di sì. La maggior parte sono ancora con noi.
Ricordo due ragazzi del Camerun che sono andati via dopo 15 giorni: ci hanno lasciato un biglietto per ringraziarci e per dirci che andavano in Francia. Il Portogallo non è uno dei paesi dove gli africani pensano di andare, se non quelli che parlano già portoghese. Piuttosto puntano a Germania, Inghilterra, Francia. È capitato altre due volte: con un ragazzo iracheno e uno siriano che avevano famigliari in quei paesi».
La maggior parte degli ospiti sono musulmani, i cristiani sono pochi, alcuni non sono credenti. «Questa è stata una bella sfida – sorride José -. Musulmani accolti dai missionari. Per me è un arricchimento grandissimo. Loro parlano molto della loro religione, e il rispetto reciproco è grande. Capita che, per andare in camera, passino davanti alla cappella dove, di giovedì, c’è sempre il santissimo esposto. E loro passano di lì con moltissimo rispetto. Quando facciamo degli incontri insieme, diciamo sempre una preghiera. Per loro è importante pregare anche con noi».
Negli ultimi tempi, in cinque hanno iniziato a chiedere di fare catechesi con uno dei missionari, Antonio Malila del Kenya.
Uno di loro, della Guinea Bissau, è stato battezzato durante la veglia pasquale di quest’anno.
«Noi di questo non parliamo molto, perché non è lo scopo dell’accoglienza, e non vogliamo creare confusione nelle persone. Però è stato un momento importante per tutti».
La quotidianità
«La maggior parte degli ospiti, ora lavora, esce presto la mattina, si preoccupa di tenere in ordine la propria stanza e i luoghi comuni, come la cucina e gli spazi esterni. Noi li aiutiamo con i documenti, con le questioni sanitarie, andiamo con loro dal medico, dall’oculista, dal dentista. Poi suggeriamo loro come presentarsi alle aziende, come fare il curriculum vitae e, quando è possibile, andiamo con loro per i colloqui.
Quando qualcuno ha un po’ di soldi da mandare in famiglia al paese di origine, li aiutiamo. Anche quando hanno voglia di giocare a pallone in cortile, cosa che succede spesso, li aiutiamo volentieri», conclude José allegro. Nella stessa struttura vive anche la comunità di otto missionari della Consolata. Vivono in una zona separata, però sono sempre presenti tra i profughi. «Soprattutto padre Antonio Malila, che è africano e ha un grande dialogo con loro, prendono il caffè insieme, fanno gite…».
Diventare autonomi
Michael, il primo ospite, è l’unico per il momento a essere andato via. Ha trovato una fidanzata, ed è uscito dalla casa dei Missionari della Consolata diverse settimane prima della fine dei 18 mesi del progetto, per andare a vivere con lei. Continua ad andare alla Fondazione Allamano per i pacchi di cibo e di prodotti per la vita quotidiana, ma anche per la vicinanza che ha sperimentato con i volontari.
«Degli altri, sono 14 quelli che hanno già finito i 18 mesi del progetto. Ma ci sono due problemi: il costo dell’abitazione, e i documenti di soggiorno che vengono rinnovati di sei mesi in sei mesi. Alcuni sarebbero già in grado di sostenere l’affitto di un alloggio, soprattutto se ci andassero in gruppetti, però, quando uno ha dei documenti solo per sei mesi, è difficile trovare un lavoro stabile, e anche una casa in affitto».
Famiglie ucraine
Nella primavera scorsa, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, anche il Portogallo ha iniziato a ospitare profughi da quel paese.
«C’è stata una risposta che nessuno immaginava – racconta José -. Ci sono state persone che sono partite per andare a prendere i profughi e portarli in Portogallo. Noi ci siamo detti: “Le nostre camere sono tutte piene. Però ci sono quattro stanze nella zona delle attività di animazione giovanile”. Allora ho detto ai missionari: “Anche noi vorremmo accogliere degli ucraini”, ed è stato facile ottenere un sì, nonostante nessuno sapesse cosa sarebbe successo, se l’ospitalità sarebbe durata poche settimane o anni.
Quando il sindaco di Maya ha deciso di accogliere delle famiglie, circa cinquanta persone, famigliari di ucraini già residenti in zona, hanno chiamato subito noi.
Alla fine, abbiamo deciso per un’accoglienza a tempo, fino all’estate. Così abbiamo chiesto al sindaco di garantirci che. nel giro di due o tre mesi, avrebbe trovato degli alloggi per le famiglie che sarebbero arrivate. Il bene deve essere fatto bene: a delle famiglie bisogna offrire un luogo dignitoso che permetta la vita di famiglia, non una semplice stanza, che va bene solo temporaneamente.
Sono venute quattro famiglie più una donna sola di 60 anni, per un totale di diciassette persone: una famiglia formata da due bimbe di uno e quattro anni, mamma, sorella della mamma con un’altra bimba, e nonna; la seconda era composta da una mamma con due figlie di diciassette e sedici anni e un figlio di dodici; la terza da una bambina di sei anni con la mamma e i nonni; infine, c’erano una donna di cinquant’anni con la madre».
Convivenza facile
«Mi ha stupito la volontà degli ucraini di vivere e di fare andare tutto bene. Due giorni dopo il loro arrivo erano già lì che s’impegnavano a fare cose, studiare il portoghese. Non li ho mai visti disperati. Hanno perso tutto, gli uomini sono rimasti in Ucraina per fare la guerra, eppure si mostravano sempre forti e sorridenti – esclama José con ammirazione -. Il nostro paese ha fornito loro i documenti di soggiorno per tutto il tempo che vogliono e un sussidio economico. Il comune li accompagna con gli assistenti sociali».
José mette l’accento sul bel clima di convivenza che gli ospiti hanno creato con le famiglie ucraine. «Sono stati da noi tre mesi. Oggi, diversi di loro lavorano. Due famiglie sono in case del comune per sei mesi gratuitamente. Le altre due famiglie hanno voluto ritornare in patria.
Con gli altri ospiti la convivenza è stata sempre facile: la casa ha un grande spazio esterno dove si trovavano tutti insieme, e si aiutavano. Non erano obbligati a parlarsi, ma si sono relazionati subito tra loro spontaneamente. È stata un’esperienza bella».
Missione in Europa
Per José, gli ingredienti principali di una buona accoglienza sono l’ascolto e la comunicazione dell’affetto.
«Essere straordinari nell’ordinario: noi abbiamo cercato di fare così. Il comune di Porto ha accolto 200 persone in un antico seminario. Questa è la mia idea di Chiesa. Una Chiesa che fa missione in Europa anche in questo modo.
Oggi è questo lo scopo principale della Fondazione Allamano: ci occupiamo degli anziani e dei giovani portoghesi, ma soprattutto dei migranti. Il nostro punto identificativo è l’accoglienza.
Noi abbiamo la fortuna di poter fare quello che la Chiesa e papa Francesco stanno chiedendo: andare alle periferie.
Quello che stiamo facendo con la fondazione mi fa molto felice. Non è semplice, anche per il finanziamento delle attività. Però si va avanti con la grazia di Dio».
Luca Lorusso
foto di José Miranda
Quel barattolo di latte in polvere
Il latte materno è migliore del latte in polvere. Eppure, soltanto il 44 per cento dei neonati è allattato al seno. Le colpe delle multinazionali e il ruolo delle nuove forme di pubblicità.
Nel febbraio 2022, la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense addetta alla vigilanza sanitaria, sospende la produzione di latte in polvere in uno stabilimento del Michigan appartenente alla multinazionale farmaceutica Abbott. La decisione è presa a seguito della morte per infezione batterica, negli Stati Uniti, di quattro neonati nutriti con latte artificiale proveniente dallo stabilimento posto sotto sequestro. Nel corso dell’indagine, durata alcune settimane, emergono numerose criticità, compresa la contaminazione dei macchinari con batteri pericolosi. In seguito, lo stabilimento viene riportato a norma, ma ci vogliono mesi prima che possa riprendere la produzione. Un periodo durante il quale il latte in polvere scarseggia, mandando in apprensione moltissime mamme che hanno deciso di nutrire i propri piccoli con latte artificiale piuttosto che al seno.
I pericoli del biberon
Eppure, le autorità sanitarie e pediatriche di tutto il mondo sostengono che il latte materno è il miglior alimento per i neonati. Avviato entro le prime ore di vita e continuato fino ai due anni di età, prima come alimento esclusivo, poi come alimento aggiuntivo, l’allattamento materno costituisce una potente linea di difesa contro tutte le forme di malnutrizione infantile compresa l’obesità. Inoltre, protegge i piccoli contro le infezioni più comuni mentre riduce nelle madri il rischio di diabete, obesità e certe forme tumorali. Per non parlare degli effetti benefici di tipo psichico e affettivo che l’allattamento al seno produce nei piccoli per lo stretto contatto con la madre. Ciò nonostante, nel mondo solo il 44% dei bambini sotto i sei mesi è allattato al seno. Lo sostiene l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Il grande concorrente è il biberon che però non si impone spontaneamente, ma come conseguenza di una potente macchina di persuasione occulta, che una recente indagine dell’Oms ha messo sotto la lente. Una pressione inaccettabile perché nelle famiglie più povere del Sud del mondo, l’allattamento artificiale espone i bambini addirittura al rischio di morte. Ogni anno muoiono 520mila bambini per complicanze dovute al biberon. Per assurdo la prima causa di morte è la denutrizione che si instaura quando le esigenze nutrizionali del bambino richiedono quantità di latte fuori dalla portata economica delle famiglie. E subito dopo vengono le complicanze igieniche per l’impossibilità di bollire i biberon e conservarli al riparo da contaminazioni. Mamme con pochi soldi, poche comodità, poche conoscenze igieniche, somministrano ai propri bambini latte eccessivamente diluito, in biberon a malapena sciacquati, con tettarelle esposte all’aria su cui si posano nugoli di mosche. L’inevitabile conseguenza sono infezioni intestinali che si rivelano mortali, non per la particolare gravità dei germi, ma per la perdita di acqua, sali e zuccheri dovuti alla diarrea. E molti dei bambini che sopravvivono mantengono per tutta la vita deficit cognitivi dovuti alla denutrizione infantile. Alcuni studiosi, amanti dei termini monetari, hanno stimato che le perdite cognitive dei bambini sottonutriti a causa dell’allattamento artificiale provocano alla comunità una perdita pari a 285 miliardi di dollari, lo 0,3% del Pil mondiale.
Nestlé e gli altri
La prima denuncia sulle conseguenze catastrofiche del biberon fra i bambini delle famiglie più povere fu fatta nel 1973 da parte della rivista britannica New Internationalist. All’inizio la reazione dell’opinione pubblica fu di sconcerto. Ma quando si scoprì che l’allattamento al biberon era indotto da una pubblicità ingannevole e da una macchina promozionale che, al momento di lasciare l’ospedale, regalava campioni di latte alle mamme, scoppiò l’indignazione che sfociò in campagne di boicottaggio verso le imprese più coinvolte. Famosa quella verso Nestlé che si protrasse per qualche lustro. Vista la gravità della situazione, nel 1981 l’Oms decise di intervenire, approvando un Codice di comportamento da fare rispettare alle ditte produttrici di latte in polvere. Il codice composto da una decina di punti è riassumibile in due concetti essenziali: «no» alla distribuzione di campioni gratuiti e «no» a qualsiasi tipo di comunicazione scritta, vocale o visiva che possa indurre le mamme a preferire l’allattamento artificiale a quello materno. Ma, nel corso degli anni, l’Ibfan (International baby food action network) e altre associazioni a difesa dell’allattamento materno, hanno denunciato numerose violazioni in tutto il mondo. Violazioni che, con l’avvento dell’era digitale, si sono fatte al tempo stesso più subdole e aggressive perché le donne sono raggiunte da messaggi pubblicitari non riconoscibili come tali. Ed è proprio per capire in quale misura le imprese del latte in polvere stiano utilizzando le tecnologie digitali e con quali effetti, che l’Oms ha condotto una ricerca in Bangladesh, Cina, Messico, Marocco, Nigeria, Sudafrica, Gran Bretagna, Vietnam, su un campione di 8.500 donne e 300 operatori sanitari.
