Il terzo settore è entrato oggi in una nuova fase, quella dell’attuazione della riforma, per la quale si sta costruendo il «Registro unico nazionale», che permetterà, fra l’altro, ai cittadini di accedere alle informazioni sugli enti. Molti strumenti introdotti dalla riforma – come il bilancio sociale – fanno già parte del quotidiano delle organizzazioni coinvolte. Cerchiamo di orientarci fra gli acronimi e di capire che cosa manca ancora.
Lo scorso 21 febbraio si è conclusa la cosiddetta «fase 1» della creazione del «Registro unico nazionale del Terzo settore», o Runts, la piattaforma digitale che raccoglierà le sette categorie che ne fanno parte (vedi box a pag. 65).
La fase 1 è consistita, in sostanza, nella trasmigrazione dei dati delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale dai Registri regionali e delle province autonome al registro unico; dal 22 febbraio ed entro il 20 agosto di quest’anno, poi, gli uffici del Runts verificheranno i dati ricevuti e richiederanno, se necessario, le integrazioni agli interessati@.
Quanto alle Onlus, per l’iscrizione al registro, devono presentare domanda, ma, spiega il portale di divulgazione sulla normativa «Cantiere terzo settore», a oggi manca il provvedimento con cui l’Agenzia delle entrate comunica al registro i dati degli enti iscritti all’Anagrafe unica delle Onlus. Finché non ci sarà questo provvedimento, le Onlus non potranno fare domanda@.
Quanti sono 862mila dipendenti e 363mila organizzazioni? Ovvero, quanto è davvero grande il settore? Per farsi un’idea – molto grezza – dei volumi, si può fare un confronto con i dati Istat sulle imprese italiane e i loro dipendenti suddivise per comparto economico, tenendo però in mente che, all’interno di ciascun comparto, sono incluse anche le cooperative sociali e le imprese sociali, che sono a loro volta enti del terzo settore e che quindi ci sono «pezzi» di terzo settore dentro a molte di queste categorie. Guardando solo alla dimensione complessiva dei comparti economici, si può dire che il numero di Ets è vicino a quello delle imprese attive nel settore manifatturiero, che con 372mila aziende occupa la quarta posizione dopo commercio, attività professionali, scientifiche e tecniche, e le costruzioni@.
Quanti e dove
Quanto ai volumi del lavoro, i dipendenti del Terzo settore sono un numero non lontano da quello dei dipendenti del settore delle costruzioni; considerando, inoltre, che il totale dei lavoratori dipendenti in Italia nel quarto trimestre del 2021 era di circa 17,9 milioni, cinque ogni cento lavorano nel Terzo settore@.
La scheda sui numeri proposta dal portale Cantiere terzo settore a partire dai dati Istat, riporta che l’85%, cioè 308mila, degli Ets sono associazioni e danno lavoro a un dipendente su venti nel settore. Inversa è la proporzione per le cooperative sociali, che sono solo 15mila (poco più di quattro su cento) ma impiegano oltre la metà dei lavoratori del Terzo settore, 456mila su 862mila, una media di 31 dipendenti a cooperativa. «Si contano poi quasi 8mila fondazioni con oltre 102mila addetti retribuiti», conclude il sito Cantiere terzo settore, e «le quasi 40mila altre forme giuridiche che danno lavoro a oltre 138mila persone».
Circa la metà delle Ets ha sede nel Nord Italia e impiega il 58% dei dipendenti del Terzo settore; il Nord Ovest, in particolare, ha 183 lavoratori del settore ogni diecimila abitanti, seguito dal Nordest con 178. Prendendo le singole regioni, è la provincia autonoma di Trento ad avere il rapporto più alto con 253 dipendenti di Ets ogni 10mila abitanti, mentre il Lazio, con i suoi 191, supera il Piemonte, il Veneto, l’Emilia Romagna e si colloca poco sotto la Lombardia@.
Ragioni e ambiti
Il motivo per cui il terzo settore si chiama così è definito dal Cantiere in modo molto chiaro: è un «sistema sociale ed economico che si affianca alle istituzioni pubbliche e al mercato e che interagisce con entrambi per l’interesse delle comunità». Ha elementi del primo settore, lo stato, così come del secondo, il mercato: «Come il mercato, è composto da enti privati, come le istituzioni pubbliche, svolge attività di interesse generale. Questi aspetti si rimescolano, dando vita ad un nuovo originale soggetto».
Agire senza scopo di lucro, chiarisce ancora il portale, non significa non avere profitti: significa essere obbligati a reinvestirli per finanziare le proprie attività invece di redistribuire gli utili fra i membri o i dipendenti. Per questo, la definizione no profit, spesso usata come sinonimo di terzo settore, in realtà non esaurisce gli Ets e, anzi, riguarda solo una parte delle organizzazioni del settore.
Guardando agli ambiti di attività in cui queste ultime operano, sono le attività sportive le più rappresentate (120mila enti), seguite da quelle culturali e artistiche (61mila), da quelle ricreative e di socializzazione (49mila). Al quarto posto l’assistenza sociale e la protezione civile (34mila), che però è l’ambito che impiega più persone, 324mila, mentre la Sanità è il secondo ambito per numero di dipendenti. La cooperazione e solidarietà internazionale conta 4.550 enti che occupano 3.900 persone.
Fra il 2011 e il 2019, gli enti sono passati da 301mila agli attuali 362mila, con un aumento intorno al 20%, mentre i dipendenti dieci anni fa erano 680mila e sono dunque aumentati del 27%.
Punti chiave
La riforma ha iniziato a prendere corpo nel 2014, ma l’approvazione della legge delega n. 196 è arrivata due anni dopo, il 6 giugno 2016 e, a partire dal 2017, hanno iniziato a essere approvati i decreti attuativi. L’intento dell’intervento legislativo è stato quello di procedere a un riordino della normativa come risposta alla richiesta «di regole precise e del superamento della frammentazione legislativa che ha caratterizzato per decenni le tante organizzazioni impegnate nel sociale».
Prima della riforma, infatti, organizzazioni diverse erano iscritte a registri territoriali diversi e facevano riferimento a norme specifiche: la legge quadro 266/1991 regolava il volontariato, la legge 383/2007 disciplinava le associazioni di promozione sociale, le Onlus erano soggette al decreto legislativo 460/1997 mentre per le imprese sociali la norma di riferimento era il decreto legislativo 155/2006. La riforma abroga del tutto o in parte queste norme, raggruppa in un solo testo – il Codice del terzo settore – gli enti interessati, e rende l’iscrizione al Registro unico obbligatoria per essere riconosciuti come Ets.
Apre, inoltre, a tutti gli enti iscritti al registro la possibilità di partecipare all’assegnazione del 5 per mille, introduce diversi obblighi «su democrazia interna, trasparenza, rapporti di lavoro, assicurazione dei volontari, destinazione di eventuali utili» e definisce le attività di interesse generale – determinanti per il riconoscimento come Ets – attraverso un elenco che comprende 26 aree@.
Punti critici
Ad oggi, a fronte di indubbi vantaggi di semplificazione, restano ancora diversi aspetti critici. Ne citiamo solo alcuni a esempio. Il primo riguarda gli aspetti fiscali: come scriveva lo scorso 19 febbraio su Vita.it il commercialista e consulente Marco D’Isanto, il Titolo X del Codice del terzo settore che comprende molte delle disposizioni fiscali «è sospeso perché la sua applicazione decorre dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta che il governo non ha ancora formulato»@.
L’entrata in vigore del Titolo X, fra l’altro, comporterà l’abrogazione definitiva della legge sulle Onlus e l’applicazione, appunto, delle norme fiscali contenute nel Codice. Per ora, tuttavia, se una Onlus decidesse di cancellarsi dall’anagrafe unica delle Onlus e iscriversi al Runts, a Titolo X ancora sospeso, perderebbe le agevolazioni fiscali previste dal decreto legislativo 460/1997 senza poter ancora beneficiare di quelle introdotte dal Codice@.
Altra questione è quella della frammentazione legislativa, che non è del tutto superata: le imprese sociali, le cooperative sociali e le società di mutuo soccorso, «seguono leggi proprie, diverse fra loro e dal codice». La cooperazione allo sviluppo, inoltre, ha una legislazione parallela a quella del Codice imperniata sulla legge 125/2014 e un’autorità di vigilanza specifica, l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo (Aics)@.
Infine, a preoccupare sono anche le difficoltà legate agli aspetti burocratici: in un dibattito in streaming sul canale YouTube di Terzjus, portale specializzato negli aspetti giuridici del Terzo settore@, la responsabile del servizio per le politiche per l’integrazione e il terzo settore della regione Emilia Romagna, Monica Raciti, riportava che, durante la presentazione di un rapporto sull’impatto della pandemia sul terzo settore, alla domanda su quale fosse l’elemento che destava in loro più preoccupazione rispetto al futuro, le associazioni emiliano-romagnole, presenti all’evento, non hanno indicato le difficoltà economiche o la diminuzione dei volontari, ma proprio «la riforma del terzo settore e tutto quello che porta con sé». Ciò che mette in difficoltà le organizzazioni, specialmente quelle piccole e piccolissime, è soprattutto la mole di lavoro necessaria a far fronte agli adempimenti amministrativi e la complessità di alcune procedure.
Effetti su Mco
Mco è una Fondazione, una Onlus e un’organizzazione della società civile (Osc) presente nell’elenco dell’Aics delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo. Alla data di chiusura di questo articolo, dunque, la sua situazione è la stessa delle altre Onlus in attesa di poter fare domanda per l’iscrizione al Runts, che dipende dalla comunicazione fra Agenzia delle entrate e Runts e dallo «sblocco» del Titolo X del Codice che subentrerà al decreto legislativo 460/1997 nel regolare gli aspetti fiscali.
A livello operativo, per la nostra organizzazione, la principale novità introdotta dalla riforma è stata per ora quella della elaborazione e pubblicazione del Bilancio sociale, seguita da una riorganizzazione del sito che permette di accedere con più agilità ai documenti come, appunto, i bilanci, i rendiconti del 5 per mille e l’elenco dei fondi pubblici ricevuti.
Chiara Giovetti
Quali enti sono Ets, quali no
L’articolo 4 del Codice del terzo settore stabilisce che sono Enti del terzo settore [Ets]:
❶ le organizzazioni di volontariato (Odv);
❷ le associazioni di promozione sociale (Aps);
❸ gli enti filantropici;
❹ le imprese sociali, incluse le cooperative sociali;
❺ le reti associative;
❻ le società di mutuo soccorso (Soms);
❼ le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato, diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice, in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Tutti questi si trovano a volte indicati per brevità come «altri enti».
Per essere Ets, questi sette tipi di ente devono anche essere iscritti al Registro unico nazionale del Terzo settore [Runts].
Gli enti religiosi civilmente riconosciuti possono essere considerati Ets limitatamente allo svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice.
Non sono Ets le amministrazioni pubbliche, le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dagli enti appena elencati (con alcune eccezioni).
Il portale Cantiere Terzo settore mette a disposizione diverse schede sul settore, sulla riforma e i suoi aspetti chiave e aggiorna man mano le proprie pagine dando conto delle scadenze e dei progressi. Segnaliamo in particolare:
Tra i profughi palestinesi e siriani in alcuni dei molti campi presenti in un paese attraversato da una profonda crisi sociale ed economica che pesa anche sulla vita dei rifugiati.
Accompagnato da personale della Wpa (Women’s program association), da Beirut scendo verso Tyre (l’antica Tiro dei Fenici). Qui ci sono tre campi profughi: Rashidiye, Burj Shamali e El Buss.
Come per tutti i campi, l’accesso a Rashdiye è permesso solo attraversando un checkpoint presidiato da militari armati e dotati di mezzi blindati. Il campo è circondato da muri di recinzione sormontati da filo spinato. Per problemi di sicurezza posso visitare solo la sede della Wpa. Alcune donne siriane mi raccontano della loro fuga dalla guerra e delle enormi difficoltà che ancora oggi affrontano a causa delle discriminazioni che il governo libanese attua nei loro confronti. Diritti negati soprattutto per le cure mediche dei loro bambini a volte affetti da patologie che richiederebbero anche un ricovero ospedaliero. Durante la riunione, sentiamo diversi colpi di arma da fuoco esplosi a poca distanza. I responsabili di Wpa mi chiedono di abbandonare rapidamente il campo.
Campo di Burj Shamali
Ci muoviamo alla volta del campo di Burj Shamali. Qui, come da prassi comune ovunque, ogni rifugiato riceve 17 dollari al mese dall’Unrwa, del tutto insufficienti per la sussistenza e per garantire ai bambini l’istruzione e il diritto di frequentare la scuola. Manal mi invita a visitare la sua casa dove vive con i suoi quattro figli dopo essere fuggita senza il marito, catturato e probabilmente ucciso dai militari in Siria. La donna era un’insegnante e oggi vive una vita di stenti, priva di riconoscimento dello status di rifugiata e alle prese con una malattia del sangue di suo figlio minore di nome Mostafah. Incontro decine di famiglie. Quasi tutte prive della figura paterna. Ognuna di esse porta con sé la testimonianza di una vita distrutta dalla guerra e di un dolore passato che si lega alle difficoltà presenti.
Campo di El Buss
El Buss è uno dei campi più grandi del Libano. Al centro educativo del Wpa siamo accolti dalle donne e dai bambini che seguono le attività formative pomeridiane. I bambini sono attratti dalla mia macchina fotografica e così improvviso un corso di fotografia accelerato. Mentre i piccoli prendono confidenza con la mia reflex, una bambina attira la mia attenzione per la sua spontaneità e per il fatto per porta un rosario attorno al collo. Il suo nome è Asia, ha undici anni ed è l’unica che ho visto manifestare apertamente la sua fede cristiana (foto qui a destra).
Frequentare le attività post scolastiche ha un costo mensile di 10mila lire libanesi (circa 7 €) per bambino, ma la maggior parte delle famiglie non riesce a sostenere questa spesa.
Nel campo di El Buss incontro una coppia di anziani palestinesi che mi invita nella propria abitazione. I due sono in compagnia di figli e nipoti, e mi raccontano la storia drammatica del loro arrivo in questo campo. La donna (nella foto qui a destra) è arrivata nel 1948, aveva dodici anni ed era fuggita a piedi nudi, da sola, per raggiungere il Libano. Nel campo ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito, anch’egli arrivato a El Buss in condizioni disperate.
