Tanzania. Tutte le sfide della presidente


Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

Dal marzo dello scorso anno, il Tanzania ha una nuova presidente della repubblica, Samia Suluhu Hassan, subentrata d’ufficio al presidente John Magufuli, scomparso improvvisamente il 17 marzo 2021.

Magufuli era stato eletto nel 2015 e, completato un primo mandato presidenziale, era stato rieletto nell’ottobre 2020, quando aveva scelto la Suluhu come vicepresidente. Magufuli aveva gestito male l’emergenza della pandemia da Covid-19, dichiarando eradicata la malattia dal paese già nell’aprile 2020. Quando è morto, a 61 anni, è stato ufficialmente dichiarato deceduto per crisi cardiaca, ma la sua scomparsa, tuttavia, è avvolta nel mistero. Di fatto non appariva in pubblico da oltre due settimane.

Abbiamo parlato del paese con padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata e giornalista (già direttore di MC), che ha vissuto due diversi periodi storici nel paese.

Il peso del presidente

«Il Tanzania è una repubblica presidenziale, e questo vuol dire che il presidente ha un peso enorme. Ad esempio, i governatori delle regioni sono nominati direttamente da lui, che può anche rimuoverli. Così come tutti i ministri. È inoltre capo delle forze armate, garante della Costituzione, e molto altro ancora.

Secondo la carta costituzionale non è facile criticare il presidente. È possibile, ma occorrono elementi sicuri per farlo. Questo sistema può dar adito a un presidente autoritario, addirittura dittatore».

«Da circa un anno abbiamo come nuova presidente Samia Suluhu Hassan, donna, musulmana, terza moglie di un tanzaniano. Si presenta bene, parla bene l’inglese, a differenza di Magufuli, e ha un linguaggio molto accessibile. Quando ha preso il posto di Magufuli ha detto: “Le cose non cambiano, continueremo come prima”. In realtà le cose sono molto cambiate. A cominciare dall’atteggiamento nei confronti del Covid. Una delle prime cose che la presidente ha fatto, è stata di vaccinarsi, invitando tutti i cittadini tanzaniani a fare altrettanto. È stata fatta una campagna con manifesti per le strade. Ma la gente non si vaccina. A differenza del Kenya dove il vaccino si è diffuso».

La President del Tanzania Samia Suluhu Hassan Drew Angerer/Getty Images/AFP

Padre Francesco sulla misteriosa morte di Magufuli dice che «è stato ammalato per 17 giorni, durante i quali c’è stato un blackout di notizie. Il primo ministro Kassim Majialiwa diceva di non preoccuparsi, non prendere notizie dai social media. Invece Samia, che era vicepresidente, pochi giorni prima che il suo predecessore morisse, ha detto: “Il presidente Magufuli è un uomo come tutti, e come tutti può anche ammalarsi”. La versione ufficiale è che sia morto per problemi cardiaci, ma qualcuno dice che sia morto per Covid, e altri addirittura per avvelenamento, e che ci sia stato un complotto nel quale c’entra Jakaya Kikwete, il presidente suo predecessore. Ma sono solo voci».

La cosa più eclatante è il cambiamento di politica che la nuova presidente ha messo in atto. In uno dei suoi primi interventi, parlando al giudice federale, garante della Costituzione, ha chiesto di elencare tutte le cose che nel paese non funzionavano. Padre Francesco racconta che il giudice ha iniziato l’elenco partendo da alcuni scandali relativi al lavoro: «Magufuli si vantava dei lavori infrastrutturali che si stavano facendo. È vero che ha realizzato diverse azioni di ammodernamento, di sviluppo, come il progetto di ferrovia ad alta velocità da Dar-es-Salaam a Morogoro. Ma si è scoperto che c’erano un migliaio di operai assunti non registrati. Tutti cinesi e coreani».

Austerità e manganello

Il presidente Magufuli aveva imposto un clima di austerità abbastanza rigido, ad esempio aveva proibito a tutti i ministri di viaggiare all’estero. E lui stesso è andato pochissimo in visita ufficiale. Aveva inoltre eliminato alcune feste nazionali, per risparmiare soldi da investire in opere pubbliche, come risistemare e costruire strade. «Era un intervento populista, però era positivo. Lui si proclamava difensore dei poveri, e in un certo senso lo era. D’altro lato però era una persona autoritaria, come lo è anche Suluhu, ma in termini più sfumati. Ad esempio, se parliamo della polizia, non si sa fino a che punto sia autonoma o sia alle dipendenze del presidente.

Per ogni manifestazione di piazza occorre avere il permesso, ma raramente viene concesso; quindi, non ci sono molti scioperi o dimostrazioni e, se si verificano, la polizia può intervenire anche in maniera molto pesante. Se ci sono dei morti, difficilmente la polizia viene inquisita, c’è una certa impunità».

In Tanzania il parlamento ha un ruolo secondario. Ha prerogative di controllo sul presidente, ma in termini molto blandi. Una delle richieste dell’opposizione è di rivedere la Costituzione. Magufuli si era opposto e anche la Suluhu ha rimandato.

«Il parlamento è sovrano, ma non si sa di cosa – afferma padre Francesco -. Le leggi devono essere controfirmate dal presidente. Ci sono poi casi eclatanti di mancanza di giustizia. Ad esempio, quando le opposizioni sono troppo forti o violente, gli interessati vengono presi e poi scompaiono».

Un paese ricco

Il momento attuale, secondo il nostro interlocutore, è segnato da un’impasse grave: «Il Tanzania è un paese ricco, a differenza di quello che diceva il presidente Julius Nyerere i primi tempi del suo mandato (1964-1985). Ha grandi giacimenti di oro, i maggiori dopo Sudafrica, Ghana e Congo. Ha la tanzanite, che si trova solo sul suo territorio. Ha molto gas naturale».