Allattamento
Nel maggio 2022 sono stati pubblicati i risultati della ricerca e il primo dato emerso è che, in tutte le nazioni prese in esame, le donne nutrono una forte attrazione per l’allattamento materno, dal 49% in Marocco al 98% in Bangladesh. Nel contempo, però, hanno scarsa fiducia nella loro capacità di nutrire adeguatamente i propri piccoli per i dubbi insinuati dalla valanga di messaggi che circolano in rete: quasi tutti a favore dell’allattamento artificiale. Messaggi che consolidano credenze assurde come la necessità di somministrare latte in polvere nei primi giorni di vita, l’incapacità del latte materno di rispondere a tutti i bisogni nutrizionali dei neonati in crescita, la superiorità del latte in polvere integrato di tutti gli ingredienti che servono per una crescita equilibrata dei piccoli. Il rapporto conferma anche che la via digitale è il canale privilegiato utilizzato dalle industrie del latte in polvere come mezzo di persuasione. In alcuni paesi, oltre l’80% delle donne intervistate ha confermato di essere stata raggiunta dalla pubblicità sui sostituti del latte materno attraverso canali online. Del resto il 97% della popolazione terrestre gode di una qualche forma di connessione tramite telefonia mobile. Globalmente più di 3,6 miliardi di persone (all’incirca l’87% di chi naviga in internet) usa social media, una cifra destinata a salire a 4,4 miliardi per il 2025.
Spiate e sedotte
Le piattaforme digitali stanno diventando i canali pubblicitari più importanti. Nel 2019 più del 50% della spesa pubblicitaria globale si è diretta verso i canali digitali. Per il 2024 si prevede che la quota salirà al 68%, per un valore di 645 miliardi di dollari.
Le piattaforme digitali consentono alle aziende di diffondere i loro messaggi tramite più canali contemporaneamente: email, social media, siti specializzati in filmati, motori di ricerca, app. Per di più permettono agli inserzionisti di individuare con estrema precisione i loro possibili clienti. Ad esempio, quando le donne chattano via facebook con le loro amiche o parenti, possono essere spiate da algoritmi che, dal tenore delle conversazioni, possono stabilire se si tratta di donne incinte, magari per le informazioni fornite sulla propria salute, o per la richiesta di vestiario e altri oggetti necessari per l’arrivo di un nuovo bambino. Nel qual caso i dati sono immediatamente passati all’impresa di prodotti per l’infanzia che ha commissionato il servizio, affinché possa intraprendere l’attività di seduzione personalizzata via facebook, o altro canale comunicativo. Di solito l’approccio è soft e può basarsi sull’invio di messaggi affabulatori del tipo: «Vogliamo costruire una relazione con te in quanto madre, vogliamo sostenerti, vogliamo che tu ci veda come tuoi alleati, come degli amici che ti sostengono affinché tu possa avere una gravidanza felice e un parto sicuro». Poi può giungere l’invito a fare parte di un gruppo d’incontro, una sorta di club per mamme che si danno appuntamento per scambiarsi informazioni, consigli, sostegno. Così almeno viene presentata l’iniziativa. In realtà, si tratta di ciò che gli esperti chiamano «community marketing»: l’aggregazione di persone affini, per condizione ed esigenze di consumo, che, mentre interagiscono fra loro, sono bombardate da continui messaggi promozionali. Per di più, mentre chattano, ciascuna di esse è analizzata in dettaglio in modo da farne un bersaglio di proposte commerciali personalizzate.
Gli «influencer»
Altre volte la strategia commerciale è fondata sugli influencer, persone di spicco del mondo dello spettacolo, dello sport, della moda, della scienza, in contatto con migliaia, addirittura milioni di follower. Le imprese li ingaggiano affinché postino ai loro follower messaggi comprendenti riferimenti ai marchi che intendono reclamizzare. E poiché l’influencer invita i propri seguaci a rispedire essi stessi i messaggi ai propri conoscenti, si può ottenere una copertura pubblicitaria di milioni di persone. L’Oms ha appurato che le multinazionali del latte in polvere fanno largo uso degli influencer in particolare in Cina, Malaysia, Stati Uniti, Francia, Russia. E, dopo avere esaminato numerosi messaggi, è emerso che il marchio di latte in polvere che compare più frequentemente è quello di Danone (32%) seguito da Mead Johnson (15%) e
Abbott (6%).
Il rapporto ha appurato che un’altra formula molto utilizzata è quella che va sotto il nome di «promozione tra utenti», un metodo che prevede la partecipazione attiva del pubblico. In pratica, l’impresa promotrice chiede a chiunque accetti di far parte della sua rete promozionale di inventarsi messaggi pubblicitari che poi l’interessato invierà al proprio ventaglio di conoscenti. Il tutto stimolato da premi estratti a sorte fra i partecipanti. Il rapporto dell’Oms cita l’iniziativa di una multinazionale di prodotti per l’infanzia che ha indetto l’estrazione di smartphone di lusso fra tutti coloro che avessero accettato di inviare la foto dei propri bambini associate ai marchi da reclamizzare. E, allettandoli con la promessa di sconti, i partecipanti sono anche stati invitati a iscriversi a dei marketing club per l’approvvigionamento online di prodotti per l’infanzia. L’iniziativa è stata lanciata da diciassette influencer che hanno anche sollecitato i partecipanti a utilizzare hashtag affinché l’azienda promotrice potesse seguire più agevolmente l’andamento della campagna e, quindi, censire la presenza di nuovi utenti da ricontattare.
In conclusione, il rapporto dell’Oms dimostra che le multinazionali del latte in polvere ricorrono in maniera massiccia alla pubblicità online per fare crescere un settore che già vale 55 miliardi di dollari. È proprio arrivato il tempo di fare applicare regole minime affinché la vita non sia più sottomessa al profitto. Almeno nei primi mesi dell’esistenza.
Francesco Gesualdi
Vivere di un Dio buono (Es 34)
Mosè ce l’ha fatta: è riuscito a convincere Dio a restare in comunione con il suo popolo dalla testa dura (Es 34,9). Viene quindi invitato di nuovo a salire sul monte, come prima, come se nulla fosse successo.
Ma, come sa bene chiunque viva in relazioni umane, non si ricomincia mai «come prima». I rapporti incrinati possono essere risanati e possono diventare anche più profondi, autentici e solidi. Ma non è possibile che ritornino come all’inizio. La nostra storia ci segna, diventa parte di noi, di un noi accresciuto, magari con più cicatrici, ma anche più vivo e vero. Vale anche per la relazione tra Dio e l’uomo.
Si riparte (Es 34,1-8)
Dio aveva minacciato di abbandonare il popolo perché morisse nel deserto (Es 32,9-10). A questa intenzione divina Mosè si era contrapposto, richiamando Dio al suo ruolo, alla sua vocazione (32,11-13). Dio aveva allora ipotizzato di far arrivare Israele alla terra promessa, ma senza seguirlo (33,1-3), ma anche su questo aveva dovuto ricredersi (33,15-17). Sono reazioni e dinamiche che ci dicono molto sul Dio d’Israele, e su cui torneremo.
Intanto, però, finalmente Dio richiama Mosè sul monte.
Prima di salire, gli chiede di tagliare due tavole di pietra, «come le prime». Non è chiaro chi avesse tagliato le prime due (Es 24,12; 31,18), quelle che Mosè aveva poi spezzato al vedere il vitello d’oro (24,12). Esodo dice solo che erano state scritte «dal dito di Dio» (31,18). Si può, fino a questo punto, supporre che il lavoro di taglio delle nuove pietre sia soltanto preparatorio, e che sarà poi Dio a scrivervi sopra di nuovo. Non sarebbe, in ogni caso, un passaggio secondario. Conosciamo troppo bene il valore delle reliquie per sottovalutare il gesto di Mosè, il quale, pur fuori di sé per l’offesa fatta a Dio, aveva comunque distrutto un’opera divina. Il fatto che Dio provveda a restaurarla significa che è disposto a passare sopra alla distruzione di un frutto delle sue mani. Ma quando poi Mosè scenderà dal monte con le due tavole in mano, non si dirà più che il «dito di Dio» vi ha scritto sopra. Dobbiamo supporre che, dal momento che non si dice niente, siano nuovamente opera totalmente divina? Oppure che, come le ha tagliate, sia stato ancora Mosè a scriverci sopra? Non lo si dice, e forse c’è un motivo. Ma anche su questo torneremo tra poco.
Perché una cosa chiara, in questa ripartenza, c’è.
Dio si presenta
Dio torna a stringere un’alleanza dicendo chi è, e lo fa in un modo estremamente solenne, ossia ripetendo per due volte il proprio nome. Questo accade molto di rado nella Bibbia, e mai da parte di Dio, ma sempre solo in preghiere di uomini. Chi è arrivato fin qui leggendo il libro dell’Esodo, non può che restarne stupito, e fa bene a riaccendere l’attenzione, se per caso si fosse assopita.
Se in precedenza Dio si era presentato semplicemente come «sarò ciò che sarò» (Es 3,14: occorrerà stare con lui, per conoscerlo) o come «il tuo Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto» (Es 20,2: cioè colui che ha operato prodigi di salvezza per il popolo), qui riconduce tutto all’essenziale e proclama: «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).
In questa presentazione può valere la pena richiamare il fatto che qui, l’autore di Esodo, pensa a un Dio che premia i suoi fedeli e punisce gli infedeli (Es 34,7). Detto questo, il premio e la punizione vengono elargiti con una sproporzione enorme: la colpa viene castigata fino alla terza o quarta generazione, secondo il modello per cui nonconta il singolo ma il clan, ma l’amore viene ricompensato fino alla millesima. In quel contesto culturale bisogna dire che Dio premia e punisce, ma, nello stesso tempo, che le due possibilità non sono alla pari, e davanti all’uomo si apre, con molta maggiore probabilità, la relazione con un Dio di amore.
Tanto è vero che il Signore applica a sé quattro parole pregnanti. «Pietoso» rimanda al dono gratuito, a un perdono regalato non perché sudato e meritato, ma perché Dio vuole perdonare. «Misericordioso», però, è ancora più profondo, perché richiama le viscere, anzi l’«utero»: l’idea è quella di un sentimento che prende alla pancia, irresistibile, da «farfalle nello stomaco». Dio, insomma, ammette di voler amare il suo popolo per scelta, ma anche perché non può farne a meno, perché è preso da un innamoramento totale.
In quanto agli altri due termini che l’ultima versione della Bibbia Cei ci restituisce con «amore e fedeltà», il primo indica il sentimento di un genitore, quell’affetto che non pretende di essere ricambiato e che esisterà per sempre e comunque, intatto e disponibile, mentre «fedeltà», collegato alla parola che è diventata il nostro «Amen», segnala l’affidabilità e la solidità. Dio dice di non poter fare a meno di amare i suoi, e di farlo con costanza, generosità, totalità e fedeltà.
