Festa della Consolata da Kiełpin


Carissimi un caro saluto a tutti voi.
Vi invito domenica 19 giugno alla festa della Consolata, nostra patrona tenerissima.
La festa di quest’anno che terremo a Kiełpin avrà un significato speciale.

Alcuni gruppi di ucraini desiderano ringraziarvi per la solidarietà che avete dimostrato.

Per questo organizzeremo una diretta su youtube (qui sotto trovate il link), attraverso il quale potrete collegarvi e seguire la santa Messa dal nostro giardino presieduta dal Nunzio apostolico S.E. Salvatore Pennacchio il quale alla fine benedirà i nostri volontari che questa estate partiranno per il Tanzania.

Appena finita la Messa, il coro di musica sacra ucraino (gli Angeli) terrà un concerto di ringraziamento per tutti voi, per il bene che avete condiviso.

All’inizio del concerto proverò a leggere in italiano  una lista dei gruppi o dei volontari che in questi mesi hanno aiutato la causa ucraina attraverso la nostra comunità, sperando di non dimenticare nessuno di voi.
Un caro saluto a tutti. Buona festa con un ricordo.

padre Luca Bovio

Appuntamento alle ore 10.15 su YouTube

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Brasile. Fuori Bolsonaro, fuori i «garimpeiros»


Dopo quattro anni di presidenza Bolsonaro, il paese latinoamericano versa in condizioni molto pesanti. In particolare, drammatica è la situazione dei popoli indigeni. Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, organizzazione che quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Al bingo dello «shoop do Ismael» i primi due premi sono due revolver 357, il terzo è costituito da due litri di whisky. All’internet caffè di Lora, oltre alla connessione wifi, si possono trovare torte, snack, pizze, bibite gassate, succhi naturali. Da Nanda c’è, invece, una festa di carnevale con cabaret e musica.

Questo pubblicizzano i manifesti di tre locali pubblici.

Bingo, feste di carnevale, internet caffè sarebbero attività normali in un qualsiasi centro abitato. Non lo sono quando si trovano in piena foresta amazzonica e addirittura in una terra in cui l’ingresso sarebbe vietato a chiunque non sia indigeno.

Le foto, risalenti al marzo 2021, sono state diffuse dalla Polizia federale (Pf) brasiliana per reclamizzare una loro operazione contro i minatori illegali (garimpeiros) nella Terra indigena yanomami (Tiy), la più grande riserva indigena del paese (ben conosciuta dai lettori di questa rivista).

L’invasione è iniziata negli anni Ottanta, ma nel corso del tempo si è allargata a dismisura tanto che oggi si stimano in 20mila i garimpeiros presenti, allettati dall’altissimo valore dell’oro, il principale minerale ricercato.

Di norma, le miniere (garimpos) si trovano lungo i principali fiumi (rios) amazzonici: Uraricoera, Mucajaí, Couto Magalhães, Apiaú, Catrimani, Parima, Novo, Lobo d’Almada, Surucucu. Per raggiungerle, a parte un lunghissimo e complicato viaggio fluviale, la scelta più facile è la via aerea. L’Ibama, l’Istituto brasiliano per l’ambiente, ha individuato in terra yanomami quasi 280 piste di atterraggio clandestine.

Vista la mancanza di volontà, la corruzione o l’inefficienza delle autorità pubbliche, ormai da anni Yanomami e Ye’kuana raccontano il loro dramma in prima persona attraverso Hutukara (Hay), l’associazione indigena facente capo a Davi Kopenawa e al figlio Dario. Al loro fianco ci sono l’Instituto socioambiental (Isa) e i missionari (cattolici) del Conselho indigenista missionário (Consiglio indigenista missionario, Cimi), che proprio quest’anno ha compiuto 50 anni (1972-2022).

Grande eco ha avuto Yanomami sob ataque, il drammatico rapporto di Hutukara, uscito ad aprile (nello stesso periodo, ha esordito Mapa dos conflitos nell’Amazzonia legale, uno straordinario sito multimediale ideato dall’agenzia Pública e dalla Cpt, la Commissione pastorale del lavoro). Le foto pubblicate nel rapporto sono testimonianza evidente delle devastazioni prodotte dai garimpeiros, ma altrettanto e forse più terribili sono i racconti di come gli invasori, con la loro semplice presenza e i loro comportamenti, stanno distruggendo le basi sociali delle comunità indigene.

Una donna indigena usa la propria schiena per protestare contro il progetto di legge 191 che vorrebbe liberalizzare la ricerca mineraria sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Jair Bolsonaro, presidente anti-indigeno

La situazione degli Yanomami è, attualmente, la più nota, anche a livello internazionale. Tuttavia, la condizione degli oltre 300 popoli indigeni del Brasile è da sempre problematica e si è ulteriormente deteriorata sotto Jair Bolsonaro, il presidente ultraconservatore eletto nel 2018 e ricandidato per le elezioni del prossimo ottobre.

L’atteggiamento anti-indigeno dell’attuale governo brasiliano si è manifestato fin dall’inizio e prosegue senza ripensamenti, con azioni, iniziative legislative e dichiarazioni.

Nell’aprile del 2020, Abraham Weintraub, economista e all’epoca ministro dell’educazione, disse di odiare il termine povos indígenas (popoli indigeni) perché non esistono popoli indigeni, ma soltanto un popolo brasiliano.

«Quelle dichiarazioni – ci spiega dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondônia), raggiunto via WhatsApp – dimostrano il pregiudizio e la discriminazione che vige nei confronti dei popoli autoctoni. Evidenziano l’ignoranza sulla diversità di popoli, lingue e culture presenti nel nostro paese. Negare questa diversità significa negare l’esistenza di un paese multiculturale e democratico, come garantito dalla Costituzione federale del 1988, quella che gli attuali governanti sono tanto ansiosi di fare a pezzi».

«Gli articoli 231 e 232 della Costituzione federale – continua il prelato – rompono con una tradizione secolare d’esclusione riconoscendo ai popoli indigeni il mantenimento della loro organizzazione sociale e della propria cultura. Divenendo essi soggetti di diritto, la mentalità integrazionista e assimilazionista viene superata».

Nonostante la sua politica anti-indigena, lo scorso 18 marzo il presidente Bolsonaro è stato insignito con la Medalha do mérito indigenista.

Dom Roque si esprime senza remore. Probabilmente, il suo essere presidente del Cimi, organismo molto combattivo e inviso al governo Bolsonaro, lo ha reso indifferente a critiche e attacchi.

«È stata vergognosa – osserva – la mancanza di rispetto per l’obiettivo del premio concesso a persone che si distinguono nella protezione delle popolazioni indigene. L’attuale presidente sta facendo il contrario: un disservizio al Brasile e alle popolazioni indigene. Con il suo governo non sono state delimitate terre indigene e sono state incoraggiate le invasioni. Si è registrato il maggior numero di conflitti e morti di difensori dei diritti. Questo premio è un affronto ai popoli indigeni. Sembra un brutto scherzo visto che questo presidente è stato denunciato (per sei volte, ndr) alla Corte penale internazionale dell’Aia per genocidio».

Corrutela de garimpo no rio Uraricoera, Terra Indígena Yanomami

Il «pacchetto della distruzione»

L’offensiva del governo Bolsonaro e dei suoi alleati nei confronti dei popoli indigeni e delle loro terre poggia anche su strumenti legislativi che mirano a scardinare i principi stabiliti dalla Costituzione del 1988. Tanto che le organizzazioni indigene hanno coniato un termine ad hoc: pacote da destruição. Nel «pacchetto della distruzione» si trovano almeno due progetti di legge (Pl) che, ove approvati, avranno conseguenze devastanti per i popoli indigeni: il Pl 490 (o del marco temporal) e il Pl 191.

Secondo il progetto di legge 490, saranno considerate «terre indigene» soltanto quelle effettivamente occupate al 5 ottobre 1988, data di promulgazione della nuova Costituzione. Senza questa prova temporale le richieste di demarcazione saranno respinte. Sul marco temporal dovrebbe decidere il Supremo tribunal federal (Stf) questo 23 giugno.

«Il “marco temporal” – spiega dom Roque – è un’interpretazione sostenuta dalla bancada ruralista e dall’agrobusiness. La tesi è ingiusta perché ignora le espulsioni, gli allontanamenti forzati e tutte le violenze subite dagli indigeni fino alla data di promulgazione della Costituzione. Inoltre, ignora il fatto che, fino al 1988, i popoli indigeni non potevano adire alla giustizia in modo autonomo (perché, secondo lo Estatuto do índio, del 1973 erano “relativamente incapaci”, ndr). È da augurarsi che i giudici del tribunale siano giusti e rendano giustizia ai popoli originari, che da secoli sono violati e violentati nella loro integrità fisica, culturale e territoriale».

Il progetto di legge 191 vuole, invece, liberalizzare le attività estrattive sulle terre indigene. «È un affronto alla Costituzione federale, che mette a rischio l’esistenza dei popoli indigeni perché legalizza i garimpo», commenta dom Roque.

Non contento, Bolsonaro sta cercando di forzare la situazione anche utilizzando la guerra in Ucraina. È necessario approvare urgentemente l’apertura delle riserve indigene – afferma il presidente -, perché la guerra in Ucraina sta frenando l’importazione di fertilizzanti (potassio) dalla Russia di cui il Brasile ha assoluto bisogno, ma di cui i territori indigeni sarebbero ricchi.

Peraltro, la guerra ha già prodotto un effetto negativo facendo balzare verso l’alto il prezzo dell’oro, dando così ancora più spinta all’invasione della terra di Yanomami e Ye’kuana.

In tutto questo, una piccola speranza viene da un’opposizione indigena che non è più estemporanea, isolata e disorganizzata come in passato. Come ha dimostrato anche la diciottesima edizione dell’Acampamento terra livre (Atl), manifestazione che, lo scorso aprile, ha radunato a Brasilia quasi settemila indigeni appartenenti a 180 popoli differenti.

Boa Vista, l’acqua del monumento al garimpeiro colorata di rosso sangue a simboleggiare la tragica situazione creata dalla presenza dei garimpos illegali sulle terre indigene. Foto Carlo Zacquini.

Amazzonia, la foresta del mondo

Difendere i popoli indigeni significa difendere l’Amazzonia che in Brasile ha oltre il 60 per cento della propria estensione totale. Un’Amazzonia che mai come sotto il governo Bolsonaro è stata presa d’assalto senza ritegno per ottenere soia, legno, risorse minerarie, carne. È dimostrato che la battaglia mondiale contro l’emergenza climatica e ambientale passa obbligatoriamente attraverso la sua salvaguardia.

Ne è convintissimo dom Roque, che prima di arrivare a Rondônia ha ricoperto la carica di vescovo a Roraima, uno stato amazzonico per antonomasia.

«L’Amazzonia – spiega – è un sistema vivo e complesso, che, per mantenersi tale, ha bisogno di una foresta in piedi. Se questa viene a mancare, si avvia un processo di desertificazione, che non solo minaccia i popoli amazzonici, ma l’intero pianeta, accelerando il cambiamento climatico e provocando catastrofi ambientali in tutto il mondo.

In Brasile, purtroppo, la deforestazione dell’Amazzonia è incoraggiata dalle sfere di governo, che mettono al primo posto la crescita economica, basata sulla distruzione di un ecosistema che è vivente ma anche molto fragile.

Ricordo sempre cosa ci insegnano i popoli indigeni: “Se non ci prendiamo cura della terra, lei non si prenderà cura di noi”. Nessuno potrà mangiare soldi, bere veleno e respirare aria contaminata. Per vivere abbiamo bisogno di terra, acqua e aria sane. Difendere l’Amazzonia, i suoi popoli indigeni e le sue comunità significa operare per il buon vivere dell’intero pianeta e delle future generazioni».

Dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho (Rondonia) e presidente del Cimi. Foto Paolo Moiola.

«Questo governo è una minaccia»

A ottobre 2022 nel paese latino-americano ci saranno le elezioni presidenziali. Jair Bolsonaro si ripresenta per ottenere un secondo mandato trovandosi come principale sfidante l’ex presidente e leader del Partito dei lavoratori (Pt) Lula, liberatosi dai propri fardelli giudiziari.

Dom Roque Paloschi dipinge un quadro impietoso della situazione del paese. «Senza ombra di dubbio, in Brasile stiamo vivendo tempi molto difficili. L’attuale governo è una minaccia per la democrazia e l’intera società brasiliana».

«I cittadini – continua il nostro interlocutore – vengono oltraggiati e violati nei loro diritti fondamentali: salute, istruzione, lavoro, servizi igienico sanitari di base. È vergognoso che questo paese abbia superato i 660mila morti a causa del Covid-19 per irresponsabilità e per aver messo l’economia al di sopra della vita. Senza dimenticare che, oltre alla pandemia, abbiamo sperimentato altre forme di violenza come la fame, la disoccupazione, la mancanza di politiche pubbliche».

In questo contesto, la condizione dei più deboli tra i deboli non poteva che peggiorare: «I discorsi d’odio del presidente e dei suoi ministri (come quelli dell’ex ministro Sales) hanno alimentato la violenza contro i popoli indigeni».

Nel periodo peggiore della pandemia, un numero ancora maggiore di terre è stato invaso, mettendo a rischio l’integrità fisica, culturale e territoriale delle popolazioni autoctone.

«E addirittura – precisa il presidente del Cimi -, a rischio di estinzione le comunità indigene che vivono in isolamento. Al tempo stesso, gli organismi pubblici di ispezione e protezione sono stati depotenziati. Per tutto questo il paese ha scalato il ranking mondiale per livelli di violenza e di morte dei difensori dei diritti umani».

Il presidente Bolsonaro festeggia l’incredibile assegnazione della «Medalha do mérito indigenista» (18 marzo 2022). Foto Caluber Cleber Caetano – PR.

Avere memoria

Secondo i sondaggi dei principali istituti di ricerca brasiliani, Lula è largamente in testa nelle preferenze elettorali, precedendo Bolsonaro. Tuttavia, le previsioni indicano che sarà necessario un secondo turno (il 30 ottobre) e qui la lotta appare più incerta.

«Nei periodi elettorali – commenta dom Roque -, tutti i candidati si presentano come i salvatori della patria e sembrano non stancarsi mai di ingannare e manipolare i cittadini. Io spero che il popolo brasiliano abbia memoria di quanto accaduto in questi anni. Spero possa riprendere in mano la sua storia, la democrazia e dire basta ai candidati che negano i diritti dei popoli indigeni, dei neri, delle donne e degli altri gruppi esclusi dalla società».

La conclusione di dom Roque è netta: «Uno stato che – con tutti i suoi poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) – non rispetta la Costituzione del paese e viola i diritti umani basilari, lo abbiamo già ora. La domanda è: continueremo anche in futuro a scommettere su chi promuove distruzione, violenza e morte? A dare fiducia a gruppi che difendono soltanto i propri interessi e non lavorano per il bene comune?».

Paolo Moiola

Terra indigena yanomami (Tiy): trent’anni (1992-2022) di invasioni, distruzione, morte

  • Dati Tiy: 96.650 Km2 (un terzo dell’Italia) Roraima e Amazonas, oltre 28mila indigeni e 371 comunità; la Terra indigena yanomami (Tiy) celebra quest’anno (2022) i 30 anni, essendo stata omologata il 25 maggio 1992;
  • Numeri dell’invasione: 20mila garimpeiros e 3.272 ettari interessati (più 46% rispetto al 2020); 277 piste di atterraggio aereo clandestine; 800 currutelas (sorta di villaggi dei garimpeiros con baracche, negozi, prostitute);
  • Fiumi più coinvolti: rio Uraricoera, rio Mucajai, rio Couto Magalhães, rio Apiaú, rio Catrimani, rio Parima, rio Novo, rio Lobo d’Almada, rio Surucucu;
  • Danni ambientali: i garimpeiros stanno producendo pesantissimi danni ambientali come il disboscamento, la distruzione dell’ecosistema amazzonico, l’inquinamento e la deviazione dei fiumi;
  • Danni sociali: la struttura sociale degli Yanomami e Ye’kuana viene destabilizzata; i ragazzi e i giovani sono allettati a lavorare nei garimpos in cambio di cachaça, armi da fuoco, combustibile, alimenti industriali o altre mercanzie; bambine, ragazze e giovani donne sono adescate per fini sessuali;
  • Pesca, caccia, piantagioni: le attività economiche su cui si fondano le comunità indigene sono sempre più difficilmente praticabili; la pesca si è ridotta a causa dell’inquinamento dei fiumi dovuto principalmente al mercurio usato dai cercatori d’oro; la caccia si è complicata perché gli animali scappano a causa dei rumori prodotti dai macchinari usati nei garimpos e dai mezzi di locomozione (aerei e barche); le piantagioni di frutta e legumi sono trascurate, ridotte o distrutte; per tutti questi motivi è aumentata l’insicurezza alimentare degli indigeni;
  • Situazione sanitaria: oltre al Covid, a causa della devastazione ambientale è esplosa la diffusione della malaria (anche con la versione più letale del Plasmodium falciparum), toccando i 19mila casi all’anno; si è aggravata la denutrizione infantile; la dispersione in acqua e nell’ambiente del mercurio sta producendo pesanti conseguenze sulla salute indigena; l’insicurezza generale ha portato alla chiusura di vari centri di salute governativi.
  • Fonti principali: Hutukara associação yanomami (Hay) – Associação wanasseduume ye’kwana – Instituto socioambiental (Isa), Yanomami sob ataque, aprile 2022; Agência pública – Comissão pastoral da terra (Cpt), Mapa dos conflitos.

(a cura di Paolo Moiola)

(Cuiabá – MT, 19/04/2022) Presidente do Conselho de Pastores do Estado de Mato Grosso (COMEC/MT), Pastor Fábio Senna entrega camisa do Lançamento da Marcha para Jesus para o Presidente Jair Bolsonaro. Foto: Alan Santos/PR

L’analisi della Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb)

«Le grida del mio popolo»

Le gravi colpe del governo Bolsonaro sono sotto gli occhi di tutti. Eppure, le elezioni di ottobre rimangono incerte. Con evangelici e cattolici sempre più divisi.

Disoccupazione, disuguaglianza sociale estrema, famiglie senza fissa dimora in ogni città del paese che sopravvivono di spazzatura, e ciò a causa del modello economico operante in Brasile, un modello che produce scarsità per la maggioranza della popolazione, mentre una minoranza privilegiata vanta livelli di ricchezza assurdi.

Sono affermazioni presenti in un lungo documento preparato dai 14 membri (includendo il gesuita Thierry Linard, scomparso a gennaio) del gruppo di analisi della congiuntura della Conferenza episcopale brasiliana (Conferência nacional dos bispos do Brasil, Cnbb). Il documento, titolato «Os clamores do meu povo» (Le grida del mio popolo) e datato 21 aprile, è di una durezza inusitata per l’organismo, in ciò confermando la gravità della situazione brasiliana.

Il fondamentalismo religioso

A iniziare dalla constatazione che il governo Bolsonaro «fa parte di un fenomeno mondiale di ascesa di governi estremisti, autoritari e, in alcuni casi, con tratti neofascisti». Si tratta di governi che, per raggiungere i propri scopi, utilizzano ogni mezzo, compreso il fondamentalismo religioso.

«È importante notare – si legge nel documento – che il dibattito religioso sta acquisendo sempre più importanza e protagonismo nelle elezioni di quest’anno». Tutte le inchieste sulle intenzioni di voto confermano che la gran parte degli evangelici sta con Bolsonaro (46%), mentre la maggioranza dei cattolici (48%) sta con Lula.

«Durante il governo Bolsonaro, abbiamo osservato che vari leader politici, deputati e ministri legati alle chiese neo pentecostali stavano occupando spazio in aree strategiche del governo. Basato, tra l’altro, sulla “teologia del domínio”». Secondo questa teoria, i cristiani hanno ricevuto il mandato divino di assumere il dominio del mondo intero mettendosi a occupare o controllare le istituzioni secolari dei paesi «fondamentale per vincere la guerra cosmica tra Dio e il diavolo».

Bolsonaro è anche un utilizzatore del controverso termine «cristofobia», che segnala una strategia elettorale rivolta al pubblico evangelico. «Secondo Ronilso Pacheco, editorialista del portale Uol, pastore evangelico e studioso di religioni, il termine “cristofobia” sarà utilizzato come strategia elettorale decisiva nelle prossime elezioni».

Il ruolo del tribunale federale (STF)

Il documento della Cnbb si sofferma anche sul potere giudiziario. «Di recente – si legge -, la magistratura, in particolare il Supremo tribunale federale (Stf), è diventata un importante attore politico nel paese».

Nel contesto della pandemia, si sono verificate alcune delle controversie più importanti. Per esempio, la corte suprema ha vietato la campagna governativa «O Brasil não pode parar» (Il Brasile non può fermarsi), considerata disinformazione. Nell’anno in corso, il principale argomento di controversia è l’«agenda verde» e le questioni indigene e socio ambientali.

Il gruppo della Cnbb chiude la sua analisi della congiuntura elencando undici azioni necessarie: dalla «difesa intransigente dei diritti civili e delle istituzioni democratiche del paese» a una nuova proposta di sviluppo «socialmente inclusiva e ambientalmente sostenibile», dalla «universalizzazione dei servizi pubblici essenziali» alla «promozione della pace e della giustizia». Con un augurio finale: «Come fare dipende da tutti noi! Sarà però il risultato del dialogo e della solidarietà tra tutti e con l’Altro, soprattutto i più vulnerabili e coloro che in ogni angolo gridano di essere liberati».

Paolo Moiola

Lula, candidato presidenziale ed ex presidente, davanti agli indigeni di «Terra libre» ha promesso la creazione di un ministero per gli indigeni (12 aprile 2022). Foto Kamikia Ksedje Midia India – APIB.




Vicinanza e concretezza


La vicinanza al popolo dell’Ucraina, aggredito e violentato dalle truppe di Putin, si può manifestare in vari modi. Uno di questi è portare aiuti alla popolazione rimasta senza nulla. Diario di un viaggio di duemila chilometri, da Trento a Chişinău.

Se è vero che il viaggio ha valore e trova il suo significato non nella meta da raggiungere, ma nel percorso che ci porta a essa, allora questa volta ho proprio viaggiato. E non solo da un punto di vista fisico, ma anche con il cuore e con la mente.

Verso fine marzo mi è stata offerta la possibilità di recarmi nella repubblica di Moldavia per portare degli aiuti, viveri, medicinali, prodotti per l’igiene, al Centrul social pastoral «Casa Providentei» che si trova a Chisinau (Chişinău, è la scrittura corretta), dove opera da vari anni suor Rosetta Benedetti, missionaria trentina dell’istituto Suore della Provvidenza, assieme a due giovani consorelle rumene, suor Juliana e suor Michela.
Il Centro, dall’inizio della guerra in Ucraina, è stato adibito dalle suore all’accoglienza di tante persone, soprattutto donne e bambini, in fuga dal loro paese.

Gli aiuti erano stati raccolti dalla San Vincenzo di Mestre e dal Centro missionario diocesano di Trento, dove da molti anni lavoro. Quando l’amico Bruno**, da noi interpellato per intraprendere il viaggio assieme ai volontari della San Vincenzo, mi ha proposto di accompagnarlo, istintivamente ho detto subito sì. Appena chiusa la telefonata, sono stata assalita da dubbi e ripensamenti: la lunghezza del viaggio, il pensiero che forse non sarei stata di molta utilità, ma soprattutto la preoccupazione di essere d’impiccio una volta arrivati a destinazione.

Ripensandoci con calma e condividendo queste riflessioni con il direttore e i colleghi, ho realizzato che il mio andare avrebbe avuto il significato di portare a suor Rosetta (che, peraltro, aveva accolto la notizia della visita con grande entusiasmo) un piccolo segno di vicinanza e solidarietà della sua diocesi e della sua terra di origine.

Così, alla fine, i dubbi che albergavano nella mia mente si sono dissolti.

Nell’attesa della partenza, mentre si mettevano a punto l’itinerario, i contatti, gli aspetti tecnici, non ho potuto fare a meno di elaborare qualche proiezione su quello che avrei potuto incontrare e vedere. Senza peraltro farmi troppe aspettative, come sono solita ripetere a chiunque si appresti a vivere un’esperienza missionaria, e ciò per essere liberi di accogliere tutto quello che ci verrà offerto.

Una vecchia università convertita in centro per rifugiati a Chişinǎu: qui vengono ospitate varie minoranze provenienti dall’Ucraina (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Attraverso Slovenia, Ungheria, Romania

Siamo partiti in cinque il 21 marzo, a quasi un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina. Abbiamo attraversato Slovenia e Ungheria, percorrendo un’autostrada che ci ha permesso di arrivare al confine con la Romania e attraversarlo fino al raggiungimento della prima tappa, in dodici ore, senza avere occasione di vedere un granché se non solo in lontananza il lago Balaton.

Una volta arrivati in Romania il paesaggio è subito cambiato. Pur giungendo di notte alla periferia di Oradea, capoluogo di uno dei distretti del paese, ci siamo resi conto di essere arrivati in un’Europa un po’ diversa da quella a cui siamo abituati. Piccole e basse casette, una attaccata all’altra, la maggior parte non molto ben messe, con pali della luce in legno, fili elettrici aerei, aggrovigliati, come solo forse negli anni Cinquanta e primi anni Sessanta, dalle nostre parti si potevano osservare nei centri più piccoli. Mano a mano che ci avvicinavamo al centro, le casette lasciavano il posto a grandi palazzi residenziali, alcuni davvero imponenti, che solo alla luce del giorno avrebbero rivelato una certa trascuratezza e una impressionante somiglianza tra loro. È pur vero che abbiamo attraversato parte della città senza poterci fermare se non per una notte, accolti in un seminario greco cattolico, da padri che parlavano perfettamente l’italiano e molto disponibili, che ci hanno raccontato le loro attività con seminaristi, bambini, giovani e universitari e dell’aiuto che portano ai confini con l’Ucraina, entrando nel paese con viveri, farmaci e beni di prima necessità. Però la sensazione di trovarci in un «altro» mondo, l’ho proprio percepita. Per di più, vittima dei soliti pregiudizi (che da una vita cerco di scardinare in me e negli altri), immaginavo di trovare un paese sporco, magari con immondizie ai lati delle strade, e invece non c’era un pezzo di carta per terra e la cura per la pulizia degli spazi comuni era davvero ammirevole.

Da Oradea in poi è iniziato il vero viaggio: circa 600 km, tutti su strade provinciali attraverso i monti Carpazi.

Carretti e auto di lusso

Mi era stato detto che, in Romania, il percorso non si calcola in chilometri, ma in ore. Infatti, per arrivare a Iași, posta al confine con la Repubblica Moldava, la nostra piccola carovana ha impiegato dieci ore. Abbiamo attraversato città storiche come Cluj Napoca, con un bellissimo centro storico, che richiama l’epoca imperiale, molto caotica e con un traffico che non ha nulla da invidiare a quello di Milano; città più piccole dove si possono ammirare le caratteristiche case dei Rom, con rifiniture in metallo che sembrano merletti e comignoli davvero originali (che spesso però sono vuote); altre con grandi palazzi un po’ decadenti. Abbiamo passato villaggi di montagna in mezzo alla neve, simili a piccole stazioni turistiche con alti monti innevati sullo sfondo; villaggi sul fondo valle, dove il tempo sembra essersi fermato a un centinaio di anni fa, con le casette, qualche animale, donne, probabilmente anziane, infagottate e con il capo coperto da un foulard legato sotto il mento. In ogni dove, anche nelle zone più remote, abbiamo notato imponenti chiese ortodosse e monasteri. E poi chilometri e chilometri di campagna, terra, che – ci è stato spiegato – è coltivata a grano, granoturco e patate. Un mezzo di trasporto ancora molto utilizzato è un carretto trainato da un cavallo dalla corporatura massiccia, che serve per portare di tutto, dalle persone agli attrezzi da lavoro, masserizie, cibo. A far da contraltare a questo mezzo antico, automobili di grossa cilindrata (Bmw, Mercedes, Volkswagen) che, soprattutto in alcune aree agricole e modeste, sono di grande contrasto.

Tutto questo abbiamo visto attraversando la Romania da Ovest a Est, nel territorio della Transilvania. Difficile dire quale sia veramente la realtà non avendo potuto fermarsi e stare un poco con le persone. L’idea che mi sono fatta, attraverso quanto ho registrato con il solo senso della vista, è che si tratti di un paese che porta ancora in sé i segni di un passato legato all’ex Unione Sovietica ma con uno sguardo rivolto al mondo occidentale, all’Europa di cui fa parte e di cui forse vorrebbe tenere il passo.

Arrivati a Iași, ad attenderci abbiamo trovato suor Betty della congregazione delle Suore della Provvidenza di Adjudeni (Romania) che ci avrebbe accompagnati nella Repubblica di Moldavia e aiutato nell’attraversamento delle dogane rumene e moldave.

Al mattino, con i pulmini carichi, ci siamo avviati per percorrere l’ultimo tratto di strada verso la Casa della Provvidenza di Chisinau, il centro pastorale della diocesi dove trovano ospitalità molti profughi ucraini, spesso di passaggio per raggiungere altre mete europee dove si trovano parenti e amici.

Donne e bambini protestano contro la Russia davanti al Teatro nazionale dell’Opera e del balletto di Chişinǎu, tenendo in mano cartelli e giocattoli insanguinati (9 aprile 2022). Foto Pablo Miranzo -Anadolu Agency-AFP.

Burocrazia e panico da dogana

Alla dogana rumena non abbiamo avuto nessuna difficoltà. La cosa non è stata altrettanto facile alla dogana moldava. Nonostante tutti i nostri documenti preparati in Italia e in repubblica di Moldavia dalle suore, i quali riportavano la proprietà dei pulmini, l’elenco delle merci, la destinazione, la motivazione (aiuti umanitari), siamo stati bloccati per un modulo sul quale mancava la firma di una funzionaria moldava.

Abbiamo atteso qualche ora perché le suore potessero recarsi all’ufficio, raccogliere la firma, inviare il documento alla dogana e a suor Betty che ha dovuto trovare il modo di stamparlo e consegnarlo.

Abbiamo vissuto altri momenti di panico quando ci hanno informati che avrebbero apposto i sigilli a uno dei pulmini. Poi, fortunatamente, ci hanno ripensato (chissà – ho pensato – forse grazie alla Provvidenza) e siamo potuti ripartire. Poco dopo il nostro arrivo, alla dogana moldava è arrivato un pullman francese carico di aiuti e con una decina di accompagnatori. Anche loro si sono trovati ad affrontare la burocrazia della frontiera, ma hanno avuto meno fortuna visto che li abbiamo incontrati la sera tardi che uscivano dalla dogana moldava mentre noi eravamo già sulla strada del ritorno verso Iași.

Suor Betty ci ha spiegato che alla frontiera sono diventati molto pignoli da quando c’è un grande passaggio di profughi ucraini. Sappiamo infatti di altri che sono stati trattenuti ore ed ore con controlli accuratissimi. Senza voler giudicare o criticare le leggi e le procedure degli altri paesi, mi chiedo se – in una situazione di simile emergenza e nel momento in cui si è in possesso di documenti idonei – non si possano snellire gli iter burocratici per evitare di intasare le dogane con file interminabili e tempi infiniti di attesa, anche da parte di persone che provengono da situazioni di guerra e che, quindi, hanno già sulle spalle grandi preoccupazioni e ansie.

L’8 marzo, giorno della festa della mamma, madri e nonne ucraine ricevono un fiore dalle suore del centro. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Finalmente alla meta

Dopo più di due giorni di viaggio, abbiamo raggiunto la nostra meta. Ultimo scoglio: gli uffici doganali in città che dovevano dare il nullaosta per scaricare la merce. Ancora tempi di attesa, toccati a suor Betty e Sandro.

L’accoglienza di suor Rosetta e delle altre suore è stata davvero speciale, come sempre mi è capitato di sperimentare nelle mie visite ai missionari trentini.

Siamo arrivati quando i bambini dell’asilo, una delle due attività normali del centro, stavano giocando in cortile, come pure alcuni dei bambini ucraini ospiti.

Suor Rosetta ci ha raccontato che erano presenti una novantina di profughi. Dieci erano di etnia Rom, arrivati la sera prima con una bambina di 15 giorni. Sono per la maggior parte nonne e mamme con bambini. Arrivano accompagnati dalla polizia o in auto, in autonomia, a seguito del passaparola di coloro che ci sono già passati e che consigliano a parenti e amici di recarsi dalle suore, dove si può trovare un’accoglienza attenta e cordiale.

Fuggire in pigiama

Il centro pastorale, che ha anche un seminario, sorge in una zona nuova della città di Chisinau. Quando è stato costruito era in campagna, ora è attorniato da negozi e supermercati, palazzi di nuova costruzione dove risiedono giovani coppie che hanno anche delle possibilità economiche, spesso anche grazie alle rimesse di nonne che si trovano in Europa ad assistere gli anziani come badanti. Le attività ordinarie delle suore sono la gestione di un asilo con 120 bambini e una mensa per persone anziane indigenti, attività che continuano anche in questo momento. Ci hanno parlato della solidarietà dimostrata dai genitori dei bambini che si sono attivati per raccogliere cibo e indumenti per gli ospiti ucraini.

Le due strutture che compongono il centro sono state trasformate per poter dare ospitalità a un massimo di 120 persone. Ogni stanza, salone, corridoio, è stato attrezzato con letti, che sono stati sistemati anche nella cappella. I seminaristi presenti sono stati trasferiti in un’altra struttura della diocesi per far posto ai profughi. Le suore con i loro collaboratori hanno spostato mobili, montato letti, preparato biancheria. Ogni volta che arriva un gruppo di persone si mettono in moto per sistemarlo nel miglior modo possibile. Ci sono giorni in cui si registrano arrivi fino a tarda ora. Chiunque bussi alla porta trova suor Rosetta, suor Juliana, suor Michela con un sorriso e un gesto di affetto nei suoi confronti. Alcuni sono arrivati in auto, in pigiama, perché fuggiti in fretta e furia, lasciando tutto. Molte delle donne con i figli sono state accompagnate al confine dai mariti e dai padri che poi sono tornati indietro per cercare di difendere le loro città e il loro paese.

Piccoli, grandi gesti

Suor Juliana, Luisa Legari e Tatiana Brusco, autrice di questo diario, scaricano gli aiuti da un furgoncino. Foto Centrul Social Pastoral Casa Providentei.

Una signora, sentendoci parlare italiano, si è avvicinata mentre stavamo scaricando i pulmini e ci ha ringraziati per l’aiuto portato alla sua gente. In quel momento come ora, mentre ne sto scrivendo, mi salgono le lacrime agli occhi, perché il nostro sembrava davvero un piccolo gesto davanti all’enormità della tragedia che tutti loro stanno vivendo.

Ci ha raccontato che era in attesa del permesso per recarsi con il figlio in Germania per raggiungere la madre che si trovava là per cure e che chissà quando sarebbe potuta tornare a casa. Questo breve incontro mi ha fatto comprendere come sia importante l’esserci, il poter dare anche un piccolo segno di solidarietà con la presenza, come e anche più dei molti aiuti che si possono portare. Questo è quanto le suore e le persone che operano al centro stanno dimostrando in questo momento, non risparmiandosi e non contando le ore di lavoro e trovando sempre un gesto di attenzione speciale per ognuno. Come è accaduto l’8 marzo, giorno della Festa della Mamma nella repubblica di Moldavia: le suore hanno donato a tutte le mamme e nonne un tulipano giallo e un piccolo dolce. Forse non era la cosa più importante festeggiare le mamme in quel momento, ma ha fatto sentire tutte loro amate e considerate e non solo persone da aiutare.

Questo è quanto abbiamo sperimentato anche noi: malgrado la stanchezza, i pensieri e le preoccupazioni che vivono ogni giorno, le suore sono state davvero contente di vederci e di passare assieme alcune ore, offrendoci un pranzo tradizionale moldavo, con un immancabile tocco trentino rappresentato da un’ottima torta di mele.

Con la valigia pronta

Anche il popolo moldavo sta dimostrando una grande solidarietà accogliendo nelle proprie case i profughi e attivandosi per dar loro aiuto. Una parte dei moldavi vive nella paura che possa succedere qualcosa anche al loro paese. In molti hanno una valigia pronta e qualche risparmio da parte per essere pronti a partire in qualsiasi momento.

Tatiana Brusco

Una mappa della Moldavia con evidenziate le regioni contese con la Russia: la Transnistria e la Gaugazia. Illustrazione di Stratfor (2014).

Moldavia, incubo Transnistria

  • Superficie: 34mila Km2;
  • Popolazione: 3,9 milioni;
  • Capitale: Chişinău, con circa 800mila abitanti;
  • Sistema politico: repubblica parlamentare;
  • Presidente: Maia Sandu, in carica dal 20 dicembre 2020; prima donna moldava alla presidenza, la Sandu è una filo europea, al contrario del suo predecessore Igor Dodon, filo russo;
  • Date essenziali: indipendenza, 25 dicembre 1991; aprile 2022, alcuni attentati in Transnistria, «stato» legato alla Russia, avvertono che la guerra può toccare anche questa regione;
  • Principali gruppi demografici: moldavi 70%, ucraini 11%, russi 9%;
  • Religioni principali: ortodossi 93%; gli ortodossi fanno capo alla Chiesa ortodossa moldava legata al patriarcato di Mosca guidata da Kirill, mentre una parte più piccola di essi fanno riferimento alla Chiesa ortodossa rumena;
  • Economia: principalmente rurale e agricola, la Moldavia è considerata il più povero tra i paesi europei; lo scorso 4 marzo, la presidente Maia Sandu ha presentato domanda di adesione
    all’Unione europea;
  • Gas: le forniture di gas provengono dalla Russia;
  • Regioni contese: la regione moldava della Transnistria è uno stato indipendente de facto, sotto tutela di Mosca; anche la regione autonoma della Gagauzia chiede l’indipendenza dalla Moldavia; si tratta di una situazione simile a quella del Donbass e della Crimea in Ucraina, tanto che un progetto di Mosca prevederebbe la formazione di un corridoio dai territori ucraini conquistati fino alla Transnistria;
  • Profughi ucraini: 453.848 persone entrate nel paese dallo scoppio della guerra (dati Unhcr al 6 maggio 2022);
  • Moldavi in Italia: 122.667 pari al 2,4% degli stranieri ufficiali (dati Istat, 1° gennaio 2021); dei residenti moldavi in Italia la maggior parte è occupata nei servizi alla persona (colf e badanti).

(a cura di Paolo Moiola)

Guerra russa e Chiesa ortodossa

La croce e il Cremlino

Le immagini di Vladimir Putin alla messa della Pasqua ortodossa – lo scorso 24 aprile – sono subito state diffuse da Sputnik, l’agenzia di stampa del Cremlino operante in tutto il mondo. Il presidente e novello zar russo è stato immortalato con una candela in mano e mentre si fa il segno della croce. Il tutto si è svolto a Mosca, nella cattedrale di Cristo Salvatore, a poca distanza dal Cremlino.

A officiare la cerimonia pasquale non poteva che essere il patriarca Kirill, dal 2009 primate della Chiesa ortodossa russa. Dopo le sue scandalose omelie in favore della «operazione militare speciale» in Ucraina, in quella occasione il patriarca si è limitato a parole di circostanza.

Nelle sue invettive contro l’Occidente e i suoi vizi, il fustigatore Kirill evita sempre ogni possibile riferimento alla propria persona. Come il sodale Putin, il patriarca ha infatti un passato da agente del Kgb a Ginevra, quando lavorava per il Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec). Come Putin (anche se non ai suoi irraggiungibili livelli), il patriarca ha accumulato ingenti ricchezze personali (famosa la foto del 2009 con un orologio Breguet da trentamila dollari al polso). Proprio come avvenuto con il presidente, in Russia, pochi hanno osato opporsi al bellicismo del patriarca, anche per non incorrere nelle pesanti «attenzioni» della polizia. Come dimostrano le vicende di padre Ioann Burdin (50 anni) e padre Georgy Edelshtein (89), perseguiti per aver parlato contro la guerra in Ucraina.

È proprio in quel paese che il patriarca Kirill ha subito lo smacco più importante: lo scisma del 2018. Nel suo libro La croce e il Cremlino, il professor Thomas Bremer spiega che la storia della Chiesa russa inizia a Kiev nel X secolo. «Le tensioni politiche che emergono talvolta (il libro è del 2007, ndr) tra Russia e Ucraina si comprendono a partire da questa radice storica: per alcuni russi è difficile accettare che Kiev, la “madre delle città russe” e la culla dell’Ortodossia russa, oggi sia terra straniera».

Secondo un altro professore, il francese Antoine Nivière, autore de Gli ortodossi russi (2018), da quando ha raggiunto il più alto grado della gerarchia, Kirill si è radicalizzato, adottando come Putin la teoria dello «scontro di civiltà».

Proprio in questo mese di giugno, papa Francesco avrebbe dovuto incontrare il patriarca Kirill a Gerusalemme. Appuntamento poi sospeso a causa del conflitto. Nel febbraio del 2016, Francesco e Kirill si erano visti a L’Avana, primo ed unico incontro tra leader della Chiesa cattolica e di quella ortodossa russa.

Paolo Moiola

8174121 24.04.2022 Russian President Vladimir Putin attends the Easter service at the Christ The Saviour Cathedral in Moscow, Russia. Sergey Fadeichev / POOL (Photo by Sergey Fadeichev / POOL / Sputnik via AFP)

Archivio MC

 

 




Guatemala: Da vittime a protagoniste


Nel paese centroamericano la violenza contro le donne è normalità quotidiana. Ancora di più se indigene. Elena e Cristina, di origine maya ixil, hanno saputo trasformare la loro esperienza in un aiuto per altre vittime.

La cosa che colpisce di più quando si parla con Elena Guzaro è la dolcezza del suo sguardo, un misto di timidezza, fatica, ma anche determinazione. Di fianco a lei, Cristina Raymundo ha occhi vivaci e sinceri. Ti squadra in maniera diretta, senza abbassare la testa, visibilmente divertita.

Sono due modi diversi di osservare il mondo, ma entrambi rivelano la serenità e la consapevolezza di chi, non senza difficoltà, è riuscita a prendere in mano la propria vita e a decidere per se stessa. Sono gli sguardi di chi è stata capace di sottrarsi alle botte di un marito ubriaco, o di chi rifiuta di rimanere intrappolata in una relazione familiare di dipendenza economica o, ancora, di chi vuole studiare per migliorare le proprie opportunità future. Sono gli sguardi tipici di chi è riuscita ad affrancarsi dalla violenza di genere con il proprio corpo e le proprie parole. E dopo averlo fatto, è determinata ad aiutare altre donne a seguire i suoi passi.

Donne indigene portano croci con i nomi di vittime del conflitto armato guatemalteco durante una manifestazione per il 22° anniversario della pubblicazione (avvenuta nel 1999) del rapporto della «Commissione per la verità» (Città del Guatemala, 25 febbraio 2021). Foto Johan Ordonez – AFP.

Elena e Cristina

Elena Guzaro e Cristina Raymundo sono due donne indigene di origine maya ixil, vivono a Nebaj, a duemila metri d’altezza nella regione del Quiché, zona Nord Ovest del Guatemala. Sono ex vittime di violenza. Ex, perché oggi non lo sono più.  Nel presento sono, e lo saranno nel futuro, due defensoras dei diritti umani che, forti della loro esperienza dolorosa, aiutano le loro concittadine, così come le donne provenienti da tutta la regione maya ixil, a riconoscere la violenza e, in questo modo, a liberarsene.

Da anni, Elena e Cristina sono parte integrante dell’Associacion red de mujeres ixiles (Asoremi), un’organizzazione di donne che si batte proprio per richiedere giustizia in nome delle vittime di abusi fisici e sessuali, di discriminazione e di minacce psicologiche. Nel corso del tempo, la Defensoría de la mujer I’x (dove in lingua maya ixil «I’x» vuol dire «donna»), la sede di Asoremi, è diventata un punto di riferimento per bambine, giovani e donne di tutte le età che, in caso di violenza, preferiscono rivolgersi a loro invece di dirigersi da sole alla polizia, che in molti casi non prende in esame le loro denunce.

1960-1996: La guerra civile

Elena Guzaro è la presidentessa di Asoremi e sa bene cosa significa essere incastrata in un contesto di violenza. Lei stessa ha vissuto l’esperienza sulla sua pelle. È nata nel 1980, nel pieno del conflitto armato interno che ha causato oltre 200mila vittime e 45mila desaparecidos, tra il 1960 e il 1996, anno in cui sono stati firmati gli accordi di pace. La guerra civile, giocata nel contesto della Guerra fredda, ha visto contrapporsi l’esercito, sostenuto e armato dagli Stati Uniti, a una guerrilla partecipata da contadini, studenti, sindacalisti e alcune organizzazioni di sinistra, tra cui il Movimiento revolucionario 13 de noviembre.

Tra il 1981 e il 1983, il conflitto conobbe una svolta drammatica con una fase genocida, guidata dall’allora dittatore Efraín Ríos Montt, nei confronti della popolazione maya ixil. Il piano elaborato per lo sterminio del popolo indigeno portò all’esecuzione di migliaia di persone, tra adulti e minori. Oltre alle morti e alle sparizioni forzate, si aggiunge alle atrocità di quel periodo anche lo stupro, arma di guerra ripetutamente utilizzata nei confronti delle donne maya ixil.

A oggi, il genocidio è rimasto impunito, pur essendo evidenti le responsabilità dell’ex dittatore. Il report realizzato dalla «Commissione per il chiarimento storico», voluta dalle Nazioni Unite, ha infatti evidenziato che il 93% delle violenze avvenute durante l’intero conflitto armato è stato perpetrato dall’esercito.

Donne indigene in cammino. Foto Simona Carnino.

La violenza Inizia in famiglia

Allora Elena Guzaro era una bambina di pochi anni ed è riuscita a sopravvivere alla prima violenza della sua vita, a cui, nel tempo, se ne sono sommate altre. «Mio padre è morto nel 1982, durante la guerra, e fin da bambina ho dovuto lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nella zona della costa Sud – racconta Elena -. Ho avuto il mio primo figlio a 18 anni. Mio marito non mi aiutava, anzi, mi picchiava quando partecipavo alle attività di Asoremi, perché voleva che rimanessi a casa. Era violento, ma io pensavo che fosse normale perché anche mia madre mi diceva che se lui mi picchiava era per colpa mia, perché uscivo per andare a lavorare alla Red con le altre donne. Ora non sto più con lui. Ci siamo lasciati cinque anni fa, ma è stato difficile prendere questa decisione nonostante le botte, perché da quel momento lui ha smesso di sostenere economicamente la famiglia. Io ho sei figli ed è dura mantenerli da sola».

Un problema radicato

La violenza contro le donne in Guatemala, così come nel Nord dell’America Centrale, Messico e in numerosi paesi dell’America Latina, è un problema radicato.  Come in quasi tutto il mondo, la violenza si presenta sotto molteplici forme, a partire da quella fisica, sessuale, psicologica, economica, fino ad arrivare agli abusi dello stato, di cui, per esempio, è stata vittima Elena Guzaro quando, durante il conflitto armato, ha dovuto abbandonare la sua casa per sfuggire al genocidio perpetrato dall’esercito guatemalteco ai danni della sua comunità.

In America Latina è alta l’incidenza del femminicidio, che nel 2020 ha generato oltre 4mila vittime, uccise principalmente per mano di un familiare prossimo, in particolare del compagno o dell’ex.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’«Osservatorio sull’uguaglianza di genere» delle Nazioni Unite, con un tasso di 4,7 donne uccise su 100mila abitanti è l’Honduras ad aggiudicarsi il primato di paese più mortale per le donne, seguito da Repubblica Dominicana e da El Salvador.

In Guatemala, i femminicidi sono attualmente in rapida ascesa dopo una lieve riduzione nel 2020. Secondo il recente report sulla «Violenza omicida», prodotto dal «Gruppo di supporto mutuo» (Gam) del Guatemala, solamente nel mese di gennaio 2022 sono state uccise 52 donne, con una media di quasi due al giorno, a cui si aggiungono ulteriori cinque denunce quotidiane di scomparsa. Il tasso di impunità dei femminicidi sfiora il 98% secondo i dati della «Commissione internazionale contro l’impunità» (Cicig).

In America Latina persiste anche un’elevata violenza patrimoniale, che si verifica quando il padre di famiglia decide di abbandonare il nucleo familiare rifiutandosi di passare gli alimenti ai figli, forzando, di fatto, la donna a sobbarcarsi da sola i costi della famiglia, spesso molto numerosa. Questo tipo di violenza ha un impatto molto forte in particolare sulle donne che, soprattutto in America Centrale, vivono già in una condizione di povertà, a volte anche estrema.

Un evento organizzato dalla «Red» a Nebaj, comune del dipartimento del Quiché. Foto Simona Carnino.

Anche le bambine

Le donne indigene sono maggiormente esposte a discriminazione e violenza «intersezionale» (legata cioè non soltanto al genere, ma anche ad altri aspetti) su base etnica, economica e sociale. Questo significa che una donna maya ixil rischia di essere vittima di violenza non solo perché donna, ma anche per il fatto di appartenere a uno dei 22 popoli maya che, in Guatemala, sono spesso discriminati ed esclusi da investimenti statali in ambito educativo, sanitario ed economico.

Durante il lockdown del 2020, nell’area maya ixil è aumentata in maniera esponenziale la violenza fisica e sessuale ai danni anche di bambine e giovani donne che sono dovute rimanere a casa, costantemente a fianco del proprio aguzzino.

«Durante la pandemia abbiamo ricevuto molte segnalazioni di violenza – racconta Cristina Raymundo -. In quel periodo abbiamo provato a dare assistenza telefonica, ma il servizio non ha funzionato, perché le donne non potevano parlare apertamente di fronte ai loro mariti o alla famiglia violenta. In quel periodo è aumentata la violenza sessuale e il numero di incesti. Abbiamo aiutato alcune donne a scappare di casa, pagando loro un taxi, e le abbiamo ospitate presso la Defensoría, tanto che alcuni bambini sono nati lì. In quel periodo abbiamo provato a insegnare alle giovani madri a prendersi cura dei neonati e di loro stesse».

Una vista della chiesa e del centro di Nebaj, nel Quiché. Foto SImona Carnino.

La Rete delle donne

La Red de mujeres ixiles ha un unico e fondamentale obiettivo: lottare contro qualsiasi forma di violenza sulle donne, attraverso un sostegno concreto, che può essere l’assistenza psicologica, legale, educativa e anche un supporto economico.

La storia della Red, una rete che unisce circa 360 donne impegnate in nove associazioni di base nel comune di Nebaj (Quiché), è iniziata nel 1999 grazie a un capitale di microcredito erogato dal «Fondo di investimento sociale» dello stato guatemalteco, che ha permesso di finanziare le piccole attività economiche delle socie, come, ad esempio, sartorie, allevamenti di polli e coltivazioni della terra. Nel 2005, le nove associazioni hanno fondato ufficialmente la Red de mujeres ixiles.

Elena Guzaro ha iniziato la sua esperienza in una delle organizzazioni di base proprio nel 1999. «Avevo 19 anni. Volevo provare ad accedere al microcredito e imparare anche a leggere e scrivere. Ancora oggi organizziamo corsi di alfabetizzazione per dare alle donne la possibilità di studiare. Io avrei sempre voluto farlo, però da piccola ho dovuto lavorare, per cui ho iniziato tardi, ma ora ho il titolo di maestra. Lavorare alla Red è stato un modo per imparare da donne più grandi di me a riconoscere la violenza e, allo stesso tempo, le ho aiutate a superare gli abusi che vivevano nelle loro case, simili a quelli che subivo io».

Tutte le socie di Asoremi hanno vissuto qualche forma di violenza e in maggioranza vivono in condizione di povertà. Secondo gli ultimi dati della «Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi», il Guatemala si situa al quinto posto nell’area per disuguaglianza nella distribuzione del reddito, particolarmente evidente nei salari delle donne indigene che, lavorando spesso come tessitrici informali, guadagnano circa 50 dollari al mese a fronte di un salario minimo nazionale di 350 dollari mensili.

Panoramica su un barrio vulnerabile a Città del Guatemala, capitale del paese centroamericano. Foto Simona Carnino.

Persecuzioni e minacce

La volontà di aiutare le donne a diventare indipendenti mentalmente ed economicamente da partner violenti è alla base del lavoro della Red de mujeres ixiles. E proprio per questo, molte delle socie sono state vittime di persecuzioni e minacce da parte di uomini o, in alcuni casi, di persone anonime.

Nel 2018, una socia è stata uccisa mentre camminava per tornare a casa e molte compañeras della Red sono state derubate e attaccate verbalmente e fisicamente.

Ma le violenze e la paura non le annichilisce. Anzi, le donne della Red continuano a portare avanti il loro lavoro. Ogni anno danno assistenza psicologica e legale a circa 500 donne e promuovono pubblicamente, attraverso eventi pubblici e la radio, la necessità di ridurre la violenza sulle donne e le bambine per creare una società meno conflittuale e più giusta per tutti.

Un lavoro per il quale le socie di Asoremi hanno ottenuto molti riconoscimenti, tra cui il «Premio per i diritti umani» lanciato dall’associazione di Bolzano Operation Daywork Onlus (operationdaywork.org) che Elena e Cristina hanno ritirato durante un recente viaggio in Italia, nel marzo di quest’anno. Il legame di Asoremi con l’Italia è rafforzato anche dalla collaborazione con la Ong torinese Cisv
(cisvto.org), che dal 2009 affianca Asoremi nell’accompagnamento delle vittime di violenza e nella risoluzione dei conflitti nell’area maya ixil.

Curare le ferite

Nel libro Tus pasos y mis pasos, prodotto da Asoremi, le socie dicono di se stesse: «Abbiamo sperimentato violenza domestica, economica, fisica, politica (durante il conflitto armato interno), abusi psicologici e furti. La maggior parte di noi si è formata per poter gestire le proprie attività commerciali e i propri soldi […]. Abbiamo capito l’importanza di essere parte di un’organizzazione e di sanare le nostre ferite».

Le socie della Red de mujeres ixiles sono convinte che una donna sopravvissuta alla violenza possa guarire dal dolore e recuperarsi, se aiutata a farlo.

Cristina Raymundo si occupa proprio di «sanación», un percorso di risanamento delle ferite subite, e da anni aiuta le donne a riprendere in mano la propria vita, a riconoscere e, di conseguenza, evitare per quanto possibile la violenza di genere.

«Sono entrata nella Red nel 2013 e da allora ho sostenuto molte donne nel loro percorso di guarigione – spiega Cristina -. La prima cosa che faccio è ascoltarle, quando arrivano dopo essere state malmenate o abusate psicologicamente. Poi facciamo alcuni esercizi di respirazione e provo a spiegare loro che non devono sentirsi in colpa se si sentono senza forze o spaventate. È normale dopo una violenza. Spesso disegniamo per connetterci mentalmente con la persona che le ha danneggiate, nel tentativo di perdonarla e superare il dolore. Alla fine, le accompagno da altre donne della Red dove possono ascoltare storie simili ed essere ispirate a trovare soluzioni».

Donne indigene alla messa della Domenica delle Palme (10 aprile 2022) a San Pedro Sacatepequez, a 25 chilometri dalla capitale guatemalteca. Foto Johan Ordonez – AFP.

Il contesto familiare e sociale

Il processo di guarigione è un percorso collettivo di mutuo aiuto, che permette alle sopravvissute alla violenza di sentirsi accolte e capite, senza giudizi.

Molte donne, indipendentemente dal paese di provenienza, o dal ceto sociale e dal livello educativo, fanno fatica a riconoscere di essere state vittime di violenza. Di fatto, la continua colpevolizzazione che la società attuale fa della vittima alimenta quello storico cortocircuito che impedisce a molte donne, ancora oggi, di ammettere, e quindi di denunciare, gli abusi subiti in prima persona.

«Io arrivo da un contesto patriarcale, dove anche mia madre era vittima di violenza, ma non l’ha mai voluto accettare e riconoscere – continua Cristina -. Per cui ho iniziato io a educare le mie sorelle a essere libere, così come le donne della Red hanno fatto con me. Il supporto e la fiducia che trasmettiamo alle donne è ciò che le ispira a fare la stessa cosa con le altre. Quando una sopravvissuta alla violenza usa la propria esperienza per aiutare una sorella o un’amica a riconoscere e difendersi dalla violenza, smette di essere una vittima e diventa una defensora dei diritti umani, come tutte noi».

Simona Carnino

Il libro pubblicato nel 2022 su Don Piero Nota, sacerdote della diocesi di Torino, che ha dedicato la sua vita al Guatemala.




Il giornalista che non voleva gridare


È un racconto lungo oltre 60 anni. Una carrellata di personaggi famosi e, spesso, scomodi o incompresi. Tra sport, musica, cinema e politica.

Uno dei ritratti disegnati da Bruno Bozzetto per il documentario «Gianni Minà, vita da giornalista» di Loredana Macchietti.

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» che ha aperto il 25 marzo scorso il Festival di Bari (Bif&st 2022), ha avuto una lenta ma costante gestazione, fino a pochi giorni prima della consegna agli organizzatori baresi. Dal 2008 io e Gianni abbiamo iniziato a pensare all’idea di memoria, a dare una logica, un ordine alla montagna di documentazione del suo lavoro fatta di supporti, documentari, materiale registrato e poi scartato o mai montato, interviste fatte ma non prese in considerazione dalla Rai, unico acquirente, qui in Italia, dei suoi lavori. Ma, soprattutto, abbiamo iniziato a condividere l’esperienza professionale di Minà con le nuove generazioni, per non disperderla e per mantenere accesa la luce sui fatti e sulle persone che non hanno mai avuto voce.

In quell’anno organizzammo, alla Casa del Cinema di Roma, un incontro di una settimana, ogni giorno un tema diverso, per festeggiare e ricordare i 50 anni di lavoro di Gianni. A quell’incontro, invitammo gli amici di una vita: da Pietro Mennea a Tommie Smith, da Luis Sepúlveda a Frei Betto a Joan Manuel Serrat, da Stefania Sandrelli a Raffaele La Capria e molti altri. Finimmo quella specie di happening con un concerto di Augusto Enriquez y su mambo band (e con la prima comunione di nostra figlia Paola).

Da quei giorni abbiamo iniziato a dare corpo ai ricordi in forma dinamica, a tramandare la memoria senza aspettare la fine del percorso di una vita, mentre ancora lavoravamo.

Lo spunto ce lo ha dato Jorge Amado, con il suo «Navigazione di cabotaggio» (1992), un libro fatto solo di nomi di amici nel quale il grande scrittore brasiliano aveva dedicato un breve commento a ognuno. Tra loro c’era pure Gianni. Jorge lo avevamo conosciuto anni prima, quando avevamo percorso tutta l’America Latina alla ricerca dei grandi miti latinoamericani del calcio italiano ancora viventi. Fu un’avventura lavorativa molto faticosa, che non ci procurò il guadagno sperato, ma la ricchezza di nuovi amici, tra i quali Amado e Zelia Gattai, la moglie di origine friulana, che ci fecero conoscere Bahia, il candomblé e la cucina afrobrasiliana.

Muhammad Alì e Gianni Minà in una foto d’epoca. Foto archivio Gianni Minà.

Con Frei Betto

In Brasile, insieme a Jorge Amado, conoscemmo Frei Betto, domenicano, teologo della liberazione che, dopo aver fatto imbustare i resti di una cena conviviale, ci portò a conoscere i bambini di strada, ammassati a dormire in riva al mare nel buio della notte. I bambini, dai 4 ai 10 anni, divisero senza litigare e in silenzio i resti di quel pasto. Per ringraziarci, il più grande, un ragazzino di neanche 10 anni, ci porse un cocco. Quella sera nacque una fratellanza con Frei Betto, ma anche un cambio radicale di visione per me e Gianni.

Betto per noi è prezioso, e più di un fratello. Ha intrecciato la sua vita con la nostra, è stato sempre presente nei momenti belli, ma soprattutto nei momenti bui della nostra famiglia: in un’alba di quasi 20 anni fa mio padre morì per un’operazione che non riuscì a sostenere. Lo misero, come uno «scarto» qualsiasi, avvolto in un telo in uno sgabuzzino dove, nell’angolo, c’erano dei secchi con degli stracci e degli spazzoloni per pulire i pavimenti. Mia madre e mio fratello erano annichiliti dal dolore e non riuscivano a proferire parola, ma Betto, appena arrivato dal Brasile, si fece accompagnare da noi e con le sue parole e la sua benedizione riuscì a riportare luce e dignità alla disperazione.

Nel 2013, in questo percorso nella memoria, abbiamo composto il libro «Il mio Alì» (edito dalla Eri), una raccolta dei principali  articoli e delle interviste che Gianni ha fatto a Muhammad Alì, un uomo straordinario, che ha saputo trasformare anche la sua malattia in un’arma di resistenza. Ogni volta che passava per Roma per qualche convegno o invito televisivo, non mancava mai di farci visita, insieme a sua moglie Lonnie. Ricordo Muhammad Alì come un uomo profondamente religioso e veramente spiritoso.

Sentivamo, inoltre, l’esigenza di lasciare una testimonianza sull’idea di giornalismo di Minà, quello tradizionale e d’inchiesta, ma sempre con un’attenzione particolare ai diritti dei più deboli, a coloro che, ovunque nel mondo, si ribellano. È nato allora «Così va il mondo» (edito dal Gruppo Abele), frutto di un dialogo tra Gianni e Giuseppe De Marzo, ecologista italiano, ma anche scrittore ed economista, ripreso poi nel documentario per parlare di pace, giustizia ecologica e libertà. Conosciutisi al Forum social mundial (Fsm) intorno al Duemila, De Marzo e Minà hanno intessuto un dialogo mai sopito, che dura ancora oggi.

Un altro dialogo, nel 2020, Gianni lo ha intrecciato con lo scrittore Fabio Stassi. Da questa collaborazione è nato «Storia di un boxeur latino» (edito da Minimum fax), il libro autobiografico di Minà nel quale, per la prima volta, lui racconta la sua vita, almeno fino agli anni Novanta. Lo ha fatto soprattutto per le sue tre figlie – Marianna, Francesca e Paola -, nella consapevolezza di essere un padre troppo anziano perché le possa accompagnare in un tratto lungo delle loro vite.

Quel titolo è frutto di una sorpresa che feci a Gianni per un regalo di Natale. Lui ama moltissimo l’amico Paolo Conte e le sue canzoni, così chiesi all’autore se potesse dedicare a Minà un suo lavoro. Pochi giorni dopo, mi venne recapitato un cofanetto accompagnato da una bellissima dedica: «All’amico Gianni, un boxeur latino». Dopo questo libro, la stessa casa editrice ha dato alle stampe anche una raccolta di articoli scritti da Gianni sull’indimenticabile Diego Armando Maradona.

Un giovane Minà con i Beatles (George, Ringo, Paul e John), a Roma nel giugno del 1965. Foto archivio Gianni Minà.

Regista cercasi

Ritornando al documentario, avevamo accantonato il progetto, un po’ perché sempre oberati di lavoro, un po’ perché non trovavamo un regista che potesse rendere in modo aderente la storia di Minà: chiunque si faceva avanti, esprimeva perplessità a raccontare temi delicati, come i suoi scoop latinoamericani (Fidel Castro, Chávez, il papa a Cuba, il Fsm, ecc.).

Poco a poco, mi venne l’idea di scrivere un copione sulla sua vita professionale, usandola però come espediente per raccontare la storia del giornalismo e della Tv in Italia dagli anni Sessanta ai giorni nostri. Ci pensavo, ma non speravo, anzi aspiravo. In fondo, la mia professione è sempre stata quella più pratica, meno artistica, di producer. Ma i ferri del mestiere li sapevo usare più che bene, lavorando per Gianni da più di 30 anni. Lo conobbi casualmente nel 1985: avevo bisogno di fare dei lavoretti, mentre stavo aspettando il «concorsone» al Comune di Roma come assistente sociale. Dovevo «sbobinare» su carta le sue interviste che aveva fatto alcuni anni prima ai pugili americani degli anni Settanta. Mentre aspettavo il concorso, lui mi iniziò al montaggio (ma negli orari notturni, perché quelli erano i turni per i «pivelli») con un regista che poi è diventato un mio fraterno amico, Giuseppe Sciacca. Poi, nel tempo, ho ricoperto tutti i ruoli di questo ambiente: segretaria di redazione, programmista regista, segretaria di produzione, produttore esecutivo, produttore. Mi mancava il ruolo da regista.

Gianni Minà con Maradona, amico di una vita. Foto archivio Gianni Minà.

Gianni, tra fatti e gente

Ho intrecciato la mia vita professionale con Gianni Minà da subito, familiare parecchi anni dopo. Non sono stata né davanti, né dietro di lui, ma ho avuto il privilegio di stare al suo fianco. La soluzione è stata quella di costruire la nostra famiglia intorno al suo lavoro, perché, come disse Enzo Ferrari in una sua intervista, Gianni ha sposato la sua professione, ha aderito ai suoi ideali e non ha mai avuto intenzione di divorziare. Io sono sempre stata d’accordo con lui, perché «rotolando» insieme per il mondo, ho potuto vedere cose tremende e bellissime, persone decenti, immense, derelitte ma anche senza vergogna, ho sfiorato la Storia con la «S» maiuscola, abbiamo corso qualche rischio insieme, ma ne è valsa la pena. Ho capito che Gianni ha sempre voluto fare da ponte tra i fatti e la gente. Come ben riassunse il regista Walter Salles quando, nel 2007, a sorpresa, si presentò a Berlino per consegnargli il premio Berlinale Kamera: «L’opera di Gianni è un’opera che ci fa vedere quello che non ci sarebbe permesso mostrare o vedere o ascoltare se non fosse stato per lui. È guidato da una grande compassione, da una profonda umanità, ma soprattutto da un profondo desiderio di condividere con gli altri».

Con il leader cubano Fidel Castro, che Minà ha lungamente frequentato. Foto archivio Gianni Minà.

A Torino

Il documentario «Gianni Minà, una vita da giornalista» (una produzione Format con Rai Cinema) ha avuto una gestazione laboriosa perché la sua produzione è cominciata pochi mesi prima dell’inizio della pandemia. Abbiamo potuto girare gli esterni solo a Torino. Il resto delle interviste è stato registrato a casa nostra. Con un inizio che è una gemma preziosa: i titoli di testa pensati e disegnati da Bruno e Andrea Bozzetto e il loro team. A mano a mano che andavo avanti, facevo visionare a Gianni il premontato, ma lui non commentava mai nulla. Alla visione finale dell’opera, non ho più saputo resistere: «Beh, allora? Che te ne pare?». E lui: «Montaggio sufficiente, ma onesto». Insomma, promossa.

Loredana Macchietti

 (*) Loredana Macchietti, producer, è al suo primo documentario come regista.
È sposata con Gianni Minà, ben noto anche ai lettori di MC per la sua rubrica «Persone che conosco».

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino

Serata con Gianni Minà nell’Aula Magna del CAM a Torino il 22/11/2016 © AfMC




Norme e precetti (Es 25-31; 35-39)


Si legge (e si è scritto anche qui) che il libro dell’Esodo è in fondo un percorso esistenziale di ingresso nella fede. È questo il motivo per cui rappresenta un testo ancora attualissimo e leggibile come un avvincente cammino umano, a patto di essere aiutati a capirne le modalità di espressione.

Ciò non toglie che, a prima vista, risulti ben difficile inserire in tale quadro i capitoli dal 25 al 39, fatto salvo il capitolo 32 che racconta l’episodio del vitello d’oro. Sono infatti pagine per noi estremamente noiose, nelle quali viene descritto con dovizia di particolari tutto ciò che riguarda il culto, a partire da come dovrà essere costruita la tenda del santuario, l’arca dell’alleanza, come dovranno essere i paramenti dei sacerdoti e così via. Noi facciamo fatica a capire come questi testi siano finiti in una vicenda per altri versi vivace e appassionante. Si tratta però di molti capitoli, circa un terzo del libro, e non si può quindi decidere di saltarli. Il nostro disagio forse tradisce il fatto che non li abbiamo capiti bene.

Uno sguardo alla struttura

Innanzi tutto, dobbiamo di nuovo ricordarci che ci troviamo davanti a un «libro» di circa 2.500 anni fa. È vero che continua a mostrare la sua modernità, in quanto parla di dinamiche umane che evidentemente non sono cambiate molto. Ma, nello stesso tempo, è scritto da autori che non potevano conoscere il romanzo moderno e che seguivano, invece, le convenzioni letterarie di quel tempo.

Qualcuna di queste convenzioni può risultarci utile per capire. Noi, infatti, siamo abituati a libri divisi in capitoli, paragrafi e capoversi (il «punto e a capo»), con elenchi numerati, con punteggiatura precisa e magari con l’uso di grassetto e corsivo. Tutti questi elementi della scrittura moderna, che ci aiutano a capire il procedere del discorso, nell’antichità non si usavano. Così come allora si faceva ricorso a «trucchi» ai quali noi non siamo più abituati. Possono sembrarci più complessi e meno chiari di quelli che usiamo noi, e in parte lo sono, ma non dobbiamo dimenticarci neanche che l’antichità aveva a disposizione molti meno testi scritti di noi e meno persone capaci di leggerli, il che significa che quelle poche affrontavano percorsi di alfabetizzazione più lunghi, e quindi anche più approfonditi e ricchi.

Principi di fondo

Per quello che ci interessa, può essere utile recuperare almeno tre principi di fondo.

a) Ciò che è più importante viene prima. Noi siamo abituati ad avere dei riepiloghi finali che sono spesso il cuore del discorso. Anzi, i libri gialli e le barzellette ci hanno abituato all’idea che fino all’ultima parola, potremmo non avere capito l’essenziale. Gli antichi, invece, tendevano a mettere riepiloghi e principi di fondo all’inizio. Certo, a volte c’era da seguire un ordine cronologico, ma anche in quel caso si inserivano all’inizio dei segnali per indicare che un determinato evento doveva essere considerato fondamentale, anche se narrato solo a un certo punto del percorso.

Per fare un esempio, quando nel libro dell’Esodo Dio dialoga per la prima volta con Mosè, gli dice anche che dopo l’uscita dall’Egitto gli israeliti lo avrebbero «servito su quel monte» (Es 3,12). Ovviamente il tema riemergerà solo al capitolo 19, ma intanto il lettore sa già che quell’aspetto è significativo.

b) Ciò che è più importante prende più spazio. Se ci pensiamo, lo fanno ancora i nostri maestri, che ritornano più volte sui concetti fondamentali, dilungandosi a presentarli anche se potrebbero farlo in mezzo minuto. Ma ciò che è esposto in mezzo minuto sarà più facile da dimenticare, mentre se di un’idea parlano per due ore, tutti se ne accorgeranno e la ricorderanno.

c) Si potrebbe ancora aggiungere un mezzo meno frequente, ma interessante per la lettura di questi capitoli: ciò che è inserito dentro a una «cornice» che lo inquadra, va interpretato all’interno di quel contesto. Ad esempio, Es 25-31 sembrano essere ripetuti in Es 35-39. Questo, tra l’altro, vuol dire che forniscono il contesto in cui dovranno essere interpretati i capitoli dal 32 al 34 (di cui ci occuperemo nelle prossime puntate).

Una vita concreta e organizzata

Cominciamo allora a trarre qualche conseguenza. Nei capitoli dal 25 al 31 di Esodo, Dio indica a Mosè come dovrà procedere a organizzare il tempio e il sacerdozio; nei capitoli dal 35 al 39, una buona parte di quelle indicazioni vengono ripetute per dire che Mosè ha fatto proprio come Dio gli aveva detto. Un doppione noiosissimo, diremmo (e, diremmo anche, a ragion veduta!). Al di là della noia, se riusciamo a leggere questi lunghi capitoli di spiegazioni minuziose e ripetitive alla luce dei tre principi spiegati sopra, possiamo darci la possibilità di capire qualcosa di importante: innanzitutto capiamo che la dimensione normativa e rituale della vita di fede, per il popolo uscito dall’Egitto è fondamentale. Questi testi occupano infatti un terzo del libro dell’Esodo.

Poi capiamo anche che, arrivando alla fine del libro, questi capitoli non rappresentano quelli più importanti. Di questi materiali, infatti, non si era offerta alcuna anticipazione nei capitoli precedenti, il che significa che non sono essenziali. L’aspetto rituale, liturgico, è importante e significativo, ma non è il cuore del discorso né il primo mattone.

Se l’Esodo fosse stato scritto oggi, questi capitoli sarebbero riassunti in qualche annotazione esplicita (come queste mie) o con qualche nota a piè di pagina. Gli antichi però non usavano le note e non erano abituati a spiegare il senso di ciò che narravano.

Chi leggeva, però, avrebbe perfettamente compreso che cosa significava concedere tanto spazio a questi temi e allo stesso tempo porli alla fine.

Il senso della concretezza

Iniziamo a cogliere allora che cosa gli autori del libro volevano che si capisse e ciò che probabilmente i lettori avrebbero intuito con relativa facilità.

Il percorso di fede tracciato dal libro si è finora giocato moltissimo sulle dinamiche personali e spirituali. Dalla liberazione dall’oppressione si è giunti alla percezione che era necessario fidarsi di una parola promettente, per poi decidere di legarsi definitivamente a questa presenza (Es 19).

Tutte dinamiche, diremmo, quasi psicologiche, sicuramente interiori. È vero che le scelte comportano anche delle decisioni concrete (dall’Egitto bisogna partire, dentro al mare occorre entrare…), ma queste restano occasionali e secondarie.

Giunti a questo punto del percorso, però, gli autori segnalano che la concretezza della vita può anche essere secondaria rispetto alla fiducia e alla decisione di abbracciare la relazione con Dio, ma non può essere trascurata. Siamo fatti anche di materia, di azioni e di abitudini.

Riprendendo un paragone che abbiamo già fatto, è una dinamica che ricorda la vita insieme di due persone che si amano. A tenerli insieme non sono delle regole, ma l’affetto reciproco, che però deve farsi anche pratico, stabilendo chi cucina, chi fa la spesa, chi pulisce, chi paga le bollette. Sono questioni senza dubbio secondarie, meno fondamentali dell’ispirazione di partenza, ma non possono essere tralasciate. La vita reale passa dal rendere concrete le intuizioni più profonde.

I contenuti

In particolare, il testo di questi capitoli si concentra sugli arredi del santuario (Es 25; 37), sulla sua architettura (Es 26-27; 36,8-38 e poi ancora il capitolo 38), sui sacerdoti (28-29; 39) e infine sugli strumenti al servizio della mediazione tra Dio e gli uomini (l’altare degli incensi, il propiziatorio, il tributo per il tempio, il bacile d’acqua, l’olio per l’unzione, l’incenso, il sabato, le tavole: Es 30-31; 34,29; 35; 38,8.21.24-31).

Nell’insieme delle indicazioni a volte molto minuziose, può essere utile riprendere almeno alcuni elementi.

a) Le differenze. Di solito, quello che è presentato nei capitoli 25-31 è ripreso quasi alla lettera in 35-39. In Es 25,1-7, però, si illustra il materiale necessario per il tempio, che in 35,4-29 è ripresentato in modo nettamente più articolato. Così, l’olio per i candelabri di cui si parla in Es 27,20-21 non trova paralleli nei capitoli successivi, dedicati all’attuazione del progetto.

È interessante che, pur nel contesto di una ripetizione completa e precisa delle indicazioni, per sottolineare che Mosè attua realmente ciò che Dio gli chiede, si ammetta che tuttavia non si dà una corrispondenza perfetta.
La realtà non coincide totalmente con il progetto divino,
che nessuna situazione umana adempierà pienamente.

Anche se la chiesa cristiana o il popolo ebraico tenteranno, in buona coscienza, di pensarsi come la realizzazione precisa dell’intenzione divina, esisterà sempre una differenza di cui tutti devono essere consapevoli. La pienezza del regno divino è sempre oltre ciò che l’uomo potrà costruire nella storia.

b) Un Dio presente e vigilante.

In Es 25,23-30; 37,10-16 si presenta quella che, nella tradizione religiosa non solo d’Israele, era concepita come «la stanza di Dio». Anche Israele, infatti, nell’immaginare il suo rapporto con Dio, copia le modalità che erano consuete tra i popoli che vivevano intorno a lui. Queste prevedevano di preparare alla divinità un ambiente in cui vivere, comprensivo di una tavola per pranzare, a volte strumenti per le diverse attività (arco e frecce, mattoni per gli dèi costruttori…), un letto in cui dormire. Ebbene, in questa presentazione dell’Esodo, di letto non si parla mai, né di strumenti di lavoro. L’unica a essere presente è una tavola, con un rimando al nutrimento che spesso, nel contesto del tempio, punta sui «sacrifici di comunione» (cfr. Lv 7, ad esempio), nei quali l’animale sacrificato era mangiato in parte da chi presentava l’offerta, in parte bruciato sull’altare, come se fosse Dio a cibarsene. Si immaginava, cioè, un banchetto in cui Dio era un commensale. Vale a dire che l’unico elemento che si ritiene di evidenziare è l’intenzione divina di vivere la comunione con i suoi fedeli. Per il resto, il Dio d’Israele non dormirà (cfr. Sal 121,4).

c) Tenda, non reggia. In Es 25,8 si presenta il santuario come «residenza» divina. Il termine utilizzato rimanda alle tende dei nomadi, una dimora preziosa ma non stabile, non fissa. Si suggerisce da subito che essenziale per Dio non è un luogo dove stare, una reggia, ma il poter risiedere insieme al suo popolo. Dal tempio potrà anche fuggire, ma essenziale è la comunione con i suoi fedeli.

d) Partecipazione attiva di tutti. In Es 31,1-11; 35,30-36,7; 38,21-23 si presenta la costruzione e abbellimento del tempio. Potrebbe stupire che non si dica che sia Dio a costruirlo, né Mosè ad eseguire l’ordine divino, bensì i «costruttori», dotati da Dio delle competenze necessarie. La relazione tra Dio e Mosè è privilegiata, ma si coglie sempre che i talenti e i doni di ognuno meritano di essere lasciati liberi di esprimersi, e che il rapporto tra gli uomini e il divino non sopporta di passare solo da pochi eletti. Non è Mosè e neppure Dio a fare tutto, ma ciò che accadrà sarà possibile solo per l’intervento attivo e variegato di ogni fedele.

Angelo Fracchia
(Esodo 15 – continua)




Dallo Zaire al Congo



Tra guerre e dittature, 50 anni di strada

Partire dalle minoranze

Primi anni ‘70, periodo di grande fermento. La Consolata cerca un’esperienza di missione molto vicina alla gente, nella quale coinvolgere i giovani missionari. In un contesto di periferia, magari di foresta. Un’occasione si profila all’orizzonte.

L’Istituto Missioni Consolata (Imc) ha visto nell’andare in Congo, all’epoca Zaire, una presenza missionaria nuova. Prima di allora avevamo un’esperienza di missione in foresta solo in America Latina, ma non in Africa. In Tanzania e Kenya lavoravamo in territori semi aridi e di savana. La domanda di base, pensando a un nuovo contesto ambientale e umano, era: quali sono le sfide che possono nascere? I pilastri su cui volevamo costruire la missione in Congo erano i seguenti tre.

Aprire l’Istituto a un’esperienza nuova, molto coinvolgente e vicina alla gente. Dal dopoguerra si notava che le missioni diventavano sempre più grandi ed estese. Le strutture – dispensari, scuole, cappelle, chiese – erano cresciute, ma mancava l’accompagnamento delle persone.

Mandare giovani missionari che facessero un’esperienza forte fin dalla loro prima destinazione. In effetti, quando sono arrivato io, nel 1982, la cosa che colpiva era vedere missionari tutti molto giovani che mostravano grande spirito di fraternità. Il Congo era diventato un punto di riferimento per tutto l’Istituto: molti di noi volevano andarci, era la missione più desiderata.

Infine, già allora l’Istituto aveva fatto la scelta preferenziale per le periferie, che veniva confermata.

Il pretesto

Il motivo concreto del nostro arrivo in Zaire è stato l’invito da parte dei vescovi del paese di padre Noè Cereda a Kinshasa, per insegnare sociologia all’università. Il Congo dopo la guerra civile degli anni ’60-’64 si è ricostruito intorno alla cultura. L’unità nazionale è stata data dalla chiesa cattolica, che ha rappresentato sempre l’unica istituzione che dava spazio ai giovani.

La chiesa a Kinshasa aveva aperto un’università cattolica, che era più importante della statale. Per fare questo, i vescovi avevano fatto specializzare alcuni preti, oppure li avevano fatti arrivare dall’estero, come padre Noè.

Quando il superiore è andato poi a trovarlo, ha incontrato alcuni vescovi che si sono mostrati sensibili alla nostra presenza. Così, nel 1972, abbiamo aperto, ma non in capitale, bensì a Nord, nella foresta. A Wamba e a Doruma. Una scelta della periferia.

A Kinshasa abbiamo avuto sempre un pied-à-terre, la piccola parrocchia Mater Dei, che ancora oggi è il nostro quartier generale in Congo.

Facciata della casa della missione di Mater Dei a Kinshasa

Wamba

Il 7 novembre del 1972 è partito dall’Italia padre Antonio Barbero, il primo (se non si conta padre Noè) a iniziare una missione della Consolata in Congo (vedi sotto).

La due prime missioni sono state Doruma e Wamba, che distano tra loro 400 km di strada sterrata. Wamba, nella diocesi omonima, si trova in piena foresta, dove ci sono anche i Pigmei. Fin da subito i nostri missionari hanno fatto l’opzione per i Pigmei, iniziando visite e accompagnamento. Questi sono sempre stati visti dagli altri congolesi come terza categoria, meno degli animali.

La missione a Wamba è stata caratterizzata da una presenza bella e semplice, senza grandi strutture. Abbiamo retto per tanti anni il centro catechistico, che è stato il cuore della diocesi. Lì i nostri padri formavano le famiglie, per tre o sei mesi, a essere animatrici nei propri villaggi di provenienza. C’era la scuola, la formazione delle donne, e molto altro.

Negli ultimi tempi (negli anni ’90-’91) abbiamo aperto una radio per fare alfabetizzazione. Anche i Pigmei la ascoltavano, in swahili o in kibutu, che è la loro lingua. Il centro è stato in seguito passato alla diocesi.

Segno di mitragliata sui muri della missione di Wamba

Dobbiamo ricordarci che Wamba è stato l’epicentro della ribellione dei Simba (1964-65), e che vi sono stati ammazzati il vicario apostolico, Joseph Pierre Albert Wittebols, con 250 altri europei tra cui tanti preti e suore. Prima c’erano i Dehoniani, che però non riuscivano più a reggere tutte le missioni. Noi siamo arrivati dopo la ribellione, nel 1972, quando Mobutu aveva preso il potere. Abbiamo cercato di dare speranza, impegnandoci molto sul piano sociale, e nel centro catechistico.

Padre Piero Manca è stato il pilastro dei catechisti, ha lavorato tantissimo alla promozione umana. Poi c’era padre Angelo Baruffi, che è stato per anni coordinatore di tutte le scuole cattoliche della diocesi. Padre Ivano Magnani, punto di riferimento per tanti giovani preti, anche locali, è stato vicario diocesano. Padre Enrico Casali è stato l’uomo spirituale, lui ha portato molta animazione e ha fondato il gruppo dei Focolarini. C’era pure padre Flavio Pante, che oggi è di nuovo lì, tornato per un secondo periodo, una presenza di spicco, molto apprezzato e molto vicino alla gente.

A Pawa, sempre nella diocesi di Wamba, avevamo il dispensario e seguivamo pure i lebbrosi. Un’altra missione era a Bafwabaka.

Ordinazione a Wamba di padre Stefano Camerlengo e padre Alvaro il 19/03/1984

Doruma

Più a Nord, sempre nel ’72, abbiamo aperto a Doruma, nella diocesi Dungu-Doruma, vicino al confine con il Sudan. Seguivamo anche alcuni villaggi in Sudan. Alla frontiera c’era un lebbrosario che accompagnavamo.

Doruma è un’altra regione, e vi vive un’altra tribù, gli Azande, gli antichi abitanti del Congo, con il loro sistema di re, e come lingua usano il lingala più antico.

Avevamo anche la parrocchia di Bangadi, e padre Giuseppe Ronco è stato in entrambe.

È una zona molto vasta e, se a Wamba la gente è concentrata, a Doruma è più dispersa.

Erano missioni ereditate dai padri agostiniani, e la presenza missionaria era caratterizzata dalla vicinanza alla gente.

Nelle missioni antiche c’era la vecchia idea della collina con la chiesa, la casa dei padri, la scuola, la falegnameria, ecc. E la gente si radunava attorno. Il cambio di stile missionario che abbiamo vissuto, è stato impostato dai padri Bianchi (i missionari d’Africa), grandi maestri della missione africana, che hanno rovesciato il paradigma: non è la gente che deve venire da noi, ma siamo noi ad andare nelle comunità. I missionari partivano per visitare i villaggi e stavano 10-15 giorni con i loro abitanti.

Quello che ci è mancato è stato lasciare traccia scritta, perché la riflessione è stata fatta. Quello che aiutava i nuovi arrivati, erano i diari della missione, che ancora si tenevano.

Quando i missionari tornavano alla sera – ai tropici viene buio presto – si trovavano seduti intorno a una candela, e si raccontavano quello che era successo nella giornata.

La chiesa di Doruma nel 1983

Ampliamenti e cambiamenti

A Wamba, negli anni ‘90, si è confermata e rafforzata l’opzione per i Pigmei, aprendo una missione a Bayenga, al centro del loro territorio.

A Doruma, durante la guerra di Kabila (prima guerra del Congo 1996-97), sono passati svariati eserciti e la missione è stata attaccata diverse volte, così si è deciso di lasciarla. Siamo andati ad aprire a M’bengu, nella stessa diocesi. Una località «fuori dal mondo», ancora più sfidante.

Lì abbiamo realizzato una scuola. È una convinzione dei Missionari della Consolata, infatti, quella di investire nella cultura: se aiuti le persone a pensare, il mondo cambia. Non è il pane che ti cambia, anche se è necessario.

Per essere presenti anche in capitale, a Kinshasa, si è deciso di aprire una nostra missione a Samukassa, con i padri Santino Zanchetta e Antonello Rossi. Vi siamo stati 25 anni, per poi passarla alla diocesi.

Nel Nord, nella diocesi di Isiro, avevamo già aperto nel capoluogo (nel ’75), e siamo andati a Neisu (nell’84), che era un piccolo villaggio a 70 km di distanza, dove si andava già a celebrare la messa.

Da Isiro partiva padre Antonello con padre Oscar Goapper. Oscar aveva un interesse particolare per la medicina: un giorno ha cercato di curare una bambina, che però è morta. Ha deciso che non poteva più permettere che questo accadesse. Ha quindi studiato medicina per poi aprire l’ospedale di Neisu. Il villaggio si è ingrandito e adesso è un grosso centro. È oggi un nostro fiore all’occhiello.

Durante la guerra di Kabila non si poteva viaggiare tra la capitale e il Nord, che si raggiungeva solo attraverso l’Uganda. Siamo stati costretti a separare le due realtà (1999). Io ero il superiore delegato a Kinshasa, dove abbiamo aperto due parrocchie e il seminario teologico. Solo quando sono partito nel 2005, destinato a Roma, ho capito tutto quello che avevamo fatto in quegli anni. Il cardinale Frédéric Etsou, aveva fatto un consiglio personale, nel quale aveva chiamato anche me e l’attuale cardinale di Kinshasa.

Padre Oscar Goapper a Neisu nel 1983, quando i malati erano curati in un capannone e l’ospedale era ancora da venire.

Verso quale futuro

Il Congo, oggi Rdc, ha bisogno di stabilità, perché è tormentato da sempre. È un paese ricchissimo con molte potenzialità e gente capace, ma ha una corruzione endemica, e tutti ci stanno bene o sanno conviverci. Come ottenere questa stabilità? Con la serietà nel lavoro, educazione alla giustizia e alla pace. È fondamentale. La chiesa, e il nostro Istituto in particolare, non possono tirarsi fuori, perché non si può benedire una situazione di ingiustizia. Onestà e trasparenza, sono priorità da perseguire a tutti i livelli. Insistiamo nel dare la precedenza a situazioni di minoranza o povertà, ecco perché riaffermiamo la scelta preferenziale per i Pigmei.

Nei pressi a Beyenga, esistono piste di atterraggio clandestine, dove arrivano aerei per portare via il coltan (minerale di cobalto e tantalio, ndr) e l’oro. I ragazzi vanno a raccogliere il minerale per i trafficanti, guadagnando 10 dollari alla settimana, quanto prende il papà in un mese di lavoro. Tutto questo complica la situazione sociale. Non si può stare in silenzio.

Sarebbe importante portare il tema dei Pigmei a un livello internazionale: c’è un gruppo di persone che non è rispettata, che va scomparendo, che non ha gli anticorpi per un raffreddore.

L’altra questione importante è la promozione umana, che deve essere portata avanti dalla gente. Anche la cooperazione non ha più senso farla con progetti nostri, ma va fatta con progetti che la popolazione prenda in mano e porti avanti.

Stefano Camerlengo

Da sx: i diaconi Stefano Camerlengo e Alvaro Dominguez, padri Magnani Ivano, Marcolongo Renzo e Mazzotti Giacomo a Wamba 1983


Dal diario del pioniere della Consolata in Congo

Prime lettere dallo Zaire

È una domenica di inizio dicembre del ‘72. Finalmente padre Antonio raggiunge la sua destinazione, a lungo sognata. Ha viaggiato 25 giorni e visitato diverse località del Nord Zaire. E inizia lì, a pochi passi dal confine con il Sudan, la sua avventura missionaria.

Padre Antonio Barbero è stato il primo missionario della Consolata inviato dall’Istituto per aprire una missione in Congo, all’epoca Zaire. A Kinshasa si trovava già padre Noè Cereda, invitato dalla Conferenza episcopale per impartire lezioni all’università cattolica della capitale.

Padre Antonio è partito il 7 novembre 1972 dall’Italia, aveva 44 anni. Arrivato in Zaire si è diretto nel Nord Est. A Doruma ha iniziato il lavoro della Consolata. È stato poi raggiunto da fratel Alberto Donizetti (partito il 16 dicembre) e dai padri Tiziano Basso, Enrico Casali e Pietro Manca, che avevano lasciato l’Italia il 19 dicembre.

Padre Antonio ha scritto un diario in forma epistolare che rimane un documento importantissimo per tracciare le prime fasi della presenza dell’Imc in Congo-Zaire. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Sabato 18 novembre 1972.
Padre Antonio si trova a Kisangani, e sta per andare per la prima volta a Isiro, e poi a Wamba e Doruma, sua destinazione di missione.

Il Fokker copre la distanza Kisangani – Isiro in un’ora. Come al solito, sotto di noi si presenta la stessa panoramica: foresta interrotta ogni tanto da corsi d’acqua, da piste tracciate nel verde, villaggi disseminati lungo le piste e i fiumi. […].

La pista è in terra battuta, ma così solida che pare cemento. Il Fokker si ferma proprio davanti all’uscita: i bianchi sono invitati all’ufficio di controllo, solo io vengo scritto nel registro, perché è la prima volta che tocco questo suolo. Mentre attendo le valigie, vedo una suora e vado a domandare se per caso andasse alla procura. Mentre parlo con lei mi si presenta un italiano, signor
Casale dell’Aquila, macellaio a Isiro, il quale si offre di accompagnarmi a St. Anne, dove è parroco padre Colombo, comboniano, superiore regionale. L’accoglienza è più che fraterna […].

Lunedì 20 novembre.
Sono sempre in attesa di un’occasione per recarmi a Wamba. Finalmente se ne presenta una, il curato di Babonde che è venuto in città per compere. Faccio anche io una passeggiata attraverso la città, entro in qualche negozio […]. Molta gente siede oziosa a guardare i passanti. Altrove c’è qualche mamma seduta per terra con il proprio bimbo, davanti a lei una bacinella ripiena di una specie di polpette di manioca, di pane zuccherato […].

Verso le 16, a bordo di un pulmino Wolkswagen, carico un po’ di tutto, prendiamo la via di Wamba. La via diretta è interrotta perché alcuni ponti sono in via di ricostruzione in cemento, perché erano di tronchi d’albero. Quindi prendiamo per Ibambi, facendo così un lungo giro su una strada che non è degna di questo nome. Ci sono tratti in cui anche in prima pare di essere sulle montagne russe. La strada si snoda nella savana arborata, su di un terreno ondulato rossiccio, che qui chiamano «limenite» (laterite, ndr), un terreno di origine vulcanica, un po’ ghiaiosa. Spesso a destra e a sinistra compaiono villaggi formati da casette in mezzo al verde, di costruzione sempre uguale, davanti alle quali giocano molti bambini e prendono il fresco uomini e donne sulle proprie sdraio. Si notano spesso piantagioni di caffè […].

Nel viaggio ci sono molti fiumi da attraversare, ma spesso i ponti sono in totale rovina a causa della guerra e poi dell’incuria.

Martedì 21 novembre.
Il bac è una specie di chiatta fatta di piroghe (tronchi scavati) che sfrutta la corrente per fare attraversare persone, cose, camion e Land Rover. Le operazioni sono così lente che mettono a prova la nostra pazienza, ma non la loro… perché la fretta non è la loro virtù o il loro vizio.

La cattedrale di Wamba nel febbraio 1983

Wamba

Il secondo campo di lavoro della Consolata in Zaire è situato un grado sopra l’Equatore, 120 km da Isiro, ad una altezza media di 500 m, un pianoro ondulato nella savana arborata, per non dire foresta. Vicariato apostolico dal 1949, affidato ai padri dehoniani, diocesi dal ‘59, nel ‘64, il 2 novembre, eccidio del vescovo con 15 padri e altrettante suore, gettati poi nel fiume Wamba e non più ritrovati. In sede è rimasto solo il vescovo nero, mons. Olombe e padre Martin, parroco, con quattro suore vincenziane e tre africane. Diecimila abitanti circa, la metà cattolici […].

La missione doveva essere un gioiello. Costruzioni in mattone: scuole, case per i maestri, conventi, laboratori, tipografia, coltivazioni di caffè, ecc. Di nuovo c’è la cattedrale: opera originale iniziata prima della rivoluzione e terminata due mesi fa. Forma circolare, il tetto in lamiera […]. A me è parsa una nota stridente con le abitazioni del popolo, ma mi si rispose che i neri pretendono che la casa di Dio sia molto più bella e grande della loro, perché deve costituire un ideale, un punto di arrivo.

Mercoledì 22 novembre.
Ebbi una lunga conversazione con il vescovo, in merito alla nostra futura presenza nella sua diocesi. Monsignor Olambo si sente felice, gli pare di rivivere pregustando la gioia di avere del personale giovane, disponibile alla missione per fare rifiorire la cristianità rimasta senza pastori.

Con padre Martin visitai i diversi rioni della città e dovunque passavamo tutti uscivano incontro a salutare e a invitarmi a rimanere con loro. Con questa gente non bisogna elemosinare strette di mano perché sarebbe un insulto il rifiutare la mano. Ci fermiamo all’ospedale: ma non pensate che sia come da noi, ma all’africana. Le medicine sono provviste dallo stato, ma al cibo ci pensano i parenti, e allora quando la mamma è all’ospedale, tutta la famiglia vi si trasferisce e fuori nel cortile vedete tanti fuocherelli e gente seduta intorno a preparare il cibo […].

Doruma

Mercoledì 29 novembre.
Rifaccio i miei bagagli e, appena consumato pranzo alla procura di Isiro, a bordo di un camion ribaltabile carico di fusti di nafta e di provvigioni per il collegio di Dungu, abbordiamo i 220 km che ci separano da Dungu. I fratelli Richard e Fabien si alternano al volante, perché la strada non differisce da quelle descritte precedentemente. Il sole è arrabbiato, in cabina siamo un po’ scomodi: tre persone più gli oggetti delicati, che sono molti. […].

Facciamo sosta a Rungu dove lavorano i padri comboniani italiani […].

Riprendiamo il nostro viaggio, il paesaggio è quasi sempre uguale: foresta a destra e a sinistra, vegetazione lussureggiante […].

Dopo altre due ore di percorso arriviamo alla savana, con erbe che sorpassano i due metri di altezza. Pochissimi si contano gli alberi a basso fusto […]. Però per quasi tutto il percorso nella savana non si è notata la presenza di una capanna, e questo per 30 km circa. […]

Verso le nove finalmente arriviamo a Dungu.

[…]. Rimango ospite dei fratelli per tre giorni, sempre in attesa di una prossima occasione per Doruma. Nel frattempo, visito la missione di Dungu, diventata sede della diocesi, perché più centrale (diocesi di Dungu-Doruma), mentre Doruma è posta verso i confini della diocesi stessa. […].

Sabato 2 dicembre.
Raccolgo i miei effetti per la penultima tappa verso Doruma. Fratel Fabien deve recarsi a Bangadi in serata e il giorno seguente avrebbe fatto vela per Doruma. Ne approfitto anch’io. Si parte verso le due del pomeriggio. Carichiamo come si conviene il pulmino e tra le tante cose trovo un posto anche per la mia piccola persona.

Per la strada più stretta del solito, attraversiamo i fiumi Dungu e Kigali e tra due sponde di alberi e di erba altissima ci dirigiamo a una velocità discreta a seconda dello stato della pista (zairoise). In quattro ore copriamo la distanza di 110 km e giungiamo a Bangadi […].

Domenica 3 dicembre.
Era domenica e passando nei villaggi si notava un movimento insolito: mercato lungo i viali alberati, assembramenti di gente attorno alle scuole cappelle dove si erano radunati a fare la preghiera con il catechista. Al nostro passaggio tutti ci salutavano con la mano.

Dopo due lunghe ore di corsa giungemmo finalmente in vista della missione che da mesi cercavo di immaginarmi, senza avere alcuni elementi concreti a cui aggrappare la mia fantasia. Mi assalì una certa emozione che cercai di controllare senza riuscirci pienamente. Alla mia destra vidi subito spuntare tra i palmizi la cattedrale in mattoni rosa pallido, la facciata della missione e il complesso delle scuole primarie e secondarie. Ebbi subito la sensazione dell’ordine, della pulizia, del buon gusto. Erano le 11 del tre dicembre, festa di san Francesco Saverio, grande missionario, il quale impiegò sei mesi per raggiungere le Indie (e io impiegai solo 25 giorni per raggiungere la mia destinazione) […].

Verso le 22 raggiunsi la mia cameretta: ero stanco per tutte le emozioni provate e per il viaggio, tuttavia mi fu difficile prendere sonno. Ringraziai il Signore per avermi concesso di coronare il mio sogno missionario. Pregai san Francesco Saverio perché infondesse in me un po’ del suo spirito apostolico onde non deludere le aspettative di Dio e delle anime a cui ero stato inviato. […].

Antonio Barbero

 Padre Antonio ci ha lasciati prematuramente nel febbraio 1982, ma il seme che aveva gettato continua a dare frutto.
Selezione dai testi originali a cura di Marco Bello.


La nuova avventura della Consolata in Congo

Kisangani, ultima periferia

Kisangani è la più grande città del Nord del Congo. È snodo per l’Oriente e per le martoriate province dell’Est. Nel periferico quartiere Segama, in continua crescita, padre Honoré ha iniziato una presenza nel 2019. Quasi tre anni dopo è stato affiancato da padre Rinaldo Do. I progetti sono tanti e i bisogni pure.

Kisangani è la terza città del Congo dopo Kinshasa e Lubumbashi. Si affaccia sulle rive del fiume Congo a duemila chilometri dalla sua foce, nella zona equatoriale, centro Nord del paese. Padre Honoré Tsiditeta, congolese di 57 anni, vi è arrivato nel gennaio 2019. Raggiungiamo telefonicamente padre Rinaldo Do sul posto. Missionario della Consolata, in Congo dal 1991, ci racconta la genesi di questa missione, in una zona nuova per l’Istituto. Innanzitutto, ci spiega la scelta: «C’era il desiderio di uscire dalle nostre aree classiche, di Isiro e Kinshasa, e di avere un punto di riferimento, anche logistico. Ci sono, infatti molti problemi con gli aerei, per noi che lavoriamo al Nord. Si arriva qui da Kinshasa ed è importante avere una casa di passaggio, dove ci si possa fermare, per poi prendere un fuoristrada o una moto e arrivare nelle missioni. Così i superiori, qualche hanno fa, hanno cominciato a dialogare con il vescovo di Kisangani, il quale, ben contento, ci ha dato un terreno che era stato comprato dalla diocesi in vista dell’allargamento della città».

La nuova missione è nel quartiere Segama, a circa 10 chilometri dal centro di Kisangani. Si tratta di una zona urbana nuova, dove si stanno costruendo molte casette, senza alcuna pianificazione e senza servizi: non c’è acqua né elettricità.

«Vi abitano diverse tipologie di persone. Gente che lascia il centro città, altri sono rifugiati del Congo Brazzaville mandati lì chissà perché o scappati, poi ci sono gli sfollati dalle province di Ituri e Kivu, a causa della guerriglia che continua in tutta quella zona di frontiera con Uganda e Rwanda. Si parla di oltre 100 gruppi armati presenti».

Nell’area di Kisangani c’è pace, assicura padre Rinaldo, ma il quartiere non è così tranquillo, si registra molto banditismo notturno: «La gente desidera la nostra presenza anche perché la chiesa può rendere più stabile la situazione».

Piccoli passi

Nel momento in cui parliamo con padre Rinaldo, si stanno ultimando i lavori della casa, base della missione e anche punto di appoggio per missionari che lavorano in altre zone. Poi si inizierà a costruire la chiesa, e in seguito altri progetti. «Adesso abitiamo in centro presso i padri dehoniani e in procura (centro servizi della diocesi, ndr), e andiamo al cantiere tutti i giorni. Quattro volte alla settimana celebriamo l’Eucarestia (la prima è stata celebrata il 27 gennaio 2019, ndr), e questo lo facciamo sotto tendoni che sono montati e smontati per l’occorrenza. Finita la celebrazione vanno infatti tolti, altrimenti si rischia che li rubino. Ma quando potremo abitare sul posto cominceremo a conoscere la comunità, fare un progetto pastorale, i consigli, le commissioni, perché la chiesa è abbastanza viva. C’è una grande voglia di parrocchia. L’area è proprio in mezzo alla gente, e, per noi, è tutto da iniziare, da conoscere, creare i rapporti personali con gli abitanti. Abbiamo iniziato a visitare qualche malato»

E ancora: «Ci sono problemi per mancanza di elettricità, di acqua. Vengono realizzati pozzi artigianali. Noi ne abbiamo fatto uno e la gente viene a prendere acqua alla missione. Pensiamo di realizzarne anche altri nel quartiere, come anche altri progetti da decidere e portare avanti con la nostra gente».

Padre Rinaldo continua con le motivazioni della scelta: «La nostra è una scelta di periferia, dove c’è la gente che ha bisogno di una presenza della chiesa, di consolazione. Abbiamo poi la prospettiva, in un altro terreno, di costruire un centro sanitario, perché sulla salute la gente è abbandonata. Ci sono tanti piccoli centri nel paese. Anche qui a Kisangani ce ne sono alcuni, ma sono, spesso, gestiti dai missionari o dalla chiesa, oppure ci sono le cliniche private, che però hanno prezzi molto elevati».

Padre Rinaldo ha lavorato nella maggior parte delle missioni della Consolata in Rdc. È arrivato a Kisangani nell’ottobre del 2021, per affiancare padre Honoré. Prima era a Saint Hilaire, a Kinshasa, e prima ancora a Neisu, nella diocesi di Isiro.

«La notte di Pasqua abbiamo potuto accendere delle luci, usando un generatore, grazie alla casa quasi terminata. Cosa che a Natale non avevamo potuto fare. Un passo alla volta. La società elettrica dovrà elettrificare anche il nostro quartiere, ma non si sa quando.

A Kisangani, anche in centro, sovente ci sono tagli di elettricità. Anche se si potrebbe dare luce a tutti, perché passa il fiume Congo e ci sono delle cascate».

Infine ci regala qualche considerazione più generale: «C’è un grande abbandono di questo paese. Siamo stati a celebrare la Pasquetta in una zona della città dove c’è una fabbrica di tessuti. Fino a qualche anno fa impiegava duemila operai, adesso è praticamente chiusa. Ce ne sono un centinaio, ma sono in sciopero, perché da sedici mesi non ricevono salario. Questo succede anche in altre zone del Congo: fabbriche abbandonate, lavoratori non pagati. Vediamo situazioni analoghe di insegnanti, infermieri, agenti dell’amministrazione statale. E il governo fa la sua politica, ha regalato 600 auto, una per ogni deputato e senatore. Per tenerseli buoni, ma si dimentica della gente che lavora. Così, spesso, ci sono scioperi che durano settimane, mesi. La situazione è triste, un paese ricco che non è per nulla gestito».

Marco Bello


Il racconto di due decenni vissuti appassionatamente

Con il cuore, si vince

Un’esperienza particolare. Due decenni da missionario sul campo. Il primo in Zaire, il secondo in Rdc. Il primo da giovane alle prime armi, il secondo da veterano con la barba bianca. Tante diversità, altrettante similitudini, cristallizzate nel tempo. Ma sempre la gioia di essere amico, fratello di tanti.

Due decenni vissuti in tempi diversi, in un paese collocato nel cuore dell’Africa (e con due nomi differenti): gli anni più belli della mia vita missionaria, anche se mescolati a tanta fatica, sogni e non poche delusioni.

Un altro mondo

Era il 20 gennaio del 1980; ricordo che, partito da Roma, dopo solo sei ore di volo toccavo il suolo dello Zaire, e non ci volle molto tempo per rendermi conto di essere bruscamente arrivato in «un altro mondo». Con la prima, grande emozione: dopo neanche tre ore dall’arrivo, essendo domenica, la celebrazione della mia prima messa africana in una piccola cappella nella boscaglia (di eucaliptus), con i canti al ritmo dei tamburi, una lingua incomprensibile, i chierichetti con tanto di tuniche colorate e a piedi nudi che precedevano noi preti a passo di danza e tante facce nere (soprattutto di bambini) che guardavano incuriositi i nuovi venuti.

E, dopo pochi giorni, «l’impresa» di arrivare al Nord del paese, sorvolando l’immensa foresta equatoriale, e l’arrivo, su strade rosse e polverose, a Isiro, la modesta cittadina (sede della nostra casa provinciale) dove, la notte del primo dicembre del ’64, era stata uccisa Anuarite, una giovane suora, durante la tristemente famosa «Ribellione dei Simba» che, scoppiata qualche anno dopo l’indipendenza del Congo (1960), aveva prodotto centinaia di vittime tra i locali e tra i missionari stranieri.

Ricordo anche che al mio arrivo in Zaire, la gente era ancora sotto shock per «il regalo» di Natale 1979 del presidente Mobutu: la «demonetizzazione», cioè il cambio senza preavviso delle banconote, passate dal colore azzurro al verde (come la foresta e le foglie di manioca). Nonostante i missionari si fossero dati da fare per trasportare le persone, con i loro vecchi soldi, dai posti più lontani alle banche cittadine, la maggior parte della popolazione non riuscì a cambiare le ormai inutili banconote, che tenevano celate negli angoli più nascosti delle capanne.

Dopo mesi faticosi per imparare il kiswahili, cominciai a scorrazzare su una vecchia Land Rover per la quarantina di villaggi della nostra estesa parrocchia di Wamba, disseminati tra file di palme, campi di riso e manioca, bananeti e chiazze di alte erbe (con qualche serpente annesso). Sperimentavo, così, la gioia e la difficoltà di testimoniare il vangelo di Gesù, non solo in un’altra lingua e cultura diverse dalle mie, ma anche con «l’aiuto» dei catechisti, senza i quali non avrei potuto avvicinare, conoscere, capire e amare la gente dei villaggi. Mi appassionava lavorare con loro, valorizzando le loro conoscenze, il loro modo di vita, la fede semplice e severa di alcuni che, formati senza zucchero dai missionari belgi, erano passati attraverso il crogiolo della persecuzione (e anche del martirio). Fu questa mia passione per loro (forse) che spinse la mia nomina a responsabile del Centro catechistico diocesano, per sei anni, in cui tentai un’impostazione nuova, per formare non soltanto dei «bravi maestri nella fede», ma dei veri leader e animatori per lo sviluppo umano, l’insegnamento, la salute e, soprattutto, la giustizia e l’onestà in quel contesto difficile e così avaro di sogni per qualche cambiamento.

Padre Giacomo Mazzotti a Wamba

Ma fu proprio un cambiamento (non certamente da me sognato) a interrompere il mio lavoro missionario con i catechisti. Nel 1990 venivo, infatti, richiamato in Italia per lavorare nelle nostre riviste e nell’animazione missionaria. Confesso che avevo accettato con non poca fatica, perché dover lasciare l’Africa, dopo solo dieci anni, sembrava un’evidente ingiustizia nei miei confronti. Confidavo, però, nel fatto che la permanenza nel Belpaese non sarebbe stata troppo lunga, ma solo una parentesi da smaltire il più in fretta possibile. Invece, i pochi anni previsti si protrassero più del dovuto, fino a metà del 2005 quando, approfittando della nomina del nuovo superiore generale, feci la richiesta di poter ripartire. E così, il 12 gennaio 2006, riprendevo l’aereo per cominciare la seconda tappa della mia avventura missionaria.

Molti mi avevano ricordato che il Congo (ora si chiamava così) che avrei trovato non sarebbe stato sicuramente come l’avevo lasciato: lunghi anni di guerra, violenza e confusione politica avevano stremato la popolazione, rendendola più povera e sfiduciata. Era ormai scomparso dalla scena Mobutu (morto in esilio, in Marocco, nel 1997), lasciando il paese al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini e la guerra civile al proprio interno.

Stavolta, ero stato nominato nientemeno che parroco nella periferia di Kinshasa, in una nostra parrocchia santuario (Mater Dei), dove si venera l’immagine della Madonna di Czestochowa, dono di Giovanni Paolo II, nella sua prima visita allo Zaire (1980). Avevo accettato l’incarico con molta riluttanza e timore, pensando a ciò che mi aspettava, anche se, un mese dopo il mio arrivo, avevo potuto condividere un momento epocale del nostro Congo: per la prima volta, dopo più di trent’anni, le elezioni libere e democratiche per la scelta del presidente e del nuovo governo. Ho rintracciato nel diario questa annotazione: «30 luglio 2006. Dopo tante voci negative, finalmente la gente può esprimersi anche se la scelta non è certamente libera e oggettiva per via dei troppi candidati e degli interessi immediati. Ma è un’occasione importante e cerco di spiegarlo nelle due messe che celebro qui in parrocchia, pur nel mio povero lingala. Il seggio del quartiere è proprio accanto a noi. Poco prima della chiusura delle urne, faccio una scappata a vedere com’è l’ambiente e a scambiare due chiacchiere con la gente […]». Fondamentale era stata l’opera di coscientizzazione che la chiesa aveva cercato di fare nei mesi precedenti le elezioni: una vera mobilitazione, soprattutto a livello delle piccole comunità di base, per informare, far discutere, capire e scegliere con un po’ di consapevolezza; dibattiti semplici, ma vivaci, sostenuti e guidati da persone preparate e che avevano coinvolto i nostri cristiani in quella svolta storica della loro democrazia.

Nel «cuore» della foresta

Ma l’esperienza di parroco cittadino non durò molto. Dopo tre anni, ricevevo una nuova destinazione, che fortunatamente veniva incontro anche al mio desiderio: il ritorno alla foresta, al Nord del Congo e a Neisu, un piccolo, ma vivace villaggio, diventato famoso per l’ospedale costruito dall’indimenticabile nostro missionario dottore, Oscar Goapper, morto – ahimè – troppo presto. Era il 16 agosto 2009 quando toccavo di nuovo – dopo vent’anni esatti – la pista di atterraggio dell’aeroporto di Isiro. Ma che cambiamento! Un’occhiata alla cittadina, un tempo vivacissima per la varietà di persone, il commercio, le numerose scuole primarie e superiori mi intristì il cuore. E anche quando arrivai a destinazione, Neisu (che in lingua kimgbetu significa cuore) mi sembrò che il tempo si fosse fermato: strade impossibili, case di fango e paglia, gente che si spostava con biciclette stracariche.

Kinshasa era ormai lontanissima e i ricordi dei pochi anni passati laggiù svanirono in fretta, perché ora il mio mondo era proprio questo: una parrocchia nata dal nulla, sapientemente accompagnata da missionari appassionati della gente, un centinaio (104, per l’esattezza) di villaggi, piccoli o modestamente grandi nei quali, accanto a rabbia e rassegnazione c’era ancora spazio per una timida speranza, la voglia di pace e ingarbugliati tentativi per il développement (sviluppo).

Ed è stato qui che, pure invecchiato e reso più fragile dagli acciacchi, dalla malaria (mai avuta prima) e dalla povertà di mezzi, ho gustato di nuovo la gioia di essere ancora fratello, amico, compagno di viaggio per tanti. Ho ripreso a scorrazzare (non più in Land Rover, ma in moto) sugli infiniti sentieri della foresta, costeggiando, magari, qualche tratto della linea ferroviaria costruita dai belgi e ormai invasa dalla vegetazione; sostando, senza fretta, nelle piccole cappelle di ogni villaggio per pregare, istruire i tanti catecumeni che ancora chiedevano di conoscere Gesù; organizzare progetti e iniziative soprattutto per i due «chiodi fissi» dei programmi pastorali di ogni anno: scuola e salute; e appisolarsi per la stanchezza alla sera su una sdraio, mentre bambini e giovani si scatenavano nelle danze in mio onore, attorno al fuoco.

Che sia questa la «missione nuova», o meglio, il modo nuovo di fare missione? E dov’è «il luogo di contatto» tra il Vangelo, i missionari e le persone? «La risposta è chiara: l’ordinarietà della vita di tutti, questo è il territorio della missione. Un cuore missionario riconosce la condizione reale in cui si trovano le persone reali, con i loro limiti, i peccati, le fragilità, e si fa “debole con i deboli e si mette a camminare al loro passo”» (Papa Francesco).

Con il cuore, allora… si vince sempre!

Giacomo Mazzotti


La repubblica democratica di Félix Tshisekedi

Un meccanismo ben oliato

Dopo 18 anni di presidenza di Joseph Kabila, dal 2019 l’Rdc è governato da un gruppo di potere solo in apparenza diverso. Nella realtà, il sistema è uno e collaudato da decenni. E anche le teste sono sovente le stesse.

«Dopo 25 anni di crimini di massa e saccheggio delle nostre risorse da parte dei nostri vicini,

l’autorizzazione del presidente (Félix Tshisekedi, ndr) all’Updf (Uganda people defence force, esercito ugandese, ndr) e gli accordi di cooperazione militare con l’Rdf (Rwanda defence force, ndr) sono inaccettabili. No ai piromani-pompieri! […]». Con questo tweet, il 28 novembre 2021, il medico Denis Mukwege, premio Nobel per la pace (2018), commentava l’ingresso in forma ufficiale di truppe ugandesi in Ituri, provincia dell’Est del paese, sancito poi da un accordo militare il 9 dicembre successivo.

Ma perché il presidente Félix Tshisekedi, in carica dal gennaio 2019, è sceso a patti con il nemico di ieri? Come sta gestendo la sicurezza nell’Est del paese, provato da una guerra che dura, praticamente, dal 1998?

Cerchiamo di fare il bilancio della presidenza del figlio del più noto oppositore politico congolese, Etienne Tshisekedi, scomparso nel 2017.

Democratic Republic of Congo (DRC) President Felix Tshisekedi speaks after he and his Kenyan counterpart, Uhuru Kenyatta (not seen) signed a treaty integrating the DRC into the East Africa trade block at State House in Nairobi on April 8, 2022. – (Photo by Tony KARUMBA / AFP)

Un mandato

Thisekedi è stato eletto il 30 dicembre 2018, in elezioni posticipate di due anni, senza motivazione ufficiale, da Joséph Kabila. Questi governava dal 2001, quando aveva preso il potere alla morte del padre Laurent Désiré Kabila, facendosi poi eleggere per due volte consecutive (2006 e 2011).

«L’arrivo al potere di Tshisekedi è, di fatto, il risultato di un accordo tra questi e Kabila, che avrebbe lasciato il campo libero, a patto che non si andasse a “frugare” nel passato. L’accordo sarebbe stato concluso a Nairobi», ci dice un nostro contatto congolese. Joseph Kabila resta di fatto un uomo molto ricco e potente in Congo, ha molti affari da seguire, anche nel settore minerario, per cui gradisce non essere disturbato.

Il primo governo dell’era Tshisekedi era in coabitazione con la coalizione di Kabila, il Fronte comune per il Congo (Fcc), che aveva riportato, alle stesse elezioni, una maggioranza all’Assemblea nazionale. Qui il Cach (coalizione facente capo a Tshisekedi), poteva contare su una cinquantina di deputati su 500. Si trattava, in qualche modo, di un governo di coalizione di 66 posti, dei quali 23 erano andati al Cach e 42 al Fcc (cfr MC ottobre 2019). Ma a inizio dicembre 2020 Tshisekedi rompe la coalizione, con la scusa che «non permette di mettere in opera il programma di governo». E poi affida a un fuoriuscito eccellente del Fcc, Modeste Bahati Lukwabo, presidente del Senato, la missione di «informatore» per verificare i numeri di una nuova coalizione, che chiama l’Union sacrée (l’unione sacra). Di fatto Tshisekedi aveva «operato» per assicurarsi il cambio di casacca di un buon numero di parlamentari.

«Il politico congolese, il parlamentare in generale, è come una prostituta, va con chi offre di più. Anche quelli che erano con Kabila, erano lì perché lui offriva di più. La coalizione dell’ex presidente esiste ancora, ma ha perso molti parlamentari. Con la maggioranza che ha adesso, Félix può fare molte cose». Il presidente è dunque riuscito ad «acquisire» una maggioranza confortevole e, dopo un paio di mesi di negoziazioni (perché accontentare tutti non era facile) ha varato, il 12 aprile 2021, il suo nuovo governo, questa volta a lui totalmente fedele. Il premier è Sama Lukonde Kyenge, e ne fanno parte, oltre a uomini e donne (sono il 27% su 57 posti) del Cach, gente di Moise Katumbi, di Jean-Pierre Bemba e molti transfughi del Fcc che hanno mollato Kabila.

A tutto campo

Continua la nostra fonte: «Tshisekedi è poi riuscito a modificare la Corte costituzionale, in modo da controllarla. Non è stato facile, perché l’ha cambiata senza usare le procedure costituzionali.

Inoltre, ha imposto anche il presidente del Consiglio nazionale elettorale indipendente (Ceni), in modo arbitrario». Il Ceni è un organo per il quale la neutralità è fondamentale, in quanto ha il ruolo di organizzare le elezioni. All’imposizione di Denis Kadima, un suo fedelissimo, ha cercato di opporsi la Conferenza dei vescovi cattolici del Congo (Cenco), ma senza grande successo.

«La corruzione è il sistema, per cui pagando, tra l’altro con soldi pubblici, si ottiene qualsiasi cosa. Lo scorso anno (2021) il presidente ha regalato un fuoristrada del valore di circa 50mila dollari a ognuno dei 500 deputati». Si parla di circa 25 milioni di dollari, sottratti a opere per la popolazione, come scuole, strade, centri di salute.

Secondo il nostro interlocutore, inoltre «il problema grosso è che Tshisekedi, si è circondato di nullafacenti, spesso disonesti, di cui molti vivevano all’estero da anni, e alcuni sono stati pure arrestati nei paesi in cui erano residenti».

Siamo verso la fine del mandato, in quanto le elezioni sono previste per il 2023, ma «per le questioni sociali ed economiche, le cose stanno peggio di quando c’erano Mobutu, Laurent
Désiré Kabila, o addirittura Joseph Kabila. Perché la cricca al potere è una sorta di gruppo mafioso, tribalista. Tshisekedi ha messo tutta gente della sua etnia nei posti chiave».

Fronte dell’Est

Torniamo a Est, dove la guerra non si è mai realmente fermata dal 1998. È la seconda guerra del Congo.

Uno degli obiettivi del presidente e del suo governo era riportare la stabilità nella regione. Qui imperversano un centinaio di gruppi armati e di sbandati, alcuni legati al Rwanda (come l’M23) altri ai ribelli ugandesi (come l’Adf, Allied defence force). C’è poi la presenza dei caschi blu dell’Onu, la Monusco (operativa dal febbraio 2000, con circa 17mila effettivi).

Qui, più precisamente nel Nord Kivu, il 22 febbraio 2021 sono stati uccisi in un’imboscata l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Vittime eccellenti tra milioni di morti nell’area. L’inchiesta è ferma su un binario morto, come ha recentemente denunciato Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore, chiedendo verità e giustizia.

Il presidente Tshisekedi, nel maggio 2021, ha dichiarato lo «stato di assedio» in due province dell’Est, il Nord Kivu e l’Ituri. Il che vuol dire sospendere gli eletti e le assemblee locali, sostituire i governatori con dei militari, e dare all’esercito potere di controllo del territorio. Ovvero la militarizzazione dell’area. Nonostante questo, gli attacchi ai civili e gli scontri non sono cessati, anzi. A fine marzo scorso è riaffiorato l’M23, gruppo paramilitare appoggiato dal Rwanda, che era stato sconfitto nel 2013. Tale milizia è strumentale allo sfruttamento delle risorse minerarie della regione da parte del piccolo, ma bellicoso, paese guidato da Paul Kagame. Tra fine marzo e inizio aprile, ha condotto diversi massacri, in villaggi nella zona di Rutshuru, Nord Kivu, nei pressi del confine triplo con Uganda e Rwanda (cittadina a 70 km da Goma, la stessa zona dell’assassinio di Attanasio).

Relazioni internazionali

«Tshisekedi ha avuto un avvicinamento al regime di Kigali, dicendo che Kagame è un suo fratello. La moglie del presidente congolese ha parenti altolocati in Rwanda. Così, invece di mettere fine all’insicurezza all’Est, come aveva promesso, Tshisekedi ha fatto accordi con i carnefici. Gli stessi governatori militari, che ha imposto con lo stato di assedio, sono persone dal passato molto opaco».

Nel mese di maggio dello scorso anno, un’impresa ugandese ha vinto diversi appalti per la costruzione di strade nel Nord Kivu, verso l’Uganda. L’accordo punta anche a proteggere i cantieri, oltre a combattere l’Afd, ribelli ugandesi, di matrice islamista, attivi dal 1995 e basati in queste aree del Congo.

«Ma in queste terre così ricche, un’impresa che scava per fare strade, può facilmente portare via minerali».

Ricordiamo che l’Rdc è il primo produttore mondiale di cobalto, essenziale per le batterie e i dispositivi elettronici, con 174mila tonnellate all’anno (70% del totale). È il primo produttore africano di rame, e grande produttore di diamanti, oro, zinco. La ricchezza del suo sottosuolo è stata definita uno «scandalo geologico». Minerali che vengono sfruttati da altri: «Si calcola che su 41 miliardi di dollari prodotti ogni anno dalle miniere del Congo, solo un miliardo resti nel paese». Con un Pil pro capite di 540 dollari all’anno (Banca Mondiale, 2020), è come dire che l’intera popolazione, 90 milioni, sopravvive con 1,5 dollari al giorno.

Il 29 marzo scorso Félix Tshisekedi ha firmato per fare entrare l’Rdc nel East african community (Eac, il mercato comune Est africano), che comprende Kenya, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Rwanda e Burundi. Questi paesi vedono l’Rdc come un paese di enormi ricchezze (da sfruttare), ma anche un grande mercato per il loro export, che vedrà, grazie a questa firma, ridursi drasticamente i dazi doganali. Non è chiaro, invece, il beneficio che ne avrà il Congo, la cui fragile economia rischia contraccolpi negativi.

È del 14 aprile una notizia inquietante. Il Regno Unito ha firmato un accordo con il Rwanda per cui questo accoglierà i migranti e richiedenti asilo indesiderati sul suo territorio in cambio di 120 milioni di sterline. I militanti dei diritti umani hanno bocciato il progetto come inumano e barbaro. Anche l’opposizione britannica è contraria e l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu vi si oppone con fermezza, in quanto contrario alla convenzione di Ginevra sui rifugiati.

Il Rwanda è un paese piccolo e sovrappopolato, con una densità di quasi 500 abitanti al km2, 2,5 volte quella dell’Italia. «Dove pensate che Kagame voglia mettere i migranti deportati dal Regno Unito?».

Questo è il paese che Papa Francesco visiterà dal 2 al 5 luglio prossimo, fermandosi a Kinshasa e Goma, per poi proseguire per il Sud Sudan.

Marco Bello

Isiro cattedrale con tomba di suor Anuarite


Hanno firmato il dossier:

  • Stefano Camerlengo, superiore generale dei Missionari della Consolata.
  • Antonio Barbero. Nato a Marene (Cn), nel 1928, ha aperto le prime missioni della Consolata in Zaire. È scomparso prematuramente a Torino nel 1982. Ringraziamo padre Mario Barbero, fratello di padre Antonio, per averci messo a disposizione le lettere originali dalle quali abbiamo tratto alcuni stralci.
  • Giacomo Mazzotti. Missionario della Consolata in Zaire (1980-90) e in Rdc (2006-2016), redattore della rivista Amico (‘90-2005). Oggi postulatore per la causa di canonizzazione del beato Giuseppe Allamano.
  • Marco Bello. Giornalista redazione MC.

Archivio MC

Luca Lorusso, Perché abbiano la vita, gennaio 2022.
Luca Pistone, Ripartire dalle donne, dicembre 2020.
Marco Bello, Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?, ottobre 2019.
Giusy Baioni, Quando il «re» decide di lasciare, novembre 2018.

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Ricostruire persone e comunità


Ricostruire è un altro modo per dire consolare. E oggi c’è bisogno di farlo per persone e comunità in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa. Laddove ci sono situazioni infrante, consolare è favorire il perdono che libera e la riconciliazione che ricuce.

Ero a Bogotá. Il superiore mi aveva chiesto, con una certa insistenza, di partecipare a un incontro di teologia organizzato dall’Università dei Gesuiti. Poteva essere una specie di penitenza o, forse, il fatto che non trovasse nessun altro.

Vi andai e rimasi contento.

Il linguaggio, anche se esatto e raffinato, era accessibile.

Mi interessò soprattutto quanto detto da un anziano gesuita, professore molto rispettato, ormai in pensione, che iniziò parlando del capitolo 40 di Isaia, il famoso passo che dice: «Consolate, consolate il mio popolo…».

«Israele si trova in una situazione disastrosa. Il tempio è distrutto, le mura della città abbattute, il sacerdozio, non esistendo più il tempio, non ha ragione di essere, la popolazione è stata dispersa, le persone con qualche capacità di lavoro sono deportate a Babilonia. Non servono parole o gesti consolatori. Qui c’è bisogno di una ricostruzione dalla radice».

Giunto a questo punto del suo intervento, il professore diede sfoggio delle sue conoscenze della lingua ebraica: «Le parole “consolare” e “ricostruire” hanno, in ebraico, la stessa radice», disse. «Quindi consolare sta per ricostruire».

Come missionario della consolazione sentii che il teologo gesuita parlava del mio carisma: l’impegno di ricostruire le persone, le situazioni, le relazioni.

Da allora, l’affermazione dell’antico professore, che non ho mai potuto verificare, l’ho sempre venduta, così come l’ho ricevuta.

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Persone e comunità distrutte

Oggi incontriamo molte persone che si sentono distrutte, non trovano ragioni per andare avanti. A volte si tratta di situazioni non particolarmente disastrate, ma senza soluzione, per l’incomprensione e il rifiuto continuo all’interno delle relazioni più intime e familiari.

La maggior parte delle persone che si avvicinano al sacramento della penitenza, più che altro cercano ascolto, consolazione, indicazioni per ricostruire se stesse o le relazioni con chi si è allontanato.

C’è, quindi, un estremo bisogno di ricostruire persone e comunità. Questo è il nome della consolazione, necessaria oggi in tutto il mondo e, in modo concreto, in Europa.

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Il perdono è liberazione

Come possono ricomporre la propria vita persone distrutte perché offese, violentate, calunniate, diffamate?

C’è una parola fondamentale: il perdono.

Se ne parla spesso, ma forse è importante sottolinearne alcuni aspetti.

C’è chi lo vede come un dovere morale: «Devi perdonare». Ma, a chi è stato ferito, si può chiedere di aggiungere al dolore subìto anche il peso di guardare con rispetto il proprio offensore?

Forse non è questo il perdono utile per ricostruire la persona.

Allo stesso tempo, però, se al male rispondiamo con il male, allunghiamo una catena che ci tiene schiavi.

Il perdono è spezzare quella catena.

Mi fanno del male? Rispondo in un altro modo. Non voglio che chi mi ha fatto soffrire continui a dominare su di me.

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Il perdono è liberazione, è costruire la propria vita con tutta la libertà possibile. Se è vero che il perdono non cambia il passato, può liberare però il futuro.

Ho diritto a provare rabbia di fronte a un fatto ingiusto, ma trasformare la rabbia in rancore, vivere di rabbia, è una disgrazia.

Se, invece, riesco a liberare la mia vita dal desiderio della vendetta, se non conservo il male dentro di me verso chi mi ha fatto del male, allora curo la ferita che mi è stata inferta e mi sento capace di affrontare il futuro con libertà.

Certamente perdonare non è dimenticare, ma è ricordare in modo nuovo e diverso.

Questo non vuol dire che mi sia riconciliato con chi mi ha offeso, ma almeno ho preso il largo, sento che non sono più alle dipendenze di chi mi vuole o mi ha voluto male.

È facile perdonare? No. Bisogna lasciare alle spalle l’oscurità della rabbia e del rancore per prendere una decisione che mi fa stare bene. E ciò che mi aiuta in questa decisione è essere convinto che devo cambiare il mio punto di vista, non per giustificare quanto è avvenuto, ma per cercare di comprendere.

La persona che mi ha fatto soffrire è certamente una persona, sotto molti punti di vista, orribile. Ma è pur sempre una persona.

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Non sei ciò che hai fatto

Una chiacchierata fatta qualche tempo fa nel carcere minorile di Torino con un gruppo di interni, mi ha permesso di condividere questo tema.

Un giovane, che aveva commesso un grave delitto, mi ha detto: «Io sono un assassino». «No», gli ho risposto. «Allora che cosa sono?», ha ribattuto. «Sei una persona che ha ucciso». «Ma è lo stesso». «No, non è lo stesso».

Un giovane tunisino è intervenuto con una battuta: «Quando esco di qui voglio andare in Spagna». «Ti piace la Spagna?», gli ho chiesto. «È che là non mi conoscono», mi ha risposto. «È già un bel motivo per andarci. Ma che cosa vai a fare in Spagna?». «Voglio fare una banda». «E tu che cosa suoni?». «Ma non è per suonare. È per rubare». Allora io ho ribattuto: «Ma tu non sei un ladro». «E che cosa sono?». «Sei una persona che ruba». «Ma è lo stesso». «Penso di no. Non è lo stesso».

E così con un marocchino. «Tu non sei uno spacciatore. Sei una persona che spaccia».

Il dialogo è continuato a lungo e si è fatto acceso. Alla fine, ho detto: «Vi faccio un’ultima domanda e la finiamo lì. Chi è nato ladro, assassino o spacciatore?». La risposta è stata unanime: «Nessuno». «Come siamo nati? Come persone. Ecco quello che siamo. Poi non è uguale uccidere e aiutare, rubare o spacciare e servire gli altri. Allora ognuno si prenda le sue responsabilità. Ma tu non sei quello che hai fatto. Sei anche quello che puoi essere. Non sei solo il tuo passato, ma anche il tuo presente e il tuo futuro».

Se questa diventa una nostra convinzione, allora avremo purificato il nostro sguardo su chi ci ha fatto del male. Ma avremo anche purificato il nostro sguardo sul perdono più difficile, che è perdonare se stessi.

Ricostruire se stessi è l’impresa più grande, ma anche la più necessaria e liberatrice.

A volte risulta più facile offrire il nostro perdono agli altri che a noi stessi. Abbiamo in noi il desiderio di sentirci perfetti e invece è importante avere il coraggio di ritenerci limitati, fragili. Il perfezionismo non è utile, perché ci rende infelici, ci impedisce di accettare gli altri e noi stessi nelle nostre limitazioni.

Qualunque cosa sia avvenuta nella nostra vita, noi non siamo il nostro errore. Ci dobbiamo guardare con simpatia e fiducia sapendo che il passato non c’è più, il presente e il futuro sono nelle nostre mani.

Certamente possono rimanere in noi le radici del passato, radici che dobbiamo saper controllare e limitare nei loro sviluppi. È vero che il perdono non cambia il passato, il perdono verso gli altri e verso di noi libera il futuro.

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La riconciliazione

Se, con il perdono abbiamo ripulito e curato la nostra ferita, che, pur lasciando una cicatrice, non brucia più come agli inizi, adesso possiamo passare a curare la ferita con l’altro, con chi ci ha fatto del male.

Questo percorso lo chiamiamo riconciliazione.

Il perdono è sempre totale, senza condizioni. Sempre possiamo perdonare, perché ci fa stare bene, ci libera, ci rende creativi e padroni di noi stessi.

La riconciliazione, invece, non sempre è possibile. Se il nostro avversario si rifiuta, se è morto, se non so dove si trovi… allora posso perdonare, cioè rimuovere da me ogni desiderio di vendetta, di fare del male, ma non mi posso riconciliare.

Inoltre, la riconciliazione richiede la volontà da parte di tutti e due per percorrere un cammino che permetta l’incontro. E questo cammino si sviluppa attraverso varie tappe, che sono condizioni perché la riconciliazione sia reale.

Questo vale quando la riconciliazione è interpersonale o quando avviene tra due gruppi di avversari, o anche quando si tratta di riconciliazioni di tipo storico, ad esempio riconciliazioni nazionali come furono quelle molto interessanti elaborate in Sudafrica, in Perù o in Croazia.

Sono tentativi che non risolvono tutti i problemi, ma cercano di disinnescare conflitti maggiori e violenti.

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Memoria, verità, giustizia per un patto nuovo

Per percorrere in modo positivo il cammino della riconciliazione sono necessarie delle condizioni chiare.

Iniziamo con la memoria.

Non si costruisce la riconciliazione sul nulla. Qualcosa è successo, c’è stato un conflitto. La memoria non è una risorsa per ricordare, ma per ricostruire il passato con una finalità: assumere verso di esso un atteggiamento etico, cioè arrivare ad affermare «mai più, questo non deve succedere più».

Non si sta a esaminare il passato per distribuire colpe o errori: si scaverebbe una fossa che interromperebbe le relazioni. Si cerca, piuttosto, di arrivare insieme alla conclusione che quanto è avvenuto non è utile, non aiuta, non libera, non ci rende più umani.

Si passa poi al tema della verità. Anche qui non è importante la verità oggettiva, che è stata già in parte affrontata con la memoria, ma l’atteggiamento di reciproca sincerità. La verità delle relazioni, la fiducia rinnovata, la comunicazione sono necessarie per guardarsi in faccia e negli occhi affermando, senza il pericolo di inganno, che ci si può fidare, che si è recuperata una base solida su cui costruire o ricostruire la possibilità di una relazione solida.

Il passo successivo ci porta a riflettere sulla giustizia, che richiede due momenti: il primo, assumere la propria responsabilità, il secondo, offrire una riparazione.

Quando si è affermato che nessuno è il suo errore, si è anche detto che ogni atto ha un suo senso: non è lo stesso agire in un modo o in un altro. Ognuno può assumersi le proprie responsabilità.

Anche perdonare se stessi non equivale ad assolversi, ma significa non bloccarsi in una situazione.

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Assumere la propria responsabilità su ciò che è avvenuto può essere fatto nel dialogo o anche nel silenzio interiore. Allora è importante passare al secondo momento: offrire una riparazione, che può consistere in un oggetto donato, un gesto che esprima la volontà di riconciliazione. In questo caso sono importanti i gesti o rituali della pace: un abbraccio, un bacio, una stretta di mano…

Finalmente, l’ultimo passo nel cammino della riconciliazione consiste nel guardare verso il futuro e stringere un patto o accordo.

I patti si costruiscono in base alla necessità o alla convenienza. Se si considera necessario giungere a un accordo, allora bisogna che ognuno guadagni qualcosa e trovi il modo per superare le differenze.

È chiaro che, soprattutto nel momento del patto, è necessaria la presenza di un mediatore che possa facilitare un buon risultato. In un patto ben costruito nessuno perde, ma tutti guadagnano.

I patti, poi, possono avere diversi livelli. Ci sono patti di coesistenza, che potremmo anche chiamare patti di non aggressione. Ognuno vive per proprio conto, senza maggiori interferenze. Ci sono poi i patti di convivenza, dove si condivide, in qualche modo, qualche aspetto della vita. Infine, ci sono i patti di comunione, quelli tramite i quali si pianifica, si realizza, si valuta e si condivide tutto.

Ognuno sceglierà il patto possibile. Non è necessario, e a volte non è bene, per evitarsi inutili frustrazioni, puntare al patto più perfetto.

In ogni caso, anche una buona separazione è già anche una forma di riconciliazione. Quando non è possibile continuare insieme, si arriva alla conclusione che ognuno può prendere la propria strada, ma in modo serio e rispettoso. Ognuno ricupera la sua libertà rispettando la libertà dell’altro.

Ricostruire persone e situazioni infrante

Non sarà questa una strada di consolazione? Quella di ricostruire persone e situazioni infrante, aiutando perché ognuno personalmente, con il perdono, o comunitariamente, con la riconciliazione, ritrovi la propria libertà e armonia?

Qualche anno fa mi trovavo a Scutari, in Albania. Il vescovo mi aveva chiesto di parlare di questi temi a un gruppo di universitari albanesi e kosovari. Alla fine dell’incontro si è avvicinata una ragazza, che parlava bene l’italiano, come quasi tutti loro, e mi ha detto: «Lei ha parlato di me. Quello è il mio caso».

Avevo affermato, alla fine del discorso, che, a volte, io stesso consiglio di perdonare senza cercare la riconciliazione. Il caso più chiaro è quando si tratta di una ragazza violentata da suo padre. «Perdona», dicevo, «cioè, cerca di guarire questa enorme ferita. Tu ti meriti tutto l’amore e il rispetto di questo mondo. Sei una vittima, non sei colpevole. Riprendi nelle tue mani la tua vita, sentiti libera, costruisci il tuo futuro. Il segno di questa violenza rimarrà in te, come una cicatrice, non più come una ferita. Cerca di volerti bene e stai lontana da chi ti ha fatto del male». «E il comandamento che dice di amare i propri genitori?», mi ha domandato. «Sì, onora tuo padre, tua madre, ma anche tua figlia. È l’onore e l’amore per tutta la famiglia. Se tieni lontano tuo padre non gli farai nessun male ed eviterai che lui ne possa fare ancora a te».

Quella ragazza mi è saltata al collo e mi ha detto: «Grazie. Mi sento liberata. Sono felice».

Penso che, quel giorno, la consolazione sia arrivata a quella vita, che l’abbia ricostruita.

Anche in Europa c’è tanto bisogno di consolazione.

Gianfranco Testa


L’Università del Perdono è un’Associazione Onlus, senza fini di lucro, apolitica e aconfessionale, che intende promuovere uno stile di vita improntato al perdono e alla nonviolenza attiva.

L’Università mette in atto qualsiasi intervento o azione che possa essere funzionale alla diffusione dei valori del perdono e della nonviolenza, mettendo al centro l’uomo piuttosto che il conflitto.

www.universitadelperdono.org

desalvia.anto@gmail.com

 

 




Da prospettiva a solida realtà


Si tratta di imprese (virtuose e innovative) in rapida crescita. Introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano come una nuova forma societaria, sono ora presenti nel nostro paese con oltre mille enti.

Le Società Benefit (Sb) rappresentano una forma d’impresa virtuosa e innovativa, che potrebbe essere definita l’evoluzione del concetto stesso di azienda: mentre quelle tradizionali, infatti, esistono per rispondere a bisogni reali della società, ma lo fanno allo scopo principale di avere un profitto, le Società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di generare un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle organizzazioni non profit (Onlus, Aps, OdV, ecc.), le Società Benefit fanno parte della realtà for profit, non rinunciando a mantenere il proprio scopo di lucro. A esso aggiungono però il perseguimento di uno o più benefici su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni, oltre ad altri portatori di interesse, ovvero l’ecosistema all’interno del quale le Sb orientano il proprio agire quotidiano e di medio lungo periodo. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente, con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci (shareholder) e l’interesse della collettività (stakeholder).

Alcune protagoniste dei corsi di formazione nel campo dell’assistenza domiciliare sostenute da Promos

Un approccio fortemente «cristiano»

Tale approccio al mondo del lavoro e dell’impresa recepisce anche i valori e le indicazioni che vengono dalla dottrina sociale della Chiesa.

Era il 2015 quando, nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco si esprimeva nei seguenti termini: «Il lavoro dovrebbe essere il principale ambito di sviluppo personale, dove si mettono in gioco molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro per tutti» (LS, 127).

In seguito, il concetto è stato ulteriormente ribadito e approfondito nell’enciclica Fratelli tutti, ancora più incentrata sul tema dell’amicizia sociale. Ne citiamo un passaggio, a titolo di esempio: «L’attività degli imprenditori effettivamente è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti. Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza.

Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso» (FT, 123).

Parole forti e incisive, che certamente hanno avuto un ruolo importante nel plasmare la mentalità di quei soggetti, imprenditori socialmente orientati e politici che, animati da spirito di servizio per il bene della comunità, hanno investito tempo e risorse affinché il «modello Benefit» si potesse realizzare e sviluppare.

Alcune giovani a scuola, in Kenya, grazie al contributo di Promos

Fenomeno in espansione

Se nel 2017 si parlava di Società Benefit come di un fenomeno nuovo, nato sulla scia delle B Corp (Benefit Corporation) statunitensi. Oggi quello che ci troviamo di fronte è una solida realtà. A fine 2021 le Sb in Italia hanno sfondato quota mille, il doppio rispetto al solo anno precedente, a conferma di una crescita esponenziale. Non c’è regione della penisola che non presenti almeno una realtà produttiva caratterizzata dalla forma giuridica introdotta dalla legge entrata in vigore nel 2016. A inizio 2022 in Lombardia erano oltre 300 e sul podio vi è anche il Lazio (oltre 120) con l’Emilia Romagna (oltre 100).

A dispetto della pandemia, pertanto, il numero delle Società Benefit in Italia è aumentato. Un’ulteriore conferma del successo che sta prendendo forma, è l’inclusione della «categoria Società Benefit» tra quelle contemplate nell’«Oscar di bilancio», premio organizzato da Ferpi – Federazione relazioni pubbliche italiana – con Borsa italiana e Università Bocconi, che viene assegnato fin dal 1954 alle imprese più meritevoli nelle attività di rendicontazione finanziaria e che rappresenta il riconoscimento più importante nell’ambito della comunicazione dei risultati di impresa.

Un impatto da condividere

Un elemento fondamentale nella disciplina delle Società Benefit è rappresentato dal fatto che, annualmente, tali realtà hanno l’obbligo di produrre una «Relazione di impatto» che sia pubblica, possibilmente realizzata da un ente terzo indipendente, che metta di fronte ai propri azionisti e ai propri clienti quanto concretamente realizzato nel corso dell’anno precedente per avvicinarsi al raggiungimento delle «Finalità di beneficio comune» dichiarate nello statuto. Si tratta di un aspetto fondamentale, utile a evitare i tristemente noti fenomeni di greenwashing o social washing, che fanno sì che l’impegno verso la sostenibilità sia solo una questione di marketing, senza un reale impatto positivo sull’ambiente e sulle comunità.

La capacità di comunicare in maniera trasparente ed efficace il perseguimento del beneficio comune è uno degli asset strategici più importanti per una Società Benefit. La comunicazione non finanziaria, ovvero la redazione annuale della «Relazione di impatto» rappresenta, infatti, non solo una opportunità di comunicazione e di posizionamento nel mercato, ma un vero e proprio strumento di gestione, relativo all’intero andamento della vita aziendale. Ad oggi, le Società Benefit sono le uniche realtà tra le imprese profit non quotate in Borsa a dovere redigere una comunicazione non finanziaria da allegare al bilancio, il che rappresenta un unicum nell’intera Unione europea, con l’Italia che costituisce l’esempio a cui guardare.

La premiazione di Reynaldi nel corso del Festival dell’Economia Civile

Un virtuosismo contagioso

Diventare Società Benefit rappresenta, certamente, un grande impegno e una grande responsabilità sociale, ma anche una immensa soddisfazione. Oltre a una dichiarazione di intenti, è una strada percorsa concretamente da numerose realtà che hanno saputo coniugare la ricerca del profitto con un concreto impegno sociale. A titolo di esempio segnaliamo due aziende torinesi che si sono distinte per il loro operato, anche durante la pandemia.

Il Festival dell’economia civile, svoltosi a Firenze a fine 2020, ha nominato l’azienda cosmetica torinese Reynaldi Srl SB «Ambasciatrice dell’economia civile» per l’impegno nella produzione responsabile dal punto di vista sociale e ambientale, investendo al contempo in formazione e attivando progetti di cooperazione in Burkina Faso, Kenya e Sudan per la produzione di materie prime di altissima qualità da utilizzare in ambito cosmetico, riconoscendo alle comunità locali un giusto prezzo, una concreta possibilità di crescita e la garanzia di richiesta continuativa.

Un altro esempio è la Promos SrL Sb, che pone al centro del proprio operato l’accompagnamento di altre realtà che si affacciano al mondo delle Benefit Corporation aiutandole a migliorare il proprio impatto sociale, ambientale ed economico. Il tutto, senza dimenticarsi di chi è meno fortunato, impegnandosi in progetti di sostegno scolastico per orfani in Kenya, nella regione del Meru, e a Capo Verde, a Mindelo. Si occupa anche della realizzazione di corsi di formazione professionale certificata per donne straniere nel campo dell’assistenza domiciliare e, in collaborazione con la Caritas italiana, sta attivando percorsi di formazione gratuita a livello nazionale per i rifugiati che provengono dall’Ucraina.

Sono solo due testimonianze di un modo diverso di fare impresa, che mette al centro il bene comune, ci invita ad «andare oltre» le logiche del solo profitto e ci ricorda che ciò è davvero possibile.

Paolo Rossi

* Già volontario nel Tharaka, Meru, Kenya, presidente di Col’or Ong di Orbassano (To) e assegnista di ricerca nel campo del Social Business Modelling presso l’Università del Piemonte Orientale.


Archivio

Paolo Rossi, Le Società Benefit: una realtà in crescita, MC maggio 2017.




Carbone, petrolio, gas vincono ancora


I combustibili fossili continuano a dominare la scena mondiale e a crescere di prezzo. In primis, per la speculazione. L’energia rinnovabile rimane una piccola percentuale dell’energia consumata.

Proprio quando il mondo sembrava deciso a volersi impegnare seriamente contro i cambiamenti climatici, è tornata l’angoscia per i prodotti energetici. Un’angoscia alimentata in parte dalla nostra indolenza, in parte da fatti contingenti. L’indolenza si riferisce alla nostra incapacità di agire finché eravamo in tempo. Da decenni, gli scienziati ci avvertono che i cambiamenti climatici sono dovuti all’accumulo di anidride carbonica emessa dai combustibili fossili e ci esortano a risolvere il problema convertendoci alle energie rinnovabili, principalmente eolico e solare. Ma noi abbiamo temporeggiato facendo orecchie da mercante. Imperterriti, abbiamo continuato a rifornirci di energia elettrica da centrali alimentate a gas e carbone dedicando alle rinnovabili solo le briciole. Secondo i dati dal Centre for climate and energy solutions, nel 2019 l’energia rinnovabile incideva solo per l’11,2% sul totale dell’energia consumata a livello mondiale per elettricità, trasporti e riscaldamento. Considerato che nel 2009 la percentuale era attestata su 8,7%, in un decennio il peso delle rinnovabili è aumentato di appena 2,5 punti percentuale, lasciando che i combustibili fossili continuassero a farla da padroni coprendo tutt’ora l’80% dei consumi energetici a livello mondiale.

Solo nell’ultimo decennio, il consumo mondiale di petrolio è passato da 4 miliardi di tonnellate nel 2010 a 4,4 nel 2019 registrando un aumento percentuale del 10%. Quanto al gas, il consumo è passato da  3.160 miliardi di metri cubi nel 2010 a 3.903 nel 2019, un aumento percentuale del 23%. Intanto anche un altro combustibile fossile ha registrato un aumento importante. Si tratta del carbone che, pur essendo molto più inquinante, è però meno caro e quindi preferito da paesi come Cina, India, ma anche Polonia, affamati di energia a basso costo per recuperare il terreno perduto sulla strada dello sviluppo industriale. Così il suo uso è passato da 7,2 miliardi di tonnellate nel 2010 a 8 miliardi di tonnellate nel 2019, l’11% in più. Con inevitabili conseguenze sulle emissioni di anidride carbonica, passate da 38,5 gigatonnellate nel 2010 a 43,1 nel 2019.

Dal punto di vista dei prezzi, benché i prodotti energetici siano soggetti a repentini cambiamenti, complessivamente nel secondo decennio del nuovo millennio, si è assistito a un certo ribasso. Segno che l’industria dei combustibili fossili ha saputo rispondere alle maggiori richieste di mercato, producendo addirittura qualcosa di più. Nel caso del petrolio, la quotazione è passata da 79 dollari al barile nel 2010 a 64 dollari nel 2019. Per il gas naturale, invece, siamo passati da 6,7 dollari per milione di Btu (British thermal unit) nel 2010, a 4,45 nel 2019. Ma questa situazione di relativa stabilità si è rotta con l’arrivo del Covid. I lockdown, decretati nel 2020 nelle maggiori economie del mondo, hanno provocato una caduta brusca nel consumo di prodotti energetici per l’arrestarsi di molte attività produttive, la cancellazione di viaggi aerei, la riduzione dei viaggi su strada. Complessivamente nel 2020 il consumo mondiale di petrolio si è ridotto del 9% mentre quello del gas del 2%, provocando una riduzione di prezzo che è stato rispettivamente del 34 e del 23%. Con beneficio anche per il clima, dal momento che il 2020 ha registrato una riduzione nelle emissioni di anidride carbonica nell’ordine di due miliardi di tonnellate. Ma la tregua è durata poco.

Centrale termoelettrica e animali al pascolo. Foto Peggychoucair-Pixabay.

Consumi e prezzi

Decisi a voler tornare a crescere, molti governi hanno stanziato somme enormi, tutte a debito, per finanziare spese e investimenti di ogni tipo, finalizzati a rilanciare le proprie economie. Basti citare il Next generation Eu, il piano di investimenti messo a punto dall’Unione europea, del valore di 750 miliardi di euro finalizzato alla transizione ed efficienza energetica, all’ammodernamento dei trasporti, alla ricerca industriale, al rafforzamento dell’edilizia sociale, al sostegno di produzioni strategiche. Come potremmo citare l’American rescue plan, il piano di rilancio americano decretato nel marzo 2021 che destina 1.900 miliardi di dollari a interventi a favore di famiglie, enti pubblici e imprese. Senza dimenticare il pacchetto di stimolo economico del valore di 940 miliardi di dollari decretato a fine 2021 dal governo giapponese.

Ed è successo che la ripartenza contemporanea di tutte le economie mondiali ha creato una crescita inaspettata di domanda di prodotti energetici che il mercato ha immediatamente tradotto in aumento dei prezzi. Nel caso del petrolio, le prime tendenze al rialzo si sono palesate già nel novembre 2020 per proseguire lungo tutto il 2021, fino a raggiungere gli 86 dollari al barile a fine anno. Ma la vera mazzata è stata per il gas naturale che, nel corso del 2021, è passato da 7 a 38 dollari per milione di Btu, un aumento del 400%. Eppure, l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, ha certificato che nel 2021 l’aumento dei consumi di gas è stato solo del 4,6%. Dal che si capisce che qualcuno ha avuto interesse a trasformare in incendio ciò che era solo un focherello. Questo qualcuno è il mondo della finanza che riesce ad agire incontrastata per l’incapacità della politica di metterle dei freni.

il ruolo dei futures

In Europa, uno dei luoghi in cui si determina il prezzo del gas è la Borsa di Amsterdam, dove non si stipulano solo contratti di compravendita a consegna immediata, ma anche contratti futures, tecnicamente a consegna futura la cui vera finalità è scommettere sull’andamento dei prezzi. Chi punta sul rialzo si impegna a comprare a una certa data futura ai prezzi di oggi; chi invece punta sul ribasso si impegna a vendere in futuro ai prezzi d’oggi. Ma quando il contratto giunge a scadenza, fra le parti non avviene nessuno scambio di prodotto fisico. Più semplicemente la parte perdente salda quella vincente versando la differenza fra il prezzo pattuito e quello che, nel frattempo, è maturato. Potrebbe anche succedere che nessuno paghi niente a nessuno come avviene quando le due parti sono diverse solo in apparenza mentre nei fatti sono entrambe espressione della stessa realtà economica che gestisce il gioco speculativo.

Tutti sanno che i contratti futures si stipulano solo per scopi speculativi. Ma poiché il mercato è stupido, o forse fin troppo cinico, non fa differenza fra contratti veri, stipulati per il reale interesse a commerciare, e quelli fasulli, stipulati per guadagnare sulle variazioni di prezzo. E facendo di tutta l’erba un fascio, interpreta come domanda reale quella che in realtà è solo domanda fittizia, creata apposta per mandare alle stelle i prezzi degli scambi reali. Non di rado con conseguenze sociali disastrose. In Europa, l’aumento del prezzo del gas ha fatto esplodere le bollette dell’energia elettrica e del riscaldamento, gettando milioni di famiglie nella disperazione. E anche se non si saprà mai chi ha orchestrato il tutto, è un fatto che nel 2021 le imprese energetiche hanno aumentato considerevolmente i propri profitti. Valga come esempio l’Eni, che è passata da  una perdita di 750 milioni di euro nel 2020 a guadagni per 4,5 miliardi nel 2021. O la Shell, che è passata da 5 miliardi di dollari di profitti nel 2020 a 19 miliardi nel 2021. Nel silenzio più assordante della politica che, volendo, potrebbe assumere provvedimenti normativi e fiscali per contenere la finanza speculativa. Ma tant’è: questo sistema non è organizzato per la dignità delle persone, ma per permettere a chi già è ricco di arricchirsi sempre di più.

il gas russo e quello degli altri

Intanto altre nubi si stanno addensando in Europa, gettando pesanti ombre sul futuro del mercato del gas. Si tratta delle «tensioni» con la Russia che è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di gas naturale. L’Unione europea importa il 41% del suo gas da Mosca, ma dopo l’aggressione russa all’Ucraina, sta cercando altri fornitori. Anche l’Italia, che dipende dal gas russo per il 38%, sta cercando delle alternative, ma non è detto che ne trovi di preferibili né da un punto di vista politico, né ambientale. Il governo ha individuato parte della soluzione nel potenziamento di forniture di gas naturale da parte di altri tre paesi con i quali l’Italia è già collegata attraverso gasdotti: Algeria, Libia e Azerbaigian. Peccato che tutti e tre siano classificati come paesi non liberi da parte di Freedom House, l’istituto statunitense che annualmente attribuisce un voto a tutti i paesi del mondo in base al loro rispetto per le libertà civili e i diritti politici.

Il governo italiano è convinto che un altro pezzo di soluzione risieda nel potenziamento di importazione di gas naturale liquefatto (Gnl), che però presenta due generi di problemi: è più costoso ed è più rischioso. Più costoso sia per il trasporto che avviene via nave, sia per il doppio cambio di stato del gas: prima da gassoso a liquido, poi di nuovo da liquido a gassoso. Più rischioso per gli incidenti a cui possono andare incontro le navi da trasporto, ma anche i rigassificatori di solito posti in mare a qualche chilometro dalla costa di fronte a città importanti, come quello che si trova davanti a Livorno. L’Eni ha fatto sapere che le quote aggiuntive di Gnl potrebbero arrivare da Stati Uniti, Mozambico, Qatar, Angola, Repubblica del Congo. Di essi solo gli Stati Uniti sono classificati come paese libero. Tutti gli altri sono classificati come non liberi a eccezione del Mozambico, definito parzialmente libero. Ma, al di là del dato politico, c’è quello sociale: tutte le organizzazioni non governative denunciano che in Africa lo sfruttamento delle materie prime non porta giovamento alla popolazione locale, mentre aggrava le disuguaglianze per l’alto grado di corruzione che arricchisce solo l’élite politica.

Una pipeline in Alaska. Foto David Mark-Pixabay.

Dubbi e speranze

Per finire, due parole sulla posizione degli Usa. Come esportatore di gas, gli Stati Uniti vivono la Russia come un concorrente: ogni metro cubo di gas esportato dalla Russia è un metro cubo di meno che può essere venduto dagli Usa. E allora è spontaneo chiedersi se la politica di isolamento messa in atto nei confronti della Russia, e sollecitata anche all’Unione europea, non sia dettata più da ragioni di egemonia commerciale ed economica che dalla volontà di difendere i valori politici e sociali dell’Ucraina. Se così fosse, si dimostrerebbe come il cinismo dei grandi sia senza limiti, come senza limiti sarebbe il servilismo dei piccoli disposti a tutto pur di assecondare i desiderata della potenza di riferimento.

L’unico modo per uscirne è convertirsi a un altro modello economico non più orientato alla crescita infinita di produzione, vendite e consumo, ma alla costruzione della dignità della persona nel rispetto del senso del limite.

Francesco Gesualdi