Nella città di Borodjanka nella periferia di Kiev, c’è un piccolo balcone di un appartamento appena ristrutturato di colore verde all’ultimo piano di un edificio. Lo si nota perché il resto del palazzo che lo comprende è semidistrutto a causa dei pesanti bombardamenti avvenuti qui pochi mesi fa. Il balcone si fa notare come l’unica cosa normale attorno alla quale c’è solo distruzione. Questa immagine mi ha accompagnato durante il viaggio che ho compiuto nel centro dell’Ucraina per qualche giorno.
Ho condiviso il viaggio con un sacerdote polacco, don Leszek Kryza, (profondo conoscitore del paese), con una sua giovane collaboratrice Rika, nata in Ucraina ma scappata anni fa a motivo della guerra, e con sr. Lucina, che lavora in Ucraina da più di 30 anni e che, trovandosi in Polonia, ha approfittato del nostro viaggio per tornare là dove lavora. Il nostro obiettivo era quello di portare degli aiuti economici oltre a tutto quello che potevano caricare nell’ampio bagaglio della macchina, cibo, medicine, ecc. e anche incontrare testimoni sul luogo e visitare luoghi colpiti dalla guerra.
Un viaggio di questo tipo richiede una grande elasticità nel fare i programmi, sempre pronti ai cambiamenti motivati dalle situazioni che possono improvvisamente presentarsi. In questi giorni di luglio il conflitto sta continuando in tutta la parte Est del paese e parte del Sud. Tuttavia, nel resto del paese dove si è combattuto prima, rimangono segni evidenti del conflitto, come edifici distrutti, macchine bruciate, mezzi militari abbandonati…
I check point sono un po’ dappertutto, soprattutto all’ingresso di ogni città dell’intero paese. Giovani militari osservano con attenzione ogni macchina che passa, talvolta chiedendo i documenti e controllando ciò che si trasporta.
A Kiev
L’impressione a Kiev è che la gente provi a ritornare a una normalità di vita tanto desiderata. Incontrando l’ambasciatore italiano, Pier Francesco Zazo, e quello polacco nelle rispettive ambasciate ascoltiamo i loro racconti. La popolazione di Kiev, stimata attorno a quattro milioni di abitanti, si è dimezzata a causa della guerra. Tuttavia, c’è un continuo arrivo di profughi dai luoghi dove avvengono i bombardamenti. Grande è l’impegno della Polonia e dell’Italia nel portare aiuti e nell’accogliere i profughi. Quello che noi facciamo come missionari è una piccola parte di tutta questa grandissima macchina della solidarietà che non deve fermarsi.
I negozi della città sono aperti, i mezzi pubblici viaggiano regolarmente, da poche settimane anche il carburante si può trovare nei distributori, pur potendone comprare con dei limiti. Verso il tardo pomeriggio la città va come spegnendosi. Infatti, durante la notte è in vigore il coprifuoco con il divieto assoluto di circolazione e di uscita dalle abitazioni; tutti devono stare nelle proprie case. La disobbedienza a questo può essere pericolosa per i trasgressori. Solo una notte ha suonato la sirena di allarme senza tuttavia nessuna conseguenza.
Diversi sono stati gli incontri con persone impegnate sul posto nella distribuzione degli aiuti umanitari. Qui i padri Oblati di Maria che sono i responsabili della Caritas a Kiev, hanno organizzato tra le tante cose una distribuzione del pane cucinato da loro stessi per i poveri senza tetto. Anche noi ci rechiamo a distribuire, lasciando anche aiuti per l’acquisto di un forno un po’ più grande che dovrebbe aumentare la quantità del pane prodotto. Lo stesso pane è distribuito anche dalle suore di Madre Teresa di Calcutta che visitiamo nella loro casa.
Incontri nel seminario
Nel seminario di Kiev incontriamo don Wojciech, direttore della Caritas a Charchów, la seconda città per grandezza a pochissimi chilometri dal confine con la Russia. La situazione là è ancora molto difficile. Da mesi si combatte senza sosta e ogni giorno si contano vittime anche e soprattutto tra i civili, tra questi anziani, giovani e bambini. Là beni come il cibo e i medicinali che arrivano con gli aiuti sono essenziali per la sopravvivenza di molte persone. Si guarda con preoccupazione al prossimo futuro, perché l’estate è breve e già con l’arrivo dell’autunno e poi dell’inverno la situazione, dal punto di vista umanitario, sarà ancora più difficile. A don Wojciech diamo una cospicua somma raccolta dai benefattori per provvedere alle emergenze sul posto.
Anche nel bel seminario diocesano di Kiev sono avvenuti a marzo esplosioni e saccheggi. L’edificio che si trova in una zona periferica della città è stato prima colpito da colpi di mortaio e poi occupato dai soldati russi che vi hanno qui abitato per una settimana, per poi abbandonarlo dopo averlo saccheggiato. I racconti che ascoltiamo dal padre spirituale Igor e dal vescovo Vitaliy Krivitskiy ci fanno capire bene cosa qui è successo. Durante lo scoppio del colpo di mortaio avvenuto nel cortile, le schegge hanno colpito l’edificio. Una di esse è passata dal vetro di una finestra e ha colpito una piccola statua della Madonna collocata su un tavolo. La testa della statua si è staccata. Tuttavia, esattamente una settimana dopo l’affidamento che tutta la chiesa ha fatto a Maria Santissima nel mese di marzo, tutti i soldati russi non solo hanno lasciato il seminario ma anche abbandonato il tentativo di invadere la città di Kiev, lì a due passi, ritirandosi a Nord. Da quel momento il seminario è diventato è un centro di distribuzione di aiuti per le famiglie locali.
Bucha
Dal seminario ci rechiamo lì vicino nella cittadina di Bucha tristemente famosa per il numero di civili uccisi, oltre 400. Incontriamo don Andrea un sacerdote ortodosso che vive nella chiesa dove sono state fatte le fosse comuni per seppellire inizialmente i defunti. Qui venne in visita a marzo anche il presidente dell’Unione europea Ursula Von der Leyer con il presidente Zelenski. Don Andrea ci spiega dettagliamene la cronaca di quei giorni mostrandoci anche filmati dal suo cellulare. Ha anche allestito una mostra fotografica all’interno della chiesa sulle atrocità qui commesse. L’esercito russo dopo aver per settimane provato a entrare a Kiev, non riuscendoci, aveva distrutto tutto quello che ha potuto, uccidendo in particolare i civili, per poi ritirarsi. Ci fermiamo a pregare in questo luogo.
Ancora a Kiev
La visita è stata anche un’occasione per conoscere la città di Kiev che mostra sia le decine di luccicanti cupole dorate delle chiese ortodosse che la famosa piazza di Maidan simbolo della resistenza ucraina nel cuore della città. Era il 2014 quando qui scoppio la rivolta arancione per protestare contro l’inizio del conflitto che ancora oggi continua. Lì vicino incontriamo il giovane Vescovo di Kiev, Vitaliy. Anche lui ci racconta quello che è avvenuto vicino alla cattedrale cattolica di san Alessandro, luogo di preghiera ma anche di rifugio per tantissime persone in cerca di riparo.
I mass media sono molto importanti non solo per l’informazione ma anche per raggiungere con la preghiera e la catechesi tante persone. Siamo stati invitati nella sede di Radio Maria Ucraina dove abbiamo commentato il Vangelo del giorno e poi celebrato la Messa. Qui lavora suor Lucina che ci ha anche ospitato nella sua comunità nel centro della città.
Rientro carico di memorie
Il viaggio di ritorno è stato impegnativo sia per la fatica sia per la pazienza che abbiamo dovuto dimostrare. Il viaggio ha richiesto più di 21 ore, di queste ben 10 trascorse alla frontiera. Le numerose macchine e i rigidi controlli ci hanno veramente sfiancato, ma tutto è andato bene e siamo tornati a Varsavia stanchi ma con una profonda consapevolezza di avere avuto il privilegio di ascoltare testimoni, di vedere luoghi e di portare in po’ di aiuto e di consolazione. Portiamo con noi non solo le immagini e i racconti della guerra, ma anche l’immagine degli sconfinati campi di girasole e di grano turco che ci hanno accompagnato durante il lungo viaggio. La bellissima giornata di sole ha fatto brillare gli sconfinati campi gialli di girasole e di frumento che con lo sfondo del cielo azzurro sono la base dei colori della bandiera ucraina.
Vorrei tornare qui a quel balcone della città di Borodjanka ristrutturato e di colore verde come la speranza: è il simbolo della ricostruzione che già inizia. In mezzo ai continui segnali di guerra e distruzioni che provocano sofferenza e ingiustizia, quel piccolo balcone verde è un segno visibile di una ricostruzione che già deve iniziare, simbolo di una ricostruzione ancora più profonda che deve avvenire nel cuore degli uomini, cuori feriti dall’orrore della guerra. Il balcone e all’ultimo piano dell’edificio, e per raggiungerlo occorre salire in alto… questa salita è un invito a salire e a rivolgere lo sguardo verso Colui che abita più alto ancora nei cieli, per invocare il dono della pace e chiedere umilmente perdono per la stupidità umana. Preghiamo per la pace, costruiamo la pace.
padre Luca Bovio imc
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Sussurrare
Il 10 luglio la piccola Chiesa cattolica in Mongolia compirà trent’anni. È la data in cui è «rinata» in quel paese dove pure il cristianesimo era arrivato oltre un millennio fa. È una Chiesa piccola, quella mongola, neanche 1.500 cattolici e due preti nativi, ma è giovane e bella e piena di speranza e vitalità. In più, proprio in questi giorni, ha ricevuto un dono inaspettato: il suo vescovo, monsignor Giorgio Marengo, missionario della Consolata, compare nella lista di coloro che verranno nominati cardinali nel prossimo Concistoro del 27 agosto. Sarà il più giovane.
Quella mongola è una Chiesa di periferia che «sussurra il Vangelo al cuore dell’Asia», come scriveva padre Giorgio nel giugno 2018 su MC. «La missione sta nel mettere in comunicazione il “cuore” con il Vangelo e nell’innescare quel delicato processo di dialogo e crescita nel quale nessuno dei due interlocutori rimane indifferente all’altro. Ecco perché vorrei parlare della missione come di un “sussurrare il Vangelo al cuore dell’Asia”, prendendo in prestito l’espressione usata al sinodo per l’Asia del 1999 da Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati (India): perché ritengo che per parlare del mistero di quest’incontro, sia più efficace un’espressione evocativa, un’immagine, piuttosto che una teoria o un “paradigma” missionario».
E continuava: «Il verbo “sussurrare” allude a una relazione. Nel nostro caso, una relazione con Dio ricevuta come dono e coltivata come scelta d’intimità, preghiera, dialogo vitale. Noi missionari siamo chiamati a sussurrare al cuore di Dio e a lasciare che Colui che ci manda a essere sue epifanie presso i popoli asiatici sussurri al nostro cuore. Siamo chiamati a metterci in relazione con le persone alle quali siamo inviati, alla vicinanza, all’immersione nel loro mondo.
Due persone si sussurrano a vicenda qualcosa solo quando sono in confidenza. Non si sussurra all’orecchio del primo che capita. E quello che si comunica nel sussurro è qualcosa di profondo, di vitale, che esige un certo pudore, un’aura di mistero, oltre che di rispetto».
Sussurrare non è una strategia, né una tattica, ma un modo di essere e di relazionarsi con gli altri. Richiede confidenza, rispetto, familiarità, fiducia. È vicinanza e intimità. Per questo, forse, può diventare un verbo di grande rilevanza oggi, quando invece i messaggi, se messaggi sono, vengono urlati, imposti, lanciati come bombe. Più «urlati» sono, più like ricevono, più visualizzazioni contano, più «veri» appaiono per chi li riceve. Senza lasciare spazio per la riflessione, l’approfondimento e il confronto.
Sussurrare diventa anche una sfida per quei politici che lanciano slogan per dire tutto e il contrario di tutto con l’occhio agli indici di ascolto e ai consensi elettorali. È una provocazione per i grandi della terra che pensano di comunicare con quindici metri di tavolo tra loro o di conquistare il mondo a suon di cannonate.
Papa Francesco, quando parla di una «Chiesa in uscita», dimostra di avere a cuore la sfida del «sussurrare il Vangelo». Non più una chiesa di potere, ma una «famiglia». Una vera «parrocchia» (che etimologicamente vuol dire «vicinato»), cioè comunità di vicini, i quali si parlano, si ascoltano, si incontrano, hanno cura gli uni degli altri e dell’ambiente. Persone che reagiscono al terribile anonimato della nostra società che mette gli uni contro gli altri nello stesso palazzo, che isola le famiglie, che proibisce ai bambini di giocare nel cortile – se mai c’è – e costringe a far festa con amici e famigliari nei ristoranti o nei centri commerciali, perché l’appartamento è troppo piccolo per accogliere tutti e, soprattutto, si rischia di disturbare. Una società che non permette più nemmeno di piangere i propri cari nell’intimo della casa, e incoraggia invece ad affidarsi alle efficentissime (e falsamente personalizzate) «case del commiato» che offrono, tutto incluso, anche il servizio religioso.
La logica del sussurro contesta il rumore, l’esibizione, la pubblicità, la fretta. Ama il silenzio, l’incontro personale. Il sussurro non usa la forza, non fa tappare le orecchie, ma apre il cuore. È vicinanza e rispetto. Non giudica. Sussurrare è come il vento tra le foglie. È esserci senza imporsi, senza mettersi al centro, rispettando i tempi dell’altro, senza pressioni e ricatti.
Il sussurro è il modo con cui Dio ci parla, con una Parola che va al cuore. «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20)».
Noi e voi, dialogo lettori e missionari
Ucraina
Gentile redazione,
riguardo all’articolo a pag. 64 del numero di aprile 2022 vorrei sì ringraziare per aver affrontato l’argomento (non mi stupisce in realtà), ma anche far notare che l’argomentazione portata per spiegare il tentativo d’avvicinamento dell’Ucraina alla Ue sia in realtà tendenzioso. Capisco la ristrettezza degli spazi e non si può raccontare tutto in tre pagine, ma se non si dice che ai tempi del rifiuto di Janukovyc di sottoscrivere l’accordo di scambio in realtà si trattò di una scelta tra due proposte, una della Ue e Fmi (è fondamentale dirlo per capire correttamente) e l’altra della Russia, che poi lei dice non aver sborsato neanche un rublo per l’Ucraina. La scelta per la proposta russa fu spiegata dal governo ed era proprio dovuta alle richieste del Fmi… Mi stupirebbe se lei non sapesse di cosa si tratta. La proposta russa, la cui economia non è così potente come quella occidentale, puntava su un accordo con condizioni di favore. La Russia sapeva benissimo come era la situazione ucraina e non stupisce che il Fmi poi si lamentò dell’utilizzo dei fondi e credo anche che li sospese. Nell’articolo, oltre a dare per scontato il solito noiosissimo pregiudizio che la Russia sia sempre brutta e cattiva e dalla parte del torto, e che la Eu sia sempre e solo buona e il faro di ogni paese, sembra insinuare una sorta di disonestà congenita nella Russia.
Sarebbe auspicabile che nei prossimi articoli non si facesse come si fa su tutti i giornali e cioè, dicendo che c’è un aggressore e un aggredito (certo, se si guarda solo il 24 febbraio è cosi) si stabilisce a priori chi è il buono e chi è il cattivo, e ciò diventa un alibi per non analizzare tutte le vere cause di questo bruttissimo conflitto.
La Russia e la Gb-Usa (via Nato, perché la Eu purtroppo non conta nulla, soprattutto con una Von der Layen completamente supina al volere Usa), si contendono l’Ucraina da un bel po’, e se Putin ora non vuole più sentire ragioni e si siederà al tavolo di un negoziato solo quando lo riterrà conveniente, dall’altro lato abbiamo gli Usa con la Gb che vogliono solo prolungare più che si può questo conflitto. Degli interessi degli ucraini, quelli sfollati per intenderci, non interessa a nessuno, anzi forse un po’ più interessa alla Russia, non certamente agli Usa-Gb.
Cordiali saluti
Andrea Sari 17/05/2022
Caro signor Andrea, rispondo a nome della redazione che lei interpella.
Comincio sottolieando che l’articolo in questione è breve di sua natura e quindi non ha né la pretesa né lo spazio fisico per poter approfondire ogni aspetto della complicatissima situazione dell’Ucraina e neppure offrire un’analisi storica completa (fatta poi in MC 05/2022). Per questo, ad esempio, il prestito del Fmi è stato solo accennato in collegamento con l’accordo Ue del 2013, senza entrare in tutti i dettagli.
Poi vorrei far notare come non ci sia da parte nostra l’intenzione di demonizzare la Russia in quanto tale. Di fatto il testo condanna gli atteggiamenti di prepotenza da qualsiasi parte provengano e propone il superamento della logica dei blocchi, in modo da spezzare la spirale dell’inimicizia che porta inevitabilmente alla guerra. Da ultimo l’articolo reclama la pace per porre fine alle sofferenze di chi sta morendo sotto le bombe.
L’autore del testo, il nostro Francesco Gesualdi, se è partigiano, lo è dalla parte della pace, «che si prepara con la pace» non con il «para bellum».
Questa rivista, anche ospitando con libertà opinioni diverse, non intende essere spazio di scontro, ma luogo di incontro per persone che sono capaci di «piangere» (cfr. Mt 5,4) con l’umanità che soffre, sia essa nell’Ucraina devastata dalla violenza che nelle famiglie di tanti giovani russi, specialmente provenienti dalle zone più povere e remote del paese, sacrificati al moloch della guerra. Vuole essere spazio per persone che, convinte che la guerra non costruisce la pace, diventano ogni giorno costruttori di pace, attenti alle persone concrete, a ogni persona, senza applicare etichette, senza dividere il mondo in buoni e cattivi, ispirati dall’esempio del buon samaritano (cfr. Lc 10,30-37).
Un cammino di libertà
Egr. Signori,
leggo con interesse e soddisfazione, anche se non sempre concordo o capisco, la rubrica «Un cammino di libertà» e chiedo a tal proposito se l’insieme delle puntate verrà raccolto in un unico documento leggibile nel futuro in Internet. Grazie per la risposta e buon cammino.
Saverio Compostella 17/05/2022
Caro signor Saverio, sarà nostra cura raccogliere tutti i capitoli dedicati al cammino di libertà del popolo d’Israele e nostro. L’abbiamo già fatto con altri testi apparsi sulla nostra rivista, facilmente scaricabili dal nostro sito. Nel caso, se ce ne fosse richiesta, potremmo anche fare delle stampe cartacee delle stesse raccolte (costi da studiare) per chi preferisce leggere ancora su un buon vecchio libro.
Grazie, Annalisa Vandelli
Cara Annalisa,
io ti conosco solo un po’ per aver letto, tempo addietro, quanto hai scritto su padre Giuseppe Richetti (1933-1993), tuo zio e missionario della Consolata in Kenya.
Ora sei venuta alla ribalta con «Acqua in Bocca», un volume poderoso su fratel Peppino Argese (1932-2018), il missionario della Consolata che raccoglieva «le lacrime della foresta» del Nyambene (Meru, Kenya) e le incanalava in uno stupefacente acquedotto, portatore di vita per una marea di gente assetata.
Annalisa, hai composto un’opera con un protagonista «silenzioso», coadiuvato da altri personaggi di notevole spessore umano. L’ultimo è padre Daniele Giolitti, laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino proprio con una tesi sull’acquedotto del «silenzioso». Tuttavia, protagonista «ultimissima» sei tu, Annalisa, con la tua penna faconda.
A me «Acqua in Bocca» affascina perché è «un balcone spalancato sul mondo». Da tale balcone, puoi scorgere pure l’assassinio di Robert Kennedy, fratello del presidente statunitense John (anche lui ucciso), come anche il martirio della volontaria missionaria Annalena Tonelli (Somalia) e quello di padre Giuseppe Bertaina (Kenya). Inoltre, deplori la guerra americana in Vietnam. Non manca papa Francesco tra i profughi a Lampedusa.
E moltissimo altro. Per esempio, Regina, la domestica di fratel Peppino. Un giorno la donna apre la porta a tre individui che esigono dal «silenzioso» (prossimo alla morte) privilegi danarosi nella gestione dell’acquedotto nella foresta. Gli si sono presentati con il dono di alcune uova marce. Regina li caccia furiosa.
Che regina… quella Regina! Il «silenzioso» le sussurra: «Grazie, Regina. Però non avventarti contro le tenebre. Pensa piuttosto a tenere accesa la tua lampada».
«Acqua in Bocca» non è un racconto né una biografia. È una corale o un poema, un poema impregnato dalla sacralità della foresta del Nyambene. Il «silenzioso» vi «si inginocchia, perché lì c’è Dio. Questa è la sua chiesa». Ha concesso a fratel Peppino Argese di entrare, di ascoltare la sua parola appesa ai rami.
Cara Annalisa, ti ho scritto queste righe per dirti semplicemente: grazie.
padre Francesco Bernardi, missionario della Consolata in Tanzania, 26/05/2022
Padre Francesco ricorda anche Regina, che ha servito fratel Mukiri con tanta dedizione (vedi la foto del 2012 con i figli e fratel Mukiri) . Regina ora è insieme lui nelle splendide foreste del Paradiso dove il Signore l’ha chiamata il 12 maggio 2022, dopo una breve e improvvisa malattia. Aveva cinquant’anni.