Un (altro?) decalogo (Es 34,10-28)
A questo punto Dio (ri)condivide i termini dell’alleanza con il suo popolo, mediante quelle che, al v. 28, sono indicate come «le dieci parole», il modo per chiamare il decalogo già offerto al popolo al capitolo 20. Questa nuova offerta del decalogo sarebbe anche comprensibile (Dio riprende l’alleanza con il popolo), se non fosse che i comandi sono diversi.
Come è possibile? Che cosa è successo?
I redattori dell’Esodo sono stati disattenti? O hanno lo hanno fatto apposta, per suggerire qualcosa al lettore? E che cosa? Come nei libri gialli, anche stavolta rimandiamo la risposta a tra poco.
Del «nuovo decalogo» evidenziamo qui almeno un comandamento, che peraltro non si trova solo qui (si era già letto in Es 23,19 e tornerà in Dt 14,21) e che sarebbe poi diventato particolarmente significativo nella storia del popolo ebraico: «Non cuocerai un capretto nel latte di sua madre» (Es 34,26). Perché? Il senso è che l’uomo ha il diritto di sfruttare la vita animale per nutrirsi, ma non deve dimenticarsi che è vita, dono divino. Utilizzare il latte, alimento che permette di diventare adulti, per cuocere un capretto che, quindi, adulto non diventerà, sarebbe quasi uno scherzo crudele. È vero che né il capretto né la capra coglierebbero questo sarcasmo, ma chi cucina sì, e deve mantenersi compassionevole e misericordioso come Dio. E per essere sicuri di non violare questo comandamento, gli ebrei evitano del tutto di unire nel cibo carne e latte o latticini, mantenendo in cucina due set completi di stoviglie, che non devono mescolarsi. Così, si dice, ogni volta che ci si accinge a cucinare, si deve decidere quale tipo di cibo preparare, e ci si ricorda di dover essere rispettosi verso tutto il creato, che ci dona da vivere ma non deve essere umiliato. È un adattamento possibile al sogno divino di un mondo senza violenza (cfr. Gen 1,29-30).
Qualche risposta
Proviamo a cogliere meglio il senso del racconto, abbozzando anche qualche risposta ai quesiti che abbiamo lasciato sospesi.
L’essere umano è abituato alla dinamica del premio-castigo: se mi comporto bene, sarò premiato, altrimenti sarò castigato. È una logica iscritta talmente nel profondo, che riemerge a volte anche nei rapporti di amicizia o di amore più gratuiti e generosi. Ed è una dinamica che ricompare con forza anche nelle tradizioni religiose. Le religioni antiche, poi, ancora più di quelle che conosciamo oggi, si concentravano moltissimo sulle azioni e sul fare, il che si presta più facilmente a ribadire questa logica.
Il mondo dell’Antico Testamento non fa eccezione, e sono numerosi i passi che richiamano al dovere dell’osservanza di regole o rimarcano come la conseguenza dell’infedeltà sia la punizione. Nello stesso tempo, però, il percorso del popolo d’Israele con Dio lo rende sempre più consapevole che quella relazione è diversa. Il Dio d’Israele è il più importante di tutti gli dei (più tardi si arriverà a dire che è l’unico), eppure ha scelto, come «sua proprietà», un popolo piccolo e debole, dal quale è stato tradito più volte, ma che lui non ha mai abbandonato.
È quello che il racconto del doppio dono delle tavole della legge ribadisce: Dio aveva salvato dalla schiavitù il popolo, gli aveva liberamente chiesto se volesse diventare il «suo popolo» (Es 19,4-8), e, a quel punto, gli aveva dato delle norme che erano state disattese subito, tanto che aveva pensato di abbandonarlo. Ma ha accettato di ritornare nella relazione, affermando di essere un Dio «misericordioso e pietoso, ricco di amore e di fedeltà». E ridà le tavole, «come le prime», offrendo nuovamente dieci comandamenti, che però non sono identici ai primi.
Il racconto intende suggerire che cruciale è la relazione, la quale ovviamente comprende anche dei comportamenti conseguenti, ma in realtà le regole e le leggi non sono il cuore del discorso. Il cuore è la relazione che Dio è disposto a salvaguardare anche a costo di rimangiarsi la propria parola. Non un Dio «che non deve chiedere mai», severo e austero, dunque, ma un Dio amante, che per il suo amore viscerale verso l’uomo perde anche la faccia (o la vita, come comprenderà e vivrà Gesù: cfr. la parabola della vigna di Lc 20,9-13).
E che Dio pensi innanzitutto alla relazione, e a una relazione alla pari, è in fondo detto anche dallo strano gioco sull’autore delle «seconde tavole». Chi le ha scritte? Dio o Mosè? Dal testo non si capisce, e in fondo sembra quasi che Dio, sorridendo, suggerisca che non è importante. Come nel rapporto tra amici, come in una coppia ben affiatata, non è significativo decidere chi metta a disposizione o faccia che cosa.
È la stessa dinamica che i cristiani vivono nell’eucaristia, dove il grano e l’uva sono doni divini, che però devono essere coltivati e non diventano pane e vino senza lavoro, e, una volta offerti, vengono restituiti trasformati ai fedeli. È come in un’amicizia profonda, dove ci si scambia doni di continuo, finché non sia più possibile dire chi abbia dato che cosa, ma si deve giustamente parlare di «comunione».
Un Mosè trasformato
Quando Mosè torna a valle, il suo volto è pieno di «raggi» (Es 34,29). Questa parola in ebraico coincide con «corno», il che ha dato origine alla immagine del Mosè «cornuto» che vediamo, tra l’altro, anche nella statua michelangiolesca.
È il segno che la relazione di Mosè con Dio lo ha cambiato irrevocabilmente. Sembra quasi che gli autori dell’Esodo vogliano suggerire che chi incontra Dio in profondità, intimamente, con quello sguardo «faccia a faccia» da cui Dio non è disturbato né rifugge, resta cambiato, diventa persona nuova. Il suo volto acquisisce uno splendore che rende insostenibile il guardarlo (v. 30), tanto che per parlare con gli altri, con quelli che non hanno ancora completamente incontrato Dio, Mosè si dovrà coprire il volto con un velo, per non abbagliarli.
Si direbbe quasi che la comunione profonda con Dio inizi a portare nel mondo quello splendore del corpo glorioso che sarà pieno solo nell’incontro definitivo, come i discepoli di Gesù sperimenteranno alla trasfigurazione (Mc 9,2-6), dove pure l’apparire del volto «autentico» di Gesù riempie i discepoli di paura, anche se pure di fascino.
Si può dire che stare con Dio trasformi gradualmente l’uomo in lui, così da essere sempre più profondamente e completamente se stesso. L’uomo pieno, perfetto, diventa come Dio. Come Gesù ridirà con la sua stessa vita.
Angelo Fracchia
(Esodo 18 – continua)
Honduras. Maestri coraggiosi
L’infiltrazione negli istituti scolastici delle bande Mara Salvatrucha e Barrio 18 è un dato di fatto. Per questo, insegnare nelle scuole del paese centroamericano è una sfida che pone in rischio la vita stessa.
Dall’altra parte dello schermo di un computer, il sorriso di Rodrigo Pineda (nome di fantasia per questioni di sicurezza, ndr), direttore di una scuola pubblica honduregna, supera i circa 10mila km che ci separano diffondendo calma anche nello spazio virtuale di una videochiamata su Zoom.
Rodrigo vive a Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, e 20 anni fa ha deciso di diventare professore e poi dirigente scolastico di uno dei tanti istituti comprensivi del paese che, in genere, includono le scuole di primo e di secondo grado (6-17 anni).
Il giorno in cui ha deciso di rispondere alla vocazione per l’insegnamento sapeva che, oltre alle sfide educative, avrebbe dovuto accettare anche il rischio personale che questa professione porta con sé, almeno nei casi in cui bisogna esercitarla nei quartieri più poveri della capitale honduregna, controllati e messi a ferro e fuoco dalle bande Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18.
E di fatti, ogni volta che il professor Pineda metteva piede nella propria scuola, prima che la pandemia costringesse alunni e insegnanti a vivere di didattica online, doveva far leva su tutto il suo coraggio per affrontare non solo le ore di lezione ma anche i criminali affiliati alle due bande che, da sempre, utilizzano le scuole pubbliche a proprio uso e consumo. Ormai da anni, i leader delle gang minacciano fisicamente i dirigenti scolastici per ottenere le chiavi degli istituti, dove di notte entrano per nascondere droga e armi nelle aule meno frequentate. Non era raro, infatti, che, al mattino, i bambini si imbattessero in un pacchetto di cocaina o in qualche proiettile nei corridoi, mentre si dirigevano verso le aule scolastiche. Tuttavia, la Mara Salvatrucha e Barrio 18 non sono mai state interessate agli istituti scolastici in quanto edifici. Il loro interesse è reclutarne i frequentatori. Spesso fermi davanti ai cancelli delle scuole, i membri delle due bande rivali cercavano di agganciare ragazze e ragazzi in età scolare. Questa forma di affiliazione, quasi sempre forzata, ha funzionato fino a marzo 2020 e, dal 18 aprile del 2022, giorno in cui – dopo due anni di pandemia – le classi di ogni istituto sono tornate alla didattica in presenza, rischia di riprendere a essere una pericolosa routine.
Mara Salvatrucha e Barrio 18
Mara Salvatrucha (Ms-13) e Barrio 18 sono le due più grandi organizzazioni malavitose dell’America Centrale che, da decine di anni, alimentano una guerra intestina non solo in Honduras, Guatemala e Salvador, ma in parte anche negli Stati Uniti e in Canada, con l’obiettivo di controllare il monopolio del traffico di droga e armi e di gestire il giro dell’estorsione e della tratta a fine di prostituzione.
Le due bande criminali, in spagnolo chiamate maras o pandillas, nascono tra gli anni Settanta e Ottanta a Los Angeles, negli Stati Uniti. La cifra presente nel loro nome, «13» e «18», fa riferimento, infatti, al numero delle due strade della città californiana in cui vivevano e operavano i fondatori delle due gang. Entrambe le bande accoglievano migranti messicani e centroamericani e si sono diffuse nei loro paesi di origine a partire da metà degli anni Ottanta, quando, a causa di un indurimento delle politiche migratorie operato da Reagan e successivamente da Bush, sono aumentate in maniera esponenziale le deportazioni di persone arrivate sul territorio statunitense senza permesso di soggiorno, anche in giovane età. Attraverso questa operazione, una buona parte delle cellule attive delle due bande si sono ritrovate, dalla mattina alla sera, tra Salvador, Honduras e Guatemala, dove hanno continuato a crescere, diventando in breve tempo una presenza forte e strutturata tanto da sostituirsi allo stato, soprattutto nelle zone marginali e povere dove gestiscono ogni tipo di business, lecito o illecito.
Il reclutamento forzato
Per mantenere forti le maras e farle crescere, i loro leader devono reclutare continuamente nuovi membri, ragazzi da iniziare a piccole o grandi attività criminose, che possono variare dalla riscossione del pizzo nei negozi di quartiere fino alla gestione dell’intero traffico di droga verso il Nord America. Per questo motivo, alcuni membri delle gang hanno cominciato a prendere di mira le scuole più povere, cercando di convincere, con le buone o le cattive, ragazze e ragazzi tra i 10 e i 14 anni a unirsi a loro.
