Taiwan. Vento europeo sullo stretto


La guerra in Europa accelera le dinamiche aperte sullo stretto di Taiwan. Le presunte gaffe di Biden sulla sua eventuale difesa alimentano la retorica dello scontro Cina-Usa. Il presidente Xi vuole risolvere la questione. Ma i taiwanesi cosa vogliono?

Due dicembre 2016.
Donald Trump scrive su Twitter: «La presidente di Taiwan mi ha chiamato oggi per congratularsi per la vittoria nelle elezioni. Grazie». Aggiungendo qualche ora dopo: «Curioso come gli Stati Uniti vendano miliardi di dollari di equipaggiamento militare a Taiwan, ma io non avrei dovuto accettare una telefonata di congratulazioni».

Da quel giorno di poco più di cinque anni e mezzo fa il piano dello «stretto» (qui s’intende lo stretto di Taiwan, braccio di mare che separa l’isola principale alla Cina popolare, con una distanza minima di 143 km, ndr) si è fatto un poco più inclinato. Tendenze e questioni aperte già da decenni hanno subito un’accelerazione, soprattutto a livello retorico, ma anche strategico. Su questo cambio di velocità si innesta anche la guerra in Ucraina, che potrebbe avere effetti indiretti anche sullo stretto.

Il sostegno Usa

Gli Stati Uniti hanno aumentato le dichiarazioni di sostegno a Taipei, sia con l’amministrazione Trump, sia con quella di Joe Biden, dimostrando di avere raggiunto un consenso bipartisan sulla sua importanza strategica. D’altronde, il Pentagono ha cambiato proprio nell’autunno 2021 l’individuazione del rivale strategico numero uno, che è diventato la Repubblica popolare cinese (sostituendo la Russia). Ecco che allora Taiwan diventa più importante che mai, in particolare sul piano commerciale, visto che Taipei è il nono partner di Washington (l’Ucraina solo il 67esimo). Partner dal punto di vista tecnologico, soprattutto per il fondamentale settore dei semiconduttori che è letteralmente dominato a livello globale dai colossi taiwanesi come Tsmc (Taiwan semiconductor manufactoring company), che controllano oltre il 50% della quota globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio.

Dal punto di vista strategico, visto il posizionamento dell’isola principale di Taiwan nella prima catena di isole del Pacifico, è questo il teatro nel quale appare chiaro ormai che si siano spostati i principali interessi geopolitici mondiali. Ma anche dal punto di vista retorico, Taipei è la dimostrazione vivente che la democrazia è possibile con una popolazione di etnia han (maggioritaria nella Cina continentale) da sbandierare alla Repubblica popolare suggerendo il regime change. Ecco allora le leggi per facilitare la vendita di armamenti, l’apertura di un’ambasciata de facto Usa a Taipei, l’eliminazione delle restrizioni auto imposte nei rapporti con ufficiali taiwanesi (decisa da Mike Pompeo poco prima di lasciare il Dipartimento di stato, ma mantenuta da Biden), l’invito della rappresentante taiwanese negli Usa all’insediamento del presidente democratico. Da ultimo, l’aggiornamento dei documenti con i quali il Dipartimento di stato descrive le relazioni degli Usa con Taiwan: è scomparsa la spiegazione della «Politica di una sola Cina», così come la specifica che «gli Stati Uniti non sostengono l’indipendenza di Taiwan».

Oltre alle mosse ufficiali bipartisan, ci sono state anche quelle implicite. Le presunte gaffe di Biden di questi mesi, quando in tre occasioni (l’ultima delle quali il 23 maggio scorso, durante il recente tour in Asia) ha dichiarato che c’è un impegno a difendere Taiwan in caso di aggressione esterna, hanno fatto improvvisamente sembrare la classica «ambiguità strategica» statunitense nei rapporti con Taipei (impegno al sostegno alla difesa della sua indipendenza de facto ma non impegno a intervenire militarmente) un po’ meno ambigua. Così come le ripetute indiscrezioni dei media americani sulla presenza di militari a stelle e strisce su suolo taiwanese avevano generato avvertimenti più minacciosi del solito dal governo di Pechino.

Eppure, Yan, ex militare in pensione, spiega: «Gli americani ci sono sempre stati, almeno da quando sono entrato nell’esercito io. E a mio parere Pechino lo ha sempre saputo». Yan parla di un piccolo gruppo presente «in pianta stabile per addestramento e supporto tecnico» e l’arrivo di una truppa più numerosa «una volta all’anno per un aggiornamento» fatto su una delle isole minori del Pacifico. Una versione che lascia interpretare in modo diverso l’ufficializzazione della presenza di questo contingente fatta a sorpresa dalla presidente Tsai Ing-wen in un’intervista alla Cnn in cui, ammettendo la presenza di alcuni istruttori americani, ha aggiunto: «Ma non sono quanti la gente crede». Ergo, messaggio implicito rivolto a Pechino (che fino ad allora aveva detto che avrebbe interpretato l’azione come una dichiarazione di guerra, ritenendo il suolo taiwanese suolo cinese) è stato: «Sono sempre gli stessi di cui sapete già». E, infatti, da lì le minacce di sorvolo diretto del territorio taiwanese da parte dei mezzi dell’Esercito popolare di liberazione sono svanite.