Ricordo che il «poderoso» libro «Acqua in bocca, storia di fratel Peppino Argese, il silenzioso che raccoglieva le lacrime della foresta» (368 pagine di cui 48 fotografiche) è disponibile su richiesta anche all’indirizzo della rivista con contributo minimo di 15€.
Monsignor Giorgio Marengo cardinale
«Il Papa ha annunciato la creazione dei nuovi porporati: tra di essi tre capi di dicastero della Curia. Sedici gli elettori, cinque ultraottantenni. Cinque italiani, tra cui il vescovo di Como Cantoni, l’emerito di Cagliari Miglio e il professor Ghirlanda. Il più giovane con i suoi 48 anni è Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, capitale della Mongolia». (Vatican News 28/05/2022)
Missionari carissimi,
il Signore continua a benedire il nostro Istituto con il suo immenso amore.
Oggi il papa Francesco ha nominato il nostro caro monsignor Giorgio Marengo cardinale. È il primo cardinale dell’Istituto, è un dono di Dio e un riconoscimento per il nostro Istituto, è un dono del nostro amato Fondatore il beato Giuseppe Allamano.
Mi trovo a Boa Vista, precisamente all’aeroporto pronto per partire per San Paolo: ho letto la notizia nel mio cellulare che è stato riempito di messaggi e di auguri. Che bello sentire e vedere tanta vicinanza e affetto, tanta gente che ama la Consolata nei suoi figli e figlie.
Grazie a Dio non passano solo le notizie brutte di guerre e ingiustizie, ma vengono anche comunicate le notizie belle, buone e vere, quelle che riscaldano il cuore e fanno del bene.
La notizia della nomina di Giorgio è una buona notizia che fa bene a tutti: alla chiesa, al mondo, all’Istituto, all’Asia e a tutti noi. La nomina di Giorgio è per noi tutti un messaggio e un invito all’impegno, alla generosità, alla disponibilità alla volontà di Dio nella nostra vita.
È conferma che la missione non ci appartiene ma è opera di Dio e che noi siamo semplici strumenti nelle sue mani.
Che questa notizia, che questo nuovo servizio di Giorgio alla Chiesa sia per noi tutti benedizione, consolazione e ringraziamento. La Consolata benedica e accompagni Giorgio, sostenga e doni salute a sua madre e a sua sorella, doni a tutti noi più gioia nel servizio, più generosità nella missione e più speranza per il futuro.
Al caro Giorgio, nuovo cardinale, a tutti voi, coraggio e avanti in Domino!
padre Stefano Camerlengo Boa Vista, 28/05/2022
Chi è il nuovo cardinale
Monsignor Giorgio Marengo è nato il 7 giugno 1974 a Cuneo. Dal 1993 al 1995 ha studiato filosofia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale e dal 1995 al 1998 teologia nella Pontificia Università Gregoriana (Roma). Dal 2000 al 2006 ha compiuto ulteriori studi presso la Pontificia Università Urbaniana, conseguendo la licenza e il dottorato in Missionologia. Ha emesso la professione perpetua il 24 giugno 2000 come membro dell’Istituto Missioni Consolata ed è stato ordinato sacerdote il 26 maggio 2001.
Dopo l’ordinazione sacerdotale è stato scelto come membro del primo gruppo di due missionari e due missionarie della Consolata destinati alla Mongolia. Ricevuto il mandato missionario nel santuario della Consolata il 19 maggio 2002, i quattro sono finalmente partiti il 20 luglio 2003 per la nuova missione nella capitale mongola. Nel 2007 hanno aperto Arvaiheer dedicata a Maria Madre della Misericordia, di cui padre Giorgio è stato parroco fino alla nomina a vescovo. Nel 2016 è nata la «Regione Asia» dell’Imc (Mongolia, Corea del Sud e Taiwan), di cui è diventato consigliere e responsabile per la sua nazione. Il 2 aprile 2020 il Santo Padre Francesco lo ha nominato Prefetto apostolico di Ulaanbaatar (Mongolia), con carattere vescovile assegnandogli la sede titolare di Castra Severiana. È stato consacrato dal cardinal Luis Antonio Tagle l’8 agosto 2020 in quello stesso santuario della Consolata in Torino dove aveva ricevuto il suo mandato missionario.
Iraq. Una fuga che non si arresta
Dopo gli attentati degli estremisti islamici e una discriminazione mai veramente scomparsa, anche in Iraq la presenza dei cristiani è in costante diminuzione. Come ci hanno confermato sacerdoti e fedeli incontrati in alcune chiese di Baghdad.
Baghdad. È la mattina del 31 ottobre 2010 quando, nel centro della città, si sente una forte esplosione. Un’autobomba salta in aria vicino alla sede della borsa valori, nel cuore della capitale. Due uomini di guardia rimangono gravemente feriti. Le forze di sicurezza si mobilitano, circondano l’area dell’attacco, un elicottero sorvola la scena. Il vero obiettivo però è un altro, questo primo attentato forse serve solo da diversivo.
Ore dopo, nella chiesa siro cattolica di Sayidat al-Nejat (Nostra Signora della Salvezza), una delle più grandi di Baghdad, si sta celebrando la messa.
Cinque uomini appaiono ai cancelli, indossano uniformi da guardia di sicurezza privata. Un’auto bomba deflagra in strada, uno dei cinque si fa esplodere all’ingresso della chiesa. Gli altri quattro entrano sparando sulla folla e prendono in ostaggio 120 fedeli.
Molti si nascondono sotto le panche, altri si mettono in ginocchio. I terroristi urlano di fare silenzio, uno di loro telefona al canale televisivo di Al-Baghdadiya. Dichiarano di essere una cellula affiliata ad Al Qaeda e pretendono la liberazione di alcuni compagni rinchiusi nelle carceri irachene e libanesi.
Nel frattempo, le forze di sicurezza circondano l’edificio, l’elicottero sulla scena dell’attentato alla borsa valori si è spostato sulla zona del nuovo attacco.
Nella chiesa ci sono due giovani sacerdoti che stavano celebrando la messa. Provano a far ragionare i terroristi e tenere calmi i fedeli. Padre Saad Abdal Tha’ir e padre Waseem Tabeeh vengono messi in ginocchio e freddati sull’altare.
Le forze di sicurezza irachene decidono di non negoziare. Irrompono nell’edificio. Si sente un’altra esplosione e un lungo scontro a fuoco.
Quando la chiesa viene liberata e messa in sicurezza, i morti sono 58: due sacerdoti, 46 fedeli, inclusi due bambini e una donna incinta di tre mesi. Un terzo sacerdote presente alla messa, padre Raphael Qatin, morirà in ospedale in seguito alle ferite riportate. Il resto dei corpi sono di poliziotti e terroristi.
Settanta sono i feriti gravi, 26 dei quali, grazie all’intervento della Chiesa, vengono trasferiti a Roma per essere curati.
Quattro anni dopo, quella cellula terroristica affiliata ad Al Qaeda, verrà conosciuta dal mondo come «Isis».
Per i cristiani la fuga continua
Oggi la chiesa di Nostra Signora della Salvezza è stata totalmente ricostruita. Le mura che circondano l’edificio sono dipinte con le immagini di papa Francesco, venuto qui in visita a marzo del 2021 per onorare e ricordare le vittime dell’attentato. Per i 46 fedeli e i 2 sacerdoti, il 31 ottobre 2019 si è chiusa la fase diocesana della causa di beatificazione.
Attorno ai muri, tra scritte e pensieri di pace con le immagini del pontefice, ci sono anche reti metalliche, filo spinato, telecamere di sicurezza e sbarre di metallo. Natiq Anwar è il sagrestano della chiesa, uno dei sopravvissuti all’attacco del 2010 e tra quelli curati a Roma. Mentre mi guida all’interno della chiesa e nella cripta racconta: «È accaduto tutto molto velocemente. Io sono stato ferito da una delle esplosioni, ricordo l’arrivo di questi uomini in divisa, il boato, le urla che provenivano dalla chiesa e tanto sangue ovunque. Sono invalido da allora, ho subito diverse operazioni a reni e fegato e ho gravi problemi di vista».
«Dopo quello che hai vissuto e data l’instabilità della sicurezza nel paese, hai paura che ci possano essere altri attacchi?», gli chiedo. «Sì, io ho sempre paura che possa riaccadere, ogni volta che entro qui e che guardo verso i cancelli, mi immagino che improvvisamente possano ricomparire degli uomini e che tutto si ripeta. Ma sono un servo di Dio, non rinuncio a lavorare qui, questo è il mio posto».
In uno dei cortili della chiesa incontro Burnahnuddin Assaq Ibrahim, uno dei cinque rappresentanti cristiani del parlamento iracheno, una piccola minoranza dei 329 membri.
«Ognuno di noi è responsabile di una provincia. Devo essere sincero però, negli ultimi anni soprattutto, ci sentiamo rispettati. Quando parliamo, i nostri colleghi ci ascoltano e cercano di venire incontro alle nostre richieste. Il vero problema è che i cristiani scappano da questo paese. La paura degli attacchi e l’instabilità causano la fuga. Nel 2003 eravamo quasi un milione e mezzo, oggi siamo circa 300mila. Però noi cristiani, anche se di diverse confessioni, siamo uniti tra noi».
Sono giorni particolari in Iraq, è l’anniversario della morte dell’Imam Musa Al Kadhim, settimo imam e martire sciita seppellito qui a Baghdad.
Per tre giorni, pellegrini sciiti da tutto il mondo arabo e dall’Asia centrale, vengono qui per pregare davanti al grande santuario. Per strada ci sono tende e migliaia di banchetti allestiti con cibo gratuito. I pellegrini arrivano a piedi, a volte camminando scalzi, non solo dalle province irachene ma anche da Iran, Libano, Pakistan, Uzbekistan.
«Ogni anno, solo per organizzare le baracche con il cibo gratuito per i pellegrini, i leader politici di fede sciita spendono migliaia e migliaia di dollari. Tutto questo è una manovra politica per ottenere voti e consensi, molte di queste persone mangiano carne forse una volta l’anno, non hanno mai visto così tanto cibo tutto insieme nella loro vita e arrivano da zone veramente povere», confessa un poliziotto di pattuglia.
Straordinarie sono anche le misure di sicurezza. Le chiese e le comunità cristiane non sono i soli bersagli dei terroristi, ma anche, e di recente soprattutto, i santuari e le moschee sciite. Proprio durante i giorni del pellegrinaggio, puntualmente l’Isis minaccia di attaccare la moschea di Al Khadim. Molti, in questi anni, sono stati gli attentati sventati, ma anche quelli arrivati a segno, come l’autobomba del 2014 che uccise 21 persone, o le granate che, nel marzo 2021, uccisero dieci uomini tra i pellegrini in visita al santuario.
Identità: musulmano o non musulmano
In questo contesto, con l’attenzione dei media e delle forze di sicurezza concentrata sulle strade del pellegrinaggio, con il traffico, le cucine a cielo aperto, è molto complicato scorgere e raggiungere le chiese cristiane di Baghdad.
Spesso sono situate in quartieri periferici e molti degli edifici religiosi non si differenziano dalle case attorno. Per intravedere una croce, quasi mai visibile da lontano, occorre arrivare molto vicino all’entrata.
Raggiungo la cattedrale latina di San Giuseppe, fondata nel 1632, elevata a sede di arcidiocesi il 19 settembre 1848, dove mi accoglie padre Francis Domenique.
La chiesa si affaccia su una strada anonima in un quartiere residenziale, all’interno delle mura però si apre un altro mondo: un campetto da pallavolo, una sala lettura, dei cortili dove i pochi giovani cristiani possono incontrarsi e socializzare.
Uno di questi ragazzi è Raed.
«Non è facile essere cristiani qui. Non dico che viviamo degli episodi di razzismo direttamente, ma, ad esempio, se faccio domanda per un lavoro e c’è un candidato musulmano con la mia stessa preparazione, in questo caso sicuramente si preferirà lui. Oltre a questo, i ragazzi sono davvero pochi, moltissimi vanno via: in Kurdistan o magari in Europa. Ho tanti amici che sono via e mi raccontano come va lì. Non è che hanno una vita semplice, certo, le difficoltà si trovano in tutto il mondo, però sono liberi di professare la propria religione senza imbarazzo o discriminazione. I miei amici all’estero non sono giudicati per la propria religione, questa è una grande libertà che qui non è affatto scontata».
«E tu, se potessi, o magari ci stai pensando, andresti via?». Sorride: «Sì, penso che potrei andare via se mi si presentasse un’occasione».
All’interno del cortile, impegnato a giocare a pallavolo con i ragazzi, incontro anche Zayed, frate domenicano. «Padre Zayed, com’è la vita dei cristiani oggi in Iraq? Alcune persone, tra le autorità che ho intervistato, mi hanno detto che le varie correnti cristiane sono unite tra di loro. Secondo lei, è davvero così?».
«No – risponde -, non penso che i cristiani in Iraq siano uniti e credo che questa disunione sia una delle cause dei nostri problemi. La discriminazione è reale, come il grande esodo dei cristiani che preferiscono andare via. La verità è che all’estero, anche se in un paese straniero, è comunque più facile che qui. La discriminazione può manifestarsi in diverse maniere, sia diretta che indiretta. Ti faccio un esempio pratico: sui nostri documenti deve esserci scritta la religione, ma si può solo scrivere musulmano o non musulmano. Potrà sembrare cosa da poco, ma è così che poi funziona anche il resto. Le altre religioni non sono contemplate, o sei musulmano oppure no».
La difficile quotidianità dei convertiti
In un altro quartiere periferico, fuori dalla chiesa della Madonna del Rosario, incontro Joseph (nome di fantasia), che mi chiede di mantenere segreta la sua identità.
Joseph è di origine musulmana, ma si è convertito al cristianesimo. Racconta: «In Iraq, la vita più difficile ce l’abbiamo noi che ci siamo convertiti. Io ho sempre voluto essere cristiano, da quando ero bambino e giocavo a calcio con gli altri ragazzini nel cortile di una chiesa qui vicino. Prima di convertirmi dovevo andare in chiesa di nascosto, una volta presa la decisione, la mia famiglia non mi ha più rivolto la parola. Da quel momento sono cominciati tutti i miei guai, lavoravo in un ufficio che aveva relazioni con l’estero e mi è stata fatta molta pressione per andare via. Trovare e mantenere un lavoro è la cosa più difficile per i cristiani in Iraq, per chi come me, poi, si è convertito, è anche peggio».
«Hai mai vissuto episodi di violenza?». «Personalmente, violenza fisica no. Sono stato insultato molte volte, anche dalla mia famiglia. Purtroppo, i miei genitori, fratelli e sorelle, sono stati vittime di vessazioni a causa della mia conversione. Le violenze peggiori si perpetrano contro le donne, soprattutto quelle di origine musulmana che decidono di sposare un altro convertito. La moglie di un mio amico in una zona a Sud del paese, poco tempo fa, è stata vittima di un lancio di pietre perché non portava il velo. Baghdad è più libera da questo punto di vista, ma la discriminazione è dietro l’angolo. Non dimenticarti poi, che in caso di attacco da parte degli estremisti, noi siamo sempre il loro bersaglio preferito».
«L’Isis continua a operare?», chiedo. «Certamente, soprattutto nei villaggi sulle zone di confine. Hanno bisogno di cibo e denaro per finanziarsi. E le comunità cristiane sono viste come una nuova risorsa per ottenere riscatti».
Angelo Calianno*
(*) Dello stesso autore, sul sito MC, si possono trovare due altri reportage dall’Iraq – aprile 2019 – e maggio 2019.
Cristiani in Iraq, qualche numero
Resistono in trecentomila
In Iraq, il grande esodo della comunità cristiana non si è mai fermato. Nel 2003, erano un milione e 300mila. Oggi, stando alle ultime statistiche, sarebbero soltanto 300mila i cristiani rimasti in questa nazione. Negli ultimi quindici anni, in tutto il paese, sono state più di sessanta le chiese danneggiate o distrutte da attentati terroristici e
conflitti.
Centomila cristiani, provenienti dalla Piana di Ninive a Mosul, occupata dall’Isis fino al 2017, sono stati costretti ad abbandonare le proprie case distrutte dalla guerra e oggi vivono in Kurdistan. Un grande sforzo economico, da parte della comunità cattolica internazionale, è stato fatto per ricostruire case e luoghi di culto a Mosul, con la speranza del ritorno dei fedeli.
La visita di papa Francesco (*), nel marzo dello scorso anno, ha acceso una flebile speranza che le cose possano migliorare. Questa comunità, che per secoli si è sentita abbandonata, con la visita del pontefice per la prima volta si è sentita riconsiderata.
Già Carol Wojtyla aveva programmato un viaggio qui nel 1999. Il progetto poi venne ostacolato dagli Stati Uniti e da Bill Clinton. Questi temeva che la presenza del papa avrebbe rafforzato Saddam Hussein.
Oggi il paese si dibatte tra gli attentati dell’Isis e le milizie filoiraniane tornate molto attive soprattutto dopo la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso proprio a Baghdad.
Durante la sua visita in Iraq, papa Francesco ha detto: «Il terrorismo quando ha invaso questo caro paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese». Oggi i cristiani in Iraq si dividono tra caldei, siriaci, armeni, latini, melchiti, ortodossi e protestanti.
Da anni i buscadores attraversano il Messico in cerca di figli e familiari desaparecidos andando a scavare nelle fosse comuni in cui sono stati gettati da narcos, poliziotti corrotti o semplici delinquenti. Quest’anno la búsqueda (ricerca) ha avuto una dimensione internazionale. Vi ha partecipato anche Ugo Zamburru, psichiatra torinese.
«Tremi lo stato, il cielo, le strade/ Tremino i giudici e la magistratura/ A noi donne oggi tolgono la calma/ Hanno seminato paura, ci sono cresciute ali».
Cantano con dolcezza e determinazione, mentre si preparano per la giornata di ricerca. Sono madri, sorelle, padri che non si rassegnano e da anni attraversano il Messico in cerca dei familiari desaparecidos. Secondo il Prodh (Centro de derechos humanos Miguel Agustín Pro Juárez A.C, fondato dai gesuiti), il Messico sta per raggiungere le 100mila persone scomparse, con oltre 50mila corpi e resti non identificati negli obitori. «Ma i dati ufficiosi parlano addirittura di 200mila desaparecidos, tra messicani e migranti stranieri», dice Ugo Zamburru, psichiatra torinese che ha preso parte alla prima Brigada internacional de búsqueda, svoltasi dal 16 febbraio al 4 marzo negli stati settentrionali di Sonora e Baja California.
«La novità di questa búsqueda (ricerca) è che hanno partecipato familiari e volontari provenienti da tutto il Centroamerica, dal Canada, e il sottoscritto in rappresentanza di una cordata europea – Carovane migranti, Abriendo fronteras, LasciateCIEntrare e la basca Ongi Etorri – continua Zamburru -. Ma soprattutto è stata la prima volta che, oltre alla búsqueda en campo, cioè la ricerca collettiva dei cadaveri gettati nelle fosse comuni, si è realizzata una búsqueda en vida, per ritrovare alcune delle persone scomparse ancora vive».
Madri in prima linea
Come in Cile, con l’Associazione delle famiglie dei detenuti scomparsi, e in Argentina, con le madri e le nonne di Plaza de Mayo, le protagoniste delle búsquedas in Messico sono all’80 per cento donne, soprattutto madri in cerca dei figli o delle figlie vittime di sparizioni forzate.
La violenza e le desapariciones in Messico si sono intensificate dalla fine degli anni ‘90 quando, in un paese già egemonizzato dai cartelli della droga, si sono inseriti Los Zetas: soldati scelti dell’esercito nazionale addestrati in Usa e Israele che hanno creato un’organizzazione criminale tra le più spietate e ramificate, «specializzata» nel narcotraffico, nei rapimenti a scopo d’estorsione, nella prostituzione (anche minorile) e in altre attività illecite in tutto il Centroamerica.
Malgrado i tentativi del governo di reagire (come la «guerra alla droga» avviata nel 2006 da Felipe Calderón), negli ultimi vent’anni si è assistito a un crescendo di omicidi, torture e sparizioni. «Molti messicani sono gente onesta, ma c’è una parte significativa di funzionari e poliziotti corrotti, attratti da facili guadagni o spinti dalla paura – spiega Zamburru -. Non di rado delitti e desapariciones sono opera loro».
Com’è stato per il figlio di Cecilia Delgado Grijalva, una delle partecipanti alla Brigada internacional: la sera del 2 dicembre 2018, mentre stava chiudendo il suo negozio a Hermosillo, Jesús Ramón Martínez Delgado, allora trentaquattrenne, è stato caricato su un furgone bianco della polizia di stato e da allora è svanito nel nulla. «Ho subito fatto denuncia al pubblico ministero, ma per due anni nessuno ha indagato; malgrado la telecamera di sorveglianza e i testimoni, hanno sempre negato l’esistenza della pattuglia 073, responsabile del sequestro (in seguito rintracciata e fotografata da Cecilia stessa, nda)», racconta lei, che da allora ha percorso tutto il Messico in cerca del figlio. «Ho perlustrato ospedali, obitori, prigioni, centri d’accoglienza, ho cercato tra la gente di strada, sotto i ponti e nelle discariche, sono entrata nei rifugi dei drogati, mi sono unita ad altre donne che scavavano in cerca dei cadaveri».