«Un giorno un pandillero (un membro di una banda, ndr) mi ha detto che le scuole sono praticamente il loro “incubatore”, la loro “serra”, dove crescono i loro futuri adepti. Sono i bambini più poveri, orfani o provenienti da famiglie disgregate che rischiano maggiormente di essere forzati a unirsi a loro. Quasi la metà dei miei studenti vive con un nonno o uno zio, perché i genitori sono morti o migrati negli Stati Uniti. Alcuni ragazzi vedono las maras come l’unica opzione di guadagno facile, ma molti, invece, ci chiedono aiuto. Ed è proprio per loro che scendiamo in strada e proviamo a dialogare con i capi delle bande per convincerli a lasciare stare i nostri studenti», dice Rodrigo Pineda.
Docenti assassinati
Migliaia di docenti honduregni (insegnanti, presidi, uomini e donne) hanno cercato di proteggere i loro studenti, in particolare i bambini e le ragazze, spesso vittime di rapimento anche a scopo di sfruttamento sessuale. Tuttavia, questo coraggio è costato la vita a più di 100 insegnanti fino a oggi. Secondo gli ultimi dati ufficiali elaborati dalla Commissione nazionale per i diritti umani dell’Honduras, solamente tra il 2010 e il 2017, las maras hanno ucciso 90 docenti.
Lo sa bene il preside Alberto Herrera (nome di fantasia, ndr), 52 anni di età e 32 anni di servizio nelle scuole, prima come maestro e negli ultimi anni come direttore didattico, che più di una volta nella sua vita ha dovuto ascoltare alla radio o leggere sui giornali la triste notizia dell’omicidio di un collega.
«Il problema è che alcuni studenti sono figli dei leader delle bande. In questo caso dobbiamo fare molta attenzione, perché spesso i genitori ci insultano, ci minacciano o ci aggrediscono se diamo un brutto voto a uno dei loro ragazzi – racconta Alberto -. Qualche anno fa, un’insegnante ha cercato di placare una rissa tra due ragazze e il padre di una di loro ha interpretato questa intromissione come un’umiliazione, per cui si è presentato a scuola e ha sparato al collega di fronte agli studenti durante l’intervallo».
In fuga dalle città
Rischiare la vita per fare il proprio mestiere non è accettabile per nessuno, in particolare per i più giovani, che spesso decidono di abbandonare la professione e la propria casa per sfuggire alle minacce e migrare verso le zone rurali del paese che hanno una percentuale di conflittualità inferiore a quella delle grandi città. Secondo gli ultimi dati dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che protegge i diritti dei rifugiati politici e, nel caso dell’Honduras, anche degli sfollati interni, negli ultimi cinque anni, 269 insegnanti hanno deciso di migrare all’interno del paese a causa della violenza delle gang, una violenza che, tra il 2014 e il 2018, ha interessato 247.090 persone honduregne, pari al 2,7% della popolazione.
«Questa gentaglia entra di notte nelle nostre scuole per nascondere armi e droga e di giorno spesso sentiamo il rumore di sparatorie in mezzo alla strada di fronte alla scuola. In questi casi attuiamo il protocollo di sicurezza, che significa rimanere in classe anche fino a sera e lasciare uscire i bambini solamente quando le strade sono libere», continua Pineda.
Rodrigo Pineda e Alberto Herrera sono parte attiva del Comitato di docenti (Comité de docentes), un’organizzazione di insegnanti che si batte per promuovere un’istruzione di qualità e sradicare la violenza dalle scuole. Il Comitato è sostenuto dall’Unhcr e dall’Ong Save the children che, nel 2018, ha prodotto un rapporto di denuncia sulla grave situazione di violenza nelle scuole di cui sono vittime studenti e docenti. Questi ultimi, in Honduras, sono considerati la terza categoria professionale più esposta alle brutalità delle bande. «Gli insegnanti sono tra le vittime designate dalle bande, insieme ai gestori dei trasporti pubblico-privati e agli imprenditori – afferma Vanessa Paguada, coordinatrice di Save the children del progetto di protezione dei bambini e dei giovani, in collaborazione con l’Unhcr – i professori subiscono vari tipi di abusi, tra cui estorsione, furto e violenze fisiche o sessuali. Il fatto è che le bande li vedono come un ostacolo da eliminare perché si oppongono al reclutamento dei giovani. In qualche modo sfidano le bande proteggendo i ragazzi e questo affronto è inaccettabile per il codice d’onore delle maras».
Collusione polizia e «maras»
Neppure durante la pandemia c’è stata pace, molti insegnanti, infatti, sono stati vittime anche di violenza informatica e di estorsioni online. «Questi criminali sono arrivati a chiederci anche di ricaricare le loro carte di credito e di pagare internet ai loro figli. Ovviamente – spiega il professor Pineda – lo abbiamo fatto, perché temiamo per la nostra vita e soprattutto per quella dei nostri figli e delle nostre famiglie. Il problema è che non possiamo neppure denunciare, perché tutti qui sanno che la polizia è collusa con le maras. Anzi, spesso alcuni pandilleros diventano poliziotti. Non c’è un luogo libero dalla prevaricazione di queste persone. Sono ovunque».
La mancanza di fiducia nelle istituzioni trova una ragione in più nel recente arresto, e successiva estradizione, dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, accusato dagli Stati Uniti di legami diretti con il narcotraffico.
Durante il suo mandato, Hernández ha ordinato la militarizzazione di numerosi centri educativi, in seguito alla morte di alcuni docenti e studenti.
«Lo stato fornisce misure palliative, ma non ha mai provato a risolvere il problema alla radice. La polizia rimane a pattugliare le scuole per un po’ e poi se ne va, lasciando il campo libero alle maras, che tornano più forti e arrabbiate di prima e la violenza contro di noi e gli studenti aumenta», spiega Alberto Herrera.
Di fatto la militarizzazione del territorio voluta dall’ex presidente ha spesso portato a scontri tra esercito e pandillas che hanno coinvolto anche passanti, gente comune e studenti, braccati sotto un fuoco incrociato. Questa situazione di guerra latente ha trasformato le strade dei quartieri più poveri di Tegucigalpa in veri e propri campi di battaglia senza né vinti né vincitori, ma con un numero elevato di morti innocenti.
Record di morti
I bambini e i giovani che rifiutano il reclutamento forzato stanno di fatto sfidando – anche inconsapevolmente – i capi delle bande, che puniscono questa audacia con la morte. Una vita breve però fa parte del destino anche di chi invece sceglie di unirsi a una banda, perché è consuetudine che siano proprio i più giovani e inesperti pandilleros a essere uccisi in rapine e scontri con la polizia. Con un tasso di 30 omicidi di minori ogni 100mila abitanti, l’Honduras detiene il record mondiale di bambini e adolescenti assassinati, secondo quanto riportato da un’indagine svolta da Save the children nel 2017.
Intrappolati in una situazione di violenza claustrofobica, molti giovani honduregni sono costretti ad abbandonare la scuola e le loro case e a scappare da un parente prossimo che vive in zone rurali del paese, o, più frequentemente, verso gli Stati Uniti, sommandosi all’enorme numero di minori non accompagnati che migrano dall’America Centrale.
Secondo gli ultimi dati della US Customs and border protection, l’agenzia di dogana degli Stati Uniti, da ottobre a maggio 2022 sono arrivati alla frontiera meridionale più di 100mila minori in viaggio da soli, il 23% dei quali sono honduregni.
Dispersione scolastica
Negli ultimi due anni, in Honduras il tasso di dispersione scolastica è salito alle stelle. Circa il 40% degli studenti, infatti, ha abbandonato la scuola nel 2020, a causa dell’insicurezza, ma anche del peggioramento delle condizioni economiche dovuto alla pandemia e agli effetti degli uragani Eta e Iota (del novembre 2020). Oggi il 70% della popolazione honduregna vive in situazione di povertà.
In questo panorama, un buon numero di studenti di Rodrigo e Alberto ha lasciato la scuola per iniziare a lavorare informalmente, altri sono rimasti e alcuni sono migrati, ma sono riusciti a frequentare le lezioni collegandosi online dai campi di migranti in Messico, riuscendo addirittura a terminare l’anno scolastico. «Io dico sempre che noi docenti cerchiamo di fare un buon lavoro in mezzo a un campo minato. Provo una grande soddisfazione quando incontro ex studenti che sono già adulti e hanno terminato gli studi e ora lavorano onestamente, o quando vedo un bambino che partecipa alle lezioni nonostante stia migrando da solo verso gli Stati Uniti. Per loro e solo per loro continuiamo a rischiare la vita e a lottare per fare in modo che abbiano la migliore educazione possibile anche in mezzo a tutte queste difficoltà», conclude Alberto Herrera.
Simona Carnino
Archivio MC
Gli ultimi articoli sulla violenza delle bande giovanili in Centro America e sull’Honduras:
Missionarie, missionari e laici della Consolata hanno tentato qualcosa di mai fatto prima. Un incontro di quattro giorni, a livello mondiale, che ha coinvolto circa cinquecento persone in 33 paesi. È stato reso possibile dalla tecnologia oggi disponibile. Non è stato solo un ritrovarsi, ma un rivedere la propria storia, fare una lettura del presente per pensare la missione del futuro.
A Fort Hall, oggi Murang’a, nel cuore del Kenya, tra il primo e il tre marzo del 1904, i primi 10 missionari della Consolata si riunirono, in quelle che sarebbero state poi chiamate le «Conferenze di Murang’a». I missionari erano arrivati in Kenya in diversi gruppi, il primo dei quali, partito l’8 maggio del 1902, era composto dai padri Tommaso Gays e Filippo Perlo e i fratelli coadiutori Luigi Falda e Celeste Lusso.
L’obiettivo delle conferenze era quello di darsi una metodologia di missione, delle regole, ma il motivo degli incontri era anche l’esigenza di fermarsi, ritrovarsi e stare insieme, dopo i primi due anni di esperienza missionaria.
Tra il 13 e il 16 giugno scorso si è tenuto il Convegno internazionale della famiglia Consolata, chiamato «Murang’a 2». L’evento ha visto la partecipazione di circa 500 persone, tra missionari (Imc), missionarie (Mc) e laici (Lmc), da quattro continenti, con traduzioni in sei lingue. Collegati in teleconferenza, i partecipanti hanno potuto assistere a presentazioni, riunirsi in gruppi (oltre trenta) per riflessioni tematiche e pure cantare e pregare insieme.
Un evento straordinario
La straordinarietà dell’evento è stata sottolineata in apertura da suor Simona Brambilla e padre Stefano Camerlengo, superiori generali dei due istituti, i quali hanno richiamato le motivazioni all’origine di questo momento di famiglia:
«Fermarsi insieme per riflettere e dialogare serenamente, per riconoscere il terreno e la metodologia comuni e arricchire il carisma alla luce dell’oggi e in prospettiva futura».
Ha detto suor Simona nella sua presentazione: «[Tra i due eventi ci sono] 118 anni di storia missionaria consolatina intensa, benedetta, ricchissima; con le sue curve, i suoi ritorni, i suoi limiti; con i suoi slanci, le sue meraviglie, la sua innegabile fecondità. Sì, come ogni avventura umano-divina. È la nostra storia, fratelli e sorelle. Di questa storia siamo eredi. Da questa storia nasciamo. Una storia che ci ha condotto fino a qui, oggi. Diverse le epoche, diverse le persone, diversi i contesti. Diversa la visione di missione, diverse le modalità comunicative, diversa la comprensione del nostro essere tra i popoli. Uno e medesimo il dono spirituale ricevuto e condiviso, che costituisce la nostra identità vocazionale».