Rispetto a quest’ultimo, è stato valutato che il Tanzania abbia giacimenti offshore di oltre 1.600 miliardi di metri cubi. È stato recentemente firmato un primo accordo tra la Tanzania petroleum development corporation, l’ente statale di gestione, e alcune multinazionali europee e statunitensi per la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas naturale che permetterà di trasportare la materia prima, tramite navi, in qualsiasi parte del mondo. L’investimento sarà di circa 30 miliardi di dollari e dovrebbe dare lavoro a circa 5mila persone. L’impianto entrerebbe in funzione tra 4-5 anni e farebbe diventare il Tanzania uno dei maggiori esportatori di gas naturale al mondo. Con la crisi energetica in corso, a causa della guerra in Ucraina, questo tipo di impianti diventa sempre più interessante. Attualmente il paese ha già tre giacimenti in funzione con una produzione di circa tre miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno.

Il paese è inoltre ricco di acqua. È circondato dai grandi laghi: Vittoria, Tanganika, Niassa, e percorso da grandi fiumi.

Potenzialmente è un paese con enormi possibilità agricole, a differenza del Kenya che importa derrate alimentari proprio dal vicino. Non si tratta però di un’agricoltura meccanizzata, ma svolta a livello famigliare, artigianale.

Un’altra risorsa, poi, è rappresentata dalle bellezze naturali che alimentano una florida industria del turismo: «Il Tanzania è il più grande giardino zoologico del mondo», ricorda padre Francesco.

La popolazione

«La ricchezza maggiore del paese è la popolazione – aggiunge padre Francesco -: pacifica, tranquilla scevra da ogni tribalismo, a differenza di tanti paesi africani, come, ad esempio, Kenya, Uganda, Burundi. È un vantaggio, questo, dovuto alla lingua swahili che unisce.

Inoltre, il Tanzania ha avuto il pregio di raggiungere l’indipendenza in maniera pacifica, senza guerre civili.

I primi missionari, i benedettini, hanno insistito sullo swahili. Poi è venuto in presidente Nyerere, che ha dato un grande impulso a questa lingua, anche dal punto di vista religioso. Lui ha tradotto i quattro Vangeli in un suo swahili particolare, molto popolare.

L’aspetto negativo può essere che si sta indebolendo l’inglese, che è parlato pochissimo e male. Questo è un impoverimento. In parlamento si parla swahili, all’università di parla inglese, ma è un inglese molto povero.

Al contrario di quello che sta avvenendo in Kenya, dove lo swahili sta crescendo ed è di buon livello, in Tanzania si sta mischiando con l’inglese e altre lingue. Le lingue locali, che sono tante, non hanno peso. I giovani delle diverse etnie, parlano tutti swahili, non parlano le loro lingue. In particolare a Dar-es-Salaam, città di sei milioni di abitanti, dove non c’è tanzaniano che non vi abbia un parente».

Livello di vita

Padre Francesco ha il privilegio di poter fare il confronto di due periodi su un arco di mezzo secolo: dalla sua prima esperienza alla sua vita nel paese oggi. Ci conferma che in città la vita è molto cambiata, mentre in campagna un po’ meno.

«La prima volta sono arrivato in Tanzania nel 1973 e vi sono rimasto tre anni. Nel ‘74 lavoravo in un villaggio con un altro padre più anziano. Il giudice del luogo ci ha chiamati a osservare un processo. Al termine avevamo capito tutte le parole, ma non l’argomento. Si trattava di una violenza di un padre su una figlia, un caso nuovo per la società di allora. La parola “violentare”, in quei quattro anni non l’ho mai sentita.

Oggi, invece, il tema è all’ordine del giorno, giornali, televisione, radio. Violenza domestica e sessuale sono diffusissime».

Padre Francesco ci dice che sta avvenendo un cambiamento culturale importante, specialmente tra i giovani. Non sopportano più di stare zitti: «Io sono a contatto con ragazzi e ragazze universitari e laureati che dicono: “Non si può andare avanti così, se vedo cose che non vanno, specialmente per quanto riguarda la giustizia, non sto zitto”».

I giovani sono attratti dalla città, perché sperano di divertirsi e di acquisire una certa istruzione, se sono ammessi all’università, cosa che dipende da come si sono qualificati alle superiori. «Molti studiano informatica e marketing. Ma una volta terminati i tre anni, ci sono ragazzi e ragazze che si danno al commercio di strada, per racimolare qualcosa. Oppure fanno i mototaxi, che provocano tanti incidenti. Ma il guadagno è molto povero. Se riescono a ricavare 3-4 euro al giorno va bene. Lo fanno per sopravvivere».

C’è dunque un livello di reddito molto basso, non c’è fame, ma non c’è circolazione di denaro. Se una famiglia ha un’emergenza, cure mediche da affrontare, o andare a un funerale a molti chilometri di distanza, non ha i soldi per affrontarla. «Molto spesso le persone che lavorano con me, a metà mese mi chiedono un anticipo, perché non hanno abbastanza soldi per pagare il trasporto pubblico e venire al lavoro».

La disoccupazione, specie giovanile, è altissima. La gente si arrangia. Ma non c’è la tendenza a migrare, neppure tra i giovani.

Per chi ha un lavoro, il problema grosso sono i salari bassi. Di solito al primo maggio di ogni anno venivano aumentati, ma la presidente l’anno scorso e quest’anno non lo ha fatto. Oggi lo stipendio medio è di circa 80 euro al mese.

Ma tutti i prezzi stanno aumentando, anche a causa della guerra in Ucraina. Non se ne parla molto, ma l’influenza si vede già. Il costo della benzina e dei generi di prima necessità, come la farina, sono aumentati, anche del 70%. Così pure i mezzi di trasporto».

Alle Nazioni Unite, nella mozione di condanna dell’invasione dell’Ucraina, il Tanzania si è astenuto, mentre il Kenya ha votato contro la Russia. C’era una certa alleanza, molti studenti sono passati da Mosca.

