Ascoltare con il cuore nell’orecchio
A fine mese, il giorno dell’Ascensione, si celebrerà la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il tema, «Ascoltare con l’orecchio del cuore», può stupire: abituati a una comunicazione incalzante, infatti, rischiamo di scordare che l’ascolto è preliminare al comunicare. Tanto più oggi, quando i canali della comunicazione si moltiplicano creando una cacofonia che disorienta. La tentazione, da parte dell’utente, è quella di tapparsi le orecchie, o di lasciare filtrare frammenti disparati e senza logica, oppure di sintonizzarsi su un solo canale, una sola voce, escludendo tutti gli altri.
Succede anche nel campo più specifico dell’informazione: stampa, radio, Tv, siti web e social, fino a ieri erano dominati dal Covid-19, da fine febbraio, invece, dalla tragedia dell’Ucraina. Un tale diluvio di notizie ha una conseguenza: l’assuefazione al peggio e il disinteresse verso altri drammi, altrettanto e, a volte, più gravi.
Ecco allora perché è importante – come scrive papa Francesco nel suo messaggio per la giornata – porre l’attenzione sul verbo «“ascoltare”, decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile». Senza un vero ascolto rischiamo di perdere la visione globale e di concentrarci solo su quanto ci tocca «hic et nunc», qui e ora, facendo diventare quel problema l’unico e il più importante. Senza un vero ascolto, sentiamo solo quello che ci tocca da vicino, disinteressandoci del resto del mondo, come se non fosse il «nostro mondo».
Questo «disinteresse» si può quantificare. Ricordo un esercizio semplice di quando feci la scuola di giornalismo: cronometrare per una settimana il tempo dato alle singole notizie nei telegiornali. Lo facessi oggi, a parte l’Ucraina, raccontata con un pathos che tende a spingere l’opinione pubblica a non vedere alternative al riarmo, e qualche necessaria coda sul Covid-19, probabilmente non registrerei quasi niente riguardo alla Siria, con i suoi milioni di profughi (resi quasi invisibili), le drammatiche distruzioni di città e gli eccidi. Pochi minuti andrebbero al Libano, e niente allo Yemen di cui parlano solo i ripetuti appelli di Amnesty international, Amref o Medici senza frontiere. È sparito anche l’Afghanistan che pure l’estate scorsa per qualche settimana è stato al centro di tutti i notiziari. Poi, chi parla di Somalia, Mozambico, Sudan, Etiopia, Centrafrica, Congo Rd, Nigeria, Burkina Faso, Niger? Mai sentito parlare di ciò che succede in Venezuela, Colombia, Messico, Nicaragua? Quanti secondi sono stati dati al terremoto di Haiti dello scorso agosto? Qualcuno dedica tempo alla siccità che attanaglia molti paesi del Sud del mondo e alla fame che ne consegue? E questi sono solo alcuni degli esempi possibili.
Il recente viaggio di papa Francesco a Malta, ha messo in rilievo un’altra difficoltà di ascolto del nostro mondo, e non solo quello dei media: quella verso i migranti che attraversano il Mare nostrum, affogati, respinti o mal accolti.
Di fronte a tutto questo, ecco l’importanza di un ascolto vero. Un ascolto che non sia un semplice origliare, che sia antidoto al parlarsi addosso, che non si preoccupi degli «indici di ascolto», che non cerchi conferma di quanto già si sa, ma impari a discernere la verità, sia rispettoso della persona, favorisca l’incontro e la comprensione reciproca, diventi vero dialogo, trovi l’intuizione di strade diverse da proporre.
«L’ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza». E non solo per il buon giornalismo, ma per la vita di tutti i giorni.