A Bassora, seconda città dell’Iraq, il petrolio non ha portato benessere, ma disastri ambientali, inquinamento e malattie. Abbiamo incontrato chi paga le conseguenze di questa «ricchezza».
Bassora. Questa antichissima città si trova nel Sud dell’Iraq. Fu abitata dai Sumeri e dai Persiani. In seguito, nel settimo secolo dopo Cristo, divenne una delle più grandi metropoli del giovane Islam. Qui, in un corso d’acqua chiamato Shatt al Arab, confluiscono anche il Tigri e l’Eufrate. Oggi però Bassora è più conosciuta per la quantità delle risorse presenti nel suo sottosuolo. Qui, infatti, si estrae il 70% del petrolio greggio dell’intera nazione. Bassora è il secondo esportatore di tutto il Medio Oriente dopo l’Arabia Saudita.
Stando a queste percentuali, la città e la sua provincia dovrebbero essere ricchissime. Invece, la disoccupazione raggiunge il 25% e quella giovanile il 30%. Molte delle sue strade principali e dei corsi d’acqua straripano di immondizia, non essendoci un sistema funzionante di raccolta dei rifiuti o di riciclo. Bassora vanta anche un tristissimo primato per il suo inquinamento: ogni mese le analisi sulla qualità dell’aria di questa città, la annoverano tra le più irrespirabili di tutto il Medio Oriente e ad altissimo rischio per la salute.
Petrolio e raffinerie
Guidando attorno a Bassora ci vuole poco per capire il perché. Ovunque sono visibili gli impianti di estrazione del petrolio e le raffinerie, quasi tutte a ridosso dei villaggi.
Mi fermo davanti a una di queste enormi strutture nella periferia della città: il complesso di Nahr Bin Omar. Mentre mi appresto a scattare delle foto arrivano dei poliziotti. Cominciano a urlare che non è possibile far fotografie minacciando di portarmi in centrale e di sequestrarmi la macchina fotografica. Dopo qualche attimo di tensione, sono costretto a cancellare le poche foto fatte e vado via.
Continuando a guidare, noto che un uomo mi segue in auto e, appena fuori dalla zona sorvegliata, comincia a segnalarmi la sua presenza con i fari lampeggianti. Fermata l’auto, si accosta a me: «Ho visto quello che ti hanno detto. Non è giusto che tu non possa documentare. Quello che accade va raccontato. Seguimi, ti mostro qualcosa».
Dopo qualche sentiero impervio e aver attraversato baraccopoli di lamiera, arriviamo alle spalle della raffineria. L’enorme centrale, praticamente attaccata a uno dei villaggi dei sobborghi, getta fiamme e fumo nero nel cielo, scaricando anche diversi liquami nel corso d’acqua sottostante.
«Vedi? Lì viviamo noi, proprio sotto le ciminiere. Le nostre case sono sempre piene di polvere e tutti abbiamo dei problemi respiratori o tumori, soprattutto i bambini. A nessuno importa, il ministero del petrolio ci fa arrivare dei soldi, ci garantisce l’assunzione per dei lavori nelle loro industrie, ma siamo tutti malati».
Gli impianti petroliferi qui usano ancora il sistema, obsoleto e pericolosissimo per l’ambiente, del «gas flaring»: bruciano all’aria aperta i gas derivati dall’estrazione del petrolio immettendoli quindi nell’atmosfera. Solo nel 2019, si è stimato che più di centomila persone siano state ricoverate per avvelenamento delle acque potabili, la maggior parte di loro erano bambini.
Il Basra children hospital
Per trattare tumori e leucemie in età infantile, come punto di riferimento, c’è il solo Basra children hospital, che ha 125 posti letto, sempre occupati. Centinaia sono poi le famiglie che arrivano qui quotidianamente per i trattamenti di chemio e radio terapia.
