Portogallo. Rifugiati come in famiglia

Missione Reu /04*

Portogallo
Ermanno Savarino

A Cacém (Lisbona), in Portogallo, una comunità di missionari della Consolata, due sacerdoti, un fratello e tre seminaristi, apre le porte a tre giovani profughi africani accogliendoli in casa. Un’esperienza di missione interculturale e interreligiosa, e di famiglia.

È il 26 giugno 2019. Siamo all’aeroporto di Lisbona per dare il benvenuto a Salim e Ismael, 19 e 20 anni, musulmani del Sudan, sbarcati in Italia due mesi fa, e accolti dal Portogallo.

Sguardi indagatori, strette di mano. Chiedo all’interprete di tradurre in arabo queste parole: «È da tempo che vi aspettiamo. Benvenuti. Se vorrete, la nostra comunità sarà la vostra famiglia».

Nella nostra casa, a Cacém, periferia di Lisbona, in questo momento siamo in sette: tre seminaristi tra i ventisette e i trent’anni, uno colombiano, uno keniano, uno tanzaniano, tutti al quarto anno di teologia, poi ci sono fratel Gerardo Secondino, italiano con quindici anni di Mozambico alle spalle, padre Norberto Ribeiro Louro, un portoghese 84enne con una lunga storia missionaria, anche lui in Mozambico, un ospite venticinquenne della Guinea Bissau, studente universitario, e chi scrive.

La nostra casa è un grande spazio che ospita una Caf, «comunità apostolica formativa», cioè un piccolo seminario a dimensione famigliare e missionariamente attivo nel territorio.

Facciamo accoglienza, attività di animazione con gruppi, parrocchie, scout. Nei nostri terreni abbiamo ricavato 80 orti comunitari coltivati da famiglie bisognose della zona. Infine, collaboriamo con altre realtà del sociale.

Quando mi presento a Salim e Ismael, sento che i due giovani ci vengono affidati, e che loro si affidano a noi.

Forse siamo degli incoscienti. Ci stiamo mettendo in un’avventura senza sapere bene dove ci porterà: si troveranno bene questi due giovani con noi? Riusciremo ad accoglierli?

Aprire cuore e casa

L’accoglienza non è un’esperienza nuova per noi, perché fin dall’inizio di questa comunità formativa, nel 2015, la nostra casa è aperta per chi ne avesse bisogno: è stato con noi un giovane senzatetto portoghese con problemi di alcolismo, poi lo studente della Guinea Bissau, da solo in Portogallo, poi altri con altre storie che si sono fermati per tempi più o meno lunghi.

L’idea è che la comunità, già caratterizzata da una grande diversità culturale (come spesso accade nelle case dei Missionari della Consolata), cercando di vivere come una famiglia, si offra temporaneamente come famiglia anche a chi ne ha bisogno per un percorso di recupero, inserimento, autonomia.

La scelta di aprire la casa a Salim e Ismael è, quindi, in linea con l’esperienza di accoglienza già avviata e con lo stile di formazione che vogliamo offrire ai nostri seminaristi: una fraternità autentica e missionaria.

Inoltre, l’apertura ai profughi risponde anche all’appello più volte ripetuto da papa Francesco alle comunità cristiane e religiose perché accolgano nelle loro case i migranti che arrivano.

Salim, Ismael e Bright

L’occasione è venuta quando il Jesuit Refugee Service ci ha cercati per sapere se, come alcuni anni prima si era ipotizzato, la Consolata fosse ancora disponibile a cedere la casa di Cacém per l’accoglienza. Con la nuova comunità arrivata da pochi anni, non potevamo accogliere un grande numero di persone, ma subito abbiamo detto che eravamo aperti a fare qualcosa.

Salim e Ismael, quindi, sono i primi due profughi che accogliamo. Per arrivare da noi hanno fatto un lungo viaggio. Sono passati per il Ciad e la Libia, costretti a lavorare nelle miniere d’oro in condizioni disumane per pagare il debito contratto per il passaggio in macchina ricevuto, hanno attraversato il Mare Mediterraneo su un barcone.

Quando sono partiti dalle loro case, nel Darfur in guerra, avevano 15 anni. Si sono conosciuti in viaggio e sono arrivati a Messina, in Sicilia, cinque anni dopo.

Sedersi a tavola insieme

I primi tempi comunichiamo con Salim e Ismael tramite sguardi, gesti, sorrisi e qualche parola di inglese. Sedersi a tavola con loro due ha qualcosa di misterioso e profondo.

I primi mesi sono caratterizzati dai tentativi di comunicare, dall’attenzione a essere il più possibile accoglienti e a far sentire i nostri ospiti a casa loro, dall’emozione di vivere quella pagina di vangelo che dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35), che molte volte abbiamo ascoltato e che ora si concretizza in questo piccolo e coraggioso passo fatto come comunità. La parola di Dio «che opera in noi» (1Ts 2, 13) ha orientato una scelta, è diventata gesto, incontro, volto, presenza.

Scambi interreligiosi

Sin dai primi giorni, nonostante i limiti della comunicazione, i ragazzi s’inseriscono in modo sorprendente nella comunità. Osservano come funzionano le cose in casa e contribuiscono in modo attivo alla vita comunitaria: rispettano gli orari, lavano i piatti e fanno le pulizie con noi. Mentre noi celebriamo l’eucaristia alla sera, loro preparano la tavola per la cena. Presto si crea come una simbiosi tra noi, anche sul piano religioso: la differenza è vissuta con rispetto, naturalezza e curiosità da entrambe le parti. Non è infrequente che ci chiedano spiegazioni sulla nostra fede. Il fatto di essere musulmani in una comunità di religiosi non crea nessuna perplessità: Salim e Ismael sono genuinamente sostenuti dalla loro spiritualità e per loro, che pregano quattro volte al giorno, non è strano parlare di preghiera e vedere che noi ci riuniamo per le nostre celebrazioni. A nostra volta, noi possiamo vedere da vicino come i musulmani vivono il Ramadan, condividere le loro feste.

Poco prima dello scoppio della pandemia, a inizio 2020, arriva nella nostra casa un altro ospite. Si chiama Bright, ha 28 anni, è nigeriano, pentecostale, fuggito dalle persecuzioni religiose.

Bright ci racconta di aver viaggiato per tre anni. Giunge da noi molto provato da ciò che deve aver sofferto in Libia. Ci racconta che è un saldatore e che dei mesi trascorsi a Bari ricorderà sempre la pasta che mangiava tutti i giorni.

Il suo primo discorso alla comunità riunita è un’ispirata preghiera di ringraziamento a Gesù.

Il Giovedì Santo, nel mezzo del lockdown, quando celebriamo la messa in casa, laviamo i piedi ai tre giovani. Il servizio che la nostra comunità sta facendo è fatto alla scuola di Gesù.

Toccare la carne

L’arrivo di Salim, Ismael e Bright, con tutto quello che porta con sé, conferma ancora una volta la verità di quel testo per noi molte volte ispiratore, che troviamo nella parte finale dell’Evangelii Gaudium, quando papa Francesco parla di un rinnovato impulso missionario: «A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270).

Prendersi cura di qualcuno significa diminuire le distanze, accogliere qualcuno in casa vuol dire accettare che diventi parte di noi, lasciare che i suoi problemi diventino anche un po’ i nostri: per questo la vita si complica, ma si complica meravigliosamente, perché da questo incontro ne usciamo tutti più ricchi.

Verso un futuro migliore

Certo che la differenza culturale mette alla prova non poche volte la nostra capacità di ascolto e di dialogo. Non è facile nemmeno capire la sofferenza discreta di chi continua a essere perseguitato dalla preoccupazione per i familiari lontani ancora in pericolo. Accompagniamo con un’apprensione, quasi da genitori, i loro primi colloqui di lavoro.

Sperimentiamo poi anche la gioia del chiarimento e del perdono, della fiducia e dell’amicizia che cresce nelle piccole attenzioni quotidiane. Abbiamo accesso a uno spessore umano che non ci lascerà uguali.

Molte volte papa Francesco ci ha esortati a guardare negli occhi il povero e a toccare la sua mano quando facciamo l’elemosina, indicando così un atteggiamento imprescindibile che deve marcare qualsiasi tipo di solidarietà, perché sia anzitutto attenta alla persona. Abbiamo l’esempio di Gesù, che nei Vangeli molto spesso tocca le persone che hanno bisogno di essere curate, che sempre cerca il contatto.

Ricevendo in casa questi giovani non facciamo l’elemosina: li aiutiamo a realizzare il sogno di un futuro migliore che li ha condotti sino ai margini dell’Europa. Quando li guardo negli occhi vedo futuro: un futuro sognato, che ha radici in un passato di sofferenza, che è stato come una stella che li ha guidati in un viaggio lungo e pieno di pericoli, fino a correre il rischio di morire nelle acque del Mediterraneo.

Come una famiglia

Nell’enciclica Fratelli tutti, il papa ci ricorda che ogni gesto di solidarietà per essere autentico deve nascere dall’amore, chiede il coinvolgimento nella relazione: «L’amore implica dunque qualcosa di più che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e la fraternità aperta a tutti» (FT 94).

Durante il lockdown della prima fase della pandemia, quando la nostra comunità sembra l’arca di Noè, ci rendiamo conto chiaramente di cosa sia questa «amicizia sociale» di cui parla il papa.

In casa siamo in tredici: oltre a noi sei missionari, ai tre giovani profughi e allo studente guineano, c’erano anche un uomo, padre di due figli, divorziato e ospitato temporaneamente in attesa di trovare altra sistemazione, e una coppia di pensionati sardi, bloccati in Portogallo per un’emergenza di salute e per la chiusura delle frontiere.

Mentre tutto fuori si ferma, dentro, in comunità, la vita continua: i turni di cucina, le lezioni di informatica e di portoghese per sostituire quelle sospese fuori, i lavori di manutenzione e pulizia della casa e del parco, persino alcuni momenti di preghiera interreligiosa per chiedere la fine della pandemia. Tutti ci sentiamo e siamo utili e responsabili gli uni degli altri. Anche chi è accolto.

Facendo un esercizio del corso di portoghese, Bright, descrivendo ai compagni il luogo dove vive, sintetizza: «In casa viviamo tutti insieme, come una famiglia».

Guardando la nostra tavola durante i pasti e le persone così diverse che, attorno a essa, prendono posto, spesso con il gusto di stare insieme e di raccontarsi, penso più volte che, in quest’angolo di periferia urbana, stiamo celebrando nel nostro piccolo una liturgia dell’accoglienza dal respiro universale.

Un passo per volta

Il progetto promosso dall’Alto commissariato per le migrazioni del governo portoghese prevede una permanenza dei giovani di un anno e mezzo presso di noi. Un tempo utile per conseguire l’autonomia linguistica e finanziaria. Vista però la difficile situazione causata dalla pandemia e visto che le istituzioni non offrono molte possibilità, in comunità decidiamo di nostra iniziativa di tenere con noi i giovani ancora per sei mesi, per aiutarli a consolidare la loro autonomia.

Salim e Ismael non hanno una formazione scolastica perché sono partiti presto dal loro paese, ma sono molto intelligenti. Salim vorrebbe diventare meccanico. Dopo aver preso la terza media, farà un corso di formazione. Intanto ha trovato un lavoro. Ismael ha il sogno di diventare ingegnere. Deve completare gli studi di base. Nel frattempo, ha iniziato a lavorare come muratore in un’impresa di un nostro amico.

In questo processo ci accorgiamo di come sia importante fare il primo passo: molte istituzioni a cui bussiamo sono immediatamente disponibili ad aiutare in diversi modi: i nostri Laici missionari della Consolata, ad esempio, si mobilitano da subito per molte necessità, e uno di loro assume Bright nella sua piccola impresa di montaggio di pannelli solari. Bright sarà con noi ancora fino alla primavera del 2022.

Le avventure della carità e della missione iniziano sempre con un primo passo fatto con coraggio e amore da qualcuno, al quale poi si uniscono altri per continuare il cammino che spesso si apre in modo imprevisto.

Vivere il vangelo

La domenica in cui salutiamo Salim e Ismael, che ora hanno la possibilità di affittare una stanza, a maggio 2021, viviamo un momento molto toccante: durante il pranzo chiedo che sia proclamato il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello nel quale Gesù parla del giudizio finale identificandosi con i bisognosi: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…». La lettura è fatta in portoghese e in arabo.

È emozionante ascoltare le parole di Gesù pronunciate in arabo da quei giovani musulmani. Non è difficile per loro riconoscersi nello straniero, solo, con i soli vestiti che ha addosso. E per noi è evidente che quelle parole di Gesù le abbiamo vissute: sentiamo lo stupore per la semplicità del Vangelo e la forza con cui esso trasforma la nostra vita quando proviamo a metterlo in pratica.

In questi due anni, nonostante la religione diversa, accogliendoci gli uni gli altri, abbiamo scritto insieme una pagina di Vangelo e di bene. Il Vangelo è semplice, ed è possibile e bello viverlo, basta aprirgli il cuore e la casa.

Amici, fratelli, figli

Nei loro discorsi di ringraziamento, sinceri e visibilmente commossi, ci dicono di aver ritrovato nella nostra comunità la famiglia che hanno lasciato cinque anni fa, quando sono partiti dal loro paese. Uno di loro cita persino le parole di Gesù, «amatevi gli uni gli altri», affermando di avere vissuto proprio questo. Di essere stato accolto non come un bisognoso, ma come un amico, un fratello, un figlio.

Salim e Ismael, che non conoscevano molto della nostra religione, attraverso la nostra accoglienza, hanno capito chi sono i cristiani.

Non abbiamo accolto i profughi per fare un’attività tra le altre, ma per vivere, noi sacerdoti, insieme al fratello missionario e ai nostri seminaristi in formazione, la vocazione di cristiani e di missionari. L’apertura e l’accoglienza fanno parte dello stile di vita di una comunità missionaria. È un modo di vivere il Vangelo, non tanto preoccupati di testimoniare qualcosa, ma anzitutto desiderosi di vivere autenticamente il nostro essere missionari, di dare senso alla nostra presenza qua dove siamo.

Ermanno Savarino,
Comunità apostolica formativa dei Missionari della Consolata a Cacém, Lisbona, Portogallo


 * Reu: Regione Europa IMC

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Ermanno Savarino

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