Il Tanzania ha relazioni con la Cina sul piano economico, da sempre. Il Tanganyka (il primo nome del paese, ndr) è stato forse il primo paese che ha avuto rapporti con il gigante asiatico. Durante la guerra fredda, Nyerere ha scelto la Cina. I cinesi hanno costruito la ferrovia che collega il Tanzania con lo Zambia. Oggi la grande maggioranza dei prodotti circolanti sul mercato sono cinesi. La gente li compra perché il prezzo è basso, anche se la qualità è scadente. Ci sarebbero anche prodotti buoni: «Una tanzaniana che conosco stava per aprire un’attività commerciale ed è andata in Cina per vedere cosa importare. Mi ha poi raccontato: “In Cina mi hanno fatto una domanda: signora vuole prodotti scadenti, copie o originali? E mi hanno fatto tre prezzi”».

Bambini scomparsi

Un altro fenomeno di cui ci parla padre Bernardi è quello dei bambini che scompaiono. «Si cercano anche con annunci in chiesa. Cosa c’è dietro? Sono bambini che magari non sopportano l’ambiente famigliare. Alcuni scappano. Altri vengono rapiti, specie le ragazze di 10-15 anni.

Una mamma un giorno mi ha detto: “Mia fglia non c’è più. L’ho mandata da una zia che abita a 600 km ed è scomparsa. Potrebbe essere stata rapita, essere al servizio di una signora o del marito di questa”. La mamma voleva andare a vedere ma non aveva i soldi per pagare il viaggio».

«Quando Nyerere divenne presidente, nel 1961, disse: “Il Tanzania ha tre nemici: povertà, ignoranza, malattia”. Si sono fatti dei passi, ma oggi sono ancora i tre nemici principali. E oggi vedo un quarto nemico: la corruzione.

Io personalmente ritengo che il paese farà strada. Ero in Tanzania 50 anni fa e non c’era nulla. Oggi è cambiato, è andato avanti. Ha delle potenzialità. In quei tempi le persone qualificate erano molto poche. Nel ‘61 quando il Tanganika divenne indipendente, c’erano due studenti, uno di medicina e uno di ingegneria. La qualità però è ancora bassa».

Parliamo di terrorismo islamista, ricordando l’attentato del 1998 all’ambasciata Usa. «In Tanzania non c’è. L’unica incertezza è Zanzibar. Ci sono state, negli anni passati, alcune uccisioni, tra cui un prete, e dei ferimenti. Ma il governo centrale ha il pugno di ferro. Quando ci sono giovani sospetti vengono eliminati. È sempre stato così. Dicono che ai primi tempi di Nyerere ci siano stati due tentativi di colpi di stato, sventati dai servizi segreti, che funzionano molto bene».

La Consolata in Tanzania

«Noi missionari della Consolata abbiamo compiuto 100 anni di presenza in Tanzania (cfr. MC gennaio 2019). Arrivammo nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi furono sconfitti e i missionari tedeschi, benedettini, vennero cacciati. A mio parere abbiamo compiuto una grande opera. In particolare, di educazione scolastica: gli stessi figli di Nyerere hanno studiato da noi. Abbiamo costruito missioni con un impegno notevole. Quell’epoca è passata, ora l’Istituto è africanizzato e noi stranieri siamo una minoranza, e siamo anziani.

Oggi abbiamo un’eccellenza che è il centro di Bunju a 35 chilometri da Dar-es-Salaam (cfr. MC luglio 2020). È un centro di formazione culturale missionaria, “un centro per pensare, per far pensare i giovani”. È stato creato per dare una formazione approfondita ai giovani e ai catechisti. Questi sono la forza principale della chiesa.

Allo stesso tempo il centro raccoglie tante persone, di estrazione diversa: i luterani sono i nostri “clienti” migliori, gli anglicani, le Ong vengono a fare incontri. Lo frequentano anche i musulmani, presenti, ad esempio, nei gruppi governativi. E tutti restano molto soddisfatti.

Questo è un punto qualificante che l’Istituto ha in Tanzania oggi. Non è facile portarlo avanti, perché la formazione culturale approfondita non è un’esigenza molto avvertita. Il Tanzania è un paese dove la gente legge pochissimo. Esiste un detto: “Hai un segreto e vuoi che resti tale? Scrivilo, perché nessuno ti legge”. Questo è l’insulto peggiore che possano fare ai tanzaniani! Ma questa è anche la grande sfida: cominciare a far pensare la gente. Io leggo romanzi locali per avere un’idea della società. C’è un abisso tra quello quello che la gente vive nel quotidiano e quello che scrivono i romanzieri, i quali propongono idee anche nuove, magari critiche verso il potere, la tradizione, la cultura. Anche dal punto di vista religioso, non basta avere il rosario al collo, bisogna avere la Bibbia in mano. Leggere e pensare. Come cristiani è la Parola di Dio che deve essere il nostro libro e non i libercoli.

I vescovi tanzaniani, ogni anno, in occasione della Quaresima, scrivono una lettera. Di solito è molto bella, critica. Ma viene ignorata dagli stessi preti. Manca un senso critico verso società, politica, chiesa. Il centro di Bunju vuole preparare la gente a pensare con la propria testa. Per questo motivo abbiamo fondato la rivista Enendeni, che vuol dire Andare, l’unica a carattere missionario, anche un po’ critica. Fa fatica a diffondersi.

Abbiamo poi tante altre opere, come l’ospedale di Ikonda, l’accoglienza dei bambini abbandonati, vicino a Iringa. Ma la novità è questo centro».

Chiediamo a padre Francesco qual è il suo impegno oggi. «Sono ripartito nel 2011 dopo 38 anni a Torino nella redazione di questa rivista. Avevo 68 anni. Ho trovato questo grande paese cambiato. Per prima cosa ho fatto un patto con me stesso: per tre anni non leggere una riga di italiano, non parlarlo, ma solo swahili. E l’ho fatto. Oggi me la cavo. Il mio swahili non è quello della gente, ma più letterario, secondo le regole e la grammatica.