E scavando con le sue mani, il 25 novembre 2020, Cecilia ha trovato i resti di Jesús nel quartiere di Altares. «Non ho dovuto aspettare il test del dna, ero certa che si trattasse di lui per l’apparecchio ai denti e perché sul cranio aveva ancora i capelli, i suoi capelli castani con quei ricci che non gli piacevano e che copriva di gel». Jesús Delgado ha lasciato tre figli, la più piccola oggi ha 5 anni. «È lei che soffre di più, piange e mi domanda perché ci ho messo così tanto a ritrovare il suo papà».
Come Cecilia, molte altre madri continuano a partecipare alle búsquedas durante tutto l’anno, pur avendo già ritrovato i propri cari o quel che ne resta. «Finché si va in cerca dei familiari, si riesce a dare un senso alla propria vita perché c’è la speranza di ritrovarli, vivi o morti, pur di non restare nell’incertezza, che è devastante (vedi box). Una volta raggiunto questo obiettivo, allora la missione diventa aiutare le altre donne – spiega Zamburru -. È un meccanismo psicologico di sublimazione per cui si investe in qualcosa di superiore: lo spirito del gruppo, che crea appartenenza, spezza la solitudine e permette di condividere dolore, rabbia e impotenza».
Resti umani e Dna
«Cantiamo senza paura, chiediamo giustizia/ Gridiamo per ogni scomparsa/ Che risuoni forte: Ci vogliamo vive!».
L’inno della cantautrice Vivir Quintana contro i femminicidi echeggia nello scuolabus giallo messo a disposizione dei búscadores dalle autorità di Hermosillo, la capitale di Sonora: uno degli stati con il maggior numero di segnalazioni di scomparsi, oltre 600 l’anno. Inghiottiti dal deserto, 300mila km² (vale a dire quasi quanto l’Italia) dove bastano cinque minuti per perdere l’orientamento, dov’è facile venire aggrediti da criminali o animali pericolosi, oppure morire di sete e stenti mentre si viaggia verso Nord, verso la frontiera con gli Stati Uniti.
In questi territori inospitali «le búsquedas – organizzate di concerto dalle associazioni dei familiari e dalle istituzioni pubbliche – si svolgono con la scorta di polizia, esercito, protezione civile, Comisión nacional de búsqueda ecc., per il rischio sempre incombente di venire assaliti dai narcos e da delinquenti comuni», racconta Zamburru. Già molti genitori sono stati uccisi per aver cercato i propri figli, ma «quando ti tolgono un figlio, non hai più paura di niente», dice Cecilia Delgado. «Le nostre armi sono la pala, il piccone e la varilla».
Quest’ultima è un’asta di metallo appuntita a forma di «T», che si conficca nel terreno per poi annusarne l’estremità: se emana cattivo odore è un «buon» segno, lì sotto potrebbero trovarsi dei cadaveri. A quel punto l’area viene transennata e iniziano gli scavi, fino a un metro e mezzo di profondità. Nel deserto si usano le pale, mentre nelle zone collinari, dove il suolo è più duro (e dove i narcos costringono le vittime a scavarsi la propria fossa), si utilizza il piccone e a volte la scavatrice.
Spesso i buscadores scavano in punti segnalati da telefonate anonime, talvolta attendibili ma più spesso dovute a depistaggi o tentativi di estorcere denaro. Quando vengono individuati resti umani – membra, parti dello scheletro, oppure resti carbonizzati o sciolti nella soda caustica – l’antropologo forense effettua una serie di verifiche, mentre le madri si fanno prelevare il dna, che viene registrato nella banca dati della Comision nacional de derechos humanos.
«Sono rimasto colpito dall’euforia con cui le madri accolgono il ritrovamento dei resti. Sotto il sole a picco, a quasi 50 gradi, io sentivo la fatica, mentre quelle donne esili, provate da anni di sofferenze, continuavano a scavare per giorni, energiche e instancabili», racconta Zamburru.
«L’amore che abbiamo per i nostri figli è più forte del clima, della fame o della paura», dice Charlín Unger, 62 anni, alla ricerca del figlio Carlos Antonio rapito nel 2019 da un commando armato. «I “pezzi” che riusciamo a trovare sono i nostri cari, i nostri tesori preziosi, da trattare con cura e con amore per restituire loro umanità, per dare loro un nome, un volto, una storia».
La polizia messicana
Charlín Unger è cofondatrice insieme a Cecilia Delgado delle Búscadoras por la paz, uno degli oltre settanta collettivi di familiari nati per reazione all’inerzia dello Stato, incapace di garantire la sicurezza dei cittadini e il diritto alla verità e alla giustizia. Sebbene dal 2013 sia stata promulgata in Messico la Ley general de víctimas [vedi box] per contrastare le sparizioni forzate. Tuttavia, le vittime di questi reati sono in continuo aumento e il 99% delle desapariciones rimane impunito.
Come nel caso di Juan Hernández, agente scelto della polizia federale, «prelevato» dal suo albergo nel Nuevo León nel 2011, all’età di 22 anni. La «colpa» di Juan è stata respingere un tentativo di corruzione da parte di un suo superiore in combutta con Los Zetas. «La polizia, senza indagare, voleva che firmassi subito la presunzione di morte, ed è iniziata la tortura delle menzogne, per impedirmi di cercare. Mi hanno anche mostrato un video in cui alcuni criminali tagliavano la gola a quattro poliziotti», racconta la madre di Juan, Patricia Manzanares Ochoa. «In più, quando sparisce un poliziotto federale, non si fanno denunce di scomparsa. La polizia si limita a un verbale interno e, dopo tre giorni, archivia il caso come “abbandono del lavoro”».
Così la donna ha dovuto rimboccarsi le maniche e fare ciò che sarebbe toccato alle autorità, cercare Juan. «All’inizio credi che il governo compia il proprio dovere. Ma non fanno che trascrivere pezzi di carta, non s’impegnano mai in una vera ricerca, così si perde tempo prezioso, sembra quasi lo facciano apposta per far sparire le prove», dice Patricia. «Ho dovuto documentarmi e acquisire conoscenze che non avevo. Se avessi saputo tutto quel che so adesso, avrei trovato mio figlio. Ma noi familiari non siamo avvocati né antropologi, non sappiamo nulla di diritto». In occasione delle búsquedas «le autorità ci accolgono, assistono agli scavi, ma siamo noi che dovremmo osservarli mentre fanno il loro mestiere. Abbiamo uno stato fallito, che viola i nostri diritti».
Parole amare, confermate dai numeri: a fronte di decine di migliaia di desapariciones, in questi anni sono state emesse appena una quindicina di condanne. In aggiunta, le persone scomparse e le loro famiglie vengono ulteriormente vittimizzate. «Succede spesso che si sparga la voce secondo cui, se sono stati uccisi, è perché erano coinvolti in qualcosa di losco, traffico di droga o altro – dice Cecilia Delgado -, ma è una menzogna, io stessa conosco decine e decine di vittime totalmente innocenti: uomini, donne, giovani e anche bambini». Sono 7mila oggi i minori desaparecidos in Messico, quasi tutti vittime di violenze e omicidi (Registro nacional de datos de personas extraviadas o desaparecidas).
la ricerca in ricoveri, discariche, carceri
«Suo figlio si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha concluso la Procura della Repubblica a più di dieci anni dalla scomparsa di Oscar Javier Muñoz Cortés, studente universitario di 21 anni. Il giorno prima di sparire, nel novembre 2008, Oscar aveva difeso una ragazza che stava subendo molestie per strada. L’indomani un poliziotto municipale di Pachuca fu visto mentre lo consegnava a un gruppo armato, che lo prese a botte e lo caricò su un furgone. Il padre, anche lui di nome Oscar Javier, non ha ottenuto nulla di concreto dalle autorità statali né da quelle federali: «Dopo più di dieci anni, hanno anche preso a pretesto la pandemia per bloccare le indagini. Alla fine, sono stati individuati due colpevoli del sequestro, uno è stato scagionato grazie alla madre avvocato e l’altro liberato per presunti motivi di salute».
Oscar è tra i più attivi nella búsqueda en vida che si snoda tra i centri urbani e rurali, distribuendo e affiggendo i volantini con la foto a colori del figlio, la sua descrizione e il numero di telefono se qualcuno avesse notizie. Insieme a lui, le madri e gli altri búscadores cantano, tappezzano muri, pali della luce e alberi con i ciclostilati, fermano e interrogano ogni persona, ripetono la loro storia alla stampa, alla tv locale, alle Ong, a chiunque possa aprire un varco verso la verità. «A noi europei questo modo di procedere un po’ naïf può sembrare una follia – dice Zamburru -, ma è una maniera per non rassegnarsi: alla perdita dei propri cari, alla violenza, al senso d’impotenza che può sottomettere e abbattere».
Una capacità di resistenza che anima il convoglio dei búscadores mentre attraversano i vari punti nevralgici: dal ricovero per migranti Giovanni Bosco di Nogales alla discarica di Puerto Peñasco, dal carcere di Mexicali al Centro per le dipendenze di Rosarito… mai stanchi di domandare, di cercare nel volto di tanti disgraziati tracce di somiglianza con un marito scomparso, con una figlia o una sorella perdute. «In ogni incontro scattano anche dinamiche di solidarietà: le madri spesso portano cibo e abiti ai migranti affamati, ai recicladores delle discariche, a chi vive negli anfratti ai bordi delle autostrade – racconta Zamburru -. È terribile pensare a queste donne, con i figli scomparsi per politiche criminali, e ai tanti infelici abbandonati qui a causa di un sistema economico altrettanto criminale, costretti a lasciare paesi invivibili per la violenza e finiti a vivere nel nulla».
Migliaia di persone in attesa di valicare il confine con gli Usa o deportados che, una volta arrivati nel «paese pavimentato d’oro», sono stati rispediti indietro e ora vivono in strada perché si vergognano di tornare a casa, o perché sono diventati tossici o alcolisti.
Una fede incrollabile
Durante la búsqueda internacional sono stati ritrovati 29 desaparecidos morti e 4 in vita, e si sono individuate alcune piste su cui la Comisión nacional de búsqueda sta proseguendo le indagini. Ma le búscadoras e i buscadores non si fermano, vanno avanti nelle loro ricerche per tutto l’anno. «Per fare una vita così, occorrono un coraggio e una fede incredibili. Sono quasi tutti molto religiosi, hanno una grande fede in Dio e fiducia di ritrovare i loro cari malgrado siano passati anni», dice Zamburru. «Ogni mattina, prima di mettersi all’opera, si riuniscono per pregare insieme. Una volta ho domandato come facecessero a credere ancora in Dio, e una madre mi ha risposto che se lei, povera donna ignorante, era lì a impegnarsi insieme a tutti gli altri, doveva per forza esserci un senso».
«A Dio chiedo di darmi la forza per continuare a cercare, perché l’incertezza ti consuma dentro e non ti restano che la tua fede e la speranza, da non perdere mai», dice Patricia Manzanares. «A Lui chiedo soltanto di non lasciarmi morire senza aver prima conosciuto la verità su quanto è successo a mio figlio».
Stefania Garini
Buone leggi, cattive prassi
Negli ultimi anni, le istituzioni pubbliche messicane hanno tentato di reagire alla violenza e alle sparizioni forzate mediante una serie di misure a sostegno delle vittime e dei loro parenti. Lo stato di Baja California ad esempio, secondo le parole del segretario generale di governo Amador Rodríguez Lozano, si è impegnato nello stanziamento di un «Fondo per la riparazione globale dei danni» con un budget di circa 4 milioni di pesos (circa 186mila euro).
A livello federale, dal 2013 la Ley general de víctimas garantisce la tutela delle vittime con riferimenti circostanziati al rispetto della loro dignità, alla salvaguardia del benessere fisico e psicologico, alle condizioni di sicurezza, al sostegno economico e occupazionale, ecc., sottolineando il diritto fondamentale a ricevere «assistenza, protezione, attenzione, verità, giustizia, riparazione integrale (individuale, collettiva, materiale, morale e simbolica)».
La legge prevede anche un sussidio per i familiari – messicani e stranieri – costretti ad abbandonare casa e lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla ricerca dei desaparecidos. «Un’ottima norma, che però rimane spesso lettera morta», spiega Ugo Zamburru del collettivo Carovane migranti.
Durante la Brigada internacional de búsqueda, insieme ad Ana Gricelides Enamorado, madre e attivista del Movimiento migrante mesoamericano, ha accompagnato alla procura della repubblica di Città del Messico una donna salvadoregna, Silvia Artiga Castaneda, che anni prima aveva denunciato la scomparsa del figlio. «All’epoca Silvia era convinta di aver fatto tutto il necessario, ma abbiamo scoperto che la procura non aveva neppure aperto il fascicolo d’inchiesta. Ufficialmente quel caso di desaparición non esisteva. Quindi, oltre a non fare nulla per cercare il ragazzo, non le avevano riconosciuto alcun sostegno economico».
Attraverso l’intervento di Ana Enamorado e del Movimiento migrante mesoamericano, impegnato nella ricerca dei desaparecidos, nella lotta contro le reti di violenza e le politiche di oppressione dei migranti, e nella capacitación (empowerment) dei familiari, «dopo lunghe trattative e la minaccia di far intervenire un avvocato, si è ottenuto che a Silvia venisse pagato il viaggio e fornito il visto, e si sono attivate le ambasciate di Messico ed El Salvador per occuparsi del caso. Malgrado ciò che le leggi prescrivono, la strada per il rispetto dei diritti resta lunga e difficoltosa».
«Ogni giorno non faccio che pensare a dove possa trovarsi mio figlio, se mangia, se lo picchiano, se è vivo o morto. Voglio trovarlo, ma non voglio trovarlo». Patricia Manzanares Ochoa esprime così quella costante e tormentosa ambiguità che colpisce tutti i buscadores: in bilico tra la volontà di ritrovare le spoglie dei propri cari, uscendo dall’incertezza, e il desiderio di non trovarli per serbare la speranza che siano ancora vivi. Un vortice di pensieri e sentimenti contrastanti tipico di ogni «perdita ambigua», come l’ha definita la psicoterapeuta Pauline Boss negli anni ’70 in riferimento ai familiari dei soldati dispersi in Vietnam. Nella perdita ambigua, l’indeterminatezza della situazione accresce il dolore e ostacola la normale elaborazione del lutto, con possibili esiti patologici (senso d’impotenza, depressione, ansia, conflitti relazionali). Diventano quindi fondamentali la ricerca di significato e la speranza, per sviluppare un approccio costruttivo alla vita e darsi obiettivi realistici.
In questi casi la certezza della morte risulta più accettabile del dubbio continuo. Il riconoscimento ufficiale e i riti collettivi che l’accompagnano possono essere di grande aiuto. Come dice Cecilia Delgado Grijalva, «quando ho ritrovato mio figlio ho provato un dolore straziante; ma sapere che è morto, mettere fine all’incertezza e offrirgli finalmente una cerimonia funebre, in un certo senso ha mitigato le mie sofferenze. Tutte le famiglie e le mamme dovrebbero avere la possibilità di compiere questi gesti di cura postuma, perciò non mi stanco di aiutare gli altri nella loro ricerca».
S.Ga.
Criptovalute, il denaro invisibile
Create dai computer, circolanti soltanto via internet, figlie della tecnologia: sono le criptovalute (Bitcoin, Ethereum, Litecoin, ecc.), la nuova forma del denaro. Un denaro elettronico che circola senza intermediazione bancaria, ma che non si salva né dall’economia illegale né dalla speculazione.
La moneta vive tra noi. La vediamo sotto forma di banconote, assegni, carte di credito o di metallo. Eppure, tutto ciò che la riguarda ci appare complesso. Non capiamo bene come funzioni, come sia governata, come si intrecci con i prezzi, col debito pubblico, come si rapporti con l’estero. Oggi, inoltre, sta emergendo un ulteriore elemento di complicazione perché stanno comparendo nuove monete che non hanno né forma, né colore. Monete invisibili create dai computer e circolanti solo via internet sotto forma di codici. Monete difficili da capire concettualmente e ancora più difficili da capire nel loro funzionamento perché figlie di una tecnologia conosciuta nei dettagli solo dagli esperti.
Detto questo, poiché sono entrate nel sistema, dobbiamo fare uno sforzo per capire di cosa si tratti: vantaggi, limiti, rischi.
Le monete alternative
Il computer come mezzo di pagamento non è una novità dell’ultima ora. Gli acquisti online si fanno da anni. Il 20% di tutti gli acquisti al dettaglio effettuati nel mondo avvengono via computer. Una valanga di ordini che richiedono pagamenti per via informatica. Ma quando facciamo un pagamento online, usiamo la stessa moneta di quando entriamo in un qualsiasi negozio. Nel nostro caso, l’euro. Paghiamo in euro anche se usiamo una carta di credito. Semplicemente autorizziamo che una certa somma sia prelevata da un nostro conto bancario e sia trasferita sul conto di altri. La tecnologia utilizzata non è eccessiva ed è finalizzata soprattutto alla sicurezza. Ma il trasferimento non potrebbe avvenire senza l’intermediazione di uno o più soggetti finanziari. Ed è proprio questa particolarità che ha spinto alla creazione della moneta elettronica.
Convinti che la moneta non possa essere considerata una merce su cui lucrare, ma un bene comune da mettere al servizio di tutti secondo una logica di gestione democratica, alcuni informatici hanno cominciato a ragionare sulla creazione di una moneta informatica sottratta al controllo delle banche e di qualsiasi altro potere finanziario. Una moneta creata dal basso, liberamente circolante fra chi compra e chi vende, senza bisogno di alcun tipo di intermediario, né obbligo di pagare commissioni a chi che sia.
Argomentazioni non nuove: su queste stesse motivazioni in varie parti del mondo sono state lanciate delle monete complementari. Monete, cioè, create per iniziativa popolare e circolanti all’interno di piccoli territori con lo scopo di rafforzare i piccoli produttori e favorire gli scambi locali senza bisogno di ottenere denaro prestato dalle banche. In fondo, il compito della moneta è permettere gli scambi e allora perché non crearsela da soli senza doverla chiedere a chi è disposto a darla solo come prestito e solo in cambio di un prezzo? Di monete complementari ne esistono in vari paesi europei come testimonia il Wir in Svizzera, il Brixton Pound in Inghilterra, il Chiemgauer in Germania. Anche in Italia abbiamo esperienze di strumenti di scambio creati dal basso, ma per le loro caratteristiche assomigliano più a buoni sconto, a facilitatori di scambi di servizi interpersonali, a forme di prefinanziamento, piuttosto che a vere monete.
Al di là delle diversità, le monete complementari hanno in comune di essere concrete e di dimensione locale. Le monete elettroniche, invece, sono globali, non si materializzano mai sotto forma di carta e hanno bisogno di una tecnologia complessa per fare avvenire il cambio di mano in maniera sicura.
La (misteriosa) nascita del bitcoin
Il primo a proporre la creazione di una moneta elettronica per sottrarre i pagamenti online dall’egemonia delle banche fu un tale Satoshi Nakamoto, che però nessuno ha mai identificato, lasciandoci credere che si tratti dello pseudonimo di un esperto di reti informatiche allergico alle concentrazioni di potere. Non a caso la sua proposta venne formulata nel 2008, quando l’intero sistema finanziario e bancario occidentale stava mostrando il peggio di sé. Il fallimento della Lehman Brothers aveva fatto venire a galla tutto il marcio esistente nel sistema finanziario, facendoci capire quanto sia opaco, truffaldino, rapace, disposto a mettere a rischio la sicurezza dei risparmiatori, la tenuta finanziaria dei governi, addirittura la stabilità dell’economia mondiale, pur di poter arraffare nell’immediato qualche profitto in più. Per cui la proposta di moneta elettronica formulata da Satoshi suonò come una chiamata alle armi, una sorta di ristabilimento della democrazia economica, di cui solo la rete poteva essere capace.
Satoshi chiamò la sua moneta bitcoin, dove «bit» rappresenta l’unità di misura elettronica e «coin» sta per moneta in lingua inglese. Ma il nome era il problema minore. Il problema vero era come farla funzionare sapendo che l’ingrediente base di ogni moneta è la fiducia. In fondo, è la consapevolezza che tutti l’accettano come mezzo di scambio a farcela usare. Se questa certezza viene meno non la vogliamo più. Satoshi sapeva che, per guadagnarsi fiducia, il bitcoin aveva bisogno di due condizioni: essere a prova di truffa ed essere protetto dal rischio di emissione incontrollata. L’abilità di Satoshi fu di individuare una tecnologia che con un colpo solo risolveva ambedue i problemi, pur in assenza di una qualsiasi autorità di controllo.
Da un punto di vista della sicurezza, i due rischi principali che si possono correre quando si usa la moneta elettronica è di essere derubati dei propri bitcoin e di essere pagati con bitcoin fasulli, con monete, cioè, già state utilizzate per altri pagamenti. Per evitare i due rischi, Satoshi propose due strade. Da una parte un meccanismo di possesso che lega i bitcoin ai loro proprietari tramite sistemi cifrati, così detti di criptografia, da cui il termine monete criptate o criptovalute.