Campo di Wavel
Situato nella regione orientale del Libano al confine con la Siria, il campo profughi di Wavel era originariamente un sito dell’esercito francese nella valle della Beqaa. Ha fornito rifugio ai palestinesi nel 1948 e l’Unrwa ne ha assunto la responsabilità nel 1952. Grazie alla lontananza da Beirut, i controlli da parte dell’esercito libanese per l’accesso sono meno severi che altrove.
Qui l’istruzione viene fornita a circa mille studenti della Secondary School e sono presenti due asili entrambi gestiti da organizzazioni non governative locali. A causa della posizione remota del campo, l’accesso ai servizi sanitari è difficile e costoso.
Per la vicinanza alla Siria, ci sono migliaia di profughi siriani e palestinesi-siriani. Questi ultimi sono palestinesi che erano rifugiati in Siria e che oggi si trovano a essere nuovamente rifugiati in Libano. Molti di loro mi raccontano che nell’area intorno a Wavel ci sono decine di campi non ufficiali e fuori dalla giurisdizione libanese e dagli aiuti ufficiali di Unrwa.
Una delle famiglie accetta di farmi visitare la propria casa. Il filo conduttore dei loro racconti è sempre la guerra in Siria. Fuggiti dalla guerra, i due genitori con i quattro figli si sono rifugiati in Libano. La casa ha due stanze molto piccole. Durante l’inverno sono costretti ad installare un sistema molto precario di riscaldamento a carbone che scarica all’interno delle due stanze gran parte dei fumi della combustione. La donna non ha un lavoro stabile e l’unico sostentamento per i suoi figli è quello che arriva da Unrwa, appena sufficiente per sfamarli, ma non per la scuola. Il loro desiderio più grande, come per tutti gli altri rifugiati che ho incontrato, è quello di raggiungere un qualsiasi paese europeo. Con ogni mezzo.
Quale futuro
Il giovane scrittore siriano palestinese Bassam Jamil, incontrato nel campo di Wavel, mi spiega che i rifugiati sono convinti di essere tenuti in ostaggio in modalità indefinita senza una seria e concreta intenzione di risolvere la loro situazione. Una condizione di immobilità priva di ogni diritto umano. Ciò che più manca loro è di avere un’opportunità per dimostrare di poter emergere, di essere in grado di costruire il proprio futuro attraverso un lavoro riconquistando la loro dignità. Non hanno bisogno di sussidi. Hanno bisogno di opportunità.
L’aggressione della Russia all’Ucraina rientra nella prassi delle grandi potenze. In questo caso, a causa del pericolo nucleare, la situazione è ancora più rischiosa. La domanda da porsi è la seguente: è possibile difendersi da arroganza, soprusi e violenza senza ricorrere alle armi?
L’aggressione contro l’Ucraina da parte della Russia di Putin è l’ennesimo esempio di come le grandi potenze si sentano autorizzate a utilizzare la forza delle armi ogni volta che non trovano altro modo per imporre la propria volontà. Per quanto riguarda la Russia, era già successo negli anni passati con l’aggressione alla Cecenia (1999-2009) e alla Georgia (2008). Per quanto invece riguarda l’Occidente, possiamo citare l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Ovviamente una giustificazione è fornita sempre, possibilmente nobile. Ad esempio: la difesa della libertà, l’esportazione della democrazia, la liberazione delle donne. E, naturalmente, la sicurezza, ragione principe invocata anche dalla Russia per giustificare l’invasione dell’Ucraina.
Crimea e Donbass
Fino al 1991, l’Ucraina era una delle Repubbliche dell’Unione Sovietica. Poi, quando l’Urss si disgregò, divenne una nazione indipendente, al pari della Russia. Con una popolazione di 44 milioni di persone, il 70% dei residenti in Ucraina parla ucraino, l’altro 30% russo, porzione collocata soprattutto nella parte meridionale e orientale del paese, in particolare nelle regioni della Crimea e del Donbass. Da vari anni in queste regioni si erano sviluppati movimenti separatisti, che, nel 2014, diedero alla Russia il pretesto per invadere e annettersi la prima. E non è un caso se, nel febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina è cominciata proprio con l’invio di truppe in Donbass, dove, va detto, il conflitto che dura da oltre un lustro ha già provocato all’incirca 14mila vittime da ambedue le parti, le milizie filo russe e l’esercito ucraino.
La Crimea venne occupata sostenendo che lo chiedeva la popolazione locale. In realtà interessava alla Russia per la sua posizione strategica: affacciata sul Mar Nero, essa permette alle fregate russe di raggiungere il Mediterraneo attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli. Ma l’invasione avvenne nel febbraio 2014, una data che, collegata ad altri eventi, mostra come l’annessione della Crimea avesse anche un altro scopo, al tempo stesso punitivo e intimidatorio. Da tempo fra Ucraina e Unione europea erano in corso trattative per stipulare un accordo di libero scambio (in vista di una piena adesione all’Ue), ma quando arrivò il tempo della firma, nel novembre 2013, il presidente in carica, Viktor Janukovyč, si rifiutò di farlo. Immediatamente nel paese si svilupparono vaste proteste represse nel sangue dalla polizia ucraina. Esse, però, alla fine ebbero come risultato la fuga e la messa in stato di accusa di Janukovyč. Le proteste popolari mostrarono chiaramente che una larga fetta della popolazione voleva e vuole un processo di avvicinamento all’Unione europea, ma questo alla Russia non è mai piaciuto. E qui sta il vero nodo del contendere: la Russia non tollera di avere un paese confinante deciso ad orbitare attorno a un altro centro gravitazionale. Non lo tollera per ragioni economiche e per ragioni militari.
Ucraina e Unione Europea
Come c’era da aspettarsi, nella fase iniziale di spezzettamento dell’Unione Sovietica, le relazioni economiche dell’Ucraina erano principalmente con Mosca. Tuttavia, un po’ alla volta, la Russia è stata sostituita con l’Unione europea che, oggi, assorbe il 43% delle esportazioni ucraine e contribuisce al 41% delle sue importazioni. I settori forti dell’economia ucraina sono la siderurgia, l’agricoltura, il settore minerario. Settori che la rendono importante perfino a livello mondiale. In campo agricolo, ad esempio, l’Ucraina è il primo esportatore mondiale di olio di girasole, il terzo produttore al mondo di patate e il quinto esportatore di grano. In ambito minerario è il primo paese europeo per riserve di uranio, il secondo paese del mondo per riserve di ferro, l’ottavo al mondo per riserve di carbone, minerale tornato tristemente in auge.
L’Ucraina svolge un ruolo importante anche come paese di transito del gas russo. Ruolo che tuttavia si è andato attenuando da quando nel 2012 è entrato in funzione il Nord Stream, il gasdotto che porta il gas direttamente in Germania passando per il Mar Baltico. Tant’è che oggi solo il 30% del gas russo diretto all’Europa passa per l’Ucraina, con danno evidente per l’economia del paese che si vede ridurre gli introiti per questo servizio. Pur con questo neo, nell’ultimo decennio l’economia ucraina è cresciuta costantemente. Con i suoi 44 milioni di consumatori, molti servizi pubblici privatizzabili, abbondanza di terre agricole, vasti giacimenti da sfruttare, l’Ucraina esercita un forte appeal sull’Unione europea che, pur di averla come 28° membro, ha anche deciso di spenderci. Dal 2014 a oggi, l’Unione europea ha sborsato all’Ucraina 17 miliardi di euro, parte a fondo perduto, parte sotto forma di prestiti, per consentirle di portare avanti le riforme necessarie a poter entrare nell’Unione. La Russia, da parte sua non ha speso neanche un rublo, ma vorrebbe tanto che l’Ucraina divenisse il sesto membro dell’«Unione economica euroasiatica», l’alleanza economica instituita nel 2014 fra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.
Il ruolo della Nato
Più dello smacco economico, a innervosire la Russia è però la questione militare. Quando il mondo comunista cominciò a disgregarsi, sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, esistevano due alleanze militari: da una parte il Patto di Varsavia, dall’altra l’Alleanza Atlantica, in sigla Nato.
Il Patto di Varsavia era stato istituito nel 1955 e, oltre all’Unione Sovietica, comprendeva altri sette paesi del blocco comunista: Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Bulgaria, Ungheria e Albania. Il Patto Atlantico, invece, era stato istituito nel 1949 e oltre a Stati Uniti e Canada, comprendeva un’altra decina di stati europei del blocco capitalista. Le due alleanze avevano entrambi lo scopo di permettere ai paesi aderenti di sostenersi a vicenda nel caso uno di loro fosse stato attaccato da un paese del blocco opposto. Con il disgregarsi del blocco comunista e il conseguente sfaldamento del Patto di Varsavia, molti si dissero che la Nato non aveva più ragione d’esistere, ma invece di dissolversi si rafforzò perché molti paesi ex comunisti chiesero di farne parte. E oggi la Nato è un’alleanza militare formata da30 paesi, che complessivamente spendono in armamenti oltre 1.000 miliardi di dollari all’anno, oltre le metà della spesa mondiale per armamenti che, nel 2021, è stata pari a 1.981 miliardi. In testa gli Stati Uniti che da soli hanno speso 778 miliardi, il 39% della spesa mondiale. La Cina, seconda in classifica, spende 252 miliardi, mentre la Russia si attesta a 62 miliardi dietro l’India che ne ha spesi 73. In termini di spesa pro capite fa 2.364 dollari per gli Usa e 430 per la Russia.
Oltre a chiedere dientrare nell’Unione europea, l’Ucraina chiede di entrare anche nella Nato. Il processo di ammissione è in atto in entrambi i casi. Per l’entrata nell’Alleanza, un tavolo di consultazione permanente è stato istituito nel 1997. Nel frattempo, sono possibili piani di collaborazione, come l’invio di istruttori militari da parte della Nato o la messa a disposizione di truppe da parte del nuovo candidato, per operazioni militari che coinvolgono la Nato. Ad esempio, nel 2003 l’Ucraina ha inviato in Iraq qualche migliaio di soldati che ci sono rimasti fino al 2008. Scelta ripetuta nel 2007 con l’invio di truppe in Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno ringraziato, inviando 2,7 miliardi di dollari dal 2014 a oggi per il rafforzamento dell’esercito ucraino.
Intanto, nel 2017, un nuovo atto del parlamento ucraino ha confermato la richiesta di ingresso nella Nato, permettendo al presidente Zelensky di proseguire con le procedure di ammissione. La Russia però si oppone strenuamente a questa prospettiva, perché non gradisce l’idea di avere basi e truppe Nato a ridosso dei propri confini. Da un trentennio Mosca si oppone all’allargamento dell’Alleanza Atlantica, chiedendo all’Ucraina di scegliere la strada della neutralità, come fanno vari altri paesi in Europa: Moldova, Svezia, Finlandia, Austria, Irlanda, Svizzera. E, fra tutti, il riferimento è la Finlandia, paese nordico che confina con la Russia. La Finlandia fece la scelta della neutralità nel lontano 1955 come contropartita dello smantellamento della base militare russa a Porkalla, un porto navale a pochi chilometri da Helsinki. Un precedente storico che dovrebbe far riflettere.
Tra sanzioni e armi
Fortunatamente, la scelta effettuata dall’Occidente come contromisura contro le ripetute aggressioni russe è stata quella delle sanzioni economiche, anche se, in controtendenza, in occasione dell’aggressione di febbraio è stato deciso di inviare anche armi alle forze ucraine. Scelta che era meglio non fare, ricordandoci che, secondo l’articolo 11 della Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Che non significa rinunciare a difenderci o tollerare qualsiasi sopruso e arroganza, ma rivedere il modo di opporci alle violenze. La politica perseguita fino a oggi dall’Occidente, Italia compresa, è l’attuazione del motto «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace prepara la guerra. La cosa da fare è ribaltare questo postulato affermando che la pace si prepara con la pace. Che in concreto significa due cose.
La prima: prepararci a forme di difesa basate sulla non collaborazione. Ad esempio, nel caso ucraino piuttosto che armi avremmo dovuto inviare corpi civili di pace col duplice scopo di soccorrere la popolazione locale e mettere in difficoltà l’esercito invasore.
La seconda scelta è quella di smettere di intervenire a cose fatte, quando il vaso si è rotto e cercare invece di prevenire la rottura del vaso. Che, fuori di metafora, significa lavorare per la distensione invece che per la tensione. Oggi, un passo fondamentale in questa direzione sarebbe lo smantellamento della Nato e di qualsiasi altra organizzazione militare che crea blocchi militari. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è la chiara dimostrazione di come i blocchi militari generino paura e la paura generi violenza.
I vuoti proclami delle Nazioni Unite
L’unica strada per interrompere l’escalation militare è il multilateralismo. Il rafforzamento, cioè, di sedi internazionali all’interno delle quali portare i dissidi internazionali con l’intento di trovare soluzioni basate sulla mediazione e l’accordo, piuttosto che sulle armi. L’umanità aveva già fatto un tentativo in questa direzione tramite l’istituzione delle Nazioni Unite. Ma non ci ha creduto abbastanza e oggi le Nazioni Unite sono poco più di un luogo dove si pronunciano vuoti proclami. È arrivato il tempo di cambiare tutto questo.
Francesco Gesualdi
Dalla schiavitù al Cristo negro
I conquistatori portarono nelle Americhe gli africani e il cattolicesimo. Che tipo di relazione s’instaurò tra gli schiavi neri e la religione? Come si arrivò alle effigi nere venerate in molti paesi latinoamericani?