Dopo 11 anni a Bunju, ho preparato il mio successore alla rivista Enendeni, lavorando con lui un anno. Quindi sono andato a fare il viceparroco in una parrocchia di missione, nella parte centrale di Dar. È una zona degradata, una semi favela. Dar ha poche strade di accesso grandi, solo due. Lasci la strada principale, ti metti dentro e sono strade in terra battuta. Vicoli. Ma la gente esce vestita bene».

Marco Bello

 




Camerun. La speranza è nella scuola


A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.

Nel mio viaggio precedente sono stato a Yaoundé, la capitale, e Douala (vedi Mc 04/2020). Questa volta la mia destinazione è il villaggio di Batack nell’Ovest del paese, nella provincia di Bafang, nell’area francofona, a un’altitudine di circa 1.500 metri, in una regione montuosa dalla vegetazione lussureggiante. Andando per qualche chilometro più a Ovest mi sarei addentrato nell’area anglofona della regione, epicentro di conflitti e di violenza etnica. Visitando i villaggi, incontro molte famiglie di lingua inglese, spesso costituite solo da donne e bambini. Fuggite dalle aree di crisi, hanno trovato rifugio nelle province confinanti. Molte di queste madri mi riportano racconti di distruzione dei loro villaggi e di violenze fisiche di cui portano spesso i segni. Segni che per alcune di loro e per i loro bambini, saranno permanenti.

Cameroon – Aprile 2022 – Nord-Ovest – Batack – Bafang District

La crisi umanitaria

Nove regioni su dieci del Camerun sono colpite da crisi umanitarie ormai croniche, causate dalle violenze nel bacino del lago Ciad e nelle regioni del Nord Ovest, aggravate delle azioni di Boko Haram, e nel Sud Ovest, dove perdura il conflitto nella zona anglofona.

A complicare tutto questo si aggiunge anche la presenza, nelle regioni orientali del paese, di oltre 300mila profughi provenienti dalla Repubblica Centrafricana. Il tutto aggravato dal deficit di sviluppo strutturale e da vulnerabilità che sfidano costantemente la popolazione.

Anche la pandemia ha contribuito a complicare la situazione colpendo la popolazione con circa 120mila casi confermati e quasi due mila decessi alla fine di maggio 2022. Numeri lontani da quelli a cui siamo abituati in Europa e nel resto del mondo, ma anch’essi influenti sul peggioramento della generale condizione sanitaria del paese.

La Repubblica del Camerun è al 153° posto su 189 nella classifica dei paesi per l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (che misura, oltre al Pil, le disuguaglianze di istruzione, la speranza di vita e altri indicatori).

In questo contesto, il supporto umanitario delle Ong internazionali e, tra esse anche quelle italiane, è determinante.

Natura incontaminata e piste rosse

La difficoltà maggiore nel visitare l’area di Batack è quella degli spostamenti tra i villaggi. Una volta lasciata la strada principale, le uniche vie di comunicazione sono le piste di terra rossa che si snodano nel mezzo della vegetazione. A causa delle piogge intermittenti, queste piste diventano difficili e faticose da percorrere. I nuclei familiari vivono sparsi e isolati in quelli che si definiscono compound (pezzo di terra di proprietà di una famiglia dove sorge la casa, ndr) e quindi visitarli significa percorrere in ogni direzione tutto il versante della montagna. Muoversi con un mezzo diverso da una motocicletta è impensabile. Ringrazio Elysée, uno dei maestri della scuola elementare di Batack, che si è offerto di accompagnarmi con la sua moto.

La scuola materna di Batack

A Batack c’è una scuola materna realizzata grazie alla collaborazione tra la Ong Movimento Sviluppo e Pace e l’organizzazione locale Covideba, il Comitato per lo sviluppo del villaggio di Batack. Il progetto della scuola vuole dare una risposta concreta, anche se parziale e locale, a una situazione di necessità o, meglio, d’emergenza.

Questa situazione è causata principalmente dalla scarsa capacità del sistema scolastico nazionale di creare infrastrutture per l’istruzione e di provvedere insegnanti qualificati sul territorio. Inoltre quelli assegnati dal governo a queste aree disagiate non trovano stimoli né strumenti per  svolgere il loro lavoro.

La mancanza di scuole e di insegnanti non aiuta certo i bambini nella loro formazione, anche perché le famiglie spesso non hanno la capacità di sostenere le spese dell’istruzione a causa della povertà. I minori sono esposti all’abbandono scolastico e, di conseguenza, costretti a lavorare per aiutare la famiglia.

I matrimoni precoci, la delinquenza giovanile, il consumo di droga, la prostituzione ne sono alcune delle conseguenze.

La spesa statale per l’istruzione in Camerun è relativamente bassa rispetto ad altri paesi africani, e la situazione di conflitto degli ultimi anni ha portato alla chiusura, alla distruzione o all’abbandono di molte scuole.

Nonostante questi problemi che affliggono la vita dei piccoli camerunesi, c’è speranza. I tassi di iscrizione all’università in Camerun sono aumentati del 22% negli ultimi 20 anni e l’alfabetizzazione media degli adulti è in costante crescita. Ne è un esempio l’Università di Bafang, che ho avuto modo di visitare, nella quale grazie al supporto di alcune Ong, verranno avviati progetti di formazione e innovazione tecnologica e di sviluppo sostenibile in ambiti come agricoltura, sanità, istruzione e formazione.

Dan Romeo
www.iviaggididan.it  Camerun /1 – continua)

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Più cuore e più spazio


L’ospedale di Neisu, in Congo, si è arricchito di un reparto di cardiologia, mentre in Costa d’Avorio il centro di salute di Marandallah avrà presto una nuova farmacia e il centro di Dianra potrà contare su un reparto per il ricovero di pazienti.

Le malattie cardiovascolari (Mcv) sono la principale causa di morte sul pianeta: secondo i dati riferiti al 2019 dello studio Global burden of disease (Gbd) dell’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington (Usa). Queste patologie hanno, infatti, provocato 18,5 milioni di decessi su un totale mondiale di 56,5 milioni, un decesso su tre. Si tratta di cardiopatie ischemiche nella metà dei casi, di ictus in un caso su tre e di altre patologie nel restante 17% dei casi. Oltre l’80% di queste morti avvengono in paesi a basso e medio reddito.