Dall’altra propose un sistema di validazione delle transazioni, noto come blockchain, basato sull’assegnazione di particolari numeri identificativi sottoposti al controllo di tutta la rete. Le transazioni vengono sigillate solo dopo aver verificato che nessun punto della rete segnala l’esistenza di doppioni o altri tipi di anomalie. In altre parole, Satoshi propose di sostituire l’attività di garanzia offerta dagli intermediari finanziari con un sistema di controllo collettivo.
I costi energetici dei «minatori»
Le operazioni di validazione e chiusura sono molto laboriose e, oltre a richiedere macchine potenti e programmi sofisticati, assorbono anche molta energia. Condizioni gravose che avrebbero potuto creare il rischio di non trovare nessun candidato disposto ad accollarsi questo tipo di compito. Per aggirare l’ostacolo Satoschi propose che le chiusure delle transazioni dessero luogo all’emissione di nuovi bitcoin incassati da chi aveva svolto il lavoro. In conclusione, escogitò una chiusura del cerchio che concentra negli stessi soggetti la funzione di garanzia rispetto al corretto funzionamento del sistema e la funzione di emissione di bitcoin. Beninteso non in quantità illimitata, ma entro limiti prestabiliti da appositi modelli matematici. La previsione è che, fino al 2040, i bitcoin in circolazione non possano eccedere i 21 milioni di unità. Si stima che l’80% di essi siano già stati emessi.
A Satoshi, gli attori informatici che lavorano in rete con lo scopo di procurarsi bitcoin, apparvero come dei cercatori d’oro e li chiamò minatori. Si stima che, a livello mondiale, i minatori di bitcoin siano attorno al milione, sparsi un po’ ovunque. Alcuni di dimensione artigianale, attrezzati solo di pochi computer amatoriali, altri di dimensione industriale dotati di apparecchiature imponenti. E poiché si tratta di un’attività altamente energivora, chi decide di svolgerla in maniera industriale cerca di collocare le proprie macchine in paesi con bassi costi energetici.
«Minatori» dal Kazakistan al Trentino
Per un certo periodo molti avevano prediletto la Cina, ma poi sono stati cacciati dal governo di Pechino perché assorbivano una tale quantità di energia elettrica, da creare scompensi. C’è stato, quindi, un esodo in massa verso il Kazakistan il cui governo si era dichiarato disposto ad accoglierli a braccia aperte. Ma anche qui si è assistito ad una tale crescita dei consumi energetici da fare salire i loro prezzi alle stelle, tanto da fare imbestialire gli abitanti del paese che, nel gennaio 2022, hanno organizzato varie sommosse. Di minatori di bitcoin ce ne sono anche in Italia ed è curioso che, tra essi, compaia anche il comune di un paesino della trentina Val di Non, Borgo d’Anaunia*, che ha deciso di utilizzare parte dell’energia prodotta dalla propria centrale idroelettrica per alimentare un centro di calcolo dedicato alla creazione di bitcoin. Quale vantaggio riuscirà a procurare alle casse comunali è tutto da scoprire, mentre è certo che servirà un esborso di 130mila euro per acquistare i computer di calcolo.
Si narra che i primi bitcoin siano stati minati da Satoshi nel 2009 quando sigillò il primo block chain passato alla storia come block genesis. E il primo acquisto in bitcoin di cui si ha notizia risale al 22 maggio 2010 allorché vennero pagati 10mila bitcoin per due pizze che costavano 41 dollari. Nei dieci anni successivi il valore del bitcoin è cresciuto milioni di volte, per cui è diventato più attraente come prodotto d’investimento che come mezzo di pagamento. Non così per chi opera nell’illegalità a cui fa molto comodo poter trasferire denaro rimanendo nell’ombra. Per trafficanti d’armi, di droga, d’organi di esseri umani, ma anche per evasori fiscali interessati a trasferire i propri capitali nei paradisi fiscali, la possibilità di pagare in bitcoin o altre criptovalute è una vera benedizione perché garantisce l’anonimato. Secondo la società informatica Chainalysis, nel 2021 il volume di pagamenti effettuati in criptomonete, da parte dell’economia criminale, è stata pari a 14 miliardi di dollari. Un ammontare che però rappresenta appena lo 0,6% del volume complessivo di transazioni in criptovalute stimato in 15mila miliardi di dollari, molti dei quali scambiati solo per fini speculativi.
La speculazione non muore mai
È proprio la speculazione la degenerazione più beffarda inflitta ai bitcoin: uno strumento pensato per contrastare l’invadenza della finanza ha finito per rafforzarla.
Speculare significa cercare di guadagnare sulle variazioni di prezzo. Un’operazione che riesce particolarmente bene quando sussistono due condizioni: scarsità del bene trattato e alta richiesta. Due caratteristiche possedute dai bitcoin che, essendo a emissione limitata, sono particolarmente ricercati come lo sono i francobolli rari o i pezzi d’arte di un grande artista. Fatto sta che, mentre nel 2009 un bitcoin valeva qualche millesimo di dollaro, a inizio 2022 era pagato 50mila dollari, nel novembre 2021 addirittura 67.500 dollari. Per la gioia di minatori, di broker e vari altri intermediari finanziari.
Quando un bene o un titolo sale di prezzo fa drizzare le orecchie non solo agli speculatori, ma anche ai normali risparmiatori alla ricerca di investimenti capaci di assicurare stabilità di valore nel tempo, meglio ancora una sua crescita. Così i bitcoin hanno finito per essere anche una forma di tesaurizzazione, un bene rifugio in cui investire per mettere il proprio denaro al riparo da svalutazioni. Lo stesso intento perseguito quando si compra dell’oro, delle opere d’arte o altri preziosi. Il che ha stimolato l’industria della finanza a emettere nuovi prodotti finanziari che, pur essendo annoverati fra le criptovalute, sono concepiti più come proposte di investimento che come monete di scambio. Alcuni esempi sono Etherum, Bne, Tether, Solana, beni non fungibili (in inglese, Non fungible tokens – Nft) che consentono a chi li emette di venderli in cambio di denaro di tipo tradizionale (dollari, euro, yen) e a chi li acquista di aggiudicarsi prodotti che il mercato dovrebbe far crescere di valore. Ma il mercato è bizzarro e, con la stessa facilità con cui può spingere i prezzi alle stelle, può riportarli alle stalle. Prova ne sia che, a inizio maggio, le monete elettroniche avevano perso metà del loro valore rispetto al novembre precedente. Il che dimostra quanto sia labile la linea di confine tra investimento e scommessa.
Accade in Salvador
In ogni caso, va aggiunto che ora anche gli stati stanno guardando con interesse alle criptomonete. Valga come esempio il Salvador che, nel settembre 2021, ha dato riconoscimento ufficiale ai bitcoin, mentre le banche centrali di molti paesi stanno pensando di creare la propria moneta elettronica. Segnali di come le criptomonete siano destinate a fare ancora parlare di sé e a imporsi sempre di più nelle nostre vite future.
Francesco Gesualdi
(*) Sempre nel piccolo Trentino, si possono trovare società di criptovalute: alpsblockchain.com (Trento), comproeuro.it (Rovereto).
Obiezione di coscienza: Tu non uccidere
L’obiezione al servizio militare ha una lunga storia. Ne ripercorriamo le tappe principali dalla fine della Seconda guerra mondiale all’approvazione della legge avvenuta in Italia nel 1972. Un’altra difesa non armata e nonviolenta è possibile.
Il 22 maggio 1947 all’Assemblea costituente si discute dell’articolo 49 (poi 52 nella numerazione definitiva) della Costituzione italiana, quello cioè che statuirà il sacro dovere della difesa della patria e il servizio militare obbligatorio nei limiti e modi previsti dalla legge.
Il momento storico è delicato: il secondo governo De Gasperi è andato in crisi. Ancora non lo si sa, ma l’unità resistenziale tra democristiani, socialisti e comunisti è in procinto di rompersi.
Umberto Merlin, relatore, membro della Democrazia Cristiana, interviene su alcuni emendamenti. Uno di questi, a firma del socialdemocratico Ernesto Caporali, propone il riconoscimento in Costituzione dell’obiezione di coscienza. Merlin lo rigetta con una frase laconica: «Non lo possiamo accettare perché in Italia non esiste una setta di obiettori di coscienza, come quella che esiste in Inghilterra» (si riferisce probabilmente alla Società degli amici, noti come Quaccheri, presso i quali il rifiuto della guerra ha una lunga tradizione).
«Obiezione di coscienza» è, in effetti, un’espressione «esotica», come la definirà nel 1949 il poeta Guido Ceronetti, giovanissimo attivista per il suo riconoscimento. Se il primo paese a legiferare sul tema è stato la Norvegia nel 1900, seguito da Gran Bretagna nel 1916, Danimarca nel 1917, Svezia nel 1920 e Paesi Bassi nel 1922, i paesi cattolici ci arriveranno solo nella seconda metà del ‘900: la Francia nel 1963, il Belgio nel 1964, l’Italia nel 1972, la Spagna e il Portogallo nel 1976.
Di obiettori di coscienza in Italia ce ne sono stati fin dalla Prima guerra mondiale, ma dei loro nomi non si ha notizia. Erano liberi pensatori o, soprattutto, testimoni di Geova: nessuno di loro si è mai definito obiettore.
All’epoca della Costituente, della questione cominciano a discutere alcuni circuiti pacifisti raccolti attorno al filosofo Aldo Capitini e all’ex sacerdote modernista Giovanni Pioli. Ma di fatto l’obiezione è presente solo nei dizionari come calco dall’inglese.
Fermenti cattolici
Che l’obiezione di coscienza abbia maggiore diffusione nel mondo anglosassone protestante è cosa evidente. Tuttavia, anche il mondo cattolico comincia a fare i conti con l’adesione al comandamento del non uccidere e dell’amore evangelico. Il cattolicesimo francese, ad esempio, si confronta con le crisi di coscienza legate alla drammatica guerra in Indocina iniziata nel 1946. In Austria, invece, il caso del contadino Franz Jägerstätter, il quale ha rifiutato di prestare servizio militare nella Wehrmacht di Hitler, venendo giustiziato, suscita imbarazzo nell’episcopato: questo, nonostante la sua opposizione morale al nazismo, biasima l’atteggiamento di Jägerstätter rispetto al servizio militare.
A tutte le latitudini, gli obiettori di coscienza pongono questioni non marginali: la sostenibilità della dottrina della guerra giusta in epoca atomica, il ruolo della coscienza del singolo di fronte all’autorità di uno stato che può ordinare crimini immani.
Emerge, inoltre, una tradizione cristiana nonviolenta che affonda le radici nei richiami del Vangelo, ma anche nelle storie esemplari di alcuni santi, come Massimiliano di Tebessa o Martino di Tours.
Il «primo» obiettore
A cambiare l’inerzia della situazione in Italia è un giovane di Ferrara, Pietro Pinna. Egli, pur essendo mosso dalla spiritualità cattolica, si è distaccato dalla Chiesa nella quale non ha trovato conformità tra la sua predicazione e il Vangelo.
Matura la sua scelta mentre svolge il servizio militare nel 1949. Scrive a Capitini, che gli risponde in modo distaccato. Questi, infatti, preferisce che il giovane prenda in completa autonomia la decisione che gli potrà costare la libertà. Quando Pinna decide di obiettare, tuttavia, Capitini gli è a fianco. «Bastò una breve circolare dattiloscritta spedita ai più noti operatori per la pace in Italia, a qualche associazione all’estero, a un parlamentare (il deputato Umberto Calosso), a qualche giornale, per rendere noto il fatto, sì che in pochi mesi, in Italia, divennero popolari […] il termine e il nome dell’obiettore di coscienza n. 1», ricorderà qualche anno più tardi.
A sostegno di Pietro Pinna si muovono Edith Bolling, vedova del presidente americano Woodrow Wilson, Tatjana Tolstoj, figlia del celebre scrittore russo, alcuni parlamentari laburisti.
Al processo di Torino sono presenti le maggiori testate giornalistiche nazionali: molte sono critiche, ma non pochi sono i fogli che sostengono l’obiettore.
A difendere Pinna in tribunale è Bruno Segre, quello che diventerà lo storico avvocato degli obiettori. Il suo giornale «L’Incontro», fondato all’inizio del 1949, si imporrà come una delle voci più presenti nel diffondere le idee degli obiettori.
Pinna è condannato a dieci mesi con la condizionale e nuovamente richiamato al Car di Avellino. Seguono una nuova condanna, l’amnistia, infine la liberazione: al Car di Bari viene, infatti, riformato il 12 gennaio 1950 per una inesistente nevrosi cardiaca, inventata per chiudere il caso.
Un embrione di dibattito
Nell’ottobre 1949, Umberto Calosso, deputato del Partito socialista dei lavoratori italiani, e il democristiano Igino Giordani presentano un disegno di legge per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, poi insabbiatosi nella Commissione difesa.
Nel frattempo, l’esempio di Pinna è seguito da altri giovani: dal libertario Elevoine Santi e dagli anarchici Pietro Ferrua e Mario Barbani. Proseguono anche le obiezioni dei testimoni di Geova che, tuttavia, non danno risalto al loro gesto.
Presentatosi al primo processo con la Bibbia in mano, Pinna compie un gesto che chiama in causa il mondo cattolico, il quale è attraversato da un forte dibattito. «L’Osservatore romano» rievoca «la più famosa obiezione di coscienza che la storia registri», quella dei terziari francescani, avvenuta nel 1221 a Rimini. Monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale salesiano don Bosco di Torino, su «L’Incontro» definisce il cristianesimo «il più grande obiettore di coscienza».
Su questo embrionale dibattito cala la scure della condanna della «Civiltà Cattolica»: lo stato impone il servizio militare per proteggere la «vita associata»; il cittadino che ne «trae benefici» vi deve obbedire.
Nell’esasperazione delle tensioni della guerra fredda, l’obiezione di coscienza è vista come un cavallo di Troia della propaganda comunista, nonostante il Partito comunista guardi con freddezza, quando non con ostilità, il gesto degli obiettori, avvertito come frutto di una mentalità borghese.
Don Primo Mazzolari
Con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, il dibattito si chiude. Oltre alla voce del gruppo capitiniano, a sostenere gli obiettori rimane quella solitaria di don Primo Mazzolari. Nel suo libro più celebre, Tu non uccidere, pubblicato inizialmente anonimo nel 1955, condanna la guerra con parole che sembrano preconizzare l’enciclica che il futuro papa Giovanni XIII scriverà nel 1963, la Pacem in terris: ogni guerra è sempre «criminale in sé e per sé», mostruosamente sproporzionata, «trappola per la povera gente», «antiumana e anticristiana»; agli obiettori va riconosciuta l’attenzione alla pace come «un’adorazione in ispirito e verità». In un precedente articolo sulla rivista «Adesso», fondata dallo stesso Mazzolari nel ‘49, definisce gli obiettori profeti.
L’anno seguente, nel messaggio natalizio del dicembre 1956, il papa Pio XII usa, invece, ben altre parole. Guardando ai carri armati sovietici nella piazza di Budapest, dichiara: «Un cittadino cattolico non può appellarsi alla propria coscienza per rifiutare di prestare i servizi e adempiere i doveri fissati per legge».
La guerra è follia
«Ci sembra conforme ad equità – si troverà scritto nella costituzione conciliare Gaudium et spes del 1965 – che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana». Dal messaggio natalizio di Pio XII a queste parole passeranno nove anni. Dentro la Chiesa il cambiamento sarà epocale.
Ci sarà il papato giovanneo e la Pacem in terris con quell’«alienum est a ratione» (è follia, è impensabile) riferito alla guerra.
La Gaudium et spes raccoglierà il testimone di una nuova attenzione all’obiezione di coscienza al servizio militare tra i cattolici.
Nel 1961, a Firenze, il sindaco Giorgio La Pira proietta il film Non uccidere di Claude Autant Lara, la cui circolazione è stata vietata in Italia dalla commissione censura. Il film racconta una storia realmente accaduta in Francia nel dopoguerra: un tribunale militare, nello stesso giorno in cui condanna Jean Bernardo Moreau, un obiettore di coscienza cattolico, assolve un sacerdote tedesco che durante la guerra ha obbedito all’ordine di uccidere un partigiano francese.
In maniera ben più accesa rispetto al caso Pinna, il mondo cattolico si divide tra chi approva la censura e chi la contesta.
Gozzini, Balducci, Milani
Nel 1962, all’obiettore raccontato dal cinematografo se ne sostituisce uno in carne e ossa, Giuseppe Gozzini, il primo in Italia a richiamarsi esplicitamente al cattolicesimo e alle parole di papa Giovanni XXIII.
All’indomani della condanna di Gozzini, su «La Nazione» interviene l’assistente diocesano della gioventù femminile dell’Azione cattolica, don Luigi Stefani, affinché «i giovani cattolici fiorentini non vengano tratti in errore da un gesto arbitrario che mette il suo protagonista al di fuori delle norme di ubbidienza alle legittime autorità dello stato e quindi contro i principi della morale cattolica». Gli risponde, il 13 gennaio 1963, in un’intervista sul «Giornale del Mattino», padre Ernesto Balducci, sollecitato dagli operai cattolici della Nuova Pignone: secondo Balducci, il rischio di un conflitto apocalittico fa sì che gli obiettori meritino una «silenziosa ammirazione». Per queste parole, il sacerdote viene processato. All’assoluzione in primo grado, segue nel 1964 la condanna in appello per apologia di reato che verrà poi confermata dalla Cassazione. La sentenza suscita scalpore: il «magistrato teologo», come viene definito dal settimanale «Il Mondo», si incarica di fornire quella che a suo dire è l’interpretazione della Chiesa sull’obiezione di coscienza (senza però citare la Pacem in Terris) e accusa Balducci di ricorrere alla frode nel modo in cui presenta la posizione della Chiesa sul tema.
Nel 1965 è don Lorenzo Milani a intervenire in difesa degli obiettori contro il pronunciamento dei cappellani militari toscani in congedo. Questi hanno definito l’obiezione «insulto alla Patria e ai suoi caduti», «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà».
In una lettera che diventerà celebre, don Milani stravolge quella forma di religione della patria, proponendone una alternativa. «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri». Anche lui viene processato, ma la sua morte, che lo coglie il 26 giugno 1967, interviene prima della sentenza.
Viene invece condannato Luca Pavolini, il direttore del periodico comunista «Rinascita», per aver diffuso la lettera.
Una politica impreparata
Nel suo percorso di avvicinamento all’obiezione di coscienza, la Chiesa cattolica è preceduta da quella valdese.
Già nel 1958, infatti, il Sinodo ha approvato un ordine del giorno di appoggio a «ogni iniziativa che, per il rispetto dovuto ai diritti insopprimibili della persona umana, tende a dare uno stato giuridico agli obiettori di coscienza». È il frutto di un dibattito cominciato negli anni Quaranta.
Il mutamento che attraversa il mondo cristiano è specchio di quello che investe la società. L’antimilitarismo entra nella musica cantautorale. I Cantacronache, i Gufi o Fabrizio De André celebrano con irriverenza il rifiuto della morte eroica e della retorica del valore militare.
Anche i pacifisti riprendono il loro impegno: nel 1961 Capitini li ha radunati in una marcia di 20 chilometri da Perugia ad Assisi. L’anno successivo ha fondato il Movimento nonviolento che si è dotato di un braccio operativo, i Gruppi di azione nonviolenta: a guidarli è stato chiamato Pietro Pinna. Le loro azioni dimostrative nonviolente, spesso chiuse dall’intervento repressivo della polizia, hanno portato la richiesta del riconoscimento dell’obiezione di coscienza nei centri cittadini, attraverso sit in, marce, digiuni.
Intanto un democristiano, Nicola Pistelli, e due socialisti, Lelio Basso e Luciano Paolicchi, nel 1964 hanno presentato alla Camera tre progetti di legge, ma la politica non è ancora pronta.
Il Sessantotto
Il Sessantotto irrompe nella società italiana raccogliendo istanze maturate nel corso del decennio e rimaste irrisolte. Anche l’obiezione di coscienza ne è coinvolta. Muta il lessico: da una tensione spirituale si passa a una dimensione politica. Nei nuovi movimenti antimilitaristi, nelle dichiarazioni degli obiettori, il rifiuto del servizio militare a favore di un servizio civile da destinare ai più deboli è visto come parte della lotta di classe.
Cambia inoltre la forma dell’obiezione: a partire dal 1971 sorgono gruppi che presentano collettivamente il rifiuto del servizio militare con una dichiarazione congiunta. Divulgano la dichiarazione nelle piazze, decidono il momento della consegna alle autorità, si «auto distaccano» in servizi a favore degli emarginati attendendo l’arresto. Sono cattolici, anarchici, libertari, radicali con un linguaggio comune.
Alle manifestazioni non partecipa più una manciata di giovani, ma centinaia, talvolta migliaia.
A partire dal 1967, tutti gli anni, una marcia antimilitarista sfila da Milano a Vicenza (in seguito sarà da Trieste ad Aviano) passando davanti al carcere di Peschiera del Garda per manifestare solidarietà agli obiettori detenuti.