La storia degli schiavi africani a Panama, le loro lotte e la loro presenza sul territorio sono vincolate in modo profondo e simbolico all’identità di tutta la regione. Nel XVI secolo gli schiavi insorti Felipillo e Bayano liberarono centinaia di loro compagni dal giogo spagnolo trasformando l’istmo panamense in un territorio della resistenza contro l’oppressione degli uomini su altri uomini. Una geografia articolata che passa dal Corridoio del Darien, la selva che oggi unisce Panama con la Colombia (dove appunto operarono Bayano e Felipillo), a quella che viene chiamata «Costa Arriba» (nell’attuale provincia di Colón), dove successivamente si svilupparono i principali insediamenti di afrodiscendenti. Proprio nella zona di Costa Arriba, nel 1502, arrive Cristoforo Colombo durante il suo quarto viaggio in quelle che ancora non si chiamavano Americhe. La città di Nombre de Dios venne fondata nel 1510 da Diego de Nicuesa ed è considerata il più antico insediamento, ancora abitato, costituito nell’America continentale dagli europei. La cittadina di Nombre de Dios ebbe fortune alterne: abbandonata e ripopolata nel 1519, saccheggiata e incendiata dai pirati nel 1572 e nel 1596. Dopo l’incendio del 1596 ad opera del corsaro inglese Francis Drake, la popolazione venne spostata nella vicina Portobelo, in una zona più salubre e fortificabile, un luogo nel quale si sarebbe concentrata la storia e la tradizione afrodiscendente. In tutta la provincia di Colón troviamo comunità afropanamensi, ma senza dubbio Portobelo rappresenta il loro centro identitario più forte. All’epoca non era un luogo di permanenza della popolazione nera, ma era sicuramente uno dei nodi commerciali di transito più importanti. Con il tempo però si formarono delle comunità afrodiscendenti stabili che si organizzarono nei quartieri di Guinea e Malambo, veri e propri conglomerati di tradizione africana e sincretica.
È proprio in questa cittadina affacciata sui Caraibi che si trova un simbolo di pellegrinaggio e ragione identitaria del cattolicesimo nero (e non solo) a Panama: il Cristo negro di Portobelo. Un’effige che ci offre la possibilità di esplorare una pagina importante del passato e del presente afrodiscendente della regione latinoamericana e caraibica. Si tratta, infatti, di una storia che affonda le radici nel tempo della colonia spagnola e che, se da un lato è avvolta dal mito, dall’altro rispecchia una relazione controversa delle comunità afrolatine e afrocaraibiche con il credo cattolico.
21 ottobre 1658: l’arrivo
Non c’è una verità certa sull’orgine di questa effige sacra. Esistono, infatti, almeno tre versioni diverse su come e perché il Cristo negro sia arrivato a Portobelo: ad ogni modo tutte coincidono sulla data, cioè il 21 di ottobre del 1658.
La prima versione, conosciuta come «la cassa e la tempesta», parla di una nave spagnola che sulla rotta per Cartagena de Indias (Colombia) fece scalo a Portobelo. Ogni volta che l’equipaggio si preparava a salpare per raggiungere la destinazione finale si alzava un forte vento e la tempesta li obbligava a ritornare al porto. Al quinto tentativo la nave subì notevoli danni e sfiorò per poco un drammatico naufragio. Fu a quel punto che per rendere la nave meno pesante e quindi più maneggevole, l’equipaggio gettò in mare parte del carico riuscendo a riprendere la navigazione. Tra gli oggetti che vennero lanciati fuori bordo c’era una cassa che venne ritrovata poco dopo da alcuni pescatori del posto. Quando questi la aprirono, con grande sorpresa videro che conteneva l’immagine del Nazareno: un Cristo negro che venne subito portato al villaggio e collocato nella chiesa.
La seconda versione, conosciuta come «la cassa e l’epidemia» parte dal punto nel quale dei pescatori incontrarono una cassa sulla spiaggia. Aprendola, scoprirono al suo interno il Cristo negro. Interpretarono il fatto come un segno, giacché la zona era afflitta in quel momento da una terribile epidemia di colera (o di vaiolo, secondo le versioni). L’effige venne collocata nella chiesa di Portobelo e – come narra la leggenda – quasi immediatamente l’epidemia cessò e i malati furono miracolosamente sanati.
La terza versione parla di un errore, ed è infatti conosciuta come «lo scambio di effigi». Secondo questo racconto, il Cristo negro arrivato a Portobelo era inizialmente destinato alla chiesa di Taboga, una piccola isola nel pacifico di fronte alla costa della città di Panama. Quella comunità aveva infatti commissionato a un artigiano spagnolo un’immagine di Gesù Nazareno. Allo stesso artigiano era stata però commissionata anche una statua di San Pietro proprio da parte della comunità di Portobelo. Durante il viaggio dalla Spagna ci fu un errore di consegna e così, mentre la chiesa di Taboga ricevette l’effige di San Pietro, quella di Portobelo ricevette il Gesù Nazareno. La leggenda racconta che tutti gli sforzi fatti per rimediare all’errore furono infruttuosi: infatti tutte le volte che si pianificava lo spostamento del Cristo negro da Portobelo succedeva qualcosa che lo impediva. A quel punto la comunità afrodiscendente del luogo interpretò gli eventi come un segnale divino, decidendo che Portobelo sarebbe stata la nuova casa del Cristo negro. Parte di questo racconto è fortemente radicato nella tradizione orale, tanto che nel mese di ottobre, quando si canta e si balla di fronte al simbolo della città, le persone recitano: «En Portobelo te quedaste, como signo de tu amor» (A Portobelo sei rimasto, come segno del tuo amore).
Ogni anno a partire dal 15 di ottobre si assiste a una manifestazione di fede e devozione che supera di molto i confini di Portobelo e della provincia di Colón. Sono infatti migliaia le persone che da tutta Panama fanno lunghi pellegrinaggi per andare a incontrare il Cristo nero nella settimana della sua celebrazione che ha il suo culmine il 21 di ottobre. Processioni fatte a piedi o in ginocchio, rituali sincretici e celebrazioni festose che vedono nel colore viola il protagonista delle cerimonie. Ma la devozione del Cristo negro di Portobelo ha superato anche le frontiere di Panama, tanto che pure Ismael Rivera, l’indimenticato cantante portoricano, ha scritto una canzone in suo onore: «El Nazareno».
La Chiesa cattolica e la schiavitù
Nel periodo della schiavitù in America Latina e nei Caraibi, la Chiesa cattolica ha difeso il potere delle persone bianche, usando modi formali (le leggi) e informali per garantire in primis agli europei cattolici le migliori posizioni, titoli e altri privilegi. Ai neri, ai meticci e agli indigeni è stato impedito di occupare incarichi di responsabilità all’interno delle società, con la motivazione che non avevano tradizione cattolica o titoli nobiliari che garantissero la loro capacità ad adempiere a tali funzioni. Gli argomenti utilizzati erano di natura teologica e sociale. Si affermava che questi gruppi appartenessero a una razza impura e che il loro sangue fosse macchiato e irredimibile. È da qui che prende origine l’espressione della «razza infetta», che appare in molti documenti dell’epoca coloniale. Non si trattava però solo di idee, ma di qualcosa di strutturale nella pratica quotidiana. Per ricoprire incarichi ufficiali il candidato doveva dimostrare di avere il «sangue pulito», cioè di non avere ascendenti appartenenti alle «razze» impure. Solo in quel caso sarebbe stato considerato una persona degna di fiducia, buona, virtuosa, timorota di Dio e onorata. La tradizione cattolica occupava uno dei posti più alti nella scala valoriale della società dominante. Pertanto, l’afrodiscendete poteva scegliere tra due sole alternative: o adattarsi ai valori della cultura bianca ed europea di impronta cattolica (assimilando usi e costumi di una cultura che non gli apparteneva) o recuperare le proprie radici religiose afro, che mantenevano le tradizioni nei culti e nelle celebrazioni principalmente animiste. Adeguandosi al modello europeo, il nero, divenuto cattolico, cessava dunque di vivere tutta la ricchezza culturale ereditata dall’Africa, dimenticando le questioni razziali e sposando una narrazione che promuoveva e giustificava la schiavitù. Tutto questo basato sul silenzio complice e interessato della Chiesa nella questione razziale e sociale. L’evangelizzazione ha necessariamente attraversato un processo di occidentalizzazione, promuovendo, per diventare più praticabile, il deterioramento delle tradizioni ancestrali nella popolazione afrodiscendente. Da qui dobbiamo partire se vogliamo capire come il cristianesimo si è rapportato con le comunità di schiavi africani e afrodiscendenti in America Latina e nei Caraibi.
Il sistema coloniale operava l’evangelizzazione forzata delle comunità, proibiva i riti tradizionali animisti (satanizzandoli) e usava la punizione corporale per quelle pratiche che venivano etichettate come eretiche. In questo contesto, la popolazione afrodiscendente, per la maggior parte schiavi, ha dovuto adattare la propria religiosità. L’ha fatto nascondendo la ritualità del suo credo sotto immagini di santi cristiani creando in tal modo una forma di religiosità sincretista.
Tra i santi neri venerati nella regione ricordiamo San Benedetto da Palermo, Santa Efigenia de Etiopia e San Martín de Porres (peruviano e unico caso di santo afrodiscendente autoctono). Caso particolare è poi quello di San Baltasar o Santo Cambá, molto amato in Argentina e Uruguay, ma il cui culto è praticato in modo paraliturgico, poiché per la Chiesa cattolica, San Baltasar non è canonizzato.
Sincretismo e praticità
Oltre al culto dei santi, esistono culti legati al Cristo nero e alla Vergine nera. Se, da un lato, nel caso della Vergine, non possiamo escludere elementi sincretici di identificazione di Maria con divinità femminili amerinde o africane come Pacha mama o Yemayá, dall’altro la spiegazione comunemente accettata riguarda semplicemente il metodo di produzione delle immagini sacre. Il motivo di questa tonalità scura, infatti, è molto semplice: nel mondo medievale la maggior parte delle immagini di culto erano realizzate in legno, un materiale igroscopico che subiva notevoli variazioni con l’umidità ed era anche facile preda di funghi e tarli o termiti. Per questo gli scultori cercavano un modo per renderle il più possibile resistenti e inalterabili. Nella maggior parte dei casi lo fecero con uno strato di bitume che le proteggesse da umidità e insetti. Gli artigiani, quindi, dopo aver intagliato l’effige sacra in un legno comune (noce, pioppo, o cipresso), la ricoprivano con bitume o altre sostanze protettive di colore scuro. A quel punto, si dipingeva l’immagine conferendo il colore appropriato alla pelle e ai vestiti. Più tardi, nel corso dei secoli, quel colore è andato via via scomparendo, portando in superficie il colore del bitume.
La Vergine nera
Il Cristo nero di Portobelo è dunque in buona compagnia giacché sono decine le immagini della Vergine nera venerate in America Latina e nei Caraibi: Virgen del Valle, a Catamarca, Argentina; Nuestra Señora Aparecida, in Brasile; Nuestra Señora de los Ángeles (la Negrita), a Cartago, Costa Rica; Nuestra Señora de la Monserrate, a Hormigueros, Porto Rico; Virgen de Regla, a L’Avana, Cuba; Nuestra Señora de Itati, a Corrientes, Argentina; la Virgen Negra de los Ángeles de Atocha, a Montalbán, Venezuela.
La Virgen de Guadalupe in Messico è colei che ha originato il culto mariano più diffuso nelle Americhe. È riconosciuta dalla Chiesa cattolica come la «patrona d’America» ed è chiamata colloquialmente La Morenita. In realtà questo aggettivo che dovrebbe far riferimento al tono della sua pelle, non riguarda l’immagine che si trova in Messico, ma deve la sua origine alla somiglianza di questa Vergine con quella del Monastero reale di Santa Maria di Guadalupe, nella provincia di Cáceres (Extremadura, Spagna), conosciuta in questo caso come la Vergine Nera o Nostra Signora di Guadalupe.
Diego Battistessa
Secolo XVI / Gli schiavi africani fuggiaschi
La lotta dei «cimarrones»
Nella Panama della colonia spagnola il fenomeno del cimarronaje («darsi alla macchia», da «cimarra», boscaglia) iniziò fin dai primi decenni del 1500, proprio con l’arrivo dall’Africa dei primi «carichi» di forza lavoro schiavizzata. Gli schiavi vennero portati nell’istmo per svolgere diversi lavori: uno dei principali era la pesca delle perle. Un’attività che, al pari della vita delle miniere d’oro e argento, non solo era molto dura ma anche molto pericolosa: decine, infatti, furono gli africani morti per annegamento, per embolie polmonari o vittime di attacchi di verdesca (o squalo azzurro). A fronte di questa situazione iniziarono le fughe verso l’interno e verso la giungla del Darién. I cimarrones però non si nascondevano dagli spagnoli, li affrontavano in campo aperto e attaccavano le carovane che percorrevano la rotta commerciale dell’istmo che collegava i due oceani. Verso la fine del decennio del 1540, cominciarono a diffondersi notizie di uno schiavo liberto chiamato Felipillo, leader fuggito dalle zone perlacee e capace di organizzare i cimarrones in un palenque (villaggio autogestito di schiavi fuggiaschi, come i quilombos in Brasile, ndr) sulle rive del Golfo di San Miguel, nel Darién. Il compito di eliminare la minaccia dei cimarrones ricadde sul capitano Francisco Carreño che iniziò una guerra senza quartiere, infliggendo gravi e inumani castighi a coloro che venivano catturati. Le truppe di Carreño, dopo diverse scaramucce, scoprirono nel 1549 l’ubicazione esatta del palenque di Felipillo, che fu attaccato in forze e ridotto in cenere. Dopo aver ucciso il leader africano (1551), gli spagnoli probabilmente pensarono di aver eliminato il problema delle ribellioni nella zona, ma non avevano fatto i conti con l’esigenza psicofisica di libertà di coloro che erano stati schiavizzati. Poco dopo, altre ribellioni esplosero a Panama, guidate da capi come Antón Mandinga e il Negro Mozambique (che non ebbero molta fortuna) e soprattutto da Bayano, lui sì erede dello spirito di Felipillo.
D.Ba.
Argentina. L’avanzata della polvere bianca
Da tempo, l’Argentina è divenuta un grande consumatore di droghe. Il problema riguarda soprattutto la cocaina e i suoi derivati a basso costo. Lo stato, sempre alle prese con l’emergenza economica (la povertà è oltre il 40%), è inadeguato nell’affrontare la questione. Qui come altrove.