Le pressioni della Cina

È però innegabile che la Repubblica popolare abbia intensificato le pressioni diplomatiche, propagandistiche e militari nei confronti di Taipei.

Dal 2019 le incursioni dei jet cinesi nello spazio di identificazione di difesa aerea avvengono su base pressoché quotidiana. La quantità e la qualità di queste incursioni aumenta in concomitanza con le novità che si apprendono sui rapporti tra Taiwan e Usa, oppure in occasione di giornate ad alto tasso retorico. Su tutte, le due celebrazioni nazionali a inizio ottobre della Repubblica popolare e della Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan, ndr). Così come si sono fatte più frequenti le esercitazioni militari navali sullo stretto. Ma le ripetute dimostrazioni di forza di Pechino stanno provocando un ulteriore allontanamento di Taipei.

Con il discorso di inizio anno del 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha aumentato i discorsi retorici, dicendo che la questione taiwanese non può essere tramandata di generazione in generazione e che va risolta, se necessario, «anche con l’utilizzo della forza». Negli scorsi mesi è stato inserito un orizzonte temporale per ottenere il risultato, sia nella terza risoluzione storica, approvata al sesto plenum, che alle due sessioni dello scorso marzo: «Entro la nuova era». C’è chi individua i limiti temporali entro il classico 2049 (centenario della Repubblica popolare), ma chi invece ritiene si parli dell’orizzonte politico di Xi, avvicinando dunque il momento della resa dei conti.

La senatrice Usa Lindsey Hraham (L) rriceve un dono dal presidente Tsai Ing-wen a Taipei. (Photo by Handout / Taiwan Presidential Office / AFP)

Cosa vogliono i taiwanesi

Un momento che la maggioranza dei taiwanesi non vorrebbe arrivasse mai, visto che oltre l’80% di loro, secondo tutti i sondaggi, vede come soluzione ideale (quantomeno per ora), il mantenimento dello status quo.

I taiwanesi guardano con rabbia e timore alle manovre di Pechino, ma osservano (in silenzio) con qualche perplessità anche i colpi di testa americani. A Taipei si dice sempre che con gli Stati Uniti si vuole una «relazione stabile, non un amore passionale». Rassicurazioni, non inviti a camminare su sentieri ignoti. Per questo, a marzo, aveva destato qualche preoccupazione la visita di Pompeo (rigorosamente lontana dai riflettori). In calendario subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina, rischiava di innestarsi sulla narrativa del Partito comunista, che, come dopo la caduta di Kabul, ha subito insistito per dire ai taiwanesi: «Smettetela di flirtare con gli americani, nel momento del bisogno vi abbandoneranno come hanno fatto con gli afghani prima e gli ucraini poi». Visto che Pompeo e i trumpiani ascrivono la mossa di Vladimir Putin alla debolezza di Biden, eventuali parole fuori registro dell’ex segretario di Stato avrebbero potuto creare un mix letale per l’opinione pubblica taiwanese. Una delegazione di alti funzionari assemblata in fretta e furia e spedita a Taipei da Biden in anticipo di 48 ore su Pompeo ha smussato gli angoli, consentendo, tra l’altro, una presa di distanze implicita da quello che avrebbe detto anche agli occhi di Pechino.

Taipei come Kiev?

I paragoni tra Taiwan e Ucraina, peraltro, non colgono le profonde differenze che intercorrono tra i due territori. Tutti gli attori in campo hanno caratteristiche diverse. Taipei è un attore economico cruciale a livello globale, ben più di Kiev. Pechino continua a perseguire la «riunificazione» (annessione per i taiwanesi) pacifica, anche perché considera Taiwan parte del suo territorio e dichiararle guerra sarebbe, dal suo punto di vista, come dichiarare guerra a se stessa. Washington ha interessi ben diversi su Taiwan rispetto a quelli mantenuti sull’Ucraina. Se la Cina è il rivale numero uno, Taipei è meno sacrificabile rispetto a Kiev.

I paralleli però ci sono soprattutto a livello retorico, con ricadute sull’opinione pubblica.

«All’inizio dell’invasione russa c’era molta preoccupazione, ma ora il governo taiwanese è almeno in parte sollevato guardando al sostegno ricevuto da Kiev in termini di aiuti militari e sanzioni alla Russia», spiega Jay Chen, capo redattore della Central news agency, agenzia di stampa taiwanese. «Più gli ucraini resistono e più lo fanno grazie all’aiuto dei partner occidentali e più anche i taiwanesi guadagnano convinzione che in un ipotetico conflitto futuro potrebbero fare lo stesso», prosegue Chen.

Recenti sondaggi mostrano che la percentuale di cittadini disposti a combattere per difendere Taiwan è notevolmente cresciuta, anche se è scesa la fiducia in un intervento militare diretto degli Usa in caso di invasione cinese. In questo senso, l’opinione pubblica ora sembra più disposta ad accettare mosse fino a qualche tempo fa impopolari come un’estensione della leva militare e un ampliamento del programma dedicato ai riservisti. Mentre aumentano le richieste agli Usa (anche del Giappone attraverso le parole dell’ex premier Shinzo Abe) di abbandonare l’ambiguità strategica.

Non è un caso che su Taiwan non ci sia spazio per nessun tipo di negoziato. Gli Usa non trattano e fanno passi verso Taipei; Pechino ribadisce che la «riunificazione» è un obiettivo «storico» e considera quella di Taiwan una questione interna. Utilizzando, tra l’altro, la propaganda russa sulla guerra in Ucraina in funzione anti Usa e anti Nato perché le è funzionale in Asia-Pacifico. Così come l’estensione dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale ha «gettato benzina sul fuoco» e causato il conflitto in Ucraina, dice la Cina, i tentativi di accerchiamento in corso con le varie piattaforme di sicurezza come Quad (alleanza strategica Usa, India, Giappone e Australia, siglata nel 2017) e Aukus (Australia, Regno Unito, Usa, in partenariato strategico militare dal 2021) gettano benzina sul fuoco in Asia-Pacifico. Ergo: «Se in futuro ci sarà una guerra su Taiwan non sarà colpa nostra».

Si affilano I coltelli

La guerra in Ucraina sta portando Pechino ad aumentare la sua capacità di fuoco e la sua potenza nucleare, nel tentativo di scoraggiare non solo Taiwan a difendersi, ma anche Washington a intervenire. La stessa cosa provano a fare gli Usa facendosi vedere più spesso dalle parti dello stretto e organizzando tentativi di Nato asiatiche. Contestualmente, Xi affila l’arsenale normativo per sottomettere i taiwanesi.

Liste nere (esiste in Rpc una legge antisecessione che sanziona i secessionisti usando le black list, ndr), una possibile futura legge che prenda di mira non più i secessionisti ma tutti coloro che non si prodigano alla riunificazione. Basi legali per ipotetiche azioni militari.

In un complicato gioco di specchi e di deterrenza incrociata, entrambe le potenze percepiscono il rivale voglioso di cambiare lo status quo e dunque si sentono incentivate a testare le rispettive linee rosse. Taiwan, nel mezzo, cerca di non recidere completamente il rapporto con la Repubblica popolare. L’interscambio commerciale, che ha raggiunto il suo record storico nel 2021 nonostante le tensioni politiche, e l’approvvigionamento tecnologico della Rpc (con i grandi colossi che fungono da veri e propri attori diplomatici in assenza di dialogo tra i due governi), sono leve fondamentali alle quali Taiwan non vuole rinunciare, nonostante le pressioni americane. Ad esempio, per i semiconduttori Biden sta cercando di costruire catene di approvvigionamento «democratiche» che escludano Pechino. O, se fosse costretta a rinunciare agli affari con la Cina, chiederebbe garanzie più chiare di una difesa completa agli Usa.

C’è chi ritiene che i rapporti tra Pechino e Taipei abbiano già oltrepassato il punto di non ritorno e che il confronto diretto sullo stretto sia solo questione di tempo, a prescindere da come andrà in Ucraina. Eppure, c’è anche chi vede le cose diversamente. «Se non ci sarà la guerra, il corso degli eventi può nuovamente cambiare direzione», sostiene Chen Kuan-Ting, amministratore delegato del think tank taiwanese NextGen, ben inserito nelle dinamiche politiche locali. «Durante l’era di Hu Jintao i taiwanesi avevano iniziato a guardare alla Cina in un’altra maniera, e tantissimi hanno deciso di andare dall’altra parte dello stretto a lavorare o vivere», dice Chen. «Pechino può ancora riuscire a cambiare la sua immagine, se vuole conquistare il cuore dei taiwanesi, ha tanti modi per farlo. Ma se usasse la forza, quella possibilità si cancellerebbe e ogni rapporto verrebbe tagliato. Come sta succedendo tra Russia e Ucraina», prosegue Chen. Ma in che modo? «Condividiamo la stessa lingua e la stessa cultura, abbiamo rapporti profondi a livello commerciale: i taiwanesi non vogliono essere unificati, ma il dialogo potrebbe ripartire, se il Pcc (Partito comunista cinese) scegliesse di essere più aperto e non mostrare solo i muscoli», conclude Chen. «Non so, magari accadrà quando la Cina avrà un nuovo leader».

Tra pochi mesi, al XX Congresso, Xi dovrebbe però ricevere lo storico terzo mandato. E le lancette della nuova era continuano a scorrere.

Lorenzo Lamperti

Lorenzo Lamperti. Giornalista professionista, è direttore editoriale di China Files, scrive di Asia orientale per varie testate tra cui La Stampa, il Manifesto, Wired e think thank come Ispi.
China Files. È un collettivo di giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. Nata a Pechino nel 2008 come agenzia stampa focalizzata sulla Cina si è ampliata fino a coprire l’intera Asia. Ha già collaborato con MC. www.china-files.com