Alla mobilitazione tradizionale del Movimento nonviolento, orfano di Capitini, morto nel 1968, si affiancano nuovi soggetti, su tutti il Partito radicale. Non mancano i momenti di tensione: durante alcune manifestazioni, i pacifisti sono aggrediti da militanti di estrema destra o dalle forze dell’ordine e sottoposti a processo. Rispetto ad altre iniziative di piazza, in queste il grado di violenza rimane basso e unilaterale.
Attenzione crescente
Anche nel mondo cattolico prorompe dalle nuove generazioni una richiesta di rinnovamento.
Gli orrori della guerra nel Vietnam generano un’attenzione crescente verso il tema dell’obiezione e della nonviolenza che viene incanalata in particolare dal movimento di Pax Christi (nato in Francia nel 1945, arrivato in Italia nel 1954 per desiderio di mons. Montini, futuro Paolo VI), guidato dal 1968 dal vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi.
Tale sensibilità coinvolge anche le gerarchie della Chiesa, le quali già si confrontano con le esperienze radicali della «teologia della liberazione» – della quale diventa simbolo Camillo Torres – che contempla la lotta armata contro l’oppressione.
I pronunciamenti a favore dell’obiezione di coscienza si moltiplicano: Paolo VI vi fa cenno nella Populorum progressio, vescovi come Carraro a Verona e Pellegrino a Torino esprimono solidarietà agli obiettori.
Nel 1971 il Sinodo dei vescovi invita le nazioni a «favorire la strategia della nonviolenza» e a «regolare mediante le leggi l’obiezione di coscienza».
La legge
Il 14 dicembre 1972 la Commissione Difesa della Camera approva finalmente la legge che la riconosce. La mobilitazione della società civile ha coinvolto deputati dei diversi partiti, riuniti dall’indipendente di sinistra Luigi Anderlini in una Lega per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Episodio determinante, tuttavia, è il digiuno dei due militanti radicali Marco Pannella e Alberto Gardin che dura 38 giorni coinvolgendo larghe componenti della società civile e ottenendo la solidarietà di personalità della cultura francese e tedesca, tra cui tre premi Nobel. Il clamore mediatico spinge infine la maggioranza ad acconsentire al varo della legge.
Per obiettori e movimenti il successo, però, è amaro. Azione nonviolenta titola «Votata la legge truffa sull’obiezione di coscienza». Il provvedimento, infatti, manifesta le tracce di una certa diffidenza: il servizio civile dura otto mesi in più rispetto al servizio militare, l’obiettore rimane sottoposto al ministero della Difesa e alla giustizia militare, non sono riconosciute le motivazioni politiche, ma solo quelle religiose o filosofiche. Soprattutto, la domanda per il servizio civile è sottoposta al vaglio di una commissione.
Di fatto continueranno ad andare in carcere quegli obiettori che contesteranno l’impostazione della legge rifiutando il servizio civile o autoriducendolo, e gli obiettori non riconosciuti dalla commissione.
Un’altra difesa possibile
Nonostante i suoi limiti, la legge 772 rappresenta comunque una cesura: il servizio civile entra nella storia dell’Italia repubblicana, veicolando un’altra idea di difesa della patria: quella non armata. È una conquista ottenuta da un piccolo gruppo: fino al 1972, infatti, gli obiettori sono stati appena 708, dei quali 622 testimoni di Geova.
In un primo momento, l’inerzia del Parlamento che tarda ad approvare un regolamento attuativo del servizio civile permette che questo sia realizzato, in autogestione, dalla neonata Lega degli obiettori di coscienza e da alcune associazioni. Con la definitiva istituzionalizzazione del servizio civile nel 1977, il ruolo degli enti emerge con maggiore ampiezza: entrano in campo organizzazioni come Caritas e Arci.
L’obiezione di coscienza acquisisce allora quella dimensione di massa tanto attesa. Al tempo stesso, però, si riscopre diversa, legata più a una matrice solidaristica che ai principi di antimilitarismo e nonviolenza.
Nonostante le sue palesi contraddizioni, la legge 772 rimane in vigore fino al 1998, quando una nuova legge riconosce l’obiezione come un diritto. La parificazione etica e temporale del servizio civile è ottenuta grazie alla protesta degli autoriduttori che suscita una sentenza della Corte costituzionale.
Infine, nel 2001, il servizio civile diventa volontario.
Una volta esauritasi la spinta dell’obbligo militare, questa storia è forse diventata improvvisamente lontana. Sembra tuttavia tornare, a parlarci, di fronte all’immane dramma che sta funestando l’Ucraina, provocato dalla guerra offensiva di Putin. Ripropone infatti alcuni interrogativi che hanno travagliato la coscienza di quei giovani che desideravano bandire la guerra dall’umanità: la possibilità di una guerra giusta nell’era degli armamenti atomici, il rapporto tra autorità e coscienza, la possibilità di una difesa nonviolenta della patria.
Marco Labbate*
* È dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Collabora con il Centro studi Sereno Regis di Torino.
Un Dio amuleto (Es 32)
L’episodio del «vitello d’oro», nel quale il popolo d’Israele si lascia trascinare dal fascino illusorio di un’alternativa alla promessa concreta e vitale di Dio, è notissimo. Per gli antichi lettori del Primo Testamento era l’esempio definitivo della tentazione dell’idolatria, tanto che sarebbe poi stato ripreso diverse volte in più contesti.
Anche per i lettori moderni continua a essere particolarmente significativo, purché si riesca a penetrarlo in profondità.
Per farlo, dobbiamo richiamare due attenzioni da mantenere mentre lo leggiamo.
Due eccessi
Ci sono infatti due rischi che corriamo quando ci confrontiamo con testi antichi, Bibbia compresa. Ne abbiamo già parlato in passato, ma vale la pena ritornarci.
1. Leggere solo con gli «occhi» del nostro tempo.
Il primo rischio è quello di leggere queste pagine come se fossero state scritte oggi. Potremmo allora scandalizzarci per espressioni o presentazioni del divino che, fortunatamente, ci risultano ormai eccessive, violente e fuori luogo. La lunga frequentazione tra Dio e uomini ci ha progressivamente abituati a conoscerlo meglio, e, nel tempo, a raffinarci anche nel raccontarlo. L’essenziale del messaggio biblico (la vicinanza divina all’umanità tutta, senza alcun tipo di preferenza se non per i più deboli e poveri) resta vero, anche se le forme cambiano.
E leggere di un Dio severo, vendicativo, che punisce, castiga e uccide, ormai ci disgusta. Ottimo. Significa che a forza di stare con Dio ci siamo sempre più umanizzati, anche se quelle presentazioni dure erano efficaci e interessanti per i lettori di quel tempo, e in fondo dicevano il coinvolgimento divino con la sorte degli uomini.
2. Spiegare tutto solo andando alle origini.
C’è però anche il rischio opposto, per il quale un po’ di colpa è dei biblisti. Consiste nel tentativo di spiegare tutti i particolari complicati di un testo a partire da ipotesi sull’origine dello stesso. Si immagina che all’inizio tutto fosse chiaro, ma che poi, un po’ alla volta, nelle successive copiature e redazioni, si siano infilati errori e sovrastrutture che hanno reso il brano incomprensibile. E si ritiene che per capire si debba tornare proprio ai testi più originali e antichi. Così facendo, però, ci si dimentica che gli ultimi redattori che hanno messo mano al libro hanno deciso che, nella forma attuale, il racconto era chiaramente comprensibile per i loro lettori.
Rientrano in questo rischio i tentativi di spiegare che la religione cananea, che gli ebrei si sono trovati di fronte quando sono entrati nella terra promessa, immaginava spesso un Dio invisibile seduto su un trono altrettanto invisibile il quale era sorretto da un vitello. Tale vitello, sostegno del trono di Dio, era spesso rappresentato nei templi con statue ricoperte d’oro o anche in oro massiccio (è consueto collegare l’oro alla divinità). Due vitelli di questo tipo sarebbero stati posti, in epoca storica, al confine settentrionale e meridionale del regno di Samaria, come si racconta nel capitolo 12 del primo libro dei Re (il versetto 28 sembra preso direttamente da questo capitolo 32: «Il re preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: “Siete già saliti troppe volte a Gerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dei che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto”»). Questa pagina potrebbe allora essere una polemica nei confronti di un culto che di per sé, a essere precisi, non venerava i vitelli come dei, ma pensava che costituissero la parte visibile del trono del Dio invisibile. C’è chi ha sostenuto, quindi, che probabilmente Es 32 non facesse parte originariamente del testo, ma sia stato aggiunto a posteriori. L’allusione ai vitelli d’oro di Geroboamo nel primo libro dei Re è troppo chiara per non essere stata voluta, ma non ci dice di preciso chi si sia ispirato a chi (ossia quale testo sia stato scritto prima, Es 32 o 1 Re 12?).
Questa e altre considerazioni sono possibili, a volte addirittura probabili, e non è per nulla insensato porsi queste domande. Ma per noi che meditiamo sul libro dell’Esodo, il capitolo 32 merita di essere letto per come è oggi, a prescindere dal fatto che possa essere stato inserito in una versione successiva. Tanto più che ci sta anche discretamente bene, acquistando un suo senso compiuto e pieno, il quale ha un valore anche per i lettori odierni.
Che cosa si racconta
Il popolo che il Signore ha fatto uscire dall’Egitto, che ha attraversato il deserto, che si è trovato a decidere se stare con Dio o no (Es 19,1-8), è ora sotto il monte. Sopra, è salito solo Mosè. Anche se non tutta la dinamica narrativa è chiarissima, l’impressione lasciata dal racconto è che Dio abbia già finito di spiegare a Mosè non solo il decalogo, scritto su due tavole di pietra (Es 31,18), ma anche le norme che regoleranno il culto del tempio.
Intanto, però, il tempo passa («quaranta giorni e quaranta notti»: Es 24,18) e nell’accampamento l’inquietudine cresce: «A Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Il popolo chiede quindi ad Aronne, fratello di «quell’uomo», di dare loro un nuovo dio. E per farlo Aronne impoverisce il suo popolo, togliendogli quelle ricchezze che erano state donate dagli egiziani (Es 12,35-36) fondendole per farne una statua.
Poi, presenta il vitello d’oro come «il tuo Dio, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!» (32,4).
Come abbiamo già spiegato, c’è chi ritiene che, in qualche fase nell’evoluzione della religione ebraica, queste fossero forme religiose accettabili. In Es 32, però, il gesto è interpretato da Dio come un tentativo di esautorarlo, di dimenticarlo, al punto che propone a Mosè di dargli un altro popolo, distruggendo questo che era arrivato fino sotto al monte (v. 10).
Ed ecco che Mosè, quello stesso Mosè che in Es 4,13 aveva tentato di tirarsi fuori dal progetto di salvezza divina, di fronte all’idea di abbandonare i suoi compagni decide invece di reagire a Dio, e gli spiega che, se così facesse, verrebbe meno alla sua promessa e sarebbe schernito dagli egiziani stessi. È come se Mosè ricordasse a Dio la sua vocazione e la sua identità, cosa che può accadere solo se il rapporto tra i due è schietto e trasparente come tra amici.
Il primo incontro tra Mosè e il «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» era stato inevitabilmente segnato dalla distanza, dal timore magico, dalla solennità divina, quella stessa che si era mostrata nel mandare le piaghe all’Egitto, nel cammino attraverso il mare e il deserto. Quando però, in Es 19,1-8, Dio aveva tirato le somme, non aveva preteso l’ubbidienza di coloro che aveva salvato, ma aveva atteso la loro risposta libera, trattandoli alla pari.
Qui addirittura, come succede nelle relazioni umane più autentiche e profonde, è Mosè stesso a porsi, provvisoriamente, a un piano superiore, rimproverando il proprio Signore e richiamandolo a comportarsi da Dio, per non rinnegare se stesso. E «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14).
Solo a questo punto Mosè ritorna il violento e intransigente difensore della fedeltà a Dio, o addirittura del proprio ruolo: scende a valle, fa a pezzi e riduce in briciole il vitello, per poi scioglierlo in acqua e costringere tutti a berla (ecco che fine fanno le ricchezze portate via all’Egitto!), comanda uccisioni casuali (una violenza terribile che ripugna alla nostra sensibilità) e poi ritorna sul monte, invocando il perdono del popolo (32,30-32) e riscrivendo le tavole della legge. Per altri quaranta giorni e notti.
Libertà o smarrimento?
È come se il racconto, a questo punto, ci sveli i suoi contenuti, che sono in qualche modo risposta e completamento a ciò che si diceva nel capitolo 19. In quel testo Dio, dopo aver condotto il popolo fin lì, si rimetteva al loro giudizio e aspettava che gli dicessero se volevano davvero diventare la sua eredità tra le genti o no. Un atto nel quale la libertà umana veniva sopra a tutto.
Ma già all’uomo antico, come pure – e ancor più – a noi, poteva venire in mente l’idea che in fondo servire Dio era solo un’altra forma di schiavitù, dalla quale, invece, pensavano di essere stati liberati. Essere liberi non significa forse non avere padroni? E un Signore, per quanto divino, non è, appunto, un padrone?
Questo episodio in qualche modo risponde alla questione. Il popolo che recalcitrava, che aveva rimpianto le cipolle d’Egitto, che già aveva contestato tante volte Mosè, quando non lo vede tornare, non si sente finalmente libero, ma smarrito, e chiede che qualcuno lo guidi, che ne sia il capo. Non trovando nessun altro, decide di farsi un dio da sé. Questo dio, però, è solo una statua che non può parlare né udire né muoversi, che non può proteggerlo dai nemici, che non può custodirlo e accompagnarlo. In fondo è solo un dio piccolo piccolo, per restare sotto al quale occorre sdraiarsi, prostrarsi.
L’intuizione è quasi psicologica, pienamente moderna. L’essere umano ha bisogno di un «sopra di lui», ha bisogno di un trascendente che lo renda autenticamente pieno. Se non lo trova, se pensa di essere rimasto senza dio, se lo crea, si inventa qualcosa da servire: saranno i consumi domenicali, l’apparenza fisica, l’orgoglio di «appartenere» a una squadra sportiva (di solito senza scendere in campo), di fare parte del gruppo «giusto», di immaginarsi invidiati da altri per il patrimonio, per la macchina o il telefono nuovo, e tanto altro. Tutte passioni piccole, poco significative, che ci abbassano sotto la nostra dignità autentica. L’uomo lasciato senza nessuno sopra di sé, si costruisce qualcuno o qualcosa a cui obbedire, e gli si prostra davanti. Vivendo peggio.
Certo, il dio costruito dall’uomo ha il vantaggio di stare dove lo si mette, di essere prevedibile, «sicuro», di poter essere chiuso a chiave nelle proprie stanze. Il Dio che si è ricordato del suo popolo sofferente, invece, ama la libertà, non sopporta di essere ridotto a un amuleto, desidera essere amato e amare.
Acquista un pieno significato adesso una frase che Dio aveva apparentemente buttato lì durante il suo primo colloquio con Mosè. Alla richiesta di un segno che potesse renderlo credibile di fronte al popolo, il Signore aveva risposto: «Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). Solo adesso sappiamo che quella di Mosè era stata una chiamata davvero divina. E lo sappiamo in quanto il popolo non serve più padroni umani, che lo costringeranno a sdraiarsi a terra, ma colui che l’uomo può contemplare restando ben dritto e con lo sguardo fisso al cielo. Perché è questo a segnare la differenza tra la schiavitù, vissuta per costrizione, e il servizio, liberamente scelto nei confronti di un «tu» autentico e pieno: il secondo è una scelta autonoma, a vantaggio di qualcuno che desidera essere amato. Chi si mette a servizio di colui che ama, non è schiavo.
La monarchia cambogiana è dominata da Hun Sen e dalla sua famiglia. L’economia del paese asiatico cresce, ma i costi sociali e ambientali sono molto alti.
Dopo le elezioni amministrative, svoltesi nel giugno di quest’anno, la Cambogia si prepara ad affrontare la sfida, ben più impegnativa e importante, del rinnovo del parlamento in un clima di tensione e di incertezza.
Hun Sen, da decenni indiscusso padre padrone dell’intero paese assieme alla sua famiglia (approfondimento pp. 40-41), è al potere, pressoché ininterrottamente, dal 1985, e in questi ultimi due anni, con la scusa del Covid-19, ha rafforzato il suo dispotismo limitando ulteriormente i diritti civili e politici. Nel marzo 2020, sulla base delle restrizioni pandemiche, è stata approvata una legge che prevedeva il carcere fino a 20 anni e 5mila dollari di multa per chiunque violasse le regole restrittive. Approfittando di queste disposizioni, il governo ha abusato del suo già enorme potere colpendo la debole struttura sindacale e i diritti dei lavoratori. Tra il marzo e l’ottobre 2021, con l’accusa di violazione delle leggi sul Covid, sono state arrestate circa settecento persone, la maggior parte delle quali scese in sciopero per chiedere maggiori tutele sui luoghi di lavoro1.
È questa una delle tante (e neppure l’ultima) denunce, fatte dagli organismi internazionali, di abusi e violazioni dei diritti umani che hanno colpito tutti i settori della società del paese del Sud Est asiatico. L’ultima ondata di «repulisti» che ha interessato la parte politica più critica verso il dispotismo di Hun Sen e del suo partito, il Partito del popolo cambogiano (Cambodian people’s party, Cpp), è iniziata nel 2012 concentrandosi verso le due principali figure dell’opposizione, Kem Sokha e l’inaffidabile (ma, a quanto pare, inaffondabile) Sam Rainsy.
Ascesa e caduta di Kem Sokha
Sokha è forse il politico più rispettato a livello nazionale: dopo aver fondato il Centro cambogiano per i diritti umani, nel 2012 è entrato prepotentemente in politica fondando il Cnrp (Cambodian national rescue party), un partito nato dalla fusione del Human rights party con il Sam Rainsy party. L’alleanza, criticata da molti per la figura poco limpida, ambigua e ondivaga di Sam Rainsy, ha però trovato il consenso degli elettori, tanto che nel 2013, il Cnrp ha sfiorato il sorpasso sul Cpp2. Sokha ha ravvivato la scena politica nazionale portando una ventata di democrazia diretta, invitando la popolazione ad esprimere liberamente il suo pensiero in incontri settimanali a cui lui stesso partecipava nei villaggi della nazione. È stato anche il primo oppositore di Hun Sen a ricoprire una carica istituzio- nale, divenendo nel 2014 vicepresidente del parlamento. La sua popolarità è cresciuta verticalmente, tanto che in Cambogia, dopo il successo ottenuto nelle elezioni amministrative del 2017, si prospettava addirittura un cambio di governo nelle elezioni generali dell’anno seguente3.
Anche il Cpp, dopo anni di indiscusso potere, si sentiva braccato e così ha allestito la più spettacolare e contorta messinscena dopo quella del 1997 per estromettere il diretto rivale. Kem Sokha è stato prima condannato a 5 mesi di galera per sfruttamento della prostituzione (Khem Chandaraty, la principale testimone ha poi ritrattato le accuse affermando di aver avuto forti pressioni da parte degli investigatori del governo per montare il caso contro Kem Sokha)4, poi, il 3 settembre 2017, in una scenografica operazione di sapore hollywoodiano che ha coinvolto più di cento agenti di polizia, è stato arrestato con l’accusa di aver cospirato con gli Stati Uniti per scalzare Hun Sen dal governo e instaurare un regime asservito a Washington. Dopo aver trascorso più di un anno nella prigione di Trapeang Phlong, nell’isolata provincia di Tbong Khmun, al confine con il Vietnam, è stato posto agli arresti domiciliari il 10 settembre 2018 in attesa di processo.
Nel frattempo, nel novembre 2017, la Corte suprema cambogiana, controllata dal partito di governo5, ha sciolto il Cnrp obbligando molti attivisti a fuggire all’estero e ha vietato a 118 dei suoi membri di fare politica per i successivi cinque anni6. Senza alcuna opposizione, le elezioni del 2018 hanno visto la totalità dei seggi parlamentari andare a favore del Cpp7.
Giornali chiusi e repressione
La dissoluzione del Cnrp è stato l’inizio di una repressione più generale e feroce verso Ong, giornali indipendenti, associazioni per i diritti umani e ambientaliste, tanto che Phil Robertson, vicedirettore della sezione asiatica di Human rights watch, ha detto che «i governi stranieri, le Nazioni Unite e i paesi donatori dovrebbero chiedere la fine di questi attacchi verso oppositori politici e a ciò che rimane della democrazia in Cambogia»8.
Nel settembre 2017 lo storico quotidiano Cambodia Daily è stato costretto a chiudere, mentre nel maggio 2018 l’editore dell’altro quotidiano di punta, il Phnom Penh Post, fondato da Michael Hayes e la moglie Kathleen O’Keefe, è stato acquisito da una compagnia malese di proprietà di Sivakumar Ganapthy, un editore strettamente collegato con Hun Sen e che ha diretto l’ufficio stampa e le relazioni pubbliche del governo cambogiano9.