Mentre padre Stefano ha confermato: «Come a Murang’a, più di un secolo fa, noi missionari e missionarie sentiamo il bisogno di sederci e definire insieme la strategia missionaria da adottare di fronte alle domande, alle esigenze e alle sfide poste dalla missione attuale.
Indubbiamente Murang’a ha tracciato un cammino nella storia dei nostri istituti missionari, ha elaborato una metodologia, ha indicato un percorso.
Il metodo nato a Murang’a ha messo le basi dello “stile consolatino” fondato sulla promozione umana e l’evangelizzazione […]».
Nella lettera di presentazione del convegno le direzioni generali dei due istituti scrivevano: «Al fine di fermarci insieme per valutare, riflettere e guardare al futuro, realizziamo il Convegno Murang’a 2 […]. Il Convegno è un’occasione per stare insieme, come famiglia, fare memoria, rileggere i percorsi realizzati, condividere esperienze, riflettere sul carisma e sulla metodologia missionaria, proiettarci in avanti».
E ancora: «Riteniamo che il tempo presente con la sua complessità ci invita ad aiutarci vicendevolmente nella ricerca e nella proposta di segni di speranza. In quanto missionari e missionarie, non possiamo tralasciare questa opportunità di ripensamento della nostra missione e del nostro agire, oltre che l’occasione preziosa di un confronto sereno con gli uomini e le donne del nostro tempo».
Suor Simona fa notare che: «A Fort Hall, nel marzo 1904 non c’erano le suore Missionarie della Consolata. Nasceranno sei anni dopo. Eppure, lo spirito di Murang’a ha indubbiamente plasmato le prime 15 sorelle arrivate in Kenya nel 1913, e i gruppi di missionarie arrivati successivamente che lo hanno accolto e vissuto in pieno».
Una grande energia
Forse non tutti gli oltre 500 partecipanti hanno seguito sempre le circa dieci ore di convegno. Ma due elementi sono da sottolineare.
Il primo è una riflessione sul cammino che gli istituti hanno fatto. Da dieci missionari, uomini e probabilmente tutti piemontesi, di Murang’a, siamo oggi a una pluralità di voci, etnie, lingue, origini, vocazioni diverse che fanno parte della stessa famiglia e incarnano lo stesso carisma. In qualche modo, durante gli incontri, sebbene fossero online e non in presenza, si poteva toccare qualcosa di grande, sentire un’energia particolare.
Il secondo riguarda l’uso della tecnologia. Questa pervade la nostra vita quotidiana e talvolta ne abusiamo o ne facciamo un uso pericoloso. In questo caso, le video conferenze, oramai diventate accessibili a tutti, ha reso possibile (anche grazie alla sapiente regia di padre Pedro Louro, segretario generale dell’Imc), un incontro senza precedenti, a livello mondiale. Anche questo ci deve fare riflettere sulle nuove frontiere della missione e sugli strumenti a nostra disposizione.
In questo dossier, non esaustivo, riportiamo stralci di alcuni degli interventi ascoltati al Convegno Murang’a 2, per noi significativi, ricordando che i video integrali degli incontri dei quattro giorni di lavori sono tutti disponibili sul profilo YouTube «Consolata Murang’a 2».
Marco Bello
Come e perché i primi 10 missionari in Kenya si riunirono
La storia e lo spirito
Perché Giuseppe Allamano ha deciso di fondare i Missionari della Consolata, con quale approccio e come è stato scelto il primo luogo di missione. Monsignor Giovanni Crippa svela i primi passi fondamentali di una storia avvincente. Fatti avvenuti oltre un secolo fa, che hanno posto le basi della famiglia della Consolata di oggi.
Giuseppe Allamano non sarà mai missionario della Consolata, ma vuole fondare un istituto a servizio del clero diocesano. Questo comporta che la comprensione primitiva dell’identità dell’istituto è molto legata a quello che i singoli missionari riusciranno a fare, tanto più che tutti i preti dell’inizio provengono dalla diocesi di Torino o da quelle vicine. È un istituto che nasce quasi con una specie di dicotomia tra la persona del fondatore e la realtà della missione. Questa, l’Allamano la considera un qualcosa di distinto da quella che è la sua autorità, il suo governo e l’identità che vuole dare all’istituto. Questi due fattori hanno avuto la conseguenza che a pochi mesi dall’apertura dell’istituto (29 gennaio 1901) il fondatore può inviare i primi missionari (8 maggio 1902), proprio perché non è preoccupato di avere un’idea, un progetto di missione: lo inventeranno coloro che partono. Rimasti cinque mesi con lui alla Consolatina, la prima casa dell’istituto, li considera già pronti.
Dove andare
La scelta iniziale del campo di lavoro era il Kaffa (Etiopia). Per una ragione sentimentale e per una contestualizzazione politica. Dell’Africa, in Italia, si conosceva solo l’Eritrea dalla quale si guardava all’Etiopia. In quest’Africa conosciuta aveva operato il cardinal Massaia, il cui incontro aveva impressionato l’Allamano. Era il missionario allora più conosciuto in Italia (cfr. le memorie del missionario cappuccino: I miei 35 anni in Etiopia). L’Allamano guardava al Kaffa per il suo istituto, pensava che avrebbe il sostegno del governo italiano e la tolleranza del governo etiope e si aspettava una facilitazione per l’ingresso. Il console italiano a Zanzibar sosteneva che non era difficile per un istituto italiano entrare in Etiopia. Ma l’impresa fallisce: se c’è un paese dove non vogliono italiani è l’Etiopia.
Il fondatore ripiega allora su un pezzo d’Africa propostogli da Propaganda fide: il Kenya, cioè la colonia inglese dell’Africa Orientale dipendente dal Vicariato apostolico di Zanzibar affidato all’epoca ai Padri dello Spirito Santo (Congregazione dello Spirito Santo o Spiritani, fondati nel 1703). La condizione posta da Propaganda fide a qualunque istituto per accedere a un territorio di missione indipendente è che esso faccia un tirocinio pastorale alle dipendenze di un Vicario apostolico. A questo punto il fondatore è costretto a fare una riflessione prima di far partire i missionari. Uno dei concetti più cari all’Allamano è quello dell’unità dell’istituto, e quando Propaganda fide gli pone la clausola, va un po’ in crisi perché ha un gruppo di missionari a cui ha inculcato il principio fondamentale dell’unità (unità di intenti, spirito di corpo), ma capisce che il Vicario apostolico potrebbe mandarli dove vuole, dividendoli. Il fondatore si accerta allora che, una volta partiti, pur lavorando alle dipendenze di altri, i suoi missionari possano avere un luogo per loro, anche se non ancora una giurisdizione ecclesiastica autonoma. L’Allamano deve mediare e i Padri dello Spirito Santo gli impongono un giuramento.
I primi quattro
Con questo accordo, l’8 maggio 1902 avviene la partenza dei primi quattro missionari: padre Tommaso Gays (28 anni), padre Filippo Perlo (26), fratel Luigi Falda (21) e fratel Celeste Lusso (18), che deve scappare perché non ha ancora fatto il servizio militare. Gays viene nominato superiore e Perlo economo. A Zanzibar sono accolti molto bene dal vescovo. Il 20 giugno partono per vedere dove potranno andare. Sanno dell’esistenza del Kikuyu solo perché alla missione di Saint Austin, nei pressi di Nairobi, è sceso un capo locale, Karoli, che ha simpatizzato con la missione, ma nessuno c’è mai stato, tanto che, nonostante la preparazione, hanno rischiato di morire assiderati nel viaggio sulle montagne.
Il 29 giugno il vescovo li lascia soli a Tuthu, a 2.220 m, senza nessuno, come casa la baracca costruita da un avventuriero inglese, e devono cominciare a guardarsi attorno e iniziare a fare missione. Per i quattro è una grande sfida; questa situazione non si ripeterà più nella storia dell’istituto.
Perlo si innamora del Kikuyu, nonostante le fatiche fisiche. Consiglia a Gays, che ha dubbi e paure, di dedicarsi a curare gli ammalati per stabilire un contatto con la gente. I fratelli riparano e migliorano la baracca.
Perlo comincia una perlustrazione sistematica del territorio, da solo in giro per il Kikuyu. Sul retro di una pagina del suo diario datata 8 agosto 1902 disegna la mappa della zona, sul verso dice di aver incontrato anche dei pastori nomadi (i Maasai), per i quali bisogna inventare un metodo missionario diverso da quello degli Akikuyu e dotarsi di un carro come quello dei nostri saltimbanchi per seguirli nei loro spostamenti. Pochi giorni dopo scrive all’Allamano: «Io qui ho bisogno di due cose soltanto: tanti missionari e tante suore».
Attriti in famiglia
La lettera arriva quando la Consolatina è chiusa. Perché? Tra i missionari partenti e quelli rimasti a Torino c’erano stati degli attriti. Il giorno della partenza non si erano nemmeno salutati alla stazione. Qualcuno sosteneva che padre Gays era stato mandato per primo in missione perché aveva raggirato l’Allamano, che il fondatore non si fosse comportato in maniera equa nella scelta dei primi candidati alle missioni. Si borbottava e alcuni rivendicavano il diritto a partire per primi. Tornato a casa, l’Allamano ha pregato, e poi ha mandato a casa gli otto rimasti. Il giorno dopo porta le chiavi della casa al santuario della Consolata dicendo alla Madonna: «L’istituto è tuo, pensaci tu».
Grazie alla lettera di Perlo che chiede non solo missionari, ma anche suore, l’Allamano prende coscienza del suo proprio ruolo formativo (cfr. le Conferenze Spirituali: «Lo spirito ve lo do io»). Per quelli che entrano e che sono già preti, non basta aver messo un vicerettore (padre Costa), ci vuole la sua stessa presenza.
Ma perché padre Perlo chiede tanti missionari e suore? Nelle sue esplorazioni ha ispezionato tutte le località adatte ad aprire una stazione missionaria nel Kikuyu, con il criterio di realizzare un catena con tante missioni distanti una dall’altra una giornata di cammino, a partire dalla stazione ferroviaria di Limuru fino ad arrivare alle falde del Monte Kenya. L’intento è di occupare un’are continua, senza essere bloccati da missioni protestanti, perchè i colonizzatori inglesi hanno messo una regola ferrea: tra una missione cattolica e una protestante ci deve essere almeno una giornata di cammino.
Padre Filippo Perlo è appena arrivato, ma innamoratosi del luogo, ha deciso di non andarsene più. La sua grandezza è di aver inventato una metodologia missionaria.
Di per sé, i missionari della Consolata potrebbero imparare dai Padri dello Spirito Santo che hanno un’idea benedettina della missione. Questa è basata sul creare una struttura centrale che garantisca sicurezza e salute e faccia della missione un faro di civiltà. L’africano si sarebbe convertito dopo aver visto quanto è bella, grande, progredita la vita del missionario. Più la vita del missionario è attraente, più può fare un discorso di civilizzazione e di evangelizzazione. Secondo questo modello, la gente deve andare alla missione, la quale, quindi, ha bisogno di un gruppo consistente di personale e di grandi capitali.