Al Basra children hospital mi accoglie il direttore, Osama Abdullah: «Lavoro qui da 12 anni. La situazione è complicata perché molte famiglie, soprattutto quelle che vivono nelle zone rurali e più lontane, arrivano in ospedale in uno stadio delle malattie molto avanzato e, spesso, non c’è molto che possiamo fare». Chiedo: «Dottore, quali sono le cause principali di questi tumori in età infantile? E quanto c’entra l’inquinamento?». «È difficile fare una stima, anzi direi impossibile per la mancanza di dati. Alcuni sono fattori genetici, altri sociali, come i rapporti tra consanguinei. Sicuramente l’inquinamento ha degli effetti, ma in Iraq non c’è nessun istituto di ricerca che raccoglie i dati e li collega direttamente al numero di tumori e leucemie».
Il nostro interlocutore continua: «Noi cerchiamo di curare i pazienti, ma purtroppo non abbiamo anche le risorse per indagare sulle cause. Ci manca inoltre il personale: medici, tecnici, infermieri. Dall’Iraq ancora molta gente scappa via, qui abbiamo molti dottori giovanissimi sia residenti che tirocinanti, ma ce ne vorrebbero almeno altri 5-6 per ogni reparto».
Camminando per le corsie, incontro, oltre ai giovani dottori, tanti pazienti con le loro famiglie. Molti vengono da cittadine lontane e devono affrontare enormi sforzi economici per raggiungere questo ospedale, l’unico in tutto il Sud dell’Iraq. Bambini come Hussein, quattro anni di cui tre passati in chemioterapia, o Karaar, ragazzo di 15 anni affetto da una grave forma di leucemia. Sua madre mi racconta: «Ho cinque figli che ho dovuto lasciare per venire qui. Prima di poter arrivare abbiamo fatto anche molti test privati che non era possibile fare in ospedale. Ogni test costa 100 dollari, alcuni 200. Rimanere qui è gratuito ma non sempre si può. Quindi dobbiamo andare e venire per le cure giornaliere. Non so ancora per quanto potremmo permettercelo».
La madre di Karaar è solo un esempio delle decine di persone che, parlando con me, alla fine mi hanno chiesto un aiuto economico per questa gravissima situazione.
La Mesopotamia e le paludi in pericolo
La piaga dell’inquinamento non reca danno soltanto a ridosso delle raffinerie. Esiste un luogo in Iraq, dal 2016 anche patrimonio mondiale dell’Unesco, in cui è possibile misurare sia statisticamente che materialmente gli effetti dell’inquinamento: sono le marshes, le paludi della Mesopotamia, uno degli esempi più importanti di biodiversità di tutto l’Iraq.
Le marshes sono la più grande area umida di tutto il Medio Oriente, oltre diecimila chilometri quadrati di paludi che svolgono un importantissimo compito di «filtraggio» dell’inquinamento del Tigri e dell’Eufrate, preservando così la costa del golfo dalla degradazione. Oggi questa vastissima area è a rischio di scomparsa a causa del riscaldamento globale, della contaminazione delle acque e delle opere ingegneristiche degli stati confinanti.
Le marshes hanno una storia molto travagliata. Questi canali erano già navigati dai Sumeri e, stando agli scritti antichi, qui
veniva collocato il giardino dell’Eden. Nel 1991, durante il regime di Saddam Hussein, a Bassora ci fu una rivolta da parte degli sciiti, repressa dal dittatore nel sangue e nella violenza. I sopravvissuti a quella strage si rifugiarono qui. Le milizie sciite anti Saddam usarono questi canali e isole per nascondersi e colpire nuovamente il regime con diversi attentati. Il rais Saddam ordinò allora una massiccia opera ingegneristica per prosciugare gran parte delle paludi. In pochi mesi le marshes vennero ridotte del 90% e la sua popolazione scese da 400mila a 40mila. Un disastro ambientale senza precedenti. Saddam, in seguito, usò le terre ormai in secca, per piazzare rampe missilistiche e bombardare l’Iran.
Disastro ambientale nelle «marshes»
Qual è la condizione delle marshes oggi? E quella degli abitanti che ci vivono?