Non contenta, la Corte municipale di Phnom Penh ha condannato il 17 marzo 2022, venti appartenenti al Cnrp a 5-10 anni di prigione. Tra gli accusati figurano personaggi di spicco dell’opposizione cambogiana, come Sam Rainsy che, assieme a Eng Chai Eang e Mu Sochua, dopo essersi autoesiliati all’estero, nel novembre 2019 avevano affermato di avere intenzione di tornare in Cambogia per preparare la loro partecipazione alle elezioni del 2023. Le accuse verso i venti oppositori coprono un ampio ventaglio di imputazioni: dall’aver creato una rete segreta che avrebbe avuto l’obiettivo di destabilizzare il paese, al rovesciamento violento del potere con l’aiuto di militari, per terminare con l’aver utilizzato la pandemia per minare la credibilità del governo e organizzare sommosse popolari.
Ad oggi più di settanta avversari politici di Hun Sen sono detenuti nelle carceri cambogiane10.
Opposizione frastagliata e divisa
A rivendicare il posto occupato dall’ormai defunto (o, per meglio dire, soffocato) Cambodia national rescue party è il Candlelight party (Partito della luce della candela, Cp), voluto da Sam Rainsy dopo che con Kem Sokha, nel 2021, si è consumato l’ennesimo brutto divorzio politico dell’opposizione cambogiana, scandito da insulti e recriminazioni che i due leader si sono lanciati a vicenda11,12. Presidente del Cp è Thach Setha, che si è chiaramente definito leader del movimento successore del Cnrp, ma il cui partito ha adottato un logo ereditato dal Sam Rainsy party.
La partita si deciderà nei prossimi mesi quando la Corte di giustizia sarà chiamata a decidere sulla sorte dei due leader, uno agli arresti domiciliari in attesa di processo, l’altro in esilio. Probabilmente, come già accaduto in passato per altri rivali del Cpp, a Kem Sokha sarà concessa un’amnistia da parte del re Norodom Sihamoni. Questo gli permetterebbe di partecipare alle elezioni del 2023, sebbene monco del suo partito e della sua dirigenza.
Anche il vecchio contendente del Cpp, il Funcinpec, il cui nome – «Fronte unito nazionale per una Cambogia indipendente, neutrale, pacifica e cooperativa» – è più lungo della lista dei suoi elettori, intende ripresentarsi alle elezioni in veste rinnovata dopo un lungo periodo di ibernazione. Nel febbraio 2022, il principe Norodom Chakravuth, è stato eletto presidente del partito, espressione della monarchia cambogiana e fondato dal suo inconcludente padre Norodom Ranariddh che, negli anni Novanta, aveva conteso al Cpp la direzione del governo13.
Durante il suo primo discorso da presidente, Chakravuth ha detto di avere intenzione di riunire «sihanoukisti e ranariddisti» in un’unica compagine politica così da poter competere alle prossime elezioni nazionali con Hun Sen14. Ma il Funcinpec oggi raccoglie pochissimi voti ed è spesso visto più come compagine d’appoggio al Cpp di Hun Sen che come suo avversario.
Un altro partito dell’opposizione, spin off del Funcinpec, è il Partito di unità nazionale Khmer, guidato dall’ex generale Nhek Bun Chhay, ex fedelissimo di Ranariddh, ma oggi in rotta con suo figlio Chakravuth.
Il Cpp probabilmente permetterà a un’opposizione frastagliata e divisa di partecipare alle elezioni: oltre a non rappresentare una minaccia per il monopolio politico di Hun Sen, la presenza di piccoli movimenti indipendenti permetterebbe al primo ministro di presentarsi come politico democratico e ottenere la fiducia economica delle potenze occidentali.
Sempre per «il bene del popolo»
Per prepararsi al meglio, Hun Sen sfrutta ogni apparizione pubblica e, approfittando delle numerose inaugurazioni di strutture statali e private, monopolizza il dibattito per convincere l’elettorato cambogiano sul motivo per cui dovrebbe votare per il Cpp.
«Il Cpp è il partito al governo. Noi non vogliamo sfruttare elettoralmente le manifestazioni pubbliche, ma abbiamo un ritorno di immagine per i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra amministrazione», ha detto Sok Ey San, portavoce del Cpp, aggiungendo che «il presidente del Cpp è anche primo ministro, così il presiedere e partecipare a cerimonie è anche un modo per mostrare ciò che abbiamo fatto per il bene del popolo».
Il 30 marzo 2022 il premier giapponese Fumio
Kishida ha visitato la Cambogia chiedendo a Hun Sen che le prossime elezioni politiche siano libere e regolari ponendo termine a cinque anni di monopolio del partito unico e di repressione da parte del Cpp e dei suoi dirigenti.
Due settimane dopo però, un centinaio di membri dell’opposizione del Candlelight party che avrebbero dovuto partecipare alle elezioni comunali tenutesi il 5 giugno 2022, sono stati banditi dalla consultazione elettorale, mentre altri sono stati arrestati e picchiati.
Con l’opposizione alle corde, divisa al suo interno e il clima di intimidazione, l’interesse delle elezioni del 2023 non sarà tanto su chi le vincerà, ma sulla percentuale con quale il Cpp surclasserà gli altri concorrenti.
Da Hun Sen a Hun Manet?
Hun Sen, ormai settantenne, si prepara a espletare quello che, con tutta probabilità, sarà il suo ultimo mandato, e sfrutterà i prossimi cinque anni per assicurare la successione al figlio primogenito, il quarantacinquenne generale Hun Manet, già da lui presentato come futuro primo ministro15.
Diplomato alla West Point e plurilaureato, Hun Manet sembra essere assai differente dal padre, anche se, sino a oggi, si è tenuto ai margini della politica preferendo la carriera militare.
La serie di battaglie combattute nel 2011 con la Thailandia per il controllo del tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.47-48), è stata il suo battesimo del fuoco ed è servita per proiettarlo ai vertici delle forze armate cambogiane.
Per molti, Hun Manet potrebbe essere il giro di boa per un cambio nella politica nazionale: mentre il padre è cresciuto tra le file dei Khmer Rossi in un clima di guerra e di oppressione portando con sé tutto il fardello di violenza e insicurezza in cui si è sviluppata la sua formazione, il figlio ha speso gli anni della maturità negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Nel 2020 è stato nominato membro permanente del Comitato centrale del Cpp e capo della Commissione giovanile del partito16.
Molti si aspettano che con Hun Manet cambi in meglio l’immagine che il governo cambogiano ha dato di sé sino ad ora.
Segnali contrastanti
Negli ultimi anni si sono registrati sviluppi che possono far ben sperare: l’economia nel 2021 è cresciuta del 3% rispetto a una contrazione del 3,1% del 202017. Nel 2022 e nel 2023 ci si aspetta un aumento rispettivamente del 5,3% e del 6,5% nonostante l’invasione russa dell’Ucraina18.
Il Pil pro capite, che nel 2000 era di 288 Usd, nel 2020 era salito a 1.543 Usd. Secondo la Banca mondiale, nel 2030 raggiungerà i 3.896 Usd per balzare a 12.056 Usd nel 2050. Un aumento che proietterà la Cambogia tra i paesi a più alto sviluppo nel Sud Est asiatico19.
I progressi economici non vanno di pari passo con quelli dei diritti umani, di cui la Cambogia non rappresenta certo un modello da seguire, ma l’errore è pensare che il Cpp, Hun Sen e il governo siano i soli responsabili di questi problemi. L’opposizione, in particolare quella che fa a capo a Sam Rainsy, al Funcipec e al Cnrp, ha sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo Khmer in versione antivietnamita e antiislamica per raccogliere consensi tra l’elettorato.
Nel 2010 Sam Rainsy incitò i contadini cambogiani di alcuni villaggi del distretto di Chantrea, nella provincia di Svay Rieng, a spostare i paletti che marcavano il confine con il Vietnam affermando che funzionari del Cpp cambogiano e del Partito comunista vietnamita si erano accordati per rimuovere i picchetti originari all’interno del territorio della Cambogia20.
Nel 2013 i gruppi di opposizione organizzarono proteste fuori l’ambasciata vietnamita a Phnom Penh che sfociarono in violenti attacchi della folla contro cittadini cambogiani di origine vietnamita e attività da loro gestite.
La messa al bando del Cnrp nel 2017, se da una parte ha portato il regime di Hun Sen a spazzare ogni pericolo di competizione e di controllo sul suo operato nel parlamento e nel paese, dall’altro ha avuto come effetto quello di calmare le proteste e i sentimenti xenofobi all’interno della popolazione khmer.
È indubbio che, negli ultimi 20 anni, sotto l’attuale regime la Cambogia abbia fatto grandi progressi nella riduzione della povertà e nello sviluppo umano21.
Tra il 1990 e il 2019, l’Hdi (Human development index, Indice di sviluppo umano) cambogiano è aumentato da 0,368 a 0,594 con un’aspettativa di vita aumentata da 53,6 anni a 69,8 anni e un indice Gini salito da 1,008 a 4,24622,23. Ci si aspetta che, entro il 2023, la Cambogia diventi un paese con uno stipendio medio di livello medio alto24.
Il governo, da parte sua, ha approfittato delle proteste nazionaliste per arrestare e sopprimere movimenti scomodi, sia in ambito politico, che economico. Nel luglio 2020 il presidente della Confederazione dei sindacati cambogiani, Rong Chhun, che si batte da anni per i diritti dei lavoratori tessili, è stato arrestato dopo aver visitato una comunità lungo il confine cambogiano vietnamita e aver criticato, come aveva fatto Sam Rainsy, il governo per aver rivisto il tracciato di confine facendo perdere terra ai contadini cambogiani. È stato rilasciato il 5 novembre 202125.
Giornalisti e Ong in pericolo
Oltre alla gente comune, chi fa le spese di questa situazione sono le Ong e le associazioni che si occupano di diritti umani.
Il 10 luglio 2016 Kem Ley, uno dei più acuti giornalisti politici fortemente critico non solo nei confronti di Hun Sen, ma anche dell’opposizione, venne ucciso in una stazione di servizio a Phnom Penh.
Ai suoi funerali parteciparono decine di migliaia di persone che accompagnarono il feretro al tempio buddhista dove venne esposto con una bandiera cambogiana e letteralmente coperto da fiori.
Ancora oggi, mentre l’assassino (Oeuth Ang) è stato arrestato, non si è scoperto il mandante. Come altri attivisti anche loro uccisi (Chea Vichea nel 2004 e Chut Wutty nel 2012), Kem aveva pesantemente criticato Hun Sen e la sua famiglia per la deforestazione del paese e per essere coinvolti in casi di corruzione. Pochi giorni prima, il giornalista aveva firmato quella che per molti fu la sua condanna a morte commentando Hostile Takeover, il dettagliato rapporto di una Ong, la Global Witness, pubblicato tre giorni prima, il quale rivelava tutti gli intrallazzi politici e finanziari della famiglia di Hun Sen, nonché i collegamenti con alcune delle «principali compagnie internazionali inclusa la Apple, Nokia, Visa, Procter & Gamble, Nestlé e Honda»26.
Phay Siphan, portavoce del governo, disse allora che, mentre la gente è libera di onorare la memoria di Kem Ley, non è accettabile accusare il governo o Hun Sen di essere il mandante della sua uccisione: «Se qualcuno ha delle prove concrete, venga e le mostri al governo e al tribunale. Non vogliamo sentire accuse gratuite verso Hun Sen. Se ci sono delle prove, che vengano mostrate».
Proprio qui sta il problema: dal 2015 una legge permette al governo di chiudere e bandire dal paese le Ong che criticano apertamente la politica cambogiana27.
Inoltre, dopo la pubblicazione di Hostile Takeover, chiunque voglia approfondire notizie e valutare dati riguardanti attività pubbliche e ministeri, deve registrarsi sui relativi siti lasciando così tracce che possano ricondurre all’identità della persona e, quindi, all’identità della persona.
Raccogliere prove significa spesso condannarsi e questo rende più difficile la democratizzazione del paese e la lotta alla corruzione.
Il problema ambientale
Questo vale anche nel campo ambientale, un tema particolarmente attuale e scottante, tanto da divenire uno dei principali campi su cui si affrontano i diversi schieramenti del paese.
Nel 2021, dieci Ong che operano in Cambogia, impegnate in questioni e progetti idrici, hanno lodato il governo cambogiano per aver affermato, durante la Conferenza sui cambiamenti climatici Cop 26 di Glasgow, di non volersi impegnare in progetti di costruzione di centrali idroelettriche sul Mekong28.
Il coordinatore del Forum delle Ong, Mak Bunthoeurn ha però aggiunto che l’esempio della Cambogia sarà inutile se non verrà seguito dagli altri stati che hanno progetti simili lungo i tratti del Mekong che scorrono sul loro territorio29,30.
Più ambigua è la posizione del governo nella questione della deforestazione. Sebbene sia difficile quantificare la velocità di disboscamento in Cambogia (i dati variano anche di molto a seconda degli studi), una media approssimativa giunge alla conclusione che nel 2010 il 60% del territorio cambogiano era ricoperto da foreste; nel 2020, la percentuale era scesa al 45,7%31.
Tra il 2000 e il 2019 la perdita di foreste cambogiane è stata di 27mila km2, pari al 14,8% della superficie del paese e al 26,4% delle foreste.
La deforestazione è aumentata a partire dalla fine degli anni Novanta quando i Khmer Rossi furono sconfitti definitivamente e il loro movimento sciolto. Da allora le dispute sui terreni sono cresciute anche in modo violento e i litigi, principalmente tra villaggi, sono stati utilizzati da governo e opposizione per loro fini sia elettorali che economici (la deforestazione arricchisce anche gruppi dell’opposizione cambogiana). Il prepotente ingresso di gruppi economici con ramificazioni internazionali e con appoggi politici sia dell’una che dell’altra parte ha aumentato esponenzialmente questo problema.
Secondo Hun Sen, la perdita di foreste in Cambogia è principalmente dovuta all’aumento demografico: «Il 7 gennaio 1979, quando i Khmer Rossi vennero sconfitti, in Cambogia vivevano circa cinque milioni di persone; oggi la popolazione è aumentata a 16 milioni. […] Negli anni Ottanta la Cambogia aveva un milione di ettari coltivati a uso agricolo; oggi, a causa dell’aumento della popolazione la richiesta di terra per coltivazioni è aumentata a quattro milioni di ettari. Da dove credete che venga questa terra? Alcuni si lamentano che le foreste stanno scomparendo. Ma voi potete ben vedere che le foreste scompaiono perché enormi superfici una volta coperte da foreste, oggi sono diventate terre coltivate dai contadini»32.
Le Ong ambientaliste hanno però accusato il governo di non far nulla per contrastare il commercio illegale di legname verso il Vietnam, che già dal 1986 ha iniziato a sfruttarlo. Secondo l’Eia (la Environmental investigation agency), tra il 2016 e il 2018 più di mezzo milione di metri cubi di legname, per un valore di 290 milioni di dollari, è transitato illegalmente attraverso la Cambogia per raggiungere il Vietnam33,34.
E, a differenza di quanto afferma Hun Sen, tra il 2001 e il 2019, il 92% della deforestazione è stato causato dalle compagnie del legname35.
Il governo cede concessioni a multinazionali, compagnie locali o anche a piccoli proprietari terrieri al fine di generare «sviluppo nazionale, creare lavoro nelle aree rurali e sfruttare le aree non utilizzate» per scopi agricoli o, nella maggior parte dei casi, per sviluppare piantagioni a monocoltura.
Tutte le aree soggette a taglio devono essere all’interno delle Concessioni economiche terriere (Economic land concessions, Elc) e le Concessioni sociali terriere (Social land concessions, Slc) che legalmente non dovrebbero superare i 10mila ettari per ciascuna, limite che spesso viene superato.
È compito del ministero dell’Ambiente identificare le Elc, ma sempre più spesso i funzionari del ministero tracciano i confini anche dentro le aree protette. Fino al 2018 il ministero dell’Ambiente aveva concesso 227 Elc per un totale di 1.225.254 ettari, pari al 6,8% dell’intera superficie cambogiana a cui si devono aggiungere 28 piantagioni di caucciù private per un totale di 176.297 ettari.
Una nuova «tigre asiatica»
La Cambogia si sta avviando verso un ambizioso programma di sviluppo economico. Gli indicatori socioeconomici indicano che il paese sarà la prossima «tigre asiatica». Saranno in molti a beneficiarne, ma se non si pone un limite al degrado ambientale e non si pensa anche agli strati più deboli ed emarginati della società, il progresso rischierà di trasformarsi in instabilità.
E negli anni Settanta la Cambogia ha già sperimentato questa strada.
Piergiorgio Pescali
Note:
Phorn Bopha, Cambodia “bleeding” as space for civil society shrinks, Al Jazeera, 3 novembre 2021.
Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 28 luglio 2013. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 48,83% dei voti, mentre il Cnrp raggiunse il 44,46% dei consensi.
Amaël Vier e Karel Jiaan Galang, The 2017 International Election Observation Mission (Ieom) of the Asian Network for Free Elections (Anfrel) to the Kingdom of Cambodia’s Commune and Sangkat Council Elections – Final Report, §Voter Turnout and Election Results, Asian network for free elections (Anfrel), Bangkok, luglio 2017, p. 25. Il Cpp, che ottenne in totale il 50,76% dei voti, si aggiudicò 6.503 seggi consigliari e la guida di 1.156 comuni. Il Cnrp, con il 43,83% dei voti, ottenne 5.007 seggi consigliari e la guida di 489 comuni.
Khmer Times, Adhoc on Defensive after Accusations, 26 aprile 2016 e Human rights watch (Hrw), Cambodia: Drop Fabricated Charges against “Adhoc 5”, 26 agosto 2018.
Alec Thomson, A fork in the road: a civil rights case study of Cambodia and Somaliland – §Modern Law, Cambridge University – Law Society.
Human rights watch (Hrw), Cambodia: Supreme Court Dissolves Democracy, 17 novembre 2017.
Election guide, Kingdom of Cambodia, Election for Radhsphea Ney Preah Recheanachakr Kampuchea (Cambodian National Assembly), 29 luglio 2018. Il Cpp ottenne la maggioranza con il 76,78% dei voti e tutti i 125 seggi parlamentari.
Human rights watch (Hrw), Cambodia, Opposition Politicians Convicted in Mass Trial, 17 marzo 2022.
The Phnom Penh Post, Post senior staff out in dispute over article, 8 maggio 2018.
Human rights watch (Hrw), Political Prisoners Cambodia, 10 marzo 2022
Ben Sokhean, Sokha slams Rainsy for accusing him of being under threat from PM, Khmer Times, 2 dicembre 2021.
Ananth Baliga e Ouch Sony, Cnrp Rift Out in the Open as Kem Sokha Distances Himself from Rainsy, Vod, 29 novembre 2021.
Khmer Times, Prince Norodom Chakravuth elected as Funcinpec party president, 9 febbraio 2022.
(Yin Soeum, Prince Norodom Chakravuth unanimously elected Funcinpec president, Khmer Times, 10 febbraio 2022.
Sorn Sarath, Hun Manet could be PM as soon as next mandate, Hun Sen, CamboJA News, 20 dicembre 2021.
Mao Sopha e Torn Chanritheara, Hun Manet Appointed Head of CPP’s Youth Wing, Cambodianess, 9 giugno 2020.
Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic performance, 2021, p. 1.
Asian development bank, Asia Development Outlook 2022 – Cambodia, § Economic prospects, 2021, p. 2.
The World Bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
Meas Sokchea, PM dismisses possible pardon for Sam Rainsy over VN border charges, The Phnom Penh Post, 6 gennaio 2010.
Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, Aprile 2021, p.1.
Undp, Human Development Report 2020 – The Next Frontier: Human Development and the Anthopocene – Briefing note for countries on the 2020 Human Development Report – Cambodia, § 2.1- Cambodia’s Hdi value and rank, p. 2.
L’indice Gini misura la disuguaglianza di reddito della popolazione: maggiore è l’indice Gini meno equamente distribuito è il reddito. Secondo uno studio del World Institute for Development Economics Research, l’indice Gini ottimale è compreso tra 0,25 (paesi del Nord Europa) e 0,40 (Cina, Usa).
Asian development bank, Member Fact Sheet – Cambodia, aprile 2021, p.1.
Front Line Defenders, Cambodian human rights defenders released after more than one year in prison, 16 novembre 2021
Global witness, Hostile Takeover, luglio 2016, p. 13.
Licadho, New Draft Law Reaffirms Culture of Control , 11 giugno 2015
Le 10 Ong sono Culture and Environment Preservation Association (Cepa); Fisheries Action Coalition Team (Fact); North-eastern Rural Development (Nrd); Nak Akphivath Sahakum (Nas); Ngo Forum on Cambodia (Ngof); Mlup Promviheathor Center Organization (Mpc); My Village Organization (Mvi); Oxfam in Cambodia, Women’s Community Voices (Wvc); 3S Rivers Protection Network (3Spn).
La Cina ha già costruito undici dighe sul corso del Mekong (Wunonglong, Lidi, Huangdeng, Dahuaqiao, Miaowei, Gongguoqiao, Xiaowan, Manwan, Dachaoshan, Nuozhadu e Jinghong), il Laos due (Xayaburi e Don Sahong). La Cina ha in progetto la costruzione di altre tre dighe (Toba, Ganlanba e Mengsong) e il Laos di altre sette (Pak Beng, Luang Prabang, Pak Lay, Sanakham, Pak Chom, Ban Koum, Phou Ngoy). La Cambogia ha cancellato le previste dighe di Stung Treng e Sambor.