Ciò che Perlo e gli altri non hanno. Allora inventano uno stile di missione nel quale sono i missionari ad andare verso la gente. La cosa più importante non è la struttura della missione ma il contatto con le persone. Le missioni sono solo baracche di fango e terra battuta, piccolissime, sufficienti per poter dormire una notte. Solo i magazzini per stipare il materiale proveniente dall’Italia devono essere grandi. Alla fine del 1902, le missioni sono a Limuru (procura, vicino alla ferrovia), Tuthu e Murang’a, e Tetu (che diventerà la base per creare la missione di Nyeri). Non più un’unica missione importante, ma diverse piccole missioni.
Il primo Murang’a
Per decidere come deve essere la missione e tracciare le linee orientative di una metodologia missionaria comune o – come si esprimerà padre Borda – «un regolamento particolare sulla vita e sull’azione dei missionari», tutti i sacerdoti (tranne padre Mario Arese di Limuru) si incontrano a Murang’a dal 1 al 3 marzo del 1904: il mattino è dedicato a meditazione e preghiera (Gays), il pomeriggio alle conferenze (Perlo). L’esperienza è valutata positivamente dai missionari in quanto possono rinsaldare i legami di fraternità, ricaricarsi spiritualmente e ricevere indicazioni pratiche.
Le conclusioni sono inviate a Torino e, in attesa dell’approvazione dell’Allamano, una copia viene inviata a tutte le stazioni di missione. Il 6 maggio ricevono l’approvazione dell’Allamano: «Approvo tutte le conclusioni senza eccezione, e desidero che si eseguano in ogni loro parte». Riprodotte da suor Scolastica Piano (delle suore Vincenzine del Cottolengo), ricevono il titolo di: «Conclusioni delle conferenze tenute nella stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall il 1-2-3 marzo 1904, presenti i padri missionari: Filippo Perlo, Tommaso Gays, Antonio Borda, Gabriele Perlo, Rodolfo Bertagna, Giuseppe Giacosa, Sebastiano Scarzello, Francesco Cagliero, Domenico Vignoli e Gaudenzio Barlassina». […] «Quanto in esse è proposto era frutto dell’esperienza già collaudata nella vita quotidiana dei missionari. Dal confronto di questa realtà con i principi appresi in Italia e con i metodi sperimentati da altri missionari, il gruppo di “principianti” del Kikuyu cercò un proprio metodo di evangelizzazione. Essi avvertirono che la via della conversione dei Kikuyu era assai più lunga di quanto potesse apparire in Italia e compresero che i buoni rapporti con gli indigeni e le autorità locali erano solo la premessa di un termine a lunga scadenza» (A. Trevisiol, Uscirono per dissodare il campo, Roma 1989, 82-83).
Elaborazione di un metodo
I missionari elaborano allora un proprio piano di evangelizzazione così formulato nel primo paragrafo delle «conclusioni»: «Dato il carattere e i costumi dei Kikuyu, i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi pare si possano ridurre ai seguenti: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione d’ambiente. […] Con i catechismi, che richiesero quasi subito la formazione di un corpo di catechisti, si inculcavano le prime nozioni di religione naturale. Le scuole miravano a formare una élite che avrebbe coadiuvato i missionari nell’approccio con i Kikuyu. Gli ambulatori, che segnarono la prima attività a favore degli indigeni in missione, venivano intesi come mezzo per rendere credibile il missionario e assicurargli la simpatia della gente. Le visite ai villaggi, che ricordavano il metodo del Massaia, assunsero caratteristiche proprie: servivano alla conoscenza reciproca ed erano il mezzo più valido per l’enunciata formazione dell’ambiente, consistente nell’istruire la popolazione in modo che, in massa, fosse preparata a ricevere il battesimo, qualora si desse il caso di pericolo di morte» (A. Trevisiol, Ibidem 84-85).
«Per i Missionari della Consolata nel Kikuyu le conferenze tenute a Murang’a nel 1904 segnarono un punto di riferimento anche per molti anni successivi, sebbene siano state ripetute con regolarità annuale. Torino le incoraggiava e ne vagliava i risultati che venivano di volta in volta approvati. L’essenziale stava tuttavia nel tradurre in pratica le decisioni prese. Una verità tanto evidente non sfuggiva certo ad un uomo come monsignor Perlo, il quale, appena ne ebbe gli strumenti, fece pubblicare le direttive e le inviò alle singole missioni» (A. Trevisiol, Ibidem, 87).
Giovanni Crippa
Missionarie, missionari e laici, devono unire le forze
Camminare insieme
A Fort Hall c’è stata la creazione di uno spazio di condivisione, per favorire un’unità di intendimenti e azione. E la formulazione di una metodologia missionaria, valida ancora oggi,
che ha al suo centro i popoli e l’importanza delle relazioni.
Lo spirito di Murang’a si è sposato con la storia del nostro istituto (Mc). Al di là dei suoi contenuti, già il solo fatto che i missionari sentissero l’esigenza, il bisogno, il desiderio di fermarsi, stare assieme, pregare, condividere, rileggere l’esperienza, formulare una metodologia missionaria e programmare, è fatto degno di nota ed elemento qualificante di uno stile.
Oggi la parola d’ordine nella Chiesa è sinodalità. Ai tempi di Murang’a certamente non si utilizzava questo termine. Ma la sostanza del camminare insieme era ben presente. Le Conferenze di Murang’a, infatti, avevano come primo obiettivo quello di favorire una unità d’intendimenti e di azione, attraverso la creazione di uno spazio di condivisione nel quale si alternavano momenti di preghiera comune, riflessioni, scambi tra i partecipanti.
Il fondatore, nella relazione a Propaganda fide del 1 aprile 1905, scrive: «…il 1° marzo 1904 si radunarono alla stazione del Sacro Cuore di Gesù a Fort Hall tutti i missionari sacerdoti, al fine di ritemprarsi nello spirito apostolico con un corso di spirituali esercizi […] accompagnati da una serie di conferenze in cui tutti poterono comunicarsi le proprie idee ed il frutto della propria esperienza; accordarsi su lavori da iniziare; sul modo di vincere le difficoltà; sui metodi da seguire nell’evangelizzazione, affinché si potesse procedere nell’opera comune con unità d’intendimenti e di azione».
Nel suo sviluppo, l’istituto Mc ha imparato a valorizzare e qualificare sempre di più gli spazi comuni di preghiera, ascolto, condivisione, memoria, rilettura dell’esperienza, discernimento e progettazione. Le varie istanze partecipative, come i capitoli generali, gli intercapitoli, le conferenze regionali, le assemblee a vari livelli, sono divenuti, sempre più, percorsi qualificati dal discernimento spirituale. Non solo. Questo stile di sinodalità ha comportato lungo gli anni l’investimento sempre maggiore in processi di coinvolgimento delle sorelle nei vari percorsi di famiglia.
Ne ricordo solo alcuni: […] la nuova configurazione dell’istituto con il sorgere di regione Africa e regione America e le nuove aperture in Asia; la riflessione esperienziale e sistematica sul carisma, che di nuovo ha coinvolto tutte e ha trovato il momento culminante nell’intercapitolo svoltosi tra febbraio e marzo di quest’anno. E finalmente la elaborazione di una ratio missionis dell’istituto, ancora in corso, che di nuovo ha coinvolto ogni sorella al fine di «sviluppare e formulare la visione di missione secondo il nostro carisma», e che sarà presentata al prossimo capitolo generale per la revisione e la approvazione finale.
Cammini sinodali
Lo «spirito di Murang’a» si è così dilatato, approfondito e… «spalmato» nei percorsi di istituto, informando i vari cammini, ben al di là di eventi e momenti circoscritti. Vorrei anche segnalare qui cammini sinodali che hanno riguardato non solo le sorelle, ma tutta la famiglia della Consolata che, rispondendo alle proposte elaborate nell’incontro tra le due assemblee capitolari (missionari e missionarie) del 2017, ha portato avanti, coinvolgendo missionarie, missionari e laici, «una riflessione sugli elementi principali del carisma, comuni alla nostra famiglia allargata» e ha preparato la realizzazione di questo convegno, Murang’a 2. Certamente, lo spirito sinodale di Murang’a ci interpella, alla luce dell’oggi, a camminare coltivando un forte senso di comunione e di famiglia, di unità d’intendimenti e di azione sia all’interno di Imc, Mc e Lmc, sia fra i tre soggetti carismatici. Questo convegno è un passo significativo in questa direzione, ma credo che non possa e non debba rimanere un evento isolato, bensì un trampolino di lancio affinché, come fratelli e sorelle nel carisma, possiamo creare spazi e percorsi qualificati nei quali ci si ferma insieme, insieme si prega, si condivide, si rilegge l’esperienza, ci si ascolta, ci si abbevera alle fonti del carisma, si rivede la metodologia missionaria, si progetta.
Il popolo al centro
«Dato il carattere e i costumi degli Akikuyu…», il documento delle conclusioni delle conferenze di Murang’a inizia così. Al centro della riflessione c’è il popolo che i missionari hanno incontrato, il suo carattere, i suoi costumi. Ma la frase continua: «… i mezzi migliori per iniziare le nostre relazioni con essi, pare si possano ridurre ai seguenti». Devo dire che questo incipit del documento mi colpisce davvero. L’intento primo dei missionari è di instaurare relazioni con il popolo. Le relazioni con la gente sono il primo obiettivo, la prima cura dei missionari. Questa espressione condensata ma potente del documento racchiude, ieri come oggi, stimoli, appelli e inviti ai missionari e alle missionarie. La missione avviene nelle relazioni, o non avviene.
Quando desideriamo la relazione con qualcuno, sorge in noi spontaneo l’interesse a conoscerlo, conoscerne l’ambiente, il carattere, i costumi, le modalità comunicative, ciò che lo fa felice, ciò che lo rende triste, i suoi valori portanti, il suo modo di percepire e leggere la vita, il cosmo, se stesso, l’altro, il creato, Dio. Tutto di lui ci interessa. Di un interesse vivo e nel contempo rispettosissimo, delicato, riverente, libero. Tutto il resto – nel caso di Murang’a: catechismi, scuole, visite ai villaggi, ambulatori alla missione, formazione dell’ambiente – è subordinato alla creazione di relazioni, nelle quali la Buona Notizia può passare.
Perché così è la missione di Dio. Perché questa è la missione del Figlio, che si incarna e diventa Dio-con-noi, per Amore. Nel cammino dell’istituto questa consapevolezza si è gradualmente approfondita. Ricordo con gioia e gratitudine quando, durante l’intercapitolo del 2008, riflettendo assieme sulla missione e guardando alla realtà delle nostre presenze e delle nostre espressioni missionarie, arrivammo a dirci che «abbiamo bisogno di riscoprire il significato profondo della missione superando il rischio di confinarla alle varie “attività missionarie”. Sembra utile e vitale riprendere il senso teologico della missione che è prima di tutto missio Dei (missione di Dio) nel suo movimento relazionale, di generazione, di vita che si incarna; missione che per noi si qualifica come consolazione».
La tentazione di investire esageratamente in attività, strutture, opere, numeri, visibilità, efficienza, strategie e di affidarci a queste cose, è sempre presente. Ma, oggi come al tempo di Murang’a, il Vangelo chiede di scorrere nel tessuto umano, nella carne e nel cuore di persone che amano e che si lasciano amare, che sanno tessere, con umiltà, rispetto ed empatia, legami autentici, che sanno entrare con delicatezza nella casa vitale dell’altro e raggiungere, per grazia, il cuore della persona e del popolo.