Il paese numericamente più colpito è la Cina, con oltre 4,5 milioni di decessi, che rappresentano però il 43% del totale dei decessi nel paese. Ad avere il primato in termini percentuali è l’Ucraina, le cui 449mila morti causate da malattie cardiovascolari sono il 64% del totale nazionale@.

In Africa subsahariana, nel 2019 le morti per Mcv sono state un milione, quasi raddoppiate rispetto alle 564mila del 1990. Anche a livello globale si è verificato un aumento, ma è pari a circa il 50%, dai 12 milioni del 1990 a 18,5 milioni attuali, mentre nell’Unione europea vi è stata una lieve diminuzione, passando da 2,3 milioni a due.

Un rapporto pubblicato nel 2014 dall’Organizzazione mondiale della sanità sottolineava come una delle cause dell’aumento di queste patologie in Africa subsahariana fosse l’invecchiamento della popolazione. La regione aveva anche la più alta prevalenza – cioè persone malate sul totale della popolazione – di ipertensione al mondo: 38,1% tra i maschi, 35,5% tra le femmine con alcuni paesi – Capo Verde, Mozambico, Niger, São Tomé e Principe – che riportavano tassi di prevalenza del 50% o superiori.

C’erano circa 80 milioni di adulti con ipertensione nell’Africa sub-sahariana nel 2000, si legge ancora nel rapporto, e le proiezioni del 2014 suggerivano che questa cifra salirà a 150 milioni entro il 2025. Fra le cause che il rapporto indicava, vi era la frequente assunzione di sale a dosi elevate: il sale viene infatti utilizzato per conservare gli alimenti ma anche aggiunto per rendere più gustosi i cibi@.

La situazione in Congo

Nel 2019 in Repubblica democratica del Congo sono morte 564mila persone, di cui quasi 90mila – il 16% – per malattie cardiovascolari. Per 31mila e settecento persone – circa una su tre – si è trattato di cardiopatie ischemiche e 33mila – di nuovo un terzo – sono state colpite da ictus, mentre delle restanti 25mila, oltre la metà è deceduta a causa di una cardiopatia ipertensiva.

Vale per la Rd Congo la stessa tendenza segnalata sopra per l’Africa subsahariana: le morti da malattie cardiovascolari sono raddoppiate, da poco più di 45mila del 1990 alle attuali 90mila.

A complicare le cose vi è la scarsa disponibilità di personale sanitario nel paese che conta 30.768 medici generalisti e 778 specialisti per una popolazione di quasi 90 milioni di persone, un rapporto di 0,4 medici ogni mille abitanti, che sale a 1,5 ogni mille se si considera anche il personale infermieristico@. Per avere un termine di paragone, secondo i dati Istat più recenti, del 2019, in Italia il rapporto è di 4 medici ogni mille abitanti considerando generalisti e specialisti insieme, e sale a 10 ogni mille abitanti se si aggiunge il personale infermieristico@.

All’ospedale Notre Dame della Consolata (Hndc) che i missionari Imc gestiscono a Neisu, provincia dell’Alto Uélé, Nordest della Rd Congo, nel 2020 le malattie cardiovascolari sono state la causa di otto su 49 decessi (16%) fra i ricoverati in terapia intensiva, sette per insufficienza cardiaca e uno per ipertensione, mentre in medicina generale 20 delle 39 morti (51%) sono state causate da insufficienza cardiaca.

Quanto ai ricoverati, sui 908 ricoveri in medicina interna, 193 avevano patologie cardiovascolari – circa un paziente su cinque – nella maggior parte dei casi (174) un’insufficienza cardiaca, mentre in terapia intensiva, su 309 ammessi, 32 avevano una Mcv, circa uno su dieci. In 29 casi si trattava ancora una volta di insufficienza cardiaca.

Un reparto cardiologia per Neisu

L’ospedale Notre Dame de la Consolata di Neisu è nato all’inizio degli anni Ottanta come dispensario, per iniziativa di padre Oscar Goapper, medico e missionario poi scomparso nel 1999. Oggi la struttura sanitaria consiste di un ospedale centrale e 12 centri periferici, di cui il più lontano si trova a 55 chilometri dalla struttura centrale, in una zona che può richiedere un’intera giornata per essere raggiunta perché le strade non sono asfaltate e spesso sono dissestate: durante la stagione delle piogge, infatti, acqua e fango le rendono impraticabili.

L’ospedale ha oggi 210 posti letto e il personale è composto da 5 medici generalisti, 46 infermieri all’ospedale più 11 nei centri periferici, e 32 dipendenti tra impiegati dell’amministrazione, inservienti e addetti alla manutenzione. Nel 2021 i parti sono stati 599 e le visite esterne quasi 6.200.

La struttura, fino a pochi mesi fa, non disponeva di un reparto di cardiologia, né poteva riferire i pazienti ai centri sanitari del capoluogo provinciale, Isiro, non solo per le distanze, ma soprattutto perché nemmeno in città esisteva un reparto in cui assistere le persone con Mcv. «Ricoveriamo i malati in medicina interna o terapia intensiva», spiegava Ivo Lazzaroni, missionario laico responsabile dell’ospedale, «causando loro ulteriore stress e disagio alla vista di altri ammalati in condizioni difficili o, a volte, già in stato terminale. Era chiaro che serviva un nuovo padiglione solo per malati cardiaci, dove potessero essere loro garantite cure adeguate e riposo. Per questo abbiamo pensato di costruire un reparto con due stanze da dieci posti letto l’una, un ambulatorio e due stanze private con toilette».