Lo sviluppo del bacino del Mekong è deciso dalla cooperazione di 13 organismi appartenenti a sei paesi – Cina, Laos, Myanmar, Thailandia, Cambogia, Vietnam -, che operano in vari campi.
The world bank, World Bank Group Country Survey 2021 – Cambodia, 26 gennaio 2022.
Kouth Sophak Chakrya, Hun Sen blames forest loss on population rise, Phnom Penh Post, 7 giugno 2018.
Environmental investigation agency (Eia), Repeat offender: Vietnam’s persistent trade in illegal timber, maggio 2017.
Environmental investigation agency, Eia responds to Vietnam wood industry over criticism of timber crime exposé, 17 luglio 2018.
Global forest watch, Primary forest loss in Cambodia, 2 maggio 2022.
Scheda Cambogia (Kampuchea)
Piccole minoranze in un paese buddhista
Superficie: 181mila Km2;
Popolazione: 16,7 milioni (2020);
Capitale: Phnom Penh (2,2 milioni di abitanti);
Orografia: pianura alluvionale attraversata dal Mekong da Nord a Sud; bacino idrografico del Tonlé Sap (lago e fiume);
Sistema politico: monarchia parlamentare;
Re e primo ministro: re Norodom Sihamoni (dal 2004); primo ministro Hun Sen (dal 1985, Partito del popolo cambogiano);
Date essenziali: 802-1431, Impero khmer; 1953 (novembre), indipendenza dalla Francia; 1970-’75, Repubblica khmer; 1975-’79, regime dei Khmer rRossi; 1979-’89, occupazione da parte del Vietnam; 1997, Tribunale speciale per i Khmer Rossi;
Principali gruppi demografici: khmer 87% (lingua khmer, religione buddhista theravada), vietnamiti, laotiani, thailandesi;
Religioni principali: buddhisti 95% (corrente theravada); musulmani 2% (in particolare, i Cham); cristiani 2% (0,5% cattolici);
Economia: principalmente rurale e agricola, la produzione più importante è quella del riso; industria tessile e turistica (in particolare, per Siem Reap che ospita il sito archeologico di Angkor);
Regioni contese: la zona del tempio di Preah Vihear contesa con la Thailandia;
Problemi principali: grado di corruzione molto elevato; presenza di lavoro minorile e schiavo; traffico di droga; l’organizzazione Freedom House definisce la Cambogia un paese «non libero».
(a cura di Paolo Moiola)
Il ritratto
Hun Sen e famiglia, i padroni
Il 5 agosto 1952, in un piccolo villaggio della provincia di Kompong Cham, nacque Hun Bunal. Suo padre, Hun Neang, era un monaco di un piccolo tempio locale prima di aderire alla resistenza anticoloniale. La famiglia Hun era una Khmer Kat Chen, cioè di origini cinesi. Ricca, proprietaria terriera, fu costretta a trasferirsi a Phnom Penh a causa di un tracollo economico. Qui Hun Bunal cominciò a frequentare la scuola buddhista cambiando il nome in Ritthi Sen.
Dopo il colpo di stato di Lon Nol, nel 1970, Bunal si unì ai Khmer Rossi facendosi chiamare Hun Samrach e poi, dal 1972, Hun Sen.
Comandante militare della Regione orientale durante il periodo di Kampuchea Democratica, nel 1977 fuggì in Vietnam per scappare dalle purghe che stavano decimando i quadri del partito ostili a Pol Pot.
Assieme ad altri leader militari e politici che disertarono le fila dei Khmer Rossi, partecipò all’invasione vietnamita della Cambogia nel 1979 divenendo vice primo ministro e ministro degli Esteri sotto il governo di Heng Samrin.
Nel lontano 1985
La svolta politica avvenne nel 1985 quando fu eletto primo ministro. Da allora Hun Sen non ha mai smesso di ordire trame e intrallazzi per mantenere il potere, anche quando i risultati elettorali lo vedevano sconfitto, e disporre le sue pedine nei posti chiave delle istituzioni cambogiane.
Già due anni dopo essere stato nominato primo ministro, Amnesty International espresse «preoccupazione per rapporti di torture di prigionieri politici imprigionati senza accuse o processi»1.
Nel 1997, dopo che le elezioni di quattro anni prima avevano consentito al Funcipec di Ranarridh Sihanouk di raggiungere la maggioranza e di dividere la poltrona di primo ministro con Hun Sen, quest’ultimo inscenò un colpo di stato in cui vennero giustiziate almeno cento persone a lui ostili. Recentemente una corte francese2 ha emanato un mandato di arresto per Hun Sen e altri due generali, Huy Piseth e Hing Bun Heang, con l’accusa di aver pianificato, organizzato ed essere mandanti di un attentato compiuto il 30 marzo 1997 durante un raduno del partito di opposizione Khmer nation party di Sam Rainsy che costò la vita a 16 manifestanti e il ferimento di altri 150, tra cui lo stesso leader del movimento3.
Immense ricchezze familiari
La carica di capo del governo, però, garantisce a Hun Sen l’immunità, rendendo impossibile ogni attuazione del procedimento internazionale, come hanno chiaramente fatto sapere sia il ministero degli Esteri che il ministero per l’Europa francese. Fino al 2016, quando la Ong Global Witness pubblicò un dettagliato rapporto, Hostile Takeover, nessuno era riuscito a stabilire con esattezza l’estensione dei gangli della famiglia Hun nell’economia cambogiana e internazionale. A causa di questa inchiesta, il ministero del Commercio cambogiano, ha ristretto ogni accesso alle informazioni delle aziende, nazionali ed estere, che operano sul territorio.
Secondo il rapporto della Global Witness, la famiglia di Hun Sen deterrebbe una ricchezza stimata tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari4.
I ventuno membri della famiglia hanno interessi in 114 compagnie nazionali con un capitale di 200 milioni di Usd5 e detengono il monopolio della produzione di caucciù, la seconda voce agricola del paese dopo il riso, di sei compagnie minerarie, di sette compagnie di costruzioni edilizie, di cinque compagnie energetiche (settore di enorme sviluppo in Cambogia).
Moglie, figli, nipoti in ruoli chiave
La moglie di Hun Sen, Bun Rany, è presidente della Croce Rossa cambogiana ed è stata accusata da più parti di usare la sua posizione per promuovere la politica del Partito popolare cambogiano (Cpp).
Due dei tre figli maschi di Hun Sen, Hun Manet e Hun Manith, sono ufficiali delle Forze armate cambogiane e hanno frequentato l’Accademia di West Point. Hun Manet ha avuto un ruolo prominente nella vicenda di Preah Vihear che nel 2011 ha visto l’esercito cambogiano fronteggiare quello thailandese per il controllo di un’area di 4,6 km2 in cui sorge il tempio di Preah Vihear (approfondimento a pp.46-47). Il terzo figlio, Hun Many, il più giovane, è parlamentare, mentre le due figlie, Hun Mana e Hun Maly, si sono spartite il controllo dei media nazionali (Hun Mana) e dei servizi, come i settori medico-farmaceutico, energetico e del commercio (Hun Maly).
I fratelli di Hun Sen, Hun Neng (morto il 5 maggio 2022) e Hun San controllano le maggiori compagnie nel settore del commercio e dei trasporti, mentre la sorella Hun Seng Ny è direttamente coinvolta nella direzione di compagnie accusate di causare i disboscamenti nel paese e nella repressione degli scioperi nelle industrie tessili.
Hun Seang Heng, figlio di Hun Neng e nipote di Hun Sen, è padrone della compagnia che importa e rivende nel territorio cambogiano i prodotti della Apple. L’altro figlio di Hun Neng, Hun To, oltre a presiedere la compagnia petrolifera Lhp Asean Import Export e la Lhp Asean Investment, proprietaria di catene di stazioni di servizio in Cambogia, è implicato nel traffico di eroina in Australia per un miliardo di dollari. Una delle due figlie di Hun Neng, Hun Kimleng, ha importanti partecipazioni nella Hard Rock Cafè e nella Gloria Jeans Coffee.
Praticamente ogni membro della famiglia Hun Sen ha interessi finanziari, politici, economici, militari con istituzioni cambogiane e, spesso, anche internazionali.
Piergiorgio Pescali
Note
Amnesty International, 1987 Report – Kampuchea (Cambodia), 1987, p. 241.
Il caso è stato portato alla corte francese da Sam Rainsy, che ha doppia cittadinanza (francese e cambogiana).
Human rights watch, Cambodia: French Court Indicts Hun Sen Cronies, 29 marzo 2022.
Global Witness, Hostile Takeover – Executive Summary, luglio 2016, p. 3.
Global Witness, Hostile Takeover – Annex 1 – Our finding in full, luglio 2016, pp. 33-37.
Storia e religioni
L’islam dei Cham
Dopo il buddhismo, la seconda religione in Cambogia è l’islam. Il 2% della popolazione, secondo il censimento effettuato nel 2019, è musulmano1 e vive principalmente nelle province di Tbong Khmun (11,8% della popolazione), Kratie (6,6%), Kompong Chhnang (5,8%), Stung Treng (4,7%), Koh Kong (4,6%) e Mondulkiri (4,4%)2.
La componente etnica maggioritaria, sebbene non unica, dei fedeli islamici è composta da popolazioni di etnia cham di origine maleo-polinesiana che parlano una propria lingua (il cham). Dopo essere migrati verso le coste vietnamite a partire dal II secolo d.C., i Cham si installarono nel regno induista di Champa, nell’attuale regione centrale del Vietnam per poi convertirsi all’islam nell’XI secolo quando mercanti arabi e indiani del Gujarat, assieme alle loro mercanzie, portarono anche il loro credo e copie del Corano. Nel XII secolo, i Cham riuscirono anche a conquistare Angkor, seppur per soli quattro anni, la capitale dell’Impero khmer (il tempio di Bayon ha pregevoli bassorilievi che illustrano battaglie tra Khmer e Cham). La presenza stabile delle prime popolazioni cham in Cambogia risale proprio a questo periodo e venne rafforzata nel XV secolo dopo la sconfitta del loro regno a favore dei Viet provenienti dal Tonchino. All’interno del gruppo, si distinguono i Chvea che, pur condividendo la provenienza etnica, provengono dalla Malesia e hanno adottato la lingua khmer, e i Jahed, di lingua cham, ma giunti in Cambogia tra il XVIII e il XIX secolo, dopo la completa dissoluzione del regno di Champa da parte di Minh Mang.
Infine, una componente aristocratica si installò nella vecchia capitale khmer, Oudong, dove ancora oggi risiedono i discendenti (circa 20mila) che hanno adottato una forma di sincretismo religioso che ingloba elementi induisti e, a differenza dei loro correligionari, oltre a non usare l’arabo come lingua religiosa, hanno mantenuto la forma scritta della lingua cham.
Sotto i Khmer Rossi
Durante la Seconda guerra del Sud Est asiatico le forze militari in lotta in Cambogia cercarono di accaparrarsi l’appoggio della comunità cham: sia Sihanouk che Lon Nol garantirono la cittadinanza cambogiana ai Cham a differenza dei cambogiani di origine vietnamita e cinese, a cui invece venne negata. I Khmer Rossi, dal canto loro, accettarono i Cham anche perché Sos Man e suo figlio Mat Ly, erano due dei membri più autorevoli del Partito comunista di Kampuchea. Per assimilare i Cham al movimento khmer e nascondere la discendenza Champa, troppo legata al Vietnam, vennero chiamati Khmer islamici.
A partire dal 1972 i Khmer Rossi iniziarono a deportare i Cham in diverse province con l’intento di dividere e indebolire la comunità causando diverse sommosse represse con purghe ed esecuzioni.
Dopo la conquista del potere da parte dei Khmer Rossi e, ancora più, dopo l’ascesa di Pol Pot nel 1976, l’introduzione di cooperative agricole e mense comuni furono oggetto di nuove ribellioni da parte dei musulmani, costretti a mangiare cibo a loro proibito e a seguire tradizioni estranee alla loro cultura e religione.
L’opportunismo di Hun Sen
Oggi i Cham possono praticare la loro fede anche se i movimenti d’opposizione lamentano un aumento dell’influenza economica della comunità musulmana all’interno del paese, in particolare per i cospicui finanziamenti che le organizzazioni islamiche ricevono da istituzioni e paesi arabi,
Malaysia e, ultimamente, anche da parte della Turchia.
Proprio per attirare investimenti da Ankara, Hun Sen ha recentemente chiesto che, in ogni provincia, vi sia almeno un vicegovernatore cham3.
E proprio il Cpp è il principale sostenitore dei musulmani cambogiani, garantendo loro appannaggi economici e licenze negate ad altre comunità. Il mufti del paese è un okhna4, Kamaruddin bin Yusof che è stato posto dallo stesso Hun Sen a guida degli islamici cambogiani nel lontano 1996. Kamaruddin, oltre a controllare le scuole islamiche madhhabi all’estero, ha anche influenti amicizie politiche ed economiche in Malaysia.
La totalità dei musulmani cambogiani è sunnita; il 90% segue la scuola madhhab, la scuola Shafi’i, mentre il restante, concentrato nella comunità di Oudong, appartiene alla Comunità di imam San (Krom Kan Imam San) che si rifà all’imam Sen, un religioso vissuto nel XIX secolo e particolarmente venerato nella regione. La tradizione islamica malese, introdotta a partire dalla seconda metà del XIX secolo, è quella più seguita e di conseguenza anche i testi religiosi (sia letterari che di istruzione) sono in lingua malay. I fedeli della Comunità di Imam San, guidati da Ong Gnur Mat Sa, si distinguono dai loro confratelli per seguire regole che inseriscono nelle pratiche religiose e rituali islamiche elementi cham e animisti. Nella preghiera del venerdì hanno inserito elementi di possessione degli spiriti ancestrali che prendono origine da testi cham, indiani e arabi.
P.Pes.
Note
Kingdom of Cambodia, Ministry of Planning, National Institute of Statistics, General Population Census of the Kingdom of Cambodia 2019 – Capitolo 2, Population Size, Growth and Distribution, §2.5 Population and religion, Ottobre 2020, p.23.
Idem, §Tabella 2.5.1 Percentage distribution of population by religion, area, and province, Cambodia, 2008-2019, Ottobre 2020, p.24.
UcaNews, Hun Sen wants to appoint Cambodian Muslims to higher office, 24 febbraio 2022.
Titolo onorifico dato a chi si distingue come benefattore o mecenate. Oggi può essere comprato versando al governo una certa somma in denaro.
Cambogia versus Vietnam
Il destino dei Khmer Krom
Sono circa un milione e 200mila i Khmer che abitano nel delta del Mekong, nella regione meridionale del Vietnam, discendenti di quelle popolazioni che, seguendo l’onda dell’espansione dell’Impero khmer nel IX secolo, occuparono le fertili aree solcate da innumerevoli corsi d’acqua.
Pur conservando la stessa lingua, cultura, religione dei Khmer delle regioni del Tonle Sap e del corso superiore del Mekong, i Khmer Krom (Khmer meridionali) nel XVII secolo iniziarono a distinguersi dal ceppo originario. La dinastia Nguyen, da Hué dilagò verso Sud prima strappando Prey Nokor, la principale città Khmer Krom all’amministrazione cambogiana e rinominandola Sai Gon, poi favorendo la migrazione dei Kinh1 verso Sud lambendo la catena annamita. Nel 1845 il principe cambogiano Ang Duong fu costretto a cedere al Siam (l’attuale Thailandia) le province di Sisophon, Battambang e Siem Reap e al regno dell’Annam (parte dell’attuale Vietnam) la provincia di Kampuchea Krom. Mentre i territori occidentali, in cui tra l’altro si trovava sito di Angkor, il 23 marzo 1907 vennero riconsegnati alla Cambogia, allora protettorato francese, nulla di simile venne fatto per le 21 province orientali del delta del Mekong.
Le scelte dei colonizzatori francesi
Il 4 giugno 1949 la Francia confermò i confini politici vietnamiti cambogiani che aveva ereditato ed accettato nel 1862 e nel 1874, quando il regno di Annam cedette le province del delta del Mekong ai colonizzatori, che le chiamarono Cocincina.
A nulla valsero le proteste del re cambogiano, il giovanissimo Norodom Sihanouk, che ne richiedeva la restituzione: «La Francia ha ricevuto tutti i territori del Sud Vietnam dalla corte di Hue e con essi il diritto di condurre operazioni militari contro i mandarini annamiti e non contro le autorità khmer. […] La storia contraddice la tesi secondo cui la parte occidentale della Cocincina fosse, al tempo dell’arrivo francese, soggetta alla corona khmer», si legge in un documento inviato a Sihanouk in cui le autorità coloniali respingevano la richiesta avanzata dal monarca.
La colonizzazione francese non fece altro che sancire il definitivo affrancamento della cosiddetta Cocincina dalla Cambogia, che venne confermato nel 1954, quando il Vietnam del Sud ottenne l’indipendenza inglobando la regione meridionale a maggioranza khmer.
La Seconda guerra del Sud Est asiatico divise politicamente anche i Khmer Krom: gli Stati Uniti e il governo di Saigon organizzarono i Khmer del delta nel Mike Force, il corpo militare che comprendeva le minoranze etniche addestrate a combattere i guerriglieri del Fronte di liberazione nazionale, in cui invece confluirono le «Sciarpe bianche», i Khmer Krom del monaco buddhista Samouk Sen.
Le scelte del Vietnam
Dopo la vittoria del 1975, e ancora più dopo l’unificazione del Sud con il Nord nel 1976, il Vietnam, timoroso che l’omogeneità etnica delle popolazioni del Delta del Mekong potesse portare una rivendicazione delle regioni storicamente reclamate dalla Cambogia, adottò una politica di diluizione demografica, trasferendo milioni di Kinh (vietnamiti) verso Sud e concedendo loro larghe estensioni terriere e di sfruttamento da allevamento ittico che distrussero gran parte delle attività in precedenza appannaggio dei Khmer Krom.
I Khmer residenti in Vietnam iniziarono quindi a vedere i Khmer Rossi come possibile appoggio per le loro rivendicazioni e cominciarono a chiedere aiuto o asilo in Cambogia. Invece di trovare solidarietà, i Khmer Krom, sospettati di essere ormai troppo vietnamizzati, vennero sistematicamente massacrati. Solo dalla metà del 1978, quando Phnom Penh iniziò a guardare sempre con più attenzione quella che era definita dal governo come Kampuchea Krom e gli scontri di frontiera divennero più seri, i Khmer Rossi cercarono appoggi tra le comunità khmer oltrefrontiera.
La guerra che ne scaturì vide il Vietnam scalzare il gabinetto di Pol Pot dalla capitale dando inizio ad una guerra civile che si protrasse fino alla fine degli anni Novanta.
Oggi, dopo le difficoltà e le discriminazioni verso le minoranze compiute dal governo di Hanoi, l’attenzione verso i diritti delle popolazioni minoritarie è cresciuta, grazie anche all’attenzione internazionale portata dalla presenza di diverse associazioni che lavorano nel campo dei diritti umani.
Mancano comunque ancora le garanzie necessarie per la sopravvivenza della nazione Khmer Krom: la sola lingua riconosciuta ufficialmente dal governo è quella vietnamita e i Khmer in Vietnam sono spesso esclusi da posti pubblici. La vietnamizzazione include anche il cambio dei nomi, che devono essere traslitterati in vietnamita con una distorsione fonetica che spesso rende questi nomi difficilmente comprensibili agli stessi Khmer.
Nelle scuole si parla e si insegna vietnamita e con la crescente privatizzazione, le attività produttive appartengono o sono dirette da Kinh, che preferiscono escludere i Khmer dai posti dirigenziali. La percezione dell’inadeguatezza del carattere khmer nel condurre attività di amministrazione o di comando, già presente nella cultura kinh e rafforzata durante il periodo coloniale francese, è ancora comune e allontana sempre più la comunità dei Khmer Krom dalla vita economica, sociale e politica del paese.
La Chiesa buddhista
La Chiesa buddhista khmer, nel tentativo di mantenere vive le tradizioni della comunità khmer in Vietnam, organizza corsi di lingua khmer nei templi. La Costituzione vietnamita, pur garantendo la libertà di credo, aggiunge che «nessuno può utilizzare le fedi per contravvenire la politica e le leggi dello stato»2.
Questo porta a far intervenire le autorità governative che chiudono questi centri e a volte giungono anche a imprigionare gli stessi monaci, alcuni dei quali si sono rifugiati in Cambogia per evitare l’arresto. Inoltre, data la laicità dello stato, le Chiese non sono viste come tali, ma come organizzazioni religiose che devono confluire in associazioni controllate dal governo come la Viet Nam buddhist sangha (Vbs) in cui confluiscono i 454 templi khmer theravada della nazione3. La Vbs ha, tra le altre cose, la prerogativa di scegliere gli abati dei templi.