L’attenzione al popolo e il desiderio di tessere con esso relazioni di vicinanza, di affetto e di confidenza guidano le scelte dei missionari del tempo di Murang’a e la elaborazione di un primo metodo missionario, che si esprime nell’attenzione integrale (salute, educazione, catechismi, formazione dell’ambiente), nel promuovere un contatto diretto con la gente, nel raggiungere le persone laddove si trovano, sia fisicamente (le visite intensive ai villaggi), sia dal punto di vista esistenziale (lingua e linguaggio, visione del mondo, della persona, di Dio).
Attualmente, l’impegno di entrare in contatto con il mondo spirituale della persona e del popolo si sta aprendo all’attenzione non solo all’esperienza di Dio, ma anche, più ampiamente, all’approccio del popolo al mondo invisibile. È, questo, un tema delicato, vitale, che attinge alle profondità dell’esperienza personale e collettiva e che richiede uno studio serio e attento. Solo ultimamente, come istituto, ma anche come istituti missionari, si sono aperti spazi di riflessione su questo tema. Siamo solo agli inizi di un cammino affascinante, impegnativo, nuovo. […]
Rispetto e riverenza
Il testo di Murang’a va ancora più in là. L’indicazione «Si insegni in Kikuyu a leggere e scrivere, ed elementi di aritmetica. Più tardi anche un po’ di inglese» contiene una pista più che mai attuale e del tutto in linea con i criteri di rispetto, delicatezza, riverenza per ciò che è la storia, la cultura, il patrimonio di un popolo. La lingua materna, lo sappiamo, è molto di più di una serie di vocaboli e di regole grammaticali. Essa lascia trasparire il sistema di pensiero, e anche di affetto, di un popolo.
Nella struttura linguistica, nei vocaboli, si esprimono spesso i valori più profondi di una cultura, la sua cosmovisione, i suoi paradigmi fondamentali. Sottovalutare o svalutare la lingua di un popolo per iniziare una alfabetizzazione in una lingua veicolare diversa dalle radici culturali è un atto lontano dal rispetto e dalla riverenza che il patrimonio originario di un gruppo umano merita. La consapevolezza di questo dato si è fatta avanti, non senza fatica, nell’istituto. Anche qui, penso a alcune esperienze feconde in varie parti del nostro mondo missionario, all’interno di percorsi di etno educazione e di promozione all’insegnamento bilingue.
Simona Brambilla
La Consolazione nel testo biblico
Perché la consolazione
«Consolazione» è un termine molto presente nella Bibbia, a indicare la sua centralità. Un esempio è quello del cosiddetto «Libro della consolazione», contenuto nel testo del profeta Isaia.
Per guardare alla consolazione da un punto di vista biblico, scegliamo l’inizio del Deuteroisaia (Is 40-55: il Libro della consolazione). Il popolo di Israele è in esilio a Babilonia, dopo la distruzione di Gerusalemme e la deportazione. Alle spalle c’è dunque una tribolazione drammatica che resta sottesa, senza mai essere evocata direttamente (la distruzione di Gerusalemme non viene descritta), e su di essa scende il messaggio della consolazione; messaggio valido per ogni tipo di tribolazione, anche le nostre attuali (pandemia, guerra, crisi economiche, climatiche, migrazioni ecc.).
Nel testo si riconoscono e si rincorrono più voci: «dice il vostro Dio»/ «una voce grida»/ «io rispondo»/ «alza la voce con forza, Gerusalemme». La prima voce viene dal cielo ed è quella di Dio, poi il messaggio della consolazione si diffonde di voce in voce, dilaga come un’onda, come una musica, e questa pluralità di voci dà l’impressione al lettore di venire immerso nella consolazione che lo raggiunge e lo avvolge. Inoltre, il fatto che le voci siano molte e si moltiplichino, sembra la condizione perché la consolazione arrivi ovunque e raggiunga il «cuore di Gerusalemme», là dove ci sono macerie, dove c’è tribolazione, desolazione, fatica, scoraggiamento.
Ascoltiamo allora insieme queste voci, per cogliere cosa dicono e anche come lo dicono.
Dice il vostro Dio
La prima voce in assoluto è quella di Dio. «Consolate, consolate»: il verbo in ebraico significa consolare, esortare, far prendere respiro. Dunque: tornate a respirare, perché la tribolazione vissuta è come una fatica di vivere, che addirittura rende difficile respirare. L’esortazione è ripetuta due volte e questo si collega a ciò che è detto al v. 2: «Ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati». Il popolo di Dio per tutto ciò che ha vissuto ha ricevuto il doppio dalla mano di Dio, ma non il doppio in termini di castigo, bensì di consolazione (consolate, consolate). La consolazione arriva in misura doppia, abbondante; Dio «non bada a spese» quando si tratta di consolare.
«La tribolazione è compiuta»: cioè, le cose cambiano. È finita. La parola ebraica tradotta con «tribolazione» significa «servizio» ed è usata per indicare sia il servizio militare sia quello culturale che i leviti prestano nel tempio. Le tribolazioni della vita dunque, cioè la vita reale, con tutte le sue fatiche, a volte sono come una guerra, ma anche come una preghiera. La vita reale «è sacrificio a Dio gradito», vale come la liturgia, è in se stessa relazione con Dio.
«Parlate al cuore di Gerusalemme»: chi deve parlare al cuore di Gerusalemme? Nella LXX (versione dell’Antico Testamento in lingua greca, ndr): i sacerdoti; nel Targum: i profeti; ma di per sé il testo non esplicita di chi debba essere la voce. Perché la voce della consolazione può arrivare da chiunque, così che molte volte la consolazione arriva inaspettata, un po’ a sorpresa, non da chi ci aspetteremmo. La consolazione poi deve arrivare al cuore che nella Bibbia non è il luogo delle emozioni, ma il centro più intimo della persona, lì dove decidiamo di noi stessi, il motore delle nostre scelte. La consolazione per questo non è qualcosa di superficiale, ma un’esperienza profonda e potente, capace di rimettere in piedi una persona e di farla ripartire (cfr. i discepoli di Emmaus: il cuore lento a un certo punto inizia ad ardere, si accende, e loro si alzano e ripartono nella direzione giusta). Da notare che «il cuore di Gerusalemme», che riceve questo messaggio di consolazione, non è a Gerusalemme, ma a Babilonia. Il cuore di Gerusalemme è dove c’è il popolo di Dio, le persone, non le macerie, gli edifici, le strutture. Dobbiamo consolare le persone, solo così si riedifica Gerusalemme.
«Gridatele»: più volte si dice nel testo che la consolazione va portata ad alta voce. È un messaggio che deve arrivare forte e chiaro, richiede consapevolezza e determinazione, perché chi sta male spesso alza un muro difensivo, si chiude in se stesso, avvolto da una barriera che va riconosciuta. Chi sta male deve essere raggiunto.
Una voce grida
A questo punto nel testo interviene di nuovo una voce angelica: «Nel deserto preparate una via», perché il Signore sta tornando a casa, a Gerusalemme, come noi, si sposta con noi, però arriva prima (del ritorno del popolo si parlerà al capitolo 55), così che, quando arriveremo noi, troveremo che tutto è già preparato (come nel cenacolo il giorno dell’ultima cena: i discepoli vanno per preparare, ma la sala è già pronta). La strada del ritorno passa attraverso il deserto, luogo di morte, inospitale, che però può trasformarsi fino a far emergere una strada, una via. C’è sempre una strada, anche nel deserto, anche nella guerra, anche nella tomba (cfr. finale del vangelo di Marco).
«La gloria»: è la visibilità di Dio (più che una strada, dobbiamo preparare gli occhi). Sarà possibile renderci conto della sua presenza, del suo essere visibile e tangibile nelle nostre storie devastate. «Ogni uomo»: letteralmente ogni carne. È la vita umana nella sua espressione meno nobile, più materiale, prosaica. È la nostra vita reale a fare esperienza di consolazione, che si dà nella carne: si vede, si tocca, si respira.
E io rispondo: che cosa dovrò gridare?
La terza voce è quella del profeta, che raccoglie il messaggio della consolazione, ma interrompe la musica, prende una stecca, pone un’obiezione. Dice: ogni uomo è come l’erba, cioè, la vita umana è fragilissima. Che senso ha? Non si fa neanche in tempo a portarlo il messaggio della consolazione. «…ma la parola del nostro Dio dura sempre»: la voce precedente risponde all’obiezione del profeta e dice: è vero, la vita umana è fragilissima, ma la Parola dura, sorge, resiste (verbo qum in ebraico), si alza. La consolazione non poggia sulla consistenza umana, che non c’è, ma sulla roccia della Parola. Ci sarà perché lo dice Dio.
Gerusalemme
Il participio è femminile e dunque concorda con Gerusalemme: è Gerusalemme il soggetto, è lei che porta liete notizie. L’ultima voce presente nel testo di Isaia è quella della stessa Gerusalemme, che, consolata, diventa capace di consolare, di «alzare la voce» a sua volta e raggiungere «le città di Giuda». Il cuore di Gerusalemme evidentemente è stato raggiunto, consolato, e questo cuore diventa capace di parlare, di portare la buona notizia della consolazione.
La consolazione è una «buona notizia»: nel testo greco della LXX il participio è euanghelizòmenos: tu che porti il vangelo, la buona notizia. La consolazione, che si diffonde dallo stesso luogo che prima era stato desolato e deserto, è detta con il linguaggio a noi caro della evangelizzazione. Questo significa, per noi, che l’evangelizzazione e la consolazione si danno insieme, l’evangelizzazione deve essere consolante, altrimenti non è una buona notizia. Un annuncio che mette ansia non è vera evangelizzazione, non è parola che viene dal cuore di una Gerusalemme consolata. Il messaggio della consolazione di cui si fa portatrice Gerusalemme è questo: «Il Signore Dio viene con potenza […] come un pastore egli fa pascolare il gregge […] porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». La potenza del Signore sa fare camminare insieme un popolo in cui ciascuno ha esigenze diverse che vengono rispettate, conosciute e accolte, perché è vero che la vita umana è fragilissima, come obietta il profeta, ma siamo presi in braccio e condotti dolcemente dalla potenza di Dio.
Laura Verrani
Alcune indicazioni per il futuro
Il coraggio di sognare
Il sogno è una cosa seria, fa alzare lo sguardo sul domani. I sogni ci svegliano, ci indicano un cammino diverso. E poi, i sogni sono da condividere. Murang’a 2 è un sogno che si è realizzato. Si è fatta una riflessione sulla missione e sulle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi e del futuro.
Senza tenerezza, senza cuore, senza amore non ci sarà profezia né testimonianza credibile. Andiamoci piano a snobbare i «sognatori» le «sognatrici»: sono capaci di sorprendere chi li crede ingenui e illusi. Uno per tutti: «Mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa…”».
Il sogno è una cosa seria, non va scambiato con l’astrazione inconcludente di chi si chiama fuori dalla storia per costruirsi un mondo a parte. Il sogno vede una realtà nuova, e si sottrae alla rassegnazione per alzare lo sguardo sul domani. È solo sognando che si può contemplare ciò che ancora non esiste e che tutti, attorno, ti spingono a credere inutile, faticoso, irrealizzabile. È l’inaudito che diventa credibile.
Chi non sogna più smette anche di sperare, si accontenta del menù passato da una vita al ribasso. I sogni sono importanti. Tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza in ogni azione quotidiana. I sogni ti svegliano, ti portano in là, sono le stelle più luminose, quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità.