Grazie alla generosità di diversi donatori privati e aziende, i lavori strutturali sono iniziati nella primavera del 2021 e si sono conclusi nei primi mesi di quest’anno, mentre è ora in corso l’acquisto di equipaggiamento, attrezzature e arredamento: ecografo o ecodoppler, letti e altro mobilio essenziale. Era inoltre necessario formare il personale sanitario in modo che si specializzasse sulle Mcv: grazie a un’altra donazione privata è stato possibile inviare la dottoressa Michèline e le infermiere Mariamo e Marie Noelle a Kinshasa, capitale del paese, a frequentare un corso di formazione di tre mesi.

Costa d’Avorio: piccoli centri, grandi servizi

In Costa d’Avorio i Missionari della Consolata gestiscono due centri sanitari nel Nord del paese: il Centre de santé Joseph Allamano (Csja) a Dianra e il Centre de santé Notre Dame de la Consolata (Csndc) a Marandallah.

A Dianra, ai servizi già presenti – dispensario, maternità, farmacia, laboratorio analisi – si sono aggiunti a partire dal 2019 un servizio odontoiatrico, un programma nutrizionale e un servizio di accompagnamento alle persone affette da patologie mentali. Grazie al sostegno di un donatore privato, si è poi avviato il servizio trasfusioni, con l’installazione di un frigo per la banca del sangue, portato avanti nel quadro della fruttuosa collaborazione con le autorità sanitarie locali.

Il servizio trasfusioni, rivolto specialmente a bambini affetti da anemia grave, ha ricevuto più richieste di quanto il responsabile del Csja, padre Matteo Pettinari, si aspettasse, e il numero di posti a disposizione nelle sale degenza si è presto rivelato troppo basso. Padre Matteo ha aggiunto materassi posati al suolo nelle sale degenza, ma è stato subito chiaro che non poteva trattarsi di una soluzione né sufficiente né definitiva. Per questo si sta ora completando la costruzione di un’ulteriore sala per l’ospedalizzazione, che permetterà di accogliere in spazi adeguati i pazienti che necessitano di una trasfusione tenendoli separati da quelli ospedalizzati.

Un altro intervento in corso a Dianra è quello della messa a norma del centro come richiesto dalle autorità sanitarie locali: si sta dunque provvedendo a tinteggiare o piastrellare le sale di visita e attesa, a dotare il centro di pattumiere a pedale, a sostituire le tende di stoffa con altre di un materiale plastificato per poterle più facilmente disinfettare e altri accorgimenti di questo tipo.

Presso il centro di salute di Marandallah, invece, grazie a diverse donazioni di privati e aziende, si sta procedendo alla costruzione di una farmacia più grande, poiché quella attuale – spiegava a inizio 2021 il responsabile padre Alex Likono – non aveva più spazio sufficiente né per lo stoccaggio dei medicinali né per permettere al personale di muoversi in modo agevole e trovare con rapidità i farmaci. Si stanno inoltre acquistando e installando ventilatori in ogni reparto – durante la stagione più calda, in questa zona della Costa d’Avorio si arriva a temperature intorno ai 40° – in modo da garantire una degenza il più possibile confortevole ai pazienti e un ambiente di lavoro gradevole al personale.

Chiara Giovetti


I numeri degli ospedali e dei centri sanitari:

Anno 2021                         consulti       parti         posti letto       personale

Hndc Neisu                       6.191            599          210                  94

Csja Dianra                       3.850           175           8                      25

Csndc Marandallah          3.286          91             18                     25


Vaccino malaria, a che punto siamo

Lo scorso aprile l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) riportava che era arrivato a un milione il numero di bambini fra Kenya, Malawi e Ghana che avevano ricevuto una o più dosi di RTS,S (noto come Mosquirix), il vaccino attivo contro il Plasmodium falciparum, il più letale dei parassiti che causano la malaria e quello più diffuso in Africa. Il vaccino non offre protezione contro il Plasmodium vivax, parassita diffuso invece in molti paesi non africani. L’efficacia del vaccino era stata confermata nello studio di fase 3 della sperimentazione clinica, avvenuta fra il 2014 e il 2019: tra i bambini di età compresa tra 5 e 17 mesi che hanno ricevuto tre dosi di RTS,S somministrate a intervalli di un mese, seguite da una quarta dose 18 mesi dopo, il vaccino ha ridotto la malaria del 39%, cioè l’aveva prevenuta in quasi quattro casi su dieci. Le quattro dosi hanno anche ridotto del 31,5% la malaria grave in questa fascia di età, riducendo i ricoveri e la necessità di trasfusioni di sangue. Tra i bambini che all’età di 5-17 mesi hanno ricevuto le prime tre dosi senza poi ricevere la quarta, il beneficio protettivo contro la malaria grave è andato perso, evidenziando l’importanza della quarta dose.
Tra i bambini più piccoli, invece, il vaccino contro la malaria non ha funzionato abbastanza bene da giustificarne l’ulteriore utilizzo in questa fascia di età.
Il programma vaccinale pilota è stato lanciato nell’aprile 2019 e si prevede finisca nel 2023: allora saranno disponibili i dati più consolidati sulla fattibilità della somministrazione, sul ruolo del vaccino nel ridurre le morti e sulla sua sicurezza nell’uso di routine. Questi risultati, spiega l’Oms, informeranno le future decisioni circa la possibilità di somministrazione su larga scala@.

Chi.Gi.




Il Padre mio è differente


Photo by Jason Leung on Unsplash

Non manda al massacro i suoi figli contro l’aggressore perché difendano la sua casa.
Si presenta egli stesso, inerme, di fronte all’uomo imbestialito. Per riportarlo a umanità. Ben sapendo che il suo intento, in gran parte, fallirà. In gran parte, ma non in tutto.
Perché, se la sua casa è assaltata e devastata, la vera casa dei suoi figli è l’umanità stessa. E non c’è umanità che possa rimanere tale mentre organizza e mette in atto la morte dell’avversario, sia pure egli l’aggressore.

