Nato come hotel di lusso, utilizzato dai militari e come prigione durante la guerra, da decenni il Grande Hotel di Beira è un gigantesco palazzo occupato. Ci vivono centinaia di famiglie, adattandosi in ogni possibile spazio.
Beira. Come entri nella stanza buia e spoglia, in un angolo a sinistra, a lato dell’armadio, vedi un albero di Natale. È là tutto l’anno, durante la stagione delle piogge e in quella secca. «L’ho comprato due anni fa al mercato del Goto (il più grande mercato della città, nda) perché volevo che i miei tre figli sentissero l’atmosfera del Natale, che imparassero a sognare», mi dice Ilaria con aria soddisfatta mentre guardo l’abete incuriosito.
Un pomeriggio di qualche settimana fa l’ho trovata seduta per terra sul balcone, all’ingresso della sua stanza, in compagnia di due amiche. Stavano guardando delle fotografie. «Ce le siamo fatte scattare quest’anno, il primo di gennaio, da uno dei fotografi ambulanti in piazza del municipio. Volevo che fosse di buon auspicio per il nuovo anno per me e i miei figli». Ho guardato la serie di foto: avevano messo i vestiti buoni. Lei e la figlia si erano fatte fare una nuova acconciatura. Tutti e quattro avevano l’aria fiera e soddisfatta. Sapevano che stavano facendo qualche cosa di insolito e speciale.
Qualche giorno dopo l’ho incrociata per caso nella zona commerciale della città: «Sono venuta a comprare delle stoffe per me e le mie amiche per celebrare tutte assieme il primo di maggio».
Quando parlo con Ilaria rimango sempre ammirato dalla sua forza d’animo e dalla sua determinazione nel creare dei piccoli momenti di gioia e nel cercare di dare un futuro migliore ai suoi tre figli.
Simbolo della città
Ilaria è una dei tanti abitanti del Grande Hotel di Beira, probabilmente il più popoloso e grande edificio occupato al mondo. È uno dei simboli della città, tra le principali del Mozambico.
L’hotel incarna la storia del paese, uno dei più poveri al mondo, con un bassissimo livello di sviluppo umano, aspettativa di vita e altri indicatori socioeconomici. Fu costruito a metà degli anni Cinquanta, quando il Mozambico era una colonia portoghese, per mostrare al mondo la forza e il successo del regime fascista al potere in Portogallo dal 1933. Era un luogo di opulenza e venne concepito per essere tra gli hotel più lussuosi d’Africa. Un posto solo per ricchi, per lo più bianchi. In stile Art Déco, le facciate dalle enormi forme geometriche e ripetizioni architettoniche dovevano rappresentare la modernità. Mentre l’esterno non presentava ornamenti o motivi intricati, gli interni dai sontuosi saloni e scalinate erano fatti con materiali costosi abbastanza rari nella regione.
Il Grande Hotel era famoso in tutto il mondo, ma chiuse i battenti nel 1963, perché nei suoi otto anni di attività non fu mai redditizio, dato che pochissime persone potevano permettersi di alloggiare in una delle sue 116 camere. Negli anni seguenti aprì solo in alcune occasioni per ospitare grandi eventi, come quando soggiornarono alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti in crociera lungo la costa dell’Africa Orientale.
Durante i 16 anni di guerra civile iniziata nel 1976, l’edificio servì inizialmente come base dell’esercito e come prigione, successivamente come campo profughi. Fu solo dopo l’abbandono dal suo scopo originale che le stanze furono riempite per la prima volta. Da allora, il Grande Hotel è diventato casa per le persone più vulnerabili, in una città che è in costante crescita ma non è in grado di costruire alloggi decenti e adeguati per chi ci vive.
Comunità autogestita
Si stima che attualmente ci vivano circa duemila persone, molte delle quali bambini e adolescenti, che occupano tutte le stanze e ogni sezione di questo enorme edificio buio e umido, comprese le scale, i lunghi corridoi e gli scantinati. I suoi abitanti vivono come una comunità autogestita, ma senza i servizi pubblici essenziali, come l’acqua e servizi igienici, l’elettricità e la raccolta dei rifiuti. Per avere una stanza bisogna pagare un affitto. Pochi euro, che per alcuni sono però proibitivi. Succede allora che qualcuno debba lasciare una di quelle che, negli anni Cinquanta, erano stanze di lusso per trasferirsi in un angoletto nei corridoi o nelle cantine.
Ilaria vive presso il Grande Hotel da quando era ragazzina. Lì ha conosciuto il suo compagno, che poi l’ha abbandonata. Lì sono nati i suoi figli. Vive al primo piano, in un «appartamentino» che un tempo era una delle suite dell’hotel. Il suo letto occupa quello che in passato era un bagno finestrato. Lo si riconosce dalle piastrelle alle pareti e dalle allacciature dell’acqua. Il figlio più grande dorme su un materasso steso sul pavimento in un piccolo corridoio.
La vita si svolge prevalentemente sul balcone, più luminoso e arieggiato. Lì si cucina, si fanno i compiti e si gioca. Si chiacchiera con gli ospiti e ci si rilassa. All’ingresso dell’alloggio Ilaria ha una piccola bancarella di frutta e verdura. A volte vende delle frittelle o delle patate dolci fritte. Abbastanza per pagarsi le spese e comprare nuovi prodotti da vendere. Ma non abbastanza per risparmiare e avere più garanzie per il suo futuro.
Vivere alla giornata
La maggior parte degli abitanti dell’hotel non ha un lavoro fisso e campa alla giornata. Così come Ilaria, all’interno e all’ingresso dell’edificio molte donne allestiscono piccole bancarelle che vendono frutta, verdura e pesce.
Nei corridoi si trovano dei piccoli saloni di bellezza, specie nel fine settimana. Si sta seduti sugli scalini o sulle sedie di plastica: passano le ore tra chiacchiere e nuove acconciature.
Alcuni degli abitanti sono pescatori, ma la maggior parte sopravvive trovando lavori occasionali, alla giornata. Il numero di pasti, così come la quantità di cibo e il condimento da accompagnare al riso e alla xima (una polenta a base di mais), dipendono da come è andata la giornata. Quando si mangia pesce fresco o carne, significa che la giornata lavorativa è andata bene o c’è qualche ricorrenza da festeggiare.
Vivendo in condizioni di estrema vulnerabilità, la malnutrizione è cronica, specialmente tra i bambini. Diarrea, Aids, malaria, scabbia, tubercolosi e altre malattie sono un problema diffuso. Ma tra vicini di casa ci si aiuta.
Manuel Antonio era un signore anziano. Aveva perso una gamba a causa di una mina, da giovane, rientrando da una partita di calcio, durante la guerra civile. «Se non fossi saltato su quella mina – mi dice un giorno con un sorriso malinconico – forse non sarei qui a raccontartela perché avrei dovuto combattere durante la guerra civile». Viveva presso il Grande Hotel dall’inizio degli anni Novanta e passava le sue giornate fuori dal panificio in piazza del municipio. Il pane e qualche moneta data dai passanti erano abbastanza per sopravvivere. È là che ci siamo conosciuti, qualche anno fa. Ultimamente però era molto debole e non riusciva ad andare fino alla piazza. E così, mentre mi fermavo a chiacchierare con lui in corridoio fuori dalla sua stanza in lamiera, spesso arrivavano dei vicini con qualche cosa da mangiare. E quando, poco tempo fa, se ne è andato a causa della tubercolosi, gli amici hanno fatto una colletta per pagare il funerale.
Negli scantinati
Moltissime persone vivono negli scantinati, che sono umidi e bui. Tra loro Josè, pescatore, con sua moglie e i quattro figli. La prima volta che sono andato a visitarlo in casa mi ha incuriosito il fatto che tutti i mobili, come ad esempio il tavolo, la struttura del letto o il piano di appoggio del televisore, erano fatti di mattoni di cemento. «Con i risparmi sto comprando del materiale per fabbricare dei mattoni. Quando ne avrò abbastanza vorrei costruire una casa fuori da qui, forse nel quartiere della Manga. Però mi mancherà la vicinanza al mare».
Il Grande Hotel si trova di fronte all’oceano, non lontano dal porto costruito dai portoghesi, da cui è cresciuta la città di Beira, su una pianura alluvionale sotto il livello del mare che la espone a inondazioni regolari.
Nell’edificio si fa pochissima manutenzione. Le infiltrazioni di acqua piovana e gli allagamenti costituiscono un problema ricorrente. In diverse aree sia all’interno che all’esterno ci sono cumuli di spazzatura. I vani degli ascensori e le scale sono diventati delle voragini, in cui occasionalmente qualcuno cade. Il palazzo è esposto ai venti, alla salsedine e all’usura del tempo. La struttura è forte e regge, tuttavia si sta lentamente deteriorando. Ogni tanto alcuni soffitti e pareti crollano, anche se le persone che ci vivono fanno del loro meglio per tenere l’edificio pulito e in sicurezza.
Il ciclone Idai del marzo 2019, uno dei peggiori cicloni tropicali che abbiano mai colpito l’Africa e l’emisfero meridionale, che ha causato enormi danni e una crisi umanitaria nella regione, ha lasciato il suo segno sia sul Grande Hotel che nella memoria di chi ci vive.
Pochi mesi dopo, la situazione si è complicata ulteriormente a causa dello stato di emergenza dichiarato a seguito della pandemia, soprattutto perché molte attività economiche formali e informali in città hanno chiuso, ed è diventato più difficile trovare un lavoro. Inoltre, per parecchi mesi i bambini non sono potuti andare a scuola. In un paese dove il sistema scolastico è già abbastanza precario e non è così raro incontrare dei ragazzi che, alla fine della scuola dell’obbligo, sanno a mala pena leggere e scrivere.
Difficile andarsene
Ultimamente, l’aumento generalizzato dei prezzi, in particolare del pane e di altri beni di prima necessità, è causa di nuovi forti disagi. Diverse persone hanno dovuto chiudere le loro bancarelle perché con i guadagni non riuscivano a coprire i costi. Ma ci si inventa sempre qualcosa per andare avanti.
Da poco un ragazzo si è costruito un piccolo chiosco, dove vende cd e offre servizi di registrazione audio per chi vuole incidere un brano musicale. Il chiosco è di fronte al cinema in lamiera che in genere proietta film di azione americani doppiati in brasiliano.
Ogni tanto qualcuno riesce a guadagnare abbastanza, oppure a studiare e a trovare un lavoro ben pagato che gli permette di uscire dal ventre del palazzo. Molti ragazzi sono determinati a studiare, come Amaral che sogna di diventare tecnico di costruzione, o Regina che vorrebbe studiare per diventare infermiera e aiutare la sua famiglia. Ma non è facile, e per la maggior parte degli abitanti del Grande Hotel il mondo fuori non è destinato a essere meno precario. Molte persone lì sono nate, hanno avuto i loro figli e, in alcuni casi, hanno visto i loro nipoti nascere e crescere.
Paolo Ghisu
Paolo Ghisu è nato e cresciuto a Trento. Laureato in economia e relazioni internazionali, ha lavorato per varie Ong e organizzazioni internazionali, in diversi paesi. Dal 2018 vive a Beira, Mozambico. Da sempre appassionato di fotografia, nel 2020 ha deciso di renderla parte della propria carriera, iniziando un percorso di formazione in fotografia e narrazione visiva. Attraverso il suo lavoro racconta storie di sostenibilità, diversità, vulnerabilità e resilienza.
Il progetto Fully booked. Vivere al Grande hotel di Beira è il primo progetto fotografico di Paolo Ghisu. Nell’ottobre del 2020 ha iniziato a frequentare regolarmente il Grande Hotel. Passo dopo passo, molti degli abitanti gli hanno aperto le porte delle loro case. Per mesi ha condiviso con loro momenti di quotidianità, fatta di costante precarietà. www.paologhisu.com