I sogni di futuro sono veramente tali solo se in grande, e condivisi: diversamente si trasformano in miraggi o delirio di onnipotenza. Per questo hanno bisogno di Dio e del noi, garanzie di autenticità. Osare ci dà la consapevolezza che ci si può ritrovare nello spazio libero dei sogni e delle speranze grandi.
Il convegno Murang’a 2 è un sogno realizzato: 500 partecipanti, 31 gruppi di lavoro, 6 lingue, da 33 paesi.
A Murang’a, dieci missionari molto giovani, alla prima esperienza in terra sconosciuta, pieni di problemi, hanno deciso di fermarsi a pensare, a pregare, a preparare il futuro. Murang’a 2 lo facciamo perché il mondo va come va e noi siamo qua. […]
Fare bene il bene, ovvero ricerca della qualità della vita
La «qualità della vita» viene indicata dall’Allamano come «principio ispiratore» della nostra vita e missione: e soprattutto la qualità nell’essere e nel fare missione che, stimolati dal convegno, vorremmo assumere come principio ispiratore del nostro futuro.
Discrezione e semplicità
Più che le parole è la vita del beato Fondatore che ci insegna uno stile fatto di discrezione, semplicità e garbo. Sono atteggiamenti che nascono spontanei nella persona che si dona senza mirare a diventare il centro dell’attenzione, che punta a essere efficace nella sua azione senza giocare il ruolo del protagonista, che è semplice, accogliente, aperta alla dimensione comunitaria.
Esprime questo «stile allamaniano» il missionario e la missionaria che ha la coscienza di essere servo e serva, che sa ritirarsi nel tempo opportuno senza pretendere niente, che propone ma non impone, che conosce il valore della gratuità.
Basta ricordare quanto di Allamano disse il giornale «Il Momento» il giorno dopo la sua morte: «Non era l’uomo dell’ostentazione. Non era l’uomo eloquente. Era l’uomo del silenzio operoso. Noi crediamo che la caratteristica di tutta la sua vita sia stata questa».
L’amore alla gente
Dice don Dario Berruto, collaboratore del santuario della Consolata: «L’Allamano ebbe a cuore la gente, non tanto le idee. E credo che se tornasse per indicarci qual è la prima cosa che dobbiamo fare, continuerebbe a dirci: “Abbiate cura della gente; abbiate a cuore la gente. Beato te perché, quando verrai a visitarci per presentarci la santità di Dio, ci dirai ancora una volta che la prima cosa che dobbiamo fare è avere tanta tenerezza verso tutti quelli che incontriamo”».
Missione da vivere insieme come fratelli e sorelle
I nostri istituti stanno facendo una grande riflessione sulla missione, e stanno anche realizzando delle opzioni concrete per rispondere alle sfide missionarie di oggi, interrogandosi sul nostro modo di essere missionari e missionarie per il futuro. Ognuno e ognuna dovrebbe sentirsi coinvolto e coinvolta in questo cammino. Per questa ferma decisione di ritornare alla missione e qualificarla maggiormente, non ci sono ricette, né modelli collaudati e approvati.
L’augurio è che questo tempo di «purificazione» sia di rinnovamento profondo e segno di entusiasmo ritrovato nella missione. Che possiamo camminare e passare da una missione assunta in comune a una missione condivisa. Accogliamo con spirito disponibile e aperto il messaggio di papa Francesco ai consacrati nella lettera apostolica che presentava l’anno dedicato alla vita consacrata: «Non ripiegatevi su voi stessi, non lasciatevi asfissiare nelle piccole dispute della casa, non restate prigionieri dei problemi. Essi si risolvono se voi andate fuori ad aiutare gli altri e a risolvere i loro problemi e annunciare la buona novella. Voi troverete la vita donando la vita, la speranza donando speranza, l’amore amando» (cfr. papa Francesco, Lettera apostolica a tutti i consacrati per l’anno dedicato alla vita religiosa, 30 novembre 2014-02 febbraio 2016). […]
Passi verso il futuro
Per soddisfare le nuove esigenze della missione, noi missionari e missionarie abbiamo bisogno dei seguenti passi:
Inserirci nella Chiesa locale e vivere in comunione con i pastori, con gli altri religiosi, religiose, laici.
Ritornare al posto naturale dove noi dovremmo essere: tra i non cristiani, nella prima evangelizzazione, nel mondo dei poveri e delle nuove povertà. Da esse rileggere il nostro carisma.
Ripensare l’identità della vita consacrata in relazione al laicato, con i membri di altre religioni, con i non credenti, con l’uomo e la donna, con persone di diverse generazioni.
Imparare a perdere il protagonismo. Accettare di essere minoranza nella Chiesa e nella società pluralista.
Accettare le sfide della nuova cultura con discernimento, audacia, dialogo e provocazione evangelica.
Rileggere il carisma guidati da alcuni criteri: la riflessione comunitaria, la capacità di essere segni, di farsi capire, di provocare, di porre interrogativi, di collocare alternative radicali.
Prendere decisioni pratiche per la rivitalizzazione e la ristrutturazione delle nostre presenze nei diversi paesi, perché siano significative e interpellanti, povere, libere, liberatrici e fraterne, con un progetto e un’azione missionaria. […]
Siamo eredi di un passato, responsabili di un presente, costruttori di un futuro dalla nostra limitazione e povertà. Solidali con i nostri popoli e tra noi, dobbiamo cercare di seguire il passo del Signore nel nostro oggi, qui e ora.
Stefano Camerlengo
Come conciliare le proprie radici con le esigenze attuali
La storia profonda e il «grido di oggi»
Esiste una storia profonda, che dà a missionarie e missionari della Consolata uno spirito unico, un’identità. Questa storia si incontra con il grido del nostro tempo. Stiamo vivendo un cambio epocale, che suppone un cambiamento di approccio.
Il nostro istituto possiede quella che viene chiamata una «storia profonda», una struttura narrativa, uno spirito unico, incarnato. Questa «storia profonda» è condivisa e tutti noi la riconosciamo come la nostra identità di gruppo, sapendo che nessuno di noi la può esprimere in modo definitivo. Questa storia, questa unicità, è un dono di Dio. È una condizione necessaria per il carisma, ma la storia non è il carisma.
La storia profonda che condividiamo e che fa parte di noi, si incontra con le grida del nostro tempo. Permettetemi di usare questa immagine presa in prestito da un autore e scrittore marianista, padre Bernard Lee, che illustra bene l’incontro efficace tra la storia profonda e il grido della nostra epoca. Da un lato abbiamo una bella campana tibetana che rappresenta la nostra storia profonda di Imc. Dall’altra parte, abbiamo un ding-dong di legno che rappresenta i bisogni pressanti, le grida del nostro tempo e del luogo in cui operiamo. Ora suoniamo il gong. Il suono è il nostro carisma, l’incontro concreto e storico del dono di Dio per noi con i bisogni del nostro tempo.
Il nostro Fondatore ha suonato il gong portando il dono di Dio a rispondere al bisogno di ad gentes e ai poveri per la trasformazione della società. Il suono del gong ha rimbombato per generazioni, in tutto il mondo. Risuona in noi. L’abbiamo portato avanti. Suona ancora oggi.
Pensiamo solo alle nostre attuali presenze nel mondo. La congregazione è fiorita in Italia, Kenya e poi nei quattro continenti dove siamo oggi presenti. Il nostro gong risuona ancora in 33 paesi del mondo. Tutto continua a fiorisce. Però, le situazioni in cui viviamo richiedono un nuovo suono del gong basato su una lettura profonda e comunitaria dei segni dei nostri tempi e delle grida della nostra epoca. In altre parole, la nostra identità si riconosce nelle parole, nelle espressioni, negli esempi, nei ricordi che accendono un fuoco nel cuore delle persone. Ogni volta che li sentiamo, qualcosa risuona in noi. I nostri cuori sono aperti e ci riconosciamo. Tuttavia, dobbiamo essere profondamente inseriti nella nostra cultura, nel nostro mondo, riconoscerne i bisogni urgenti, sperimentarne le passioni e le voglie essenziali (senza assecondare la cultura acriticamente).
Dobbiamo «suonare il gong», come i nostri fratelli a Murang’a per abbracciare la realtà odierna e trasformare gli ambienti. Dal tempo di Murang’a a oggi, sono cambiate tantissime cose ma non l’amore che viene trasmesso agli uomini e le donne di tutti i tempi. E sarà sempre così.
Contatti con tante realtà umane
Guardando la storia profonda del nostro istituto, «una famiglia di consacrati per la missione ad gentes» (Cost. 4), possiamo dire che il suo cammino lo ha portato a contatto con le più diverse realtà umane, sociali, politiche, economiche e culturali. Il dialogo permanente con la realtà e lo sviluppo della sua missione nella Chiesa e nel mondo lo hanno reso dinamico e ne hanno favorito la crescita verso la internazionalità e la interculturalità.
La situazione attuale nel mondo globalizzato è forse la più profonda crisi di senso della storia dell’umanità. Diciamo che la gente è sofferente e disorientata. Non sorgono leader alternativi e credibili che possano convincere le persone a scegliere una nuova direzione. Le strutture, l’organizzazione, i metodi di lavoro, lo stile di vita non rispondono adeguatamente alle necessità e alle sfide di una società che è cambiata e sta cambiando radicalmente. Questa società è produttrice di nuove forme di povertà e di esclusione. Si tratta, insomma, di un cambio epocale, che esige da noi un modo nuovo di comprendere la persona umana e le sue relazioni con il mondo e con Dio, e ci porta a un nuovo paradigma. Per rispondere a questa sfida importante e trovare quel nuovo paradigma è necessario dare intensità alla preghiera, alla vita comunitaria e alla missione. (Cfr. V Conferenza generale di Aparecida, Documento finale, 44, 2007).
Siamo invitati a rivedere con onestà i criteri sui quali fondiamo e organizziamo le nostre attività. Un nuovo volto di vita, che implica il riconoscimento di nuove proposte di senso, il ritorno alla Parola di Dio e al carisma della fondazione, la risposta ai segni dei tempi, la capacità di dialogo, la valorizzazione dell’incontro soprattutto con i poveri e con i laici. […]
Missione e vita condivisa con i laici
La conferenza di Murang’a ci richiama all’incontro reale con i laici nel campo della missione e della vita, dell’azione e della spiritualità. I nostri primi missionari erano laici, suore e sacerdoti. Ci rincontriamo con loro che sono la fonte comune di acqua viva con la quale innaffiamo il campo della missione e di vita e spiritualità. L’unione e la vicinanza ai laici possono fare molto bene allo sforzo di rivitalizzazione tanto per i laici che per noi religiosi consacrati.
Non è un processo facile e richiede molta chiarezza nell’aspetto teologico, spirituale, apostolico, e a volte anche giuridico. Richiede anche un nuovo atteggiamento da parte dei religiosi consacrati e dei laici, e non sempre si è preparati a fare bene questo passo. L’unione fa la forza e aumenta il dinamismo.
James Bhola Lengarin
Hanno firmato il dossier:
Monsignor Giovanni Crippa, missionario della Consolata, è vescovo di Ilhéus, Brasile.
Suor Simona Brambilla, superiora generale delle Missionarie della Consolata.
Laura Verrani, teologa, si occupa di catechesi biblica nella diocesi di Torino e in altre realtà ecclesiali.
Padre Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
Padre James Bhola LEngarin, È primo consigliere generale e vice superiore generale dei Missionari della Consolata, responsabile per l’Asia.
Marco Bello, Giornalista redazione MC, Ha curato e coordinato questo dossier.