La Madre mia è differente. Non usa mai la parola vittoria, a meno che non sia vittoria sulla morte. Accoglie anche chi vuole toglierle la vita e i figli dal grembo. D’altro canto, se togliesse lei stessa la vita a chi la minaccia, toglierebbe anche il respiro ai propri figli.

Lei suggerisce che il prezzo della sua vita non può essere la vita di nessun altro. Di nessun altro. Che la vita è abbondanza traboccante, non tesoro da chiudere in un forziere in fondo a un bunker. Quel bunker, dopo la battaglia, facilmente rimarrebbe seppellito sotto le macerie e il suo fragile contenuto verrebbe scordato.

Mio fratello è differente. Non mi mostra tecniche per eliminare il nemico, mi mostra come disarmarlo a mani nude, aprendole, offrendo ciò di cui l’altro ha bisogno, donando la sua vita per farselo fratello.

Mio fratello sa che, facendo così, finirà in croce, ma sa anche che è l’unico modo per salvare l’altro, per salvare tutti, perché non sia la morte a mangiarsi la vita, ma la vita a digerire la morte. Perché se vuoi conservare la tua vita, la perderai, ma se perderai la tua vita per amore, allora non morirai in eterno.
Morirai. Ma non in eterno.

Quanta vita, quante vite, salva ogni fratello che rifiuta la logica della mors tua vita mea, quella del vinca il più forte, il più grosso, il più scaltro, il più ricco, il più armato.

Ogni atto di disarmo è un atto di libertà, è una porta che si apre in un vicolo che pare cieco.

Buoni esercizi di umanità anche durante l’estate, da amico
Luca Lorusso

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Fratelli di guerra


Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.

Dialoghi e Vangelo

Mentre scriviamo sono trascorse già diverse settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina e anche il mondo dell’editoria, com’è normale, fa i conti con la guerra in Europa, con l’indicibile che bussa alle nostre porte.

Vita e Pensiero, la casa editrice dell’Università Cattolica, promuovendo l’uscita dell’ultimo libro di Johnny Dotti e Mario
Aldegani, imprenditore sociale il primo, sacerdote murialdino il secondo, lo presenta così: «Mandiamo in stampa il volume in quest’alba in chiaroscuro del nuovo millennio, quando bagliori e furori di guerra incredibilmente insanguinano di nuovo l’Europa e minacciano il mondo. Ancora una volta il conflitto, dimensione naturale di ogni relazione umana e sociale, diventa automaticamente violenza e guerra a dimostrazione dell’incapacità di dialogare anche dell’umanità del XXI secolo».

Il libro s’intitola Che cosa cercate? Dialoghi e Vangelo, e passa in rassegna i dialoghi di Gesù, o con Gesù, da cui nascono spunti di orientamento di natura politica, spirituale ed economica.

Il libro, uscito alla vigilia di Pasqua del 2022, si è trovato immerso nella contemporaneità.

Scrivono gli autori: «Il dialogo è una scienza e un’arte. Una scienza perché coinvolge la possibilità di approfondire con un altro o con altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni, come anche di condividere le nostre incertezze; la scienza del conversare, nell’Occidente, è diventata principalmente dialettica, a partire dal mondo greco sino ai nostri giorni. Il dialogo, però, è anche un’arte. Non è solo l’incontro di due pensieri, ma di due persone. Non è solo lo scambio tra due intelligenze, ma tra due anime, tra due cuori».

Il percorso di analisi prosegue e focalizza bene il vulnus che stiamo vivendo: in nome della dignità umana, agiamo fino alle estreme conseguenze, avendo come unico risultato la negazione di quella dignità alla quale diciamo di voler finalizzare le nostre azioni.

«Noi, esseri viventi che siamo “mancanza d’essere”, esistiamo perché coesistiamo, perché dialoghiamo. Il dialogo, quindi, ci pare l’orizzonte più concreto per dare forma all’affermazione tanto sbandierata sulla centralità della dignità umana, perché impegna, cioè dà in pegno la nostra parola e ingaggia la nostra presenza; ci riconosce e ci fa riconoscere nel tu per tu come nella manifestazione più alta della nostra dignità e della nostra gioia di vivere».

C’è di che riflettere, e molto, in un momento nel quale la parola e il pensiero sono negati dal rumore dei cingoli dei carri armati e dallo strazio dei civili travolti dalla tragedia della guerra.

Prove di fraternità

Altri spunti di riflessione ce li offre don Luigi Maria Epicoco, il giovane sacerdote brindisino che si è ritagliato con merito un ruolo nell’empireo degli «influencer» del mondo ecclesiale.

In marzo è uscito il suo ultimo libro In principio erano fratelli con Tau editrice.

Il punto di partenza dell’analisi di don Epicoco è il conflitto che alberga in ciascuno di noi, letto partendo dalla Bibbia.

Caino e Abele, i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Poi Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i fratelli.

Scrive l’editore umbro presentando il volume: «Tutto il racconto della Genesi è abbracciato da una grande parentesi di fraternità fallite. La Bibbia mette queste vicende proprio all’inizio perché nella parte più profonda dell’uomo è sedimentata una ferita, un fallimento, un anello debole, non la capacità ideale di essere in relazione e in comunione. C’è una parte di noi che va presa in considerazione, offerta a Dio e redenta, affinché non diventi famelica e omicida. Soltanto questo farà di noi persone libere e capaci di amarsi. Figli (quindi fratelli) e non servi».

Pensando a quanta difficoltà ha la chiesa ortodossa russa nel denunciare la follia dell’uso delle armi, queste parole risuonano fortissime.

E lo stesso Epicoco aggiunge: «Viviamo in un tempo in cui si sente spesso parlare di fraternità, e questo può risultare davvero controcorrente in un’epoca come la nostra, dominata da un potente individualismo alimentato dalla cultura contemporanea. Nel mondo degli individualisti non esistono fratelli, ma solo figli unici».

Un mondo di figli unici: un’immagine forte, che rende bene il contesto che stiamo vivendo.

Kiev

Il contesto della guerra, quella attuale, lo ha descritto bene l’inviato speciale di «Avvenire», Nello Scavo, che per Garzanti ha scritto Kiev, un vero e proprio diario dei primissimi giorni di guerra.

Nello Scavo, esperto inviato di guerra, raggiunge la capitale ucraina a metà febbraio 2022, quando la minaccia di un attacco russo si fa sempre più insistente, ma ancora in pochi credono possibile l’invasione.

Da quel momento, il giornalista registra senza censure il rapido tracollo di una situazione che si fa sempre più pericolosa: la dichiarazione dello stato di emergenza, il trasferimento delle ambasciate, e poi le esplosioni, le colonne di carri armati, il disperato esodo dalle città.

Giorno dopo giorno Nello Scavo descrive i movimenti delle truppe russe e la resistenza degli ucraini; approfondisce le conseguenze politiche ed economiche dei combattimenti; svela le ragioni ideologiche alla base delle decisioni dei leader.

Allo stesso tempo non dimentica la dimensione umana del dramma in corso, raccogliendo le testimonianze dirette di chi da un momento all’altro ha dovuto abbandonare la casa, ha perso la famiglia, ha scelto di imbracciare un fucile.

«Kiev» è un diario personale dal conflitto nel cuore dell’Europa, scritto sul campo da un giornalista chiaro nello spiegare le ragioni di quanti la guerra la decidono, ma soprattutto capace di dare voce a coloro che questa tragedia sono costretti a subirla.

Il suo scritto è prezioso.

«Non esistono parole giuste per raccontare la guerra – sostiene -. Ma di certo esiste il modo migliore: in presa diretta».

Questa guerra è la prima che vede i social network e l’hackeraggio informatico schierati sui due fronti e usati come arma.

Se l’informazione ufficiale è poco attendibile, e lo è, non rimane che ascoltare la voce dei testimoni. Sono loro gli unici in grado di restituirci la realtà del momento, a raccontare il qui e ora senza possibilità di fraintendimenti.

Sante Altizio


Libro Emi del mese:

 




Sommario MC luglio 2022


Questo numero di luglio di MC è disponibile online dal 16 luglio 2022

Editoriale

Dossier

Articoli

Rubriche

Amico

 

Editoriale

Sussurrare

Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro
che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.

Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».

Dossier

Cambogia 1985-2022, nulla di nuovo al potere
Ancora pochi sorrisi per i Khmer

Dispotismo (per il bene del popolo)

La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico
cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.

 

Articoli

Murale per la visita di papa Francesco a Baghdad (2021). Foto Angelo Calianno.

Iraq. La situazione dei cristiani – Una fuga che non si arresta

Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.

 

Antropologi forensi al lavoro in una zona di scavo. Foto Ugo Zamburru.

Messico. «Desaparecidos» e «buscadores» – Per un nome, un volto, una storia

Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.

 

La scultura “Non-Violence” o “La pistola annodata” dell’artista svedese Carl Fredrik Reutersward.

50 anni dall’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza – Tu non uccidere

L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.

 

 

(Photo by Sam Yeh / AFP)

Taiwan. Se la guerra in Ucraina influenza le tensioni tra Pechino e Taipei – Vento europeo sullo stretto

La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?

 


Tanzania. Conversazione con padre Bernardi, missionario e giornalista – Tutte le sfide della presidente

Una nuova presidenza dettata dall’emergenza. In un paese ricco, nel quale però la gente fatica a vivere. Un popolo pacifico con una lingua che lo unisce. Ma cosa è cambiato negli ultimi 50 anni? E quali sono le sue potenzialità oggi?

 

Rubriche

Noi e Voi

Dialogo lettori e missionari.

  • Di Ucraina.
  • Un Cammino di libertà.
  • Grazie Annalisa Vandelli.
  • Monsignor Giorgio Marengo cardinale

 

Criptovalute, il denaro invisibile

Alcuni tipi di criptovalute. Foto WorldSpectrum – Pixabay.

Create dai computer, circolanti soltanto via internet, figlie della tecnologia: sono le criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Litecoin, ecc.), la nuova forma del denaro. Un denaro elettronico che circola senza intermediazione bancaria,
ma che non si salva né dall’economia illegal né dalla speculazione.

 

 

Un Dio amuleto (Es 32)

L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.

Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.

Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.

I Viaggi di Dan. Camerun. Conflitti, povertà e crisi umanitaria

– La speranza è nella scuola

A distanza di tre anni sono ritornato nel paese per documentare una risposta di pace a una situazione di guerra le cui prime vittime sono i bambini. Anche solo una scuola materna diventa segno di speranza in un futuro migliore.

 

 

Coopera.

Più cuore e più spazio

L’ospedale di Neisu, in Congo, si è arricchito di un reparto di cardiologia, mentre in Costa d’Avorio il centro di salute di Marandallah avrà presto una nuova farmacia e il centro di Dianra potrà contare su un reparto per il ricovero di pazienti.

 

Amico

Photo by Jason Leung on Unsplash

Il Padre mio è differente.

Non manda al massacro i suoi figli contro l’aggressore perché difendano la sua casa. Si presenta egli stesso, inerme, di fronte all’uomo imbestialito. Per riportarlo a umanità. Ben sapendo che il suo intento, in gran parte, fallirà. In gran parte, ma non in tutto.
Perché, se la sua casa è assaltata e devastata, la vera casa dei suoi figli è l’umanità stessa. E non c’è umanità che possa rimanere tale mentre organizza e mette in atto la morte dell’avversario, sia pure egli l’aggressore.

 

Librarsi. Tre libri per parlare di conflitto, dialogo, fraternità e guerra – Fratelli di guerra

Un libro sul conflitto e sul dialogo, prendendo spunto dagli incontri di Gesù descritti dai Vangeli. Un secondo libro sulla fraternità, partendo dalle storie di fratelli raccontate nella Bibbia. Con l’auspicio di fare diversamente. Un terzo libro sulla città di Kiev dove sia il dialogo che la fraternità si sono interrotti con la violenza.