Il Cambodian people party di Hun Sen, che nel 1978 disertò dai Khmer Rossi rifugiandosi in Vietnam, ha sempre avuto buoni rapporti con Hanoi. Meno idilliaci, invece, sono le relazioni tra il Vietnam e le opposizioni cambogiane, in particolare con Sam Rainsy, il Funcinpec e il Cnrp, i quali hanno sempre soffiato sulle braci dell’ultranazionalismo khmer in versione antivietnamita per raccogliere consensi tra l’elettorato.
Piergiorgio Pescali
Note
I Kinh sono l’etnia maggioritaria del Vietnam, quelli chiamati impropriamente Viet.
Costituzione del Vietnam, Capitolo 5: Diritti fondamentali e doveri di cittadini, Articolo 70.
National Vietnam Buddhist Sangha, The 16th United Nations Day of Vesak Celebrations 2019.
Cambogia versus Thailandia
Le rovine contese di Preah Vihear
Le rovine di Preah Vihear, al confine settentrionale della Cambogia con la Thailandia, non sono note quanto quelle del sito di Angkor. I resti tra cui possiamo camminare oggi, risalgono principalmente al complesso templare costruito tra il 1000 e il 1150 da Suryavarman I e Suryavarman II. Dedicato inizialmente a Shiva, come lo furono anche la maggior parte dei templi di Angkor, divenne uno dei centri religiosi più importanti dell’Impero khmer.
Arrivarci oggi è abbastanza semplice, ma fino a pochi decenni fa l’accesso dalla Cambogia, entro i cui confini si trova il tempio, era molto più difficoltoso di quanto fosse da quello thailandese. Preah Vihear, infatti, si trova sull’altipiano dei monti Dângrêk e domina la pianura cambogiana da una scarpata alta 500 metri. Questa sua particolare posizione ha fatto sì che il tempio sia stato l’ultimo lembo di terra cambogiana difeso dalle truppe governative di Lon Nol conquistato dai Khmer Rossi nel 1975, ma in più occasioni ha creato anche un contenzioso con la Thailandia che ne reclama il possesso, specie dopo il 2008, quando il sito è stato inserito dall’Unesco nella lista dei patrimoni mondiali dell’umanità.
Bangkok rivendica la continuità geografica dello spartiacque naturale su cui poggia il tempio, mentre Phnom Penh si rivale della linea di confine tracciata dalla commissione francese nel 1907, la cui validità è stata riconosciuta nel 1962 dalla Corte internazionale di giustizia, a cui la Cambogia si era rivolta sperando di porre termine alle pretese del vicino. In totale, l’area contesa è di 4,6 chilometri quadrati, ma il problema ha assunto un carattere di propaganda nazionalista sia dall’una che dall’altra parte.
Nazionalismi e scontri
Nel 2011 le truppe dei due paesi confinanti si sono confrontate per diversi mesi in battaglie che hanno visto l’uso di artiglieria pesante e carri armati causando diversi morti e l’evacuazione di migliaia di civili.
Il conflitto da una parte ha destabilizzato l’Asean (l’Associazione delle nazioni del Sud Est asiatico fondata l’8 agosto 1967 proprio a Bangkok), a cui appartengono sia Cambogia che Thailandia, tra i cui compiti vi è quello di «promuovere la pace e la stabilità della regione»1, e dall’altra è servito a un terzo paese, l’Indonesia, per promuovere i propri interessi e uscire dal limbo di paese ai margini della politica internazionale, nonostante la sua preminenza geografica e demografica nell’associazione.
Secondo il trattato del 1904 stipulato tra la Francia (a cui la Cambogia era assoggettata come colonia) e il Siam, il confine avrebbe dovuto seguire lo spartiacque naturale, ma la commissione francese, incaricata nel 1907 di tracciare la frontiera, assegnò il tempio di Preah Vihear alla Cambogia.
La zona era allora disabitata, difficilmente raggiungibile e ritenuta poco importante dal Siam che non prestò attenzione al tracciato. Inoltre, mentre il confine dal mare fu marcato da 73 paletti per 600 chilometri, la frontiera lungo la zona di Preah Vihear venne disegnata solo sulle carte, visto che la commissione congiunta franco siamese non si addentrò sino al tempio.
Le prime discordie iniziarono nel 1954, quando le truppe thailandesi occuparono il sito fino al 1962, allorché la Corte internazionale di giustizia assegnò Preah Vihear a Phnom Penh, accettando la linea di confine tracciata dal trattato franco siamese del 19072.
Nei decenni che seguirono ci furono scaramucce e diverbi politici, ma fu principalmente dal 2006 che Preah Vihear divenne un motivo di scontro politico in Thailandia e, di riflesso, con la Cambogia. Il 3 ottobre 2008 iniziarono i primi scontri che si protrassero, tra momenti di pace e distensione, per i successivi tre anni. Hun Sen ne uscì decisamente rafforzato, sia perché sotto il suo governo la Cambogia aveva ottenuto un altro patrimonio Unesco, sia perché veniva visto come garante dell’integrità territoriale del paese3.
In Thailandia, invece, il caos politico in cui era precipitato il paese venne esasperato anche con la propaganda ultranazionalista delle camicie gialle del Pad (People’s alliance for democracy) contro il principale partito avversario guidato dalla famiglia Shinawara, che aveva legami politici ed economici con Hun Sen4.
Situazione in sospeso
Nel gennaio 2011 la Thailandia iniziò la costruzione di una strada carrozzabile sul territorio conteso e gli scontri furono inevitabili. Nonostante la contrarietà dell’Asean, la Cambogia portò la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che diede all’Indonesia il compito di mediare tra i due contendenti. A causa dell’opposizione della Thailandia, la missione indonesiana non venne mai alla luce e, anzi, gli scontri aumentarono d’intensità. Solo dopo le elezioni thailandesi del 3 luglio 2011, che videro la vittoria di Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, le relazioni tra i due paesi si fecero meno rigide. La questione di Preah Vihear è oggi di nuovo messa a tacere, ma rimane comunque pronta ad esplodere appena se ne presenterà l’occasione.
P.Pes.
Note
The Asean Declaration (Bangkok Declaration), Bangkok, 8 Agustus (sic) 1967, Articolo 2, paragrafo 2.
Case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), ICJ Reports , 15 giugno 1962.
Survey of Cambodian Public Opinion, International Republican Institute, 22 ottobre-25 novembre 2008, 31 luglio-26 agosto 2009.
Thaksin Shinawara, il principale esponente della famiglia, fu per un certo periodo consigliere speciale del governo di Hun Sen e la Cambogia rifiutò la sua estradizione in Thailandia.
Hanno firmato questo dossier:
Piergiorgio Pescali – Ricercatore scientifico, il suo lavoro lo porta a viaggiare per il mondo collaborando come giornalista con radio, riviste, quotidiani in Europa e in Asia. Sud Est asiatico, penisola coreana e Giappone sono le zone che segue con più interesse. È autore dei libri: Indocina (Emil, 2010), Il custode di Terrasanta. A colloquio con Pierbattista Pizzaballa (Add, 2014), S-21, Nella prigione di Pol Pot (La Ponga, 2015), La nuova Corea del Nord, come Kim Jong Un sta cambiando il paese (Castelvecchi, 2019), Capire Fukushima (Lekton, 2021), Cappuccino bollente senza schiuma (Porto Seguro, 2021), Il pericolo nucleare in Ucraina (Mimesis, giugno 2022). Da anni è un assiduo collaboratore di MC.
Dossier a cura di Paolo Moiola.
Taiwan. Vento europeo sullo stretto
La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?
Due dicembre 2016.
Donald Trump scrive su Twitter: «La presidente di Taiwan mi ha chiamato oggi per congratularsi per la vittoria nelle elezioni. Grazie». Aggiungendo qualche ora dopo: «Curioso come gli Stati Uniti vendano miliardi di dollari di equipaggiamento militare a Taiwan, ma io non avrei dovuto accettare una telefonata di congratulazioni».
Da quel giorno di poco più di cinque anni e mezzo fa il piano dello «stretto» (qui s’intende lo stretto di Taiwan, braccio di mare che separa l’isola principale alla Cina popolare, con una distanza minima di 143 km, ndr) si è fatto un poco più inclinato. Tendenze e questioni aperte già da decenni hanno subito un’accelerazione, soprattutto a livello retorico, ma anche strategico. Su questo cambio di velocità si innesta anche la guerra in Ucraina, che potrebbe avere effetti indiretti anche sullo stretto.
Il sostegno Usa
Gli Stati Uniti hanno aumentato le dichiarazioni di sostegno a Taipei, sia con l’amministrazione Trump, sia con quella di Joe Biden, dimostrando di avere raggiunto un consenso bipartisan sulla sua importanza strategica. D’altronde, il Pentagono ha cambiato proprio nell’autunno 2021 l’individuazione del rivale strategico numero uno, che è diventato la Repubblica popolare cinese (sostituendo la Russia). Ecco che allora Taiwan diventa più importante che mai, in particolare sul piano commerciale, visto che Taipei è il nono partner di Washington (l’Ucraina solo il 67esimo). Partner dal punto di vista tecnologico, soprattutto per il fondamentale settore dei semiconduttori che è letteralmente dominato a livello globale dai colossi taiwanesi come Tsmc (Taiwan semiconductor manufactoring company), che controllano oltre il 50% della quota globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.
Dal punto di vista strategico, visto il posizionamento dell’isola principale di Taiwan nella prima catena di isole del Pacifico, è questo il teatro nel quale appare chiaro ormai che si siano spostati i principali interessi geopolitici mondiali. Ma anche dal punto di vista retorico, Taipei è la dimostrazione vivente che la democrazia è possibile con una popolazione di etnia han (maggioritaria nella Cina continentale) da sbandierare alla Repubblica popolare suggerendo il regime change. Ecco allora le leggi per facilitare la vendita di armamenti, l’apertura di un’ambasciata de facto Usa a Taipei, l’eliminazione delle restrizioni auto imposte nei rapporti con ufficiali taiwanesi (decisa da Mike Pompeo poco prima di lasciare il Dipartimento di stato, ma mantenuta da Biden), l’invito della rappresentante taiwanese negli Usa all’insediamento del presidente democratico. Da ultimo, l’aggiornamento dei documenti con i quali il Dipartimento di stato descrive le relazioni degli Usa con Taiwan: è scomparsa la spiegazione della «Politica di una sola Cina», così come la specifica che «gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan».
Oltre alle mosse ufficiali bipartisan, ci sono state anche quelle implicite. Le presunte gaffe di Biden di questi mesi, quando in tre occasioni (l’ultima delle quali il 23 maggio scorso, durante il recente tour in Asia) ha dichiarato che c’è un impegno a difendere Taiwan in caso di aggressione esterna, hanno fatto improvvisamente sembrare la classica «ambiguità strategica» statunitense nei rapporti con Taipei (impegno al sostegno alla difesa della sua indipendenza de facto ma non impegno a intervenire militarmente) un po’ meno ambigua. Così come le ripetute indiscrezioni dei media americani sulla presenza di militari a stelle e strisce su suolo taiwanese avevano generato avvertimenti più minacciosi del solito dal governo di Pechino.
Eppure, Yan, ex militare in pensione, spiega: «Gli americani ci sono sempre stati, almeno da quando sono entrato nell’esercito io. E a mio parere Pechino lo ha sempre saputo». Yan parla di un piccolo gruppo presente «in pianta stabile per addestramento e supporto tecnico» e l’arrivo di una truppa più numerosa «una volta all’anno per un aggiornamento» fatto su una delle isole minori del Pacifico. Una versione che lascia interpretare in modo diverso l’ufficializzazione della presenza di questo contingente fatta a sorpresa dalla presidente Tsai Ing-wen in un’intervista alla Cnn in cui, ammettendo la presenza di alcuni istruttori americani, ha aggiunto: «Ma non sono quanti la gente crede». Ergo, messaggio implicito rivolto a Pechino (che fino ad allora aveva detto che avrebbe interpretato l’azione come una dichiarazione di guerra, ritenendo il suolo taiwanese suolo cinese) è stato: «Sono sempre gli stessi di cui sapete già». E, infatti, da lì le minacce di sorvolo diretto del territorio taiwanese da parte dei mezzi dell’Esercito popolare di liberazione sono svanite.
Le pressioni della Cina
È però innegabile che la Repubblica popolare abbia intensificato le pressioni diplomatiche, propagandistiche e militari nei confronti di Taipei.
Dal 2019 le incursioni dei jet cinesi nello spazio di identificazione di difesa aerea avvengono su base pressoché quotidiana. La quantità e la qualità di queste incursioni aumenta in concomitanza con le novità che si apprendono sui rapporti tra Taiwan e Usa, oppure in occasione di giornate ad alto tasso retorico. Su tutte, le due celebrazioni nazionali a inizio ottobre della Repubblica popolare e della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan, ndr). Così come si sono fatte più frequenti le esercitazioni militari navali sullo stretto. Ma le ripetute dimostrazioni di forza di Pechino stanno provocando un ulteriore allontanamento di Taipei.
Con il discorso di inizio anno del 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha aumentato i discorsi retorici, dicendo che la questione taiwanese non può essere tramandata di generazione in generazione e che va risolta, se necessario, «anche con l’utilizzo della forza». Negli scorsi mesi è stato inserito un orizzonte temporale per ottenere il risultato, sia nella terza risoluzione storica, approvata al sesto plenum, che alle due sessioni dello scorso marzo: «Entro la nuova era». C’è chi individua i limiti temporali entro il classico 2049 (centenario della Repubblica popolare), ma chi invece ritiene si parli dell’orizzonte politico di Xi, avvicinando dunque il momento della resa dei conti.
Cosa vogliono i taiwanesi
Un momento che la maggioranza dei taiwanesi non vorrebbe arrivasse mai, visto che oltre l’80% di loro, secondo tutti i sondaggi, vede come soluzione ideale (quantomeno per ora), il mantenimento dello status quo.
I taiwanesi guardano con rabbia e timore alle manovre di Pechino, ma osservano (in silenzio) con qualche perplessità anche i colpi di testa americani. A Taipei si dice sempre che con gli Stati Uniti si vuole una «relazione stabile, non un amore passionale». Rassicurazioni, non inviti a camminare su sentieri ignoti. Per questo, a marzo, aveva destato qualche preoccupazione la visita di Pompeo (rigorosamente lontana dai riflettori). In calendario subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, rischiava di innestarsi sulla narrativa del Partito comunista, che, come dopo la caduta di Kabul, ha subito insistito per dire ai taiwanesi: «Smettetela di flirtare con gli americani, nel momento del bisogno vi abbandoneranno come hanno fatto con gli afghani prima e gli ucraini poi». Visto che Pompeo e i trumpiani ascrivono la mossa di Vladimir Putin alla debolezza di Biden, eventuali parole fuori registro dell’ex segretario di Stato avrebbero potuto creare un mix letale per l’opinione pubblica taiwanese. Una delegazione di alti funzionari assemblata in fretta e furia e spedita a Taipei da Biden in anticipo di 48 ore su Pompeo ha smussato gli angoli, consentendo, tra l’altro, una presa di distanze implicita da quello che avrebbe detto anche agli occhi di Pechino.
Taipei come Kiev?
I paragoni tra Taiwan e Ucraina, peraltro, non colgono le profonde differenze che intercorrono tra i due territori. Tutti gli attori in campo hanno caratteristiche diverse. Taipei è un attore economico cruciale a livello globale, ben più di Kiev. Pechino continua a perseguire la «riunificazione» (annessione per i taiwanesi) pacifica, anche perché considera Taiwan parte del suo territorio e dichiararle guerra sarebbe, dal suo punto di vista, come dichiarare guerra a se stessa. Washington ha interessi ben diversi su Taiwan rispetto a quelli mantenuti sull’Ucraina. Se la Cina è il rivale numero uno, Taipei è meno sacrificabile rispetto a Kiev.
I paralleli però ci sono soprattutto a livello retorico, con ricadute sull’opinione pubblica.
«All’inizio dell’invasione russa c’era molta preoccupazione, ma ora il governo taiwanese è almeno in parte sollevato guardando al sostegno ricevuto da Kiev in termini di aiuti militari e sanzioni alla Russia», spiega Jay Chen, capo redattore della Central news agency, agenzia di stampa taiwanese. «Più gli ucraini resistono e più lo fanno grazie all’aiuto dei partner occidentali e più anche i taiwanesi guadagnano convinzione che in un ipotetico conflitto futuro potrebbero fare lo stesso», prosegue Chen.
Recenti sondaggi mostrano che la percentuale di cittadini disposti a combattere per difendere Taiwan è notevolmente cresciuta, anche se è scesa la fiducia in un intervento militare diretto degli Usa in caso di invasione cinese. In questo senso, l’opinione pubblica ora sembra più disposta ad accettare mosse fino a qualche tempo fa impopolari come un’estensione della leva militare e un ampliamento del programma dedicato ai riservisti. Mentre aumentano le richieste agli Usa (anche del Giappone attraverso le parole dell’ex premier Shinzo Abe) di abbandonare l’ambiguità strategica.
Non è un caso che su Taiwan non ci sia spazio per nessun tipo di negoziato. Gli Usa non trattano e fanno passi verso Taipei; Pechino ribadisce che la «riunificazione» è un obiettivo «storico» e considera quella di Taiwan una questione interna. Utilizzando, tra l’altro, la propaganda russa sulla guerra in Ucraina in funzione anti Usa e anti Nato perché le è funzionale in Asia-Pacifico. Così come l’estensione dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale ha «gettato benzina sul fuoco» e causato il conflitto in Ucraina, dice la Cina, i tentativi di accerchiamento in corso con le varie piattaforme di sicurezza come Quad (alleanza strategica Usa, India, Giappone e Australia, siglata nel 2017) e Aukus (Australia, Regno Unito, Usa, in partenariato strategico militare dal 2021) gettano benzina sul fuoco in Asia-Pacifico. Ergo: «Se in futuro ci sarà una guerra su Taiwan non sarà colpa nostra».
Si affilano I coltelli
La guerra in Ucraina sta portando Pechino ad aumentare la sua capacità di fuoco e la sua potenza nucleare, nel tentativo di scoraggiare non solo Taiwan a difendersi, ma anche Washington a intervenire. La stessa cosa provano a fare gli Usa facendosi vedere più spesso dalle parti dello stretto e organizzando tentativi di Nato asiatiche. Contestualmente, Xi affila l’arsenale normativo per sottomettere i taiwanesi.
Liste nere (esiste in Rpc una legge antisecessione che sanziona i secessionisti usando le black list, ndr), una possibile futura legge che prenda di mira non più i secessionisti ma tutti coloro che non si prodigano alla riunificazione. Basi legali per ipotetiche azioni militari.
In un complicato gioco di specchi e di deterrenza incrociata, entrambe le potenze percepiscono il rivale voglioso di cambiare lo status quo e dunque si sentono incentivate a testare le rispettive linee rosse. Taiwan, nel mezzo, cerca di non recidere completamente il rapporto con la Repubblica popolare. L’interscambio commerciale, che ha raggiunto il suo record storico nel 2021 nonostante le tensioni politiche, e l’approvvigionamento tecnologico della Rpc (con i grandi colossi che fungono da veri e propri attori diplomatici in assenza di dialogo tra i due governi), sono leve fondamentali alle quali Taiwan non vuole rinunciare, nonostante le pressioni americane. Ad esempio, per i semiconduttori Biden sta cercando di costruire catene di approvvigionamento «democratiche» che escludano Pechino. O, se fosse costretta a rinunciare agli affari con la Cina, chiederebbe garanzie più chiare di una difesa completa agli Usa.
C’è chi ritiene che i rapporti tra Pechino e Taipei abbiano già oltrepassato il punto di non ritorno e che il confronto diretto sullo stretto sia solo questione di tempo, a prescindere da come andrà in Ucraina. Eppure, c’è anche chi vede le cose diversamente. «Se non ci sarà la guerra, il corso degli eventi può nuovamente cambiare direzione», sostiene Chen Kuan-Ting, amministratore delegato del think tank taiwanese NextGen, ben inserito nelle dinamiche politiche locali. «Durante l’era di Hu Jintao i taiwanesi avevano iniziato a guardare alla Cina in un’altra maniera, e tantissimi hanno deciso di andare dall’altra parte dello stretto a lavorare o vivere», dice Chen. «Pechino può ancora riuscire a cambiare la sua immagine, se vuole conquistare il cuore dei taiwanesi, ha tanti modi per farlo. Ma se usasse la forza, quella possibilità si cancellerebbe e ogni rapporto verrebbe tagliato. Come sta succedendo tra Russia e Ucraina», prosegue Chen. Ma in che modo? «Condividiamo la stessa lingua e la stessa cultura, abbiamo rapporti profondi a livello commerciale: i taiwanesi non vogliono essere unificati, ma il dialogo potrebbe ripartire, se il Pcc (Partito comunista cinese) scegliesse di essere più aperto e non mostrare solo i muscoli», conclude Chen. «Non so, magari accadrà quando la Cina avrà un nuovo leader».
Tra pochi mesi, al XX Congresso, Xi dovrebbe però ricevere lo storico terzo mandato. E le lancette della nuova era continuano a scorrere.
Lorenzo Lamperti
Lorenzo Lamperti. Giornalista professionista, è direttore editoriale di China Files, scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi. China Files. È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC. www.china-files.com