A Chabaish, lo chiedo a Jassim Al-Asad, direttore del «Nature of Iraq», organizzazione che si occupa del monitoraggio, sensibilizzazione e protezione dell’ambiente in Iraq. «Sono nato nelle marshes. Ho visto questo luogo cambiare giorno per giorno. Ho vissuto il periodo di Saddam, quando le acque erano talmente basse da poter camminare sul fondo dei canali.
I problemi che minacciano ancora queste zone oggi sono molti e vanno affrontati uno alla volta. Il primo è sicuramente il riscaldamento globale, qui più evidente che in altre zone del mondo, per l’immissione dei gas delle raffinerie nell’atmosfera. Le temperature, in particolare negli ultimi quattro anni, si sono alzate moltissimo tanto che l’acqua d’estate evapora in quantità enormi. Di conseguenza, quella rimanente è salatissima e questa è una delle cause principali della morte dei bufali, animali che sono la principale fonte di sostentamento per la gente del posto. Quello che si coltiva serve per alimentare loro. I bufali vengono allevati per la carne, ma forniscono anche il latte e il burro. Ogni estate, però, ne muoiono a centinaia».
«Un altro gravissimo problema è quello della mancata affluenza dei fiumi. Le nazioni confinanti, come l’Iran, hanno costruito dighe che bloccano alcuni dei corsi principali, questa è una delle cause del prosciugamento. C’è stata anche una conferenza molto importante mediata dalle Nazioni Unite, ci siamo seduti al tavolo con i ministri iraniani. Loro ci hanno promesso che avrebbero aperto alcune dighe facendo affluire più acqua ma, come immagini, non è mai successo».
«Un terzo fattore di degrado è l’inquinamento che tu stesso hai avuto modo di notare: le fogne delle città scaricano direttamente nelle paludi. Una volta questi canali si navigavano con canoe mosse da lunghi remi, oggi, con l’introduzione delle barche a motore, non solo c’è più inquinamento ma il rombo delle imbarcazioni spaventa tante specie di uccelli migratori, altra componente fondamentale per la biodiversità di questi luoghi. Esistono molti piani ingegneristici in atto per migliorare questa situazione anche se, purtroppo, non ci sono ancora i fondi necessari. Abbiamo molta speranza che qualcosa possa cambiare ora che le marshes sono anche patrimonio
dell’Unesco».
Solcando i canali si scorgono paesaggi unici, mandrie di bufali che camminano nell’acqua, pescatori e tanti bambini sugli isolotti che salutano sorridenti.
È facile capire perché la gente è così affezionata a questi luoghi e perché così tanto, anticamente, è stato scritto al loro riguardo.
L’Unesco non basta
In una delle isole incontro Abu Haider. Vive qui con la sua famiglia ed è proprietario di una piccola mandria di bufali. Scendendo dalla canoa vengo accolto dai suoi figli e nipoti. L’isolotto è una piccola fattoria con oche e galline, oltre ai bufali. Entro in una grande capanna che funge da sala da pranzo di giorno e camera da letto di notte, tranne che per Abu Haider. Il capofamiglia, infatti, dorme in una capanna a parte. Mi racconta: «Prima di Saddam lavoravamo anche molto con la pesca, oggi però c’è pochissimo pesce e l’unico nostro sostentamento deriva dall’allevamento dei bufali. Negli ultimi anni, però, d’estate fa così caldo che siamo costretti a spostarci verso i villaggi sulla terra ferma, perché le paludi stanno diventando invivibili, senza acqua e con temperature altissime. Quando andiamo via dobbiamo lasciare qui i bufali e, al nostro ritorno, ce ne sono sempre meno: ogni anno ne muoiono tantissimi».
Continuando a navigare, si notano anche molte capanne ormai abbandonate. La popolazione delle paludi continua a diminuire. Molti giovani preferiscono tentare la fortuna nelle città più grandi o addirittura in Iran e Turchia, piuttosto che continuare ad abitare questi luoghi sempre più difficili.
Pur essendo l’Iraq un paese che ha fatto molti passi avanti dopo la caduta dell’Isis nel 2017, qui si vive tuttora in uno stato di continua insicurezza. Sono ancora molti i villaggi, soprattutto nelle zone di confine, presi d’assalto dagli uomini del Daesh, oggi soprattutto per racimolare denaro e viveri.
Nel frattempo, il governo di Baghdad continua a concentrare molti dei suoi sforzi economici sull’estrazione del petrolio, lasciando così indietro i progetti di sviluppo e piani per la tutela dell’ambiente. La guerra in Ucraina ha aumentato la richiesta di combustibili fossili in questa zona, allontanando così un futuro migliore per molti iracheni che, per la propria salute e sicurezza, continuano a fuggire.
Angelo Calianno*
(*) Dello stesso autore, sul sito di MC, si possono trovare tre altri reportage dall’Iraq usciti
ad aprile e
maggio 2019 e
a luglio 2022.
Risorse fossili e politica
La trappola del gas
Soltanto con la guerra di Putin (e di Medveded, Lavrov e Kirill) la maggior parte degli europei si è resa conto di quanto sia destabilizzante, per un paese importatore, la dipendenza energetica dai combustibili fossili. L’Italia è tra i paesi a più alta dipendenza dall’estero: il 77% del proprio fabbisogno. Il primo paese fornitore di petrolio all’Italia è l’Iraq che precede di poco l’Azerbaigian, seguito a sua volta da Russia, Libia, Arabia Saudita, Kazakistan, Nigeria e, con quote piccole (circa il 2%), da Angola, Stati Uniti ed Egitto. Tuttavia, è il gas che copre la maggior parte (41,8%) del fabbisogno italiano.
Stando ai rapporti dell’Eni, di gran lunga il primo importatore italiano, il principale fornitore di gas dell’Italia è la Russia (51%), seguito a distanza da Libia (13%), Algeria (13%), Azerbaigian (10%), Paesi Bassi (8%) e Norvegia (5%).
Dall’aggressione di Mosca all’Ucraina (24 febbraio) la situazione è precipitata in una spirale paradossale: paghiamo sempre più caro il gas comprato dal dittatore russo, il quale, in ogni momento e senza preavviso, può tagliare le sue forniture (per ricatto e per far aumentare il prezzo dello stesso e l’inflazione nei paesi importatori). Il governo Draghi sta cercando di ridurre la dipendenza dalla Russia, incrementando le forniture da paesi alternativi (Algeria, Libia e, per il gas liquefatto, Qatar, Congo, Angola e Mozambico). Tuttavia, la soluzione non è – scrive Lega Ambiente (maggio 2022) – «liberare l’Italia dalla dipendenza del gas russo per renderla dipendente da quello di altri paesi, molti dei quali con grandi problemi interni tra dittature e autocrazie». «Accelerare la crescita delle fonti rinnovabili – si legge sul sito di Italy for climate – permetterebbe all’Italia non solo di centrare gli obiettivi climatici, ma anche di ridurre la sua altissima dipendenza energetica dall’estero».
Non migliore è la politica dell’Unione europea. A febbraio, la Commissione ha incluso il gas (e il nucleare) nella «tassonomia verde» (la classificazione delle attività ecosostenibili), attirando dure critiche. Secondo le associazioni ambientaliste, se la decisione sarà confermata (lo scorso 6 luglio il Parlamento di Strasburgo non si è opposto), la tassonomia Ue bloccherà la transizione energetica e, inoltre, porterà miliardi extra nelle casse del Cremlino. Già ora Mosca riceve un miliardo di euro al giorno dai paesi europei, con Germania e Italia in testa. Oggi la Russia – ecco il paradosso e la trappola – esporta meno gas (petrolio e carbone), ma guadagna di più, attutendo perciò l’impatto delle sanzioni e finanziando la sua guerra in Ucraina. Il processo di decarbonizzazione è sicuramente difficile, lungo e costoso, ma urgente e indispensabile. È questo il momento storico per attuare quella «rivoluzione energetica» di cui tutti i governi si riempiono la bocca.
Paolo Moiola