Villa Puerta 8 è un barrio piccolo: appena una ventina di manzanas (nome con cui si indicano le aree urbane i cui lati – denominati cuadras – sono costituiti da strade) dove vivono 170-180 famiglie per un totale di circa 700 persone. Sorge a lato del torrente Morón, all’incrocio con la statale 8 (Ruta nacional 8), nelle vicinanze del centro del Ceamse, la società che si occupa dei rifiuti della capitale.
Villa Puerta 8 è nel territorio del municipio Tres de Febrero, distretto San Martín della Gran Buenos Aires. Il suo nome si trova anche nel Registro nacional de barrios populares (Renabap) che raccoglie informazioni su 4.416 insediamenti popolari del paese. Ma l’interesse delle autorità statali si ferma a questa iscrizione. Per il resto, è un luogo abbandonato, privo delle strutture minime come illuminazione pubblica, sistema fognario, strade pavimentate. Per questo la definizione di «villa miseria» si attaglia perfettamente al barrio.
Qui la povertà si vede e si tocca con mano. Una povertà che, secondo i dati ufficiali dell’Instituto nacional de estadística y censos (Indec), nel 2021 ha riguardato il 40,6 della popolazione argentina.
Villa Puerta 8 è uscita dall’anonimato nei primi giorni di febbraio quando nel barrio è stata venduta una partita di cocaina adulterata che ha provocato una strage: 24 morti e quasi 80 ricoverati per grave intossicazione. Secondo le ipotesi delle autorità investigative, la droga sarebbe stata addizionata con un analgesico, il fentanyl, un oppioide sintetico considerato da 50 a 100 volte più potente della morfina.
La droga è stata venduta in dosi di mezzo grammo chiuse in bustine sigillate di color rosa al prezzo di 350-700 pesos (3-6 euro).
La droga in Argentina
L’Argentina non può essere definito un «narcostato» come il Messico, la Colombia o l’Honduras. È però un paese di transito, elaborazione e consumo di droghe. Per quest’ultimo si trova ai primi posti tra i paesi americani, alle spalle di Stati Uniti, ma vicina a Brasile, Uruguay e Colombia.
La penetrazione delle droghe nella società trova conferme importanti.
Un recente studio dell’Observatorio de la deuda social argentina, prestigioso istituto della «Pontificia universidad católica argentina» (Uca), ha rilevato che, nell’anno 2021, il 23% delle famiglie nell’Argentina urbana ha segnalato la presenza di spaccio e/o traffico di droga nell’isolato, nel vicinato o nel quartiere in cui si trova. Questa percentuale sale però al 40-60% tra le famiglie che vivono nelle zone più povere come le villas. Al contempo, la vendita e il traffico di droghe diminuiscono notevolmente dove esiste una vigilanza permanente delle forze dell’ordine, di solito nei barrios di classe media o medio alta.
Negli ultimi due decenni, sottolinea la ricerca dell’Osservatorio dell’Uca, il consumo di sostanze è aumentato in maniera particolare tra gli adolescenti e i giovani e nei settori più vulnerabili ed emarginati della società.
La Chiesa cattolica: hogares e politica
In Argentina, la Chiesa cattolica aiuta ad affrontare il problema della tossicodipendenza attraverso proprie strutture di accoglienza e recupero (Centros barriales, «Centri di quartiere»), facenti capo all’Hogar de Cristo (dove «hogar» significa focolare, casa, famiglia), associazione nata nel 2008. Nella sola Buenos Aires sono attivi 23 centri, ognuno con le proprie peculiarità, ma tutti con la finalità dello «sviluppo umano integrale». I Centros barriales includono, quindi, l’offerta di pasti, vestiario e docce, gruppi terapeutici, terapia individuale, laboratori (teatro, cinema, sport, ecc.), formazione al lavoro.
Il 4 febbraio, subito dopo la tragedia di Villa Puerta 8, i vescovi della regione di Buenos Aires hanno rilasciato un comunicato in cui si commentavano i fatti partendo da un’affermazione: «la droga uccide» (la droga mata).
Viene riportata la testimonianza di una madre di un tossicodipendente: «Mio figlio non ha ricevuto assistenza, perché se lui non vuole essere ricoverato nessuno lo prende in cura. Dormiva tutto il giorno e usciva la notte. Non riusciva a trovare un lavoro. E quando aveva un lavoro, spendeva tutto per la droga. Dall’età di 14 anni è un consumatore e da allora io sto combattendo».
Che l’esistenza quotidiana risulti sconvolta quando entra in gioco la droga è un dato di fatto. «Il problema più grande del consumo cronico – si legge sul sito dell’associazione Fundartox – è la discesa nella scala dei valori e il cambiamento nel comportamento del tossicodipendente. Costui abbanda i comportamenti più elementari di cura di sé (cibo, igiene personale), inizia a vendere i beni personali, se lavora spende il denaro destinato alla famiglia. Per mantenere il consumo, molti praticano sesso a pagamento (entrambi i sessi). La perdita delle regole sociali vissuta dall’utilizzatore lo trasforma in un altro essere, una situazione che potrebbe essere definita sindrome sociopatica. Il consumo di pasta base [di cocaina] amplifica la vulnerabilità sociale di origine, sia della persona che della sua famiglia. La dipendenza è un fenomeno complesso, va ricercata una cura medico-sociale, che non sia semplicemente la reclusione quando si commette un reato all’interno della dinamica della dipendenza».
Nel loro comunicato, i vescovi di Buenos Aires hanno ribadito la propria posizione contraria a normative che depenalizzino il consumo di alcune sostanze: «La depenalizzazione del consumo, la legalizzazione delle sostanze – si legge nel comunicato dei prelati -, non farà che aumentare il consumo e la marginalità. Sicuramente nella società prenderà piede l’idea che le droghe legali non fanno male: le droghe uccidono sempre».
Ancora più duro mons. Manuel Fassi, vescovo di San Martín, nell’omelia di domenica 6 febbraio: «Capiamolo bene, non esiste una droga buona e una cattiva, ogni droga è cattiva perché danneggia e uccide. Che sia legale o illegale, può sempre finire per uccidere la persona che la consuma. Non capiamo come possano riapparire progetti di legge che vogliono legalizzare, quando la cosa più necessaria sarebbe che appaiano politiche statali che propongano leggi di protezione e cura delle persone vulnerabili».
Abbiamo chiesto un commento a Cecilia Gonzáles, giornalista messicana dal 2002 in Argentina, autrice di vari libri sulle tematiche del narcotraffico (Narcosur, Narcofugas, Todo lo que necesitas saber sobre narcotráfico, quest’ultimo uscito anche in Italia). «Come nel resto del mondo – ci ha spiegato -, anche in Argentina il consumo di droghe è cresciuto in maniera esponenziale. Tuttavia, non c’è paragone con il Messico, il mio paese, dove si combatte una vera e propria narcoguerra».
Abbiamo chiesto alla giornalista chi siano i consumatori di droga in Argentina. «Ce ne sono – ha risposto – in tutti gli strati sociali. Le sostanze di migliore qualità si vendono tra le classi superiori, le peggiori nelle villas».
Come hanno dimostrato i fatti di Puerta 8. «Quella tragedia ha testimoniato, ancora una volta, il fallimento delle politiche statali in materia di droghe. Con la criminalizzazione dei consumatori e l’assenza di misure di salute pubblica. Occorre cambiare registro regolando i mercati e abbandonando la militarizzazione», ha commentato Cecilia Gonzáles.
La droga nel mondo: che fare?
L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulle droghe nel mondo – World drug report 2021 -, dopo aver analizzato nel dettaglio numeri, trend e prospettive, non lascia molto spazio all’ottimismo. «L’uso di droghe ha ucciso quasi mezzo milione di persone nel 2019, mentre i disturbi causati dal loro utilizzo hanno provocato la perdita di 18 milioni di anni di vita sana, principalmente a causa degli oppioidi. Malattie gravi e spesso letali sono più comuni tra i tossicodipendenti, in particolare quelli che si iniettano farmaci. Molti di essi convivono con l’Hiv e l’epatite C. Il traffico illecito di droga continua a frenare anche l’economia e lo sviluppo sociale, mentre ha un impatto sproporzionato sui più vulnerabili ed emarginati, e costituisce una minaccia fondamentale per la sicurezza e la stabilità in alcune parti del mondo. Nonostante i comprovati pericoli, l’uso di droghe persiste e, in alcuni contesti, prolifera. Nell’ultimo anno, circa 275 milioni di persone hanno fatto uso di droghe, in aumento del 22% rispetto al 2010. Entro il 2030, i fattori demografici prevedono che il numero di persone che faranno uso di droghe cresceranno dell’11 per cento in tutto il mondo e del 40 per cento nella sola Africa». Se tutti concordano sulla gravità del problema, le posizioni sono molto distanti rispetto a come affrontarlo con una netta contrapposizione tra proibizionisti (e sostenitori della «guerra alla droga») e legalizzatori (almeno di alcune sostanze).
Dubbi sono sorti anche a Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. L’ex presidenta cilena, tra l’altro di professione medico, nel corso della 26ª Conferenza sulla riduzione dei danni da stupefacenti (Oporto, aprile 2019) ha ammesso che la cosiddetta «guerra contro le droghe» ha fallito e che il consumo è aumentato invece di diminuire.
«La guerra alle droghe deve finire» (The war on drugs must end) ha sentenziato a luglio 2021 un editoriale di «The Lancet», la più prestigiosa rivista medica del mondo.
Il fallimento del proibizionismo
Un intervento statale per regolarizzare il consumo di droghe pare comunque lontano.
«È un altro – ci ha spiegato Cecilia Gonzáles – dei pregiudizi che circondano l’uso di sostanze: l’hanno imposto un secolo fa ed è molto difficile disarmare quella narrativa. Non sappiamo davvero cosa può succedere con una regolamentazione. Quello che sappiamo, perché l’evidenza lo dimostra, è che il proibizionismo ha fallito».
Al momento sono due i paesi che stanno percorrendo strade alternative: l’Uruguay (dal dicembre 2013) e il Portogallo (dal novembre 2000). E sono le politiche sulla droga del paese lusitano che stanno ottenendo i risultati più significativi (riconosciuti, a maggio 2019, anche da un editoriale di The Lancet).
Per parte sua, il medico francese Michel Kazatchkine, membro della Global commission on drug policy (Ginevra), ha affermato: «I governi dovrebbero impegnarsi per un uso sicuro delle sostanze. Occorre affrontare il mondo così com’è. Un mondo libero dalle droghe non esiste».
Il dibattito rimane aperto.
Paolo Moiola
Archivio MC
● Reportage su droga e minori a Buenos Aires e in Brasile:
due video dell’autore su gruppi di minori consumatori di «paco» nelle strade di Buenos Aires sono visibili a questo indirizzo di YouTube:youtube.com/user/pamovideo
Glossario minimo
● Droga:
nome generico dato a sostanze che, una volta introdotte nell’organismo, agiscono sul sistema nervoso centrale provocando cambiamenti che possono influenzare il comportamento, l’umore o la percezione e predispongono alla ripetizione del consumo.
● Paco / crack:
è un residuo della pasta (pa) base di cocaina (co). Si commercializza tagliato con talco, caffeina, bicarbonato di sodio o anfetamine (ma anche con ingredienti meno nobili come veleno per topi). Si fuma in pipe artigianali. È venduto a un prezzo molto basso, produce rapida dipendenza, ha effetti devastanti sull’utilizzatore (immunologici, neurologici, psichici). Il paco è diverso dal crack, altra droga molto economica, che però si ottiene partendo dal cloridrato di cocaina e non dalla pasta base.
● Narcomenudeo:
commercio di droghe illecite su piccola scala; i narcomenudistas sono le persone che si dedicano a quel commercio.
● Cocinas:
laboratori casalinghi argentini dove si processa la pasta base di cocaina importata dai paesi confinanti.
● Kioscos / búnkers:
i luoghi dove si trovano i venditori della droga.
● Soldaditos / pajaritos / esquineros:
sentinelle, di solito minori d’età, che avvertono nel caso di arrivo di estranei nelle zone di spaccio.
● Bolseros:
gli addetti, di solito minori, che consegnano le bustine di droga ai consumatori.
● Hogares:
«case d’accoglienza» per emarginati e tossicodipendenti, di solito gestiti da organizzazioni cattoliche (salesiani di don Bosco, Hogar de Cristo, etc.).
● Villas miserias:
in Argentina, si dà il nome di «villa» alle occupazioni spontanee di terreni. Si tratta, pertanto, di insediamenti umani informali, privi dei servizi urbani basilari (acqua, fognature, energia elettrica, ecc.). Storicamente, la prima villa sorse a Buenos Aires agli inizi del 1930 e si chiamò «Villa desocupación».
Successivamente, questi insediamenti presero il nome di «villas miserias», prendendo spunto dal romanzo Villa Miseria también es América (1957) dello scrittore Bernardo Verbitsky.
Paolo Moiola
Rom, rifugiati nei margini
8 aprile: Giornata internazionale dei Rom, Sinti e Camminanti
Antonio vive in un camper con la sua famiglia, costretto alla marginalità come decine di migliaia di altri Rom in Italia e in Europa.
Le radici della sua condizione affondano nella storia delle popolazioni romanì nel nostro continente, segnata da secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata.
Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.
Antonio vive in un camper con la sua famiglia nella zona Nord di Torino. Costretto a stare per strada, è esposto ai pericoli del vivere isolato. Nei primi mesi della pandemia non può svolgere le attività informali che prima gli davano da mangiare e, in più, subisce continui controlli delle forze dell’ordine. La condizione di violazione dei diritti di centinaia di persone costrette, come Antonio, a vivere un nomadismo forzato, pare senza via d’uscita.
Tra fine febbraio e inizio marzo 2020, il numero dei contagi e delle morti provocate dal Covid-19 porta rapidamente l’Italia dentro il primo lockdown. Uscire di casa è proibito, a meno che non sia strettamente necessario. È obbligatorio compilare un’autocertificazione per qualsiasi spostamento. Se si esce di casa si può essere fermati, identificati e, nel caso di violazioni delle misure straordinarie, sanzionati.
Antonio e il nomadismo forzato
Conosciamo Antonio in un pomeriggio di marzo 2020. C’è il sole a Torino. Nei minimi spostamenti consentiti per le strade del nostro quartiere, Barriera di Milano, passiamo spesso vicino ai camper e ai furgoni di alcune famiglie. Sono persone sgomberate da «campi nomadi» legali e da baraccopoli illegali della zona Nord e disperse dalle forze dell’ordine in giro per la città.
Quello che potremmo chiamare il «popolo dei camper», è cresciuto nel territorio torinese nel giro di pochissimi anni grazie al «Progetto speciale campi nomadi» della giunta 5 Stelle che, a partire dal 2017, ha sgomberato e sfollato individui e famiglie da svariati insediamenti e baraccopoli formali, tollerate e informali in tutta la città.
Una pratica odiosa, parte di una campagna elettorale permanente sulla pelle di persone povere e senza casa, che ha provocato ulteriore sofferenza e nomadismo forzato dopo gli sgomberi della precedente giunta Pd, non ultimo quello di circa duemila persone dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio nel 2015.
Molti hanno deciso di vivere nei camper perché costretti dagli sgomberi, o perché in fuga dai campi autorizzati gestiti dal comune, dentro i quali i conflitti e la violenza sono intollerabili.
I campi autorizzati, infatti, non sono come gli insediamenti informali che si creano sulla base di gruppi e famiglie che si conoscono, hanno origini, lingua, tipo di attività informali comuni, e nei quali, in genere, ci sono reti di solidarietà e cooperazione. Quelli formati dal comune sono spazi di segregazione dove ogni tipo di convivenza è forzata e artificiale. Al loro interno sono costrette a convivere famiglie e gruppi che non hanno nulla da condividere se non la povertà, il mancato accesso a una casa, e l’etichetta etnica tanto cara agli uffici speciali per «nomadi» che li considera, appunto, «nomadi», e quindi adatti ad abitare nella precarietà ed emarginazione.
Fermati sei volte al giorno
I nostri vicini di casa in camper sono proprio tra quelle famiglie costrette a lasciare i campi.
Antonio vive per strada con la sua famiglia e parcheggia spesso da queste parti.
Nei giorni del lockdown ci capita di passare a salutarlo. A volte gli portiamo un pacco di mascherine difficili da trovare.
Una volta, mentre siamo con lui, veniamo avvicinati con fare aggressivo da vigili in borghese per essere identificati. Fermano solo noi, mentre altre decine di persone sostano o transitano indisturbate sullo stesso marciapiede.
Nelle settimane seguenti, Antonio, sua moglie e i suoi bambini, tutti molto piccoli, verranno identificati fino a cinque, sei volte al giorno da qualsiasi forza dell’ordine.
All’esasperazione procurata dalla cosa in sé, si aggiunge la preoccupazione per il contagio: essere avvicinati da estranei potenzialmente infetti così di frequente non lascia tranquillo Antonio.
Cosa succede in via Germagnano
Il primo lockdown stabilisce restrizioni alla libertà di movimento di tutta la popolazione.
Nel quartiere osserviamo che il comportamento delle forze di polizia diventa più aggressivo e che si concentra in particolare su chi non può «restare a casa» perché una casa non ce l’ha.
Oltre a colpire, in generale, le persone fragili o considerate problematiche, il lockdown toglie qualsiasi possibilità di reddito a chi abitualmente cerca oggetti da recuperare nei bidoni della spazzatura o ricicla e separa i metalli.
All’improvviso, a Torino, migliaia di persone che riuscivano a sopravvivere grazie alle attività informali legate al mercato di libero scambio di via Carcano e del Balon o a quello di Porta Palazzo, non possono più lavorare.
In queste stesse settimane in via Germagnano continuano le operazioni di sgombero del «Progetto speciale campi nomadi» sottoscritto nel dicembre 2019 da regione Piemonte, comune di Torino, prefettura e diocesi. Il progetto, che parla di «superamento dei campi», prevede, di fatto, di radere al suolo le baraccopoli di via Germagnano, sia quella formale costruita dal comune durante la giunta Chiamparino nel 2004 (la più grande di Torino dopo quella di Lungo Stura Lazio, sgomberata alla fine del 2015 dall’amministrazione Pd con il progetto «La città possibile»), sia quelle proliferate nell’arco di vent’anni, abitate in prevalenza da persone originarie della
Romania, e raddoppiate proprio in conseguenza dello sgombero del 2015.
Con le restrizioni dovute all’emergenza, nessuno al di fuori del campo può raggiungere le baraccopoli per capire cosa sta realmente accadendo. Alcuni amici sotto sgombero che abitano lì, possiamo solo sentirli al telefono.
Nonostante l’emergenza sanitaria, i controlli da parte del Rime, il Reparto informativo minoranze etniche, nuova denominazione politicamente corretta del «nucleo nomadi» della polizia municipale di Torino, sono continui e, non appena la persona o la famiglia non è presente, la baracca viene sequestrata e, spesso, distrutta. A volte le persone tornano a casa dopo poche ore e trovano la propria abitazione demolita con tutti i loro beni personali all’interno. Lo shock, il dolore, il senso d’impotenza, la sofferenza di fronte ad abusi che non saranno mai puniti né raccontati è terribile.
In quattrocento per strada
A metà aprile 2020, nelle varie baraccopoli di via Germagnano vivono più di 400 persone. Non possono uscire dal campo per andare ai bidoni o cercare cibo nei mercati di zona o chiederne davanti ai supermercati. Se lo fanno, ed è successo a molti, prendono multe di 400 euro e denunce penali per violazione del dpcm del 9 marzo 2020.
Varie persone, anche anziane, e famiglie intere, perdono la casa per essersi allontanate dal campo in cerca di cibo e per altre necessità.
Le baraccopoli devono essere distrutte ad ogni costo in vista delle elezioni amministrative del 2021, e quindi dell’imminente campagna elettorale. Ufficialmente, la distruzione delle baracche senza alternativa abitativa equivale, nei documenti del Comune, al «superamento dei campi» e al rispetto delle direttive dell’Unione europea.
Qualche mese dopo, nella settimana tra il 14 e il 21 agosto 2020, nel silenzio e nell’invisibilità più totali, viene distrutta la maggior parte delle baracche ancora in piedi di via Germagnano. I Rom e i poveri devono sparire. In meno di un mese vengono buttate in strada più di 200 persone.
Chi viene sgomberato si accampa dove può.
La tensione è fortissima, come la rabbia per i nuovi sgomberi di famiglie che erano già state sgomberate da poco. Nostri amici e conoscenti cercano rifugio in zone e margini invisibili ai più.
Il 1° settembre, un blitz della Rime caccia da Piazza d’Armi decine di persone che si sono accampate lì con le tende perché appena sgomberate. Mandano via anche altre persone senza casa, italiane e non, già presenti nel parco.
All’alba del 10 settembre, altre venti famiglie allontanate da via Germagnano pochi giorni prima, vengono sgomberate da un piccolo terreno nascosto e abbandonato da più di vent’anni in via Reiss Romoli. Nello stesso terreno vivono già tre nuclei famigliari sgomberati da Lungo Stura Lazio nel 2015. Loro vengono lasciati lì.
Una volta concluso lo sgombero di via Germagnano, la comunicazione ufficiale dell’amministrazione comunale e della sindaca non fa alcun riferimento alle persone buttate per strada, ma cita unicamente le operazioni di «pulizia e bonifica» della zona e la rimozione di rifiuti. Sulla stessa scia, molti giornali e media locali non parlano delle persone sfollate, ma solo, in modo paradossale, del numero di animali, cani, gatti e galline, che girano ancora tra le macerie.
Tra pandemia, sgomberi e roghi
Molte persone e famiglie si disperdono per la città in cerca di luoghi in cui poter stare, anche solo per qualche giorno, invisibili e nascosti. Non mancano nuove occupazioni di piccoli terreni e di appartamenti vuoti di proprietà Atc (l’Agenzia territoriale per la casa che gestisce il patrimonio di case popolari di Torino e Piemonte). Molte persone hanno perso tutto con la distruzione della baracca o della roulotte. Ad alcuni viene imposto di andare in altri campi.
Una roulotte, la casa di una famiglia che da vent’anni viveva in via Germagnano e che è stata sgomberata, posizionata nella «zona orti» di Lungo Stura Lazio seguendo le indicazioni della polizia municipale e in presenza della stessa, viene data alle fiamme di notte da qualcuno che non vuole «zingari» nei paraggi. Le minacce di dare tutto alle fiamme, comprese le persone, sono iniziate non appena la roulotte è stata posizionata nella zona demaniale, troppo vicina agli orti di Lungo Stura Lazio usati dai residenti della zona per grigliate e altre attività.
Malgrado la denuncia delle vittime sotto shock che, per puro caso, la notte non dormivano nella roulotte ma in una baracca di amici vicina al loro mezzo, al momento non è stata fatta alcuna indagine da parte delle forze dell’ordine. La famiglia ha perso nel rogo tutti i beni personali e i documenti.
Nell’estate del 2020 sono numerosi gli episodi di aggressioni fisiche e verbali ai danni di persone che si ritrovano di colpo per strada.
Per la grande distruzione di agosto 2020, i consiglieri di opposizione in comune – quelli che sarebbero diventati poi la maggioranza alle successive elezioni – fanno sentire la loro protesta. Non tanto, però, per la violenza degli sgomberi, avvenuti senza offrire alcuna alternativa abitativa a centinaia di persone, quanto perché, secondo loro, la giunta a 5 Stelle ha «propagato» i Rom in giro per la città. Come la peste.
Nascosti da tutti
Le segnalazioni di cittadini e imprenditori che, dalle loro case o uffici, chiamano vigili e polizia, sono continue. Anche in piena notte.
Molto spesso l’esito delle chiamate è l’allontanamento delle persone e del loro mezzo, che si sposteranno in qualche altro luogo nel quale, di nuovo, non saranno graditi.
Al pregiudizio e all’odio, poi, si aggiunge il clima pesante della pandemia. A chi ha bambini piccoli e minori, viene intimato di tenerli tutti rinchiusi dentro i camper. Diverse persone dentro pochi metri quadrati. Perché «i cittadini vedono dalle finestre i bambini giocare sul marciapiede».
Vale la pena raccontare un ultimo episodio risalente all’estate 2021 e passato sotto silenzio: il rogo notturno di un altro camper parcheggiato in un luogo isolato, alle Vallette, Torino Nord. Questa volta nel camper dorme un’intera famiglia di Rom, e viene sfiorata la strage. È il pianto di un neonato che salva tutti svegliando la mamma giusto in tempo perché si accorga del fuoco e metta in salvo i figli. Del camper non rimane nulla. Pare che, prima del rogo, sia stato cosparso di benzina con grande perizia. Sotto il mezzo sono rinvenuti due secchi colmi di combustibile e un’altra tanica piena viene trovata a pochi metri.
La richiesta delle istituzioni nei confronti di chi è Rom, di chi è povero e senza casa, è sempre la stessa, e produce i suoi effetti: devono essere invisibili, devono sparire appena arriva un controllo, parcheggiare lontano dalle case, nascondersi alla vista dei cittadini «perbene».
È fondamentale che siano lontani da tutto e da tutti. Anche per bruciare.
Manuela Cencetti
Il docufilm
La versione di Jean è la storia di un uomo che vive nel «campo rom» di Lungo Stura Lazio, nella periferia Nord di Torino. Jean mostra, con i suoi filmati e con quelli di altri abitanti della baraccopoli, un mondo precario, continuamente distrutto da «progetti speciali» per i Rom, da improvvisi sequestri giudiziari e sgomberi forzati. Un punto di vista che, per una volta, viene dall’interno.
Il film, prodotto nel 2020 da Manuela Cencetti, autrice di questo dossier, Jean Diaconescu e Stella Iannitto, ha partecipato al 38° Torino Film Festival.
In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Dal loro probabile arrivo nel vecchio continente dall’India intorno al Mille dopo Cristo, la loro esclusione e persecuzione si fa via via sempre più strutturata e spietata, fino alla sciagura nazista che uccide 500mila Rom in quello che loro chiamano il «barò porrajmos».
Sul numero di individui e famiglie rom, o che si autodefiniscono tali, presenti in Europa, non esistono rilevazioni recenti o precise. Quantomeno, è difficile fare una stima attendibile. Anche perché, nei secoli, dichiarare le proprie origini rom ha sempre comportato il rischio, o la certezza, di essere stigmatizzati, perseguitati, banditi, ridotti in schiavitù. E nasconderle ha spesso garantito maggiori possibilità di sopravvivenza, specie dopo la Seconda guerra mondiale.
Storicamente, sotto la definizione di Rom si riunisce una varietà molto ampia di gruppi che mostrano tra loro diversità culturali anche notevoli, a cominciare dalla lingua. Se la lingua comune, infatti, è il romanés, nelle diverse regioni e paesi nei quali vivono, essa presenta molte varianti.
Il romanés è una lingua e al contempo un continuum di dialetti molto contaminati dalle lingue dei gagé (i non rom) presso i quali si trovano, per lessico, fonetica, grammatica.
Come sostiene l’antropologo Leonardo Piasere, al di là dei tentativi di determinare chi sia un «vero Rom», l’unico tratto davvero comune, persistente nel tempo e nello spazio, è la sua stigmatizzazione.
In Europa, la storia delle popolazioni romanì coincide con secoli di politiche di sterminio, sfruttamento, riduzione in schiavitù o assimilazione forzata. Questo continuum di violenta esclusione o di feroce inclusione ha generato nei Rom un rapporto ambivalente con la società maggioritaria dalla quale cercano di proteggersi e nella quale, al contempo, cercano di immergersi.
Tracce dei primi Rom in Europa
È difficile parlare di una supposta «vera» origine dei popoli rom. La lingua romanés porta con sé l’eredità di alcuni idiomi dell’India del Nord Ovest e delle successive migrazioni attraverso Persia, Armenia e Grecia.
È probabile che alcuni gruppi di Rom entrino nell’Impero Bizantino poco dopo l’anno Mille, e che si disperdano in Grecia e in Medio Oriente. Successivamente, dal Trecento, iniziano a migrare nello spazio europeo. Una parte di questi gruppi è ridotta in schiavitù nei principati di Valacchia e Moldavia, un’altra parte si spinge verso l’Impero Ottomano convertendosi all’Islam e migrando verso la penisola balcanica.
Come spiega Nando Sigona nel suo lavoro del 2002, Figli del ghetto, le prime tracce della loro presenza in Europa risalgono al 1362, nell’attuale Dubrovnik (Croazia). Nel Quattrocento, invece, la presenza di circa 20mila nuclei famigliari rom nei Balcani è attestata dai registri delle tasse dell’Impero Ottomano. La presenza di altri gruppi è documentata in Tracia, Macedonia, Kosovo.
Nel Basso Medioevo le comunità rom entrerebbero, dunque, in contatto con le popolazioni locali e si specializzerebbero in alcuni mestieri come la lavorazione dei metalli, l’allevamento di bestie e cavalli, l’ammaestramento di orsi e altri animali, la lavorazione di vimini e legno, le arti della danza e della musica, le arti acrobatiche.
Piasere osserva che nella zona balcanica il modello seguito è «quello dell’inserimento dei Rom nelle strutture socio economiche locali attraverso il sistema tributario e/o lo sfruttamento coatto della forza lavoro». Nell’Impero Ottomano i Rom non vengono banditi. Un altro trattamento, invece, viene riservato loro nei principati cristiani di Valacchia e Moldavia, per secoli vassalli degli imperatori ottomani. In essi è istituito il più grande sistema schiavistico di «zingari» dell’Europa moderna che durerà dal Trecento fino alla seconda metà dell’Ottocento. Nell’attuale Romania questa lunga storia di schiavitù è un argomento assente dai libri di storia.
Inizia la guerra al vagabondaggio
Nell’Europa occidentale, le persecuzioni contro i Rom iniziano nel corso del Quattrocento, quando si fortifica la struttura dello stato nazione e si iniziano a controllare maggiormente i confini. È a partire da questo periodo che per i Rom si fa sempre più difficile inserirsi nelle strutture socio economiche locali. Si trovano davanti a una scelta: l’annientamento della loro identità oppure la morte, la prigione o il bando.
Stati italici e germanici di piccole dimensioni, già a partire dal Cinquecento, sviluppano una vera e propria ossessione «antizingara». Ne è testimonianza la produzione continua di decreti: quasi uno all’anno, tra il 1493 e il 1785, nei piccoli stati italiani, compreso lo Stato della Chiesa, con forze speciali e milizie dedicate all’applicazione delle norme attraverso vere e proprie cacce a «questa razza di gente», come vengono definiti i Rom nell’Italia tra Cinquecento e Settecento.
La lotta antizingara si inserisce in una più ampia guerra al vagabondaggio, utile a proletarizzare mendicanti, reietti e fuorilegge nella transizione epocale dal feudalesimo al capitalismo.
I Rom vengono considerati, però, una categoria a parte, dato che la loro marginalità è utilizzata dagli stessi Rom per sfuggire alla proletarizzazione e mantenere la loro autonomia.
Si determina in questo modo una spirale sanguinaria: alla violenza della società maggioritaria, i Rom oppongono forme di resistenza e disobbedienza.
Nel corso del tempo, con il rafforzamento dello stato moderno e dei suoi apparati, i Rom diventano l’emblema di quello che il buon cittadino non deve essere, e quindi etichettati come non cittadini, stranieri interni, privi di diritti. Come sostiene Piasere, «lo stato moderno nasce anche sull’antiziganismo».
Molti di questi gruppi o comunità, per secoli, sono perseguitati, mettendo a dura prova la loro stessa esistenza. Nel corso del Cinquecento e del Seicento, alcuni gruppi di Rom resistono anche attraverso le armi.
Il paradosso dell’Occidente risiede nell’uso della violenza contro i «risultati» delle sue stesse politiche: più perseguita i Rom per la loro organizzazione sociale «a polvere» (come la definisce Piasere), più i Rom la fanno propria, sparpagliandosi, incontrandosi, disperdendosi.
Fino al «grande divoramento»
Nel corso del Settecento inizia a svilupparsi lo studio delle razze e l’evoluzionismo. Ora non esistono più le razze «maledette», ma quelle «selvagge», considerate inferiori perché non evolvono e presentano limiti biologici.
Più avanti, nell’Ottocento, grazie ai contributi di Lombroso, gli «zingari» smettono di essere considerati «selvaggi di casa nostra», e iniziano a essere «razza delinquente atavica».
L’Ottocento è un secolo nel quale, a seguito di diversi conflitti, riprendono i movimenti migratori dei Rom. Nuovi flussi si muovono dai Balcani verso l’Europa occidentale. Con la fine della schiavitù in Moldavia e Valacchia, la presenza delle comunità rom si espande anche nelle regioni dell’Europa centrale e, con il tempo, in Austria e Germania.
A fine Ottocento, i contributi lombrosiani alla «razziologia criminale» iniziano a rendere gli «zingari» una categoria giuridica a sé, criminalizzandola. In Germania e Francia si creano uffici appositi per la gestione dei soggetti «zingari».
Tra il 1942 e il 1945, almeno 500mila Rom sono uccisi nei lager anche in seguito a queste teorie. La Germania nazista e i paesi dell’Asse mettono in atto lo sterminio delle popolazioni romanì, chiamato dalle comunità sopravvissute il «barò porrajmos», il «grande divoramento».
La Germania nazista elimina i Rom sulla base di genealogie e «diagnosi razziali» prodotte dai due antropologi eugenisti Robert Ritter e Eva Justin. Questi stabiliscono il grado di purezza dei Rom. All’inizio, per i «Rom puri» si pensa alla creazione di una riserva affinché non si mischino con le altre razze, ma alla fine vengono comunque tutti annientati. Dopo la guerra, i due antropologi non verranno mai processati.
Il caso del fascismo romeno
In Romania, nel corso della Seconda guerra mondiale, le popolazioni rom vivono una storia di annientamento ancor meno conosciuta e indagata dello sterminio nazista. Il regime fascista del maresciallo Ion Antonescu, tra il 1942 e il 1944, deporta 25mila Rom in Transnistria, nella regione tra i fiumi Nistru e Bug. Le persone sono costrette a viaggiare a piedi o su vagoni per lunghe settimane. Le autorità spogliano di ogni bene i deportati che muoiono nudi, a cielo aperto, di freddo, di fame, di malattie e di morte violenta. Molte donne e ragazze vengono stuprate. Se si oppongono vengono uccise.
In un rapporto governativo del 1942 si legge: «Per tutto il tempo che i Rom sono stati nella caserma di Alexandrudar, hanno vissuto in una condizione di miseria indescrivibile. […] Si davano 400 grammi di pane agli adulti e 200 grammi a bambini e anziani. Gli si davano anche un po’ di patate e raramente del pesce affumicato. Perciò molti sono dimagriti talmente che sembrano scheletri. Ogni giorno muoiono dieci quindici zingari. Sono pieni di parassiti. La visita medica non viene fatta e le medicine non ci sono. Sono senza vestiti, scarpe. Alcune donne hanno il corpo vuoto, nel vero senso della parola. Il sapone non gli è stato mai distribuito, perciò non possono lavarsi, né lavare i propri indumenti. In generale la situazione degli zingari è terribile, molto vicina all’impossibile».
Manuela Cencetti
Minoranza perseguitata
È difficile stabilire quanti siano i Rom nel mondo, in Europa e nei singoli paesi. Le stime più accreditate (ad esempio dal Consiglio d’Europa) parlano di circa 15 milioni di Rom nel mondo, di cui 12 milioni in Europa. Il 60-70% di questi ultimi risiede nell’Europa centro orientale, in alcune delle regioni più povere del continente. Il 15-20% vive tra Spagna e Francia. Nella loro eterogeneità, le popolazioni romanì rappresentano la più grande minoranza nel continente e la più discriminata. Semplificando molto, possono essere identificate in cinque gruppi principali: i Rom, o Romà, o Romi; i Sinti; i Kale o Kalos; i Manuś e i Romanićels.
Italia
Come riportato nell’ultimo report dell’Associazione 21 luglio (L’esclusione nel tempo del Covid. Comunità rom negli insediamenti formali e informali in Italia. Rapporto 2021), in Italia i gruppi rom sarebbero 22, associati a differenti flussi migratori:
i Rom italiani di antica migrazione, giunti nel nostro paese a partire dal XV secolo e suddivisi in cinque gruppi (Rom abruzzesi, celentani, basalisk, pugliesi e calabresi);
i Sinti, anch’essi di antica migrazione, che comprendono nove gruppi (Sinti piemontesi, lombardi, mucini, emiliani, veneti, marchigiani, Sinti gàckanè, Sinti estrekhària, Sinti kranària);
i Rom balcanici di recente immigrazione, suddivisi in almeno cinque gruppi, a loro volta divisi in quelli giunti in Italia tra le due guerre e quelli arrivati tra il 1960 e la seconda metà degli anni Novanta (Rom harvati, Rom kalderasha, Rom xoraxanè, Rom sikhanè, Rom arlija/shiptaira);
i Rom di recente immigrazione tra i quali i Rom rumeni e i Rom bulgari.
Il governo italiano include nella Strategia nazionale d’inclusione dei Rom, Sinti e Camminanti, questi ultimi che sono un gruppo originario di Noto, in provincia di Siracusa.
M.C.
Italia: il «paese dei campi».
Nomadi per forza
Le prime tracce di Rom in Italia risalgono al XV secolo. Oggi si stima che siano tra i 130 e i 150mila, concentrati nelle grandi città. La gran parte (quella che non fa notizia) vive in case normali. Gli altri sono costretti, loro malgrado, a vivere in situazioni al limite dell’umano: nei «campi nomadi», quelli inventati dalle stesse istituzioni che a ogni campagna elettorale, li vogliono radere al suolo.
Sono circa 12 milioni i Rom e i Sinti europei. Circa 9-10 milioni risiedono in stati membri dell’Unione europea.
In Italia, molti vi sono presenti da secoli. In termini numerici la loro presenza varia tra le 130mila e le 150mila persone, circa lo 0,23% della popolazione (una percentuale piccola se confrontata con quella di altri paesi, per esempio l’11,5% della Macedonia, il 9,3% della Bulgaria, il 9,2% della Slovacchia, il 9% della Romania). Circa la metà, cioè più o meno 70mila persone, ha la cittadinanza italiana. Si tratta dei discendenti di gruppi giunti nella penisola a partire dal XV secolo fino al 1950 circa. Il resto proviene, invece, da vari paesi dell’ex Jugoslavia, e dai più recenti flussi migratori provenienti da Romania e Bulgaria (dunque, cittadini comunitari). La gran parte di essi risiede nelle città di Milano, Torino, Roma, Napoli, Bologna, Bari, Genova.
A causa delle politiche di esclusione, prima di tutto amministrative, il numero degli apolidi, soggetti privi di un regolare documento italiano o del paese di provenienza, è ancora alto.
Le città impossibili
Come osserva Nando Sigona, le città «incapaci di accogliere si barricano a difesa dei propri microsistemi». In questo tempo, attraverso politiche di sgombero e persecuzione, nelle città si cerca di far sparire gruppi «indecorosi» e «non docili» di poveri e senza casa, di fragili e ricattabili. Si tratta di un’umanità considerata in eccesso, sacrificabile, inutile, improduttiva, parassitaria, non adatta alle regole della società maggioritaria.
Eppure, tutta questa umanità vuole restare in città. Perché è nello spazio urbano che può sopravvivere chi non ha nulla: grazie ad attività informali come i mercatini dell’usato, il recupero di oggetti e vestiti, il riciclo di scarti e metalli, e grazie all’accesso più facile a servizi, sanità e scuola.
Le politiche di esclusione espellono persone etichettate come Rom, assieme agli altri «non recuperabili». La violenza dei continui controlli e degli sgomberi, delle pratiche amministrative che ostacolano, ad esempio, il riconoscimento della residenza e, di conseguenza, di diritti come l’iscrizione all’anagrafe, al servizio sanitario nazionale, alle scuole, rendono la vita quotidiana impossibile costringendo a volte le persone a spostamenti da un comune all’altro.
Dal Quattrocento al fascismo
I principali gruppi di Rom e Sinti in Italia, così come negli altri paesi, presentano molte differenze tra loro, sia sotto l’aspetto linguistico, sia in termini di autodenominazione.
Il gruppo più antico in Italia è quello dei Sinti. Come sostengono Tommaso Vitale ed Elena Dell’Agnese, è probabile che essi si siano stabiliti nelle regioni del Centro Nord della penisola a partire dal Quattrocento. Le comunità più numerose si trovano in Emilia-Romagna, Marche, Veneto, Lombardia e Piemonte. Probabilmente, quelle di più antico insediamento sono abruzzesi e molisane. Altre sono presenti in Campania, Puglia, Lazio, Umbria, Toscana e Alto Adige.
I Rom kalderasha e lovara (Rom danubiani) sono arrivati in Italia all’inizio del secolo scorso. La maggior parte dei Rom kalderasha ha la cittadinanza italiana, mentre il resto ha una provenienza più recente dai paesi dell’Europa centro orientale. Sono invece pochi i Rom lovara che hanno la cittadinanza italiana.
Per comprendere bene questi flussi di fine Ottocento, inizio Novecento, è importante ricordare la condizione di schiavitù in cui hanno vissuto per 500 anni le popolazioni rom nei principati di Valacchia e Moldavia, regioni molto estese che oggi fanno parte della Romania. «Gli zingari sono nati per essere schiavi, chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo…», statuiva il Codice della Valacchia, all’inizio del XIX secolo. La riduzione in schiavitù dei Rom e il loro commercio è stata una prassi in quei territori a partire dal Trecento fino a metà Ottocento quando è stata ufficialmente abolita tra il 1855 e il 1856. Dopo la liberazione, un gran numero di Rom è migrato verso l’Europa centrale e occidentale, e oltreoceano, verso le Americhe.
Altri gruppi (circa 7mila persone) come i Rom harvati (croati), si sono stabiliti nel Nord Est dell’Italia a partire dal 1920. In particolare, molte comunità hanno cercato rifugio nel territorio italiano tra le due guerre mondiali per sfuggire alle persecuzioni degli ustasha e all’olocausto nazista. Gli ustasha erano un movimento nazionalista e clerico fascista croato guidato da Ante Pavelić, creato nel 1929 e alleato dei nazisti tedeschi e fascisti italiani nel corso della Seconda guerra mondiale. Le milizie ustasha hanno trucidato quasi l’intera popolazione rom allora presente nel paese, circa 25mila persone.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, quasi nessuna famiglia è ritornata in Croazia. La maggior parte dei Rom harvati, attualmente, ha la cittadinanza italiana.
È importante ricordare che in Europa, nel corso della Seconda guerra mondiale, come ricorda Sigona, citando Giovanna Boursier, gli «zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, razza inferiore, indegna d’esistere». Questo non è avvenuto solo in Germania, ma anche in Italia, Jugoslavia, Francia, Belgio, Olanda, Polonia.
Dal secondo dopoguerra
Dopo la Seconda guerra mondiale, in Europa si sono verificate altre crisi politiche, economiche e sociali, sono caduti regimi o si sono dissolti stati, mentre sono scoppiate nuove guerre e persecuzioni. In questo scenario, chi era più precario, povero e discriminato, ha faticato più degli altri a trovare pace e stabilità.
I Rom xoraxané, di religione musulmana e originari della Bosnia e del Montenegro, e i Rom dasikané e khanjára, di religione cristiano ortodossa, originari della Serbia, sono giunti in Italia tra fine anni ’60 e fine anni ’70. In questo periodo ne sono arrivati circa 40mila in seguito alla crisi economica causata dalla riforma finanziaria promossa da Tito che aveva portato alla chiusura di fabbriche storiche, collocate nelle aree più depresse del paese. La crisi, dopo il 1980, con la morte di Tito, si è ampliata e ha segnato la fine della convivenza interetnica in Croazia, Bosnia, Serbia e Macedonia. I flussi sono aumentati con la guerra in Bosnia scoppiata nel 1992 e, tra il 1998 e il 1999, a seguito del conflitto in Kosovo.
Dopo la caduta del regime di Ceaușescu, all’inizio degli anni ’90, la Romania ha vissuto una terribile crisi economica che ha colpito immediatamente le fasce più povere e discriminate del paese. Molti gruppi di Rom romeni sono fuggiti verso occidente a causa dei pogrom e della violenza razzista, e hanno iniziato ad arrivare anche in Italia.
Molti di loro hanno chiesto inutilmente lo status di rifugiati. Oggi sono presenti soprattutto nelle grandi città. Altre comunità rom originarie della Romania, che si autodenominano «Rom romenizzati», vivono in baraccopoli.
Come si diventa il «paese dei campi»
Per capire come si è arrivati alle politiche di segregazione abitativa e razzismo differenziale adottate in Italia nei confronti dei Rom nella seconda metà del Novecento, è utile fare riferimento alle narrazioni relative alla presunta «mobilità permanente» degli individui etichettati come «nomadi» nello spazio europeo.
Almeno fino all’inizio degli anni Settanta, in Italia, i Rom non erano oggetto di provvedimenti specifici: nel 1973, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti affermava, infatti, che: «Nell’organizzazione giuridica italiana, non esiste alcuna disposizione che interdica il nomadismo, né delle norme particolari alle quali si debbano sottomettere i nomadi in ragione del loro modo di vivere».
Questa posizione del governo centrale, però, era ambigua, e lasciava ampia discrezionalità alle istituzioni locali che discriminavano e perseguitavano migliaia di individui rom e sinti che vivevano già in condizioni di esclusione e confina- mento nei primi «campi» e «aree sosta».
Il problema di ottenere la residenza anagrafica era già molto sentito negli anni ‘60. A questo tipo di discriminazioni amministrative, si aggiungevano pratiche già in voga da tempo, come le perquisizioni senza mandato e le espulsioni.
Risale al 1965 la costituzione dell’Opera Nomadi, associazione costituita per promuovere e tutelare gli «zingari» e favorevole all’istituzione dei «centri sosta». In quegli anni, le amministrazioni locali mettevano ovunque cartelli di divieto di sosta indirizzati ai «nomadi». Non era ancora stata emanata la prima circolare del ministero dell’Interno, datata 11 ottobre 1973, a tutela del diritto al nomadismo. Le carovane degli «zingari nomadi» erano costrette dalla polizia a spostarsi in continuazione da una località a un’altra, con effetti negativi sui loro commerci e sulle attività legate ai loro mestieri.
Nel 1970 l’Opera Nomadi è stata riconosciuta come ente morale, un passaggio che ha segnato, in qualche modo, il primo riconoscimento in Italia dell’esistenza delle popolazioni romanì. Allo stesso tempo, tuttavia, è stato la spia di una precisa tendenza politica: lo stato italiano delegava le condizioni di vita di Rom e Sinti a un’associazione privata che, man mano, ha realizzato un circuito sempre più strutturato di carità e mobilitazione di risorse, finalizzato all’assistenza e ai bisogni primari delle comunità romanì.
Questa situazione si è protratta per decenni, inducendo un po’ per volta gli stessi Rom a delegare a Opera Nomadi il ruolo di mediazione tra loro e le istituzioni. Questo ha provocato una crescente dipendenza dal circuito della carità.
Prima di arrivare agli anni ’80 e all’istituzione dei «campi», è importante capire come la segregazione spaziale, gli abusi, le persecuzioni si siano fondati su una politica nazionale di negazione del problema delle discriminazioni e, al contempo, di delega alle regioni e ai comuni. Per riprendere un’espressione impiegata dallo European Roma Rights Center in un Rapporto del 2000, l’Italia è diventata il «paese dei campi» attraverso la produzione di leggi regionali già a partire dagli anni ’80.
Due casi emblematici: Milano e Torino
Molto interessanti sono gli esempi, analizzati da Sigona, di interventi politici di due comuni del Nord nei confronti delle popolazioni rom: Milano e Torino. Nel 1965 il comune di Milano presenta un progetto pilota, definito come «innovativo e a favore degli zingari». Si vuole avviare un’azione globale per «civilizzarli», ma senza discriminazioni o paternalismi.
Secondo Leonardo Piasere, in Le pratiche di viaggio e di sosta delle popolazioni nomadi in Italia, si tratta di «un’azione concentrica di ordine educativo, sociale, sanitario ed economico (formazione al lavoro) centrata completamente sul nuovo campo sosta allestito». Proprio il campo sosta, quindi, già in questa fase, è il luogo strategico nel quale concentrare le azioni di integrazione dei Rom. Per vincere le resistenze dei «nomadi» è necessario ricorrere a un intervento su più fronti: da parte di insegnanti, assistenti sociali, datori di lavoro nei cantieri dove vengono addestrati per verificare «la loro resistenza alla fatica». La formazione al lavoro, in particolare, è considerata utile per abituare i Rom alla disciplina, agli orari, alla vita comunitaria, alla fatica.
Il problema abitativo non viene preso in considerazione: si dà per scontato che il luogo in cui i Rom devono abitare è il campo sosta.
Molti dei termini e delle «idee innovative» che caratterizzano il programma del comune di Milano del 1965 risuoneranno, pressoché identici, in discorsi politici, documenti e progetti degli anni Duemila, quando le amministrazioni locali del bel paese prevederanno spesso «iniziative a favore della popolazione Rom» (ovviamente solo in presenza di ingenti fondi da spendere). Nasceranno, quindi, a ripetizione, progetti pilota privi di qualsiasi continuità e coerenza, elaborati sempre senza interpellare o coinvolgere i beneficiari.
Questa gestione emergenziale di progetti, persone e campi, si affermerà sempre più nel corso del tempo, chiudendo ai Rom l’accesso ai percorsi normali che sarebbero predisposti per qualsiasi cittadino.
Prendono forma saperi «zingarologici» in apparenza altamente specializzati. Se «inclusione» è una parola chiave, di fatto si viene a creare una vera e propria «specializzazione dell’esclusione».
Se il caso di Milano è paradigmatico, quello di Torino lo è forse ancora di più.
Il capoluogo piemontese, infatti, vanta vari primati nella «gestione» delle popolazioni rom e sinti. Torino è stata la prima città a superare la fase transitoria: prima della legge regionale del 1993, aveva già più di un campo sosta. Alla fine degli anni ’70 se ne contavano due ufficiali e altri ufficiosi. Torino è stata anche la prima città a istituire un Ufficio stranieri e nomadi, che lo scorso anno ha cambiato nome in favore del più politicamente corretto Ufficio stranieri e minoranze etniche, sempre però all’interno del servizio Informa stranieri e nomadi della divisione servizi sociali.
Abitare nei ghetti per legge
Arriviamo quindi ai decenni nei quali, in Italia, le regioni iniziano a legiferare per tutelare il «diritto al nomadismo» e le amministrazioni delle medie e grandi città cominciano a costruire i cosiddetti «campi nomadi». Si tratta di una politica locale che si espande a partire dal Nord.
In nome dell’obiettivo dichiarato di tutelare la «loro cultura», si determina per legge una segregazione sociale e spaziale, un «abitare razzista» riservato a Rom e Sinti, considerati indistintamente «nomadi».
L’Italia, come evidenziato dal già citato report dell’European Roma Rights Center del 2000, diventa il «paese dei campi».
Uno degli esempi più tragici riguarda le popolazioni rom in fuga dalle guerre balcaniche degli anni ’90: una volta arrivate in Italia, comunità che da secoli erano stanziali in Jugoslavia e che vivevano in case, sono costrette a «riziganizzarsi» e a vivere in campi senza fognature, in abitazioni fatte di roulotte, container o baracche.
Per molti Rom, l’esperienza del campo rappresenta un vero e proprio shock. Le persone «riziganizzate» sperano che la vita in quel luogo, nella loro esistenza di profughi, sia transitoria.
I campi poi concentrano al loro interno gruppi e famiglie con origini e storie completamente diverse: non tutti, ad esempio, sono profughi di guerra, eppure, tutti sono costretti a vivere lì.
Tutte le comunità, sia quelle stanziali, sia le poche che ancora possono definirsi «nomadi», vengono accomunate da una «ragionevole» esclusione da forme abitative diverse dal campo. Tutti i campi, poi, devono essere luoghi isolati e invisibili, posti spesso nei pressi di fiumi, ferrovie e tangenziali, accanto a discariche o direttamente su terreni avvelenati di rifiuti tossici, in prossimità di svincoli autostradali e, soprattutto, con un valore fondiario molto basso.
In Piemonte, la giunta attualmente al governo ha proposto, grazie all’«ingegno» di un assessore leghista, una «nuova» legge regionale che prevede il ritorno alle «aree di transito»: i «nomadi» sarebbero autorizzati a soggiornare in queste aree per tre mesi al massimo. Per avervi accesso, essi sarebbero chiamati a soddisfare requisiti di «idoneità morale». Inoltre, è previsto un sistema di videosorveglianza in tutte le aree.
Il testo della proposta di legge regionale rende più che mai evidente quanto il processo di etnicizzazione e criminalizzazione delle popolazioni che abitano i campi sia profondo, radicato e normalizzato. E quanto sia funzionale alla propaganda politica, ossia a raccogliere qualche manciata di voti alimentando una crescente richiesta securitaria.
Manuela Cencetti
Il peso delle parole e l’emergenza abitativa
La presenza delle popolazioni romanì in Italia è molto variegata e complessa. La sua rappresentazione pubblica, veicolata spesso da personaggi politici e da un certo giornalismo, è solitamente negativa, stereotipata e pregiudiziale. Qualsiasi episodio di cronaca che riguardi più o meno da vicino una persona rom, o un insediamento nel quale vivono persone rom, rumene, slave, tutte indifferentemente etichettate come «nomadi», è sempre occasione per emettere condanne e riscuotere consensi.
La rappresentazione negativa di queste persone si è cristallizzata nell’arco di decenni anche nella produzione di leggi regionali che istituiscono i «campi sosta» come luoghi adatti alla vita di Rom e Sinti per via della loro presunta «cultura nomade», sinonimo, per secoli, di vagabondaggio, delinquenza e devianza.
Ma l’equazione «Rom = nomadi» è un’interpretazione falsa e antistorica. Essa continua a definire gruppi, famiglie, comunità intere, come non adatte al vivere «civile», asociali e sempre potenzialmente criminali. La loro presenza deve essere perennemente temporanea. Pertanto, l’unica politica abitativa pensabile per «loro» è un campo, possibilmente in un luogo isolato.
Il paradosso è che in questo modo, l’unico nomadismo che si può riscontrare in queste popolazioni è quello forzato, voluto dalle istituzioni.
È importante ricordare che dietro a ogni etichetta esiste un mondo di politiche e di pregiudizi. Attraverso le etichette si costruiscono ruoli, definizioni, identità burocratiche che servono a gestire e categorizzare «l’altro», «lo straniero», oppure gruppi o soggetti considerati devianti. Le parole tracciano confini tra la società maggioritaria e il «nemico interno», tra chi è civile, un buon cittadino, e chi non lo è.
Oltre alle etichette che definiscono soggetti o gruppi interi, esistono gli «spazi», in questo caso i «campi nomadi», che a loro volta producono gruppi precisi. Ossia, insiemi di persone che, per il solo fatto di essere residenti nel campo, vengono etichettate in un certo modo. Abbiamo, quindi, un’ulteriore equazione: le persone rom, dopo essere definite nomadi per natura, coincidono con chi vive in un campo. Non importa se gli abitanti di un campo si autodenominano Rom oppure no: vivono in un campo, quindi sono Rom e, naturalmente, nomadi. Al di fuori del campo, non godono della stessa cittadinanza né degli stessi diritti di cui godono tutti gli altri cittadini.
Baraccopoli d’Italia
Secondo l’Associazione 21 luglio la gran parte delle popolazioni romanì in Italia vive in case o in altre soluzioni abitative sicure e regolari.
Circa 17.800 Rom e Sinti, di cui più della metà minori, vivono invece in baraccopoli, legali o illegali, edifici occupati, capannoni abbandonati, casolari fatiscenti, ecc.
Usiamo il termine baraccopoli anche per riferirci ai cosiddetti «campi nomadi» formali (costituiti da baracche, roulotte, tende, container), la maggioranza dei quali si trova nelle città di Torino, Genova, Milano, Brescia, Pavia, Padova, Bologna, Reggio Emilia, Roma, Napoli, Foggia e Bari.
Essi rientrano nella definizione di baraccopoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite Un-Habitat perché «luoghi in cui gli abitanti non hanno sicurezza di possesso, dove le abitazioni risultano estromesse dai principali servizi base e non conformi ai criteri stabiliti dai regolamenti comunali o situate in aree pericolose dal punto di vista geografico e ambientale. […] gli abitanti delle baraccopoli [inoltre] non hanno a disposizione spazi pubblici e aree verdi e sono esposti a sgomberi, malattie e violenza».
In Italia esistono 109 baraccopoli istituzionali presenti in 63 comuni e in 13 regioni. In esse vivono 11.300 persone. Di queste, il 49% ha cittadinanza italiana e il 10% cittadinanza rumena. In questi luoghi l’aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella del resto della popolazione italiana. Il 55% dei loro abitanti ha meno di 18 anni.
Nelle baraccopoli informali e nei microinsediamenti la quasi totalità delle persone presenti risulta essere di origine rumena.
In base all’analisi dei dati elaborati dall’Associazione 21 luglio tra l’inizio del 2020 e la fine del primo semestre del 2021 l’Italia si conferma il «paese dei campi», il paese europeo che impiega la quantità più alta di risorse umane ed economiche per il mantenimento di questi ghetti.
M.C.
Rom «ziganizzati» in fuga dalla Romania.
Il caso Torino. Da lavoratori a zingari
Data la precarietà e il razzismo strutturale di cui sono destinatari, i Rom romeni, sedentari in patria, arrivati in città non trovano altri luoghi nei quali vivere che non siano baracche in zone periferiche e «invisibili». È il nomadismo forzato di cui sono esempi formidabili i campi di Lungo Stura Lazio e di via Germagnano nel capoluogo piemontese.
Le migrazioni internazionali di comunità rom dalla Romania diventano consistenti dalla fine del regime comunista, benché siano già iniziate a partire dai primi anni Ottanta.
Nel periodo socialista le popolazioni rom dei paesi dell’Europa centro orientale erano generalmente oggetto di politiche di assimilazione e di sedentarizzazione forzata. Questo rappresentava una grande differenza con le politiche segregazioniste o apertamente persecutorie degli stati dell’Europa occidentale nello stesso periodo.
Nei paesi dell’Europa dell’Est, migliaia di Rom erano impiegati nel sistema economico socialista, lavoravano quindi nelle fabbriche come operai poco o per nulla qualificati, confusi con gli altri lavoratori, o nelle grandi cooperative di produzione agricola. Altri erano riusciti a rimanere al di fuori delle unità produttive socialiste e lavoravano nell’economia informale: piccolo commercio ambulante, riparazioni di utensili e calzature, artigianato, commercio e allevamento di bestiame, lavorazione e commercio di metalli, ecc.
Durante il regime di Ceaușescu, in particolare tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, quando conobbero un’importante crescita demografica, i Rom furono fatti oggetto di politiche di sedentarizzazione, proletarizzazione e «romenizzazione» (i Rom «romenizzati» sarebbero Rom con «stili di vita» rumeni, o che non parlano più il romanés, e che a volte prendono le distanze da alcuni «stili di vita» degli altri Rom rumeni).
Dal punto di vista abitativo, a molti di coloro che non erano sedentari, vennero assegnati appartamenti popolari o terreni. Molte comunità vennero disgregate. È importante sottolineare che la maggior parte della manodopera rom era impegnata in occupazioni non qualificate o in lavori molto pesanti, e che i loro salari erano più bassi di quelli del resto della popolazione.
Da lavoratori socialisti a «zingari»
A partire dal 1989, dopo la caduta del regime di Ceaușescu, la Romania attraversa un periodo di profonda crisi economica che peggiora con il passare degli anni e provoca i primi flussi migratori verso l’Europa occidentale. Le cause che spingono le persone a partire dopo il 1989 stanno nella trasformazione del sistema economico che fa ricadere gli effetti devastanti del capitalismo selvaggio innanzitutto sulle comunità rom. In pochissimo tempo migliaia di lavoratori e lavoratrici, primi tra tutti quelli meno qualificati, perdono il posto di lavoro. In particolare, nel primo anno successivo al crollo del socialismo rumeno, i Rom senza lavoro arrivano all’80%.
L’impoverimento è pesantissimo e con la mancanza di lavoro aumenta anche l’esclusione sociale. In breve tempo, la popolazione rom viene per l’ennesima volta colpita dal razzismo. Si verificano episodi di violenze collettive, di discriminazioni da parte delle stesse istituzioni statali, si moltiplicano casi di detenzioni illegali e maltrattamenti. Nel 1993, durante la sommossa di Hădăreni, nel distretto di Mureș, tre persone rom vengono assassinate, diciannove case bruciate e cinque distrutte.
Come ha ben descritto la studiosa romena Eniko Vincze: «Accanto ai cambiamenti post-socialisti durante gli anni ’90 […] e il neoliberalismo trionfante degli anni 2000 […], l’assimilazione è stata gradualmente sostituita da politiche di razzializzazione. Nel caso della politica assimilazionista, i Rom rappresentavano un problema culturale che si sarebbe dovuto risolvere non appena avessero adottato le norme culturali della società socialista (lo stato socialista ha utilizzato questo modello di ingegneria sociale per l’intera popolazione premoderna e rurale della Romania, cercando la sua necessaria trasformazione in lavoratori urbani). Dopo il 1990, la razzializzazione dei Rom, come conseguenza involontaria e perversa del loro riconoscimento come minoranza etno nazionale che avrebbe dovuto godere di diritti culturali e linguistici, e la necessità di spiegare perché vivevano in povertà senza riconoscerne le cause economiche e politiche, ha trasposto la differenza e la disuguaglianza tra romeni/ungheresi da un lato e Rom dall’altro nel regno della biologia e della fisiologia»1.
All’inizio degli anni ’90, con il trionfo dell’ordine neoliberale, le popolazioni rom della Romania e di altri paesi dell’Europa centro orientale sono colpite da un processo di pauperizzazione estrema che si combina all’antiziganismo storico fatto di episodi di aggressioni a singoli, gruppi o comunità, utilizzo di discorsi di odio, pratiche di sfruttamento, esclusione socio economica, segregazione abitativa e spaziale, stigmatizzazione diffusa, rappresentazioni negative da parte di politici e accademici.
I primi arrivi a Torino, una città a parte
La permanenza dei migranti rom rumeni sul territorio torinese a partire dagli anni Novanta è sostanzialmente illegale. Inizialmente sono stati numerosi i tentativi di richiesta di asilo politico, ma, dato il generale respingimento delle domande, questa modalità di ingresso in Italia è stata progressivamente abbandonata per conformarsi alla prevalente modalità di permanenza sul territorio in attesa di una delle numerose sanatorie che caratterizzano il governo dei corpi migranti in Italia. Nel corso degli anni Novanta, infatti, lo strumento principale mediante il quale lo stato gestisce i movimenti migratori è rappresentato dalle cosiddette «sanatorie», nell’assenza di una politica migratoria coerente complessiva. Per cui, anche i migranti rom provenienti dalla Romania rimangono in Italia in modo irregolare, andando a ingrossare le fila della manodopera precaria sfruttata nell’economia sommersa.
Data la loro estrema precarizzazione e dato il razzismo strutturale di cui sono destinatarie, queste persone non trovano altri luoghi nei quali vivere a Torino che non siano baracche autocostruite in zone della città periferiche e «invisibili». Va sottolineato che i Rom rumeni a Torino arrivano in un contesto di proliferazione di «campi rom», autorizzati e non, istituzionalizzata con la legge regionale n. 26 del 10 giugno 1993 che, così come accade nella maggior parte delle regioni italiane, cristallizza una forma abitativa razzializzata, giustificandola del tutto impropriamente come azione a salvaguardia di una supposta «identità etnica e culturale» dei Rom etichettati come «nomadi».
«In Italia nascono come campi nomadi […] e sono istituzioni regolate, in assenza di un quadro legislativo nazionale, da leggi regionali varate negli anni Novanta […]. Appena finiti di costruire si sono trasformati in insediamenti perennemente temporanei per i Rom in fuga dalle guerre dei Balcani e poi dalle zone depresse della Romania. Si sono evoluti da slums di baracche e roulotte a campi di container agli attuali villaggi, con un crescendo di sorveglianza e di dipendenza dalle istituzioni e una conseguente perdita di autonomia decisionale sulla propria vita»2.
Una vita «fuori luogo»
La presenza della migrazione rom rumena a Torino diventa visibile, e quindi automaticamente un problema per le autorità pubbliche, nella primavera del 1998 quando un gruppo di 350-400 Rom rumeni cerca un luogo in cui poter vivere, e si ferma in uno spazio alla periferia Nord Ovest, in un campo vicino a corso Cuneo, per poche decine di metri nel comune di Venaria.
I migranti provengono in maggioranza dai villaggi di Fetești e Țăndărei, zone in cui si sono verificati incidenti ed episodi di violenza contro le comunità rom. Inizialmente questo gruppo è intenzionato a raggiungere la Francia o la Spagna, ma viene respinto in base alle norme previste dal trattato di Dublino. A quasi tutti loro, lo stato italiano nega il diritto di asilo o qualsiasi altro tipo di permesso di soggiorno. Poi, come sempre, arriva la violenza dello sgombero.
All’alba dell’8 febbraio 1999, una cinquantina di persone del campo vengono portate via senza alcun preavviso dalla polizia con i soli indumenti che hanno indosso in quel momento, e deportate con un volo da Malpensa per Bucarest. Quella stessa notte, le poche persone rimaste, che si erano nascoste per sfuggire alla deportazione, scappano a Torino, in via Germagnano. Il 10 febbraio, il campo di corso Cuneo viene completamente raso al suolo dalle ruspe. A fine giornata, tutto quello che apparteneva agli abitanti del campo viene ammassato e dato alle fiamme dagli operatori del comune, richiedendo, dopo poco, l’intervento dei Vigili del fuoco per circoscrivere il rogo di vestiti, coperte, utensili, giocattoli che fino a poco prima erano stati utilizzati dalle persone che vivevano lì3.
Nascita del Platz
Intorno al 2000 inizia la vita del «Platz», ovvero la prima baraccopoli illegale di Lungo Stura Lazio, a Torino. Cresce nell’arco di 15 anni e diventa la più popolata della città e forse dell’Europa occidentale, arrivando a contare circa 2.000 abitanti. Tutti etichettati etnicamente come Rom, benché non siano solo Rom, ma più in generale persone povere, provenienti dalla Romania e non solo, che non hanno accesso ad abitazioni dignitose. L’unico spazio dove vivere a Torino, per loro, sono le sponde del fiume Stura, dentro la città, ma in un punto poco visibile.
Un report del Consiglio d’Europa restituisce il livello di violenza istituzionale all’interno di questo insediamento: «Il 15 aprile 2004 un gruppo di circa 90 Rom rumeni, 70 dei quali avevano chiesto l’asilo e di cui 20 non l’avevano ottenuto, vennero sgomberati dalle baracche in riva al fiume in cui vivevano […]. La polizia distrusse le baracche insieme a tutti i loro beni. Venti Rom senza documenti vennero espulsi. Una donna rom senza documenti fu invitata a tornare in Romania. Lei non obbedì e […] le autorità le tolsero i figli ponendoli sotto custodia statale. I 70 Rom che avevano fatto richiesta di asilo occuparono l’Ufficio immigrazione di Torino […]. Dopo 48 ore, furono spostati in una scuola vuota dove avrebbero dovuto vivere temporaneamente. Dopo l’arrivo di 36 persone rom nella scuola, i residenti della zona protestarono, così venne predisposto un campo con tre grandi tende […]. Gli altri Rom usciti dall’Ufficio immigrazione chiesero di poter essere inseriti nel campo appena costruito, ma l’Ufficio immigrazione glielo negò. […] il gruppo, di cui facevano parte molti minori, aveva fatto ritorno alle sponde del fiume ricostruendo le baracche»4.
Fino all’ingresso della Romania nell’Unione europea nel 2007, a Torino sono frequenti gli sgomberi e gli spostamenti di rumeni rom e non rom da una baraccopoli all’altra. Essendo gli «ultimi arrivati» e non disponendo di mezzi di sussistenza, si adattano a vivere in baracche autocostruite in zone marginali e invisibili di Torino. All’assenza di risorse economiche e di tutela giuridica, si aggiunge la precarietà sanitaria, dato che non è possibile per loro iscriversi al Sistema sanitario nazionale e che l’unico mezzo per curarsi spesso è rivolgersi al pronto soccorso.
Prima del 2007, gli interventi di sgombero di piccoli insediamenti da parte delle forze dell’ordine sono quotidiani. Il loro principale effetto è quello di spingere centinaia di persone nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, uno spazio più facilmente controllabile dalle forze dell’ordine.
Il pogrom della Continassa
Il 9 dicembre 2011, una ragazza di 16 anni residente nel quartiere delle Vallette (periferia Nord Ovest di Torino) denuncia una violenza sessuale da parte di due Rom. Nel quartiere viene organizzata per la sera successiva una fiaccolata di solidarietà con la vittima. Il giorno dopo, la sedicenne confessa di aver mentito, ma, nonostante questo, alcuni manifestanti si staccano dal corteo e attaccano la Cascina della Continassa dove vivono circa 50 persone rom rumene. Nel corso dell’attacco vengono devastate e incendiate baracche e roulotte, messe in fuga tutte le famiglie e ostacolati i soccorsi dei Vigili del fuoco. Benché in seguito si parlerà di un’azione improvvisata, già nella redazione del volantino che invitava alla fiaccolata, risultava chiaro l’intento, «Adesso basta ripuliamo la Continassa».
Il processo per il rogo della Continassa durerà anni. Il 13 luglio 2018 la Corte di Appello di Torino pronuncia la sentenza di secondo grado: sono confermate le condanne per quattro persone, mentre una quinta viene assolta. La Corte conferma l’impianto accusatorio di primo grado e l’aggravante di «odio etnico e razziale».
Manuela Cencetti
Note
1- �Enikő Vincze, Urban Landfill: A Space of Advanced Marginality, in «Philobiblon», vol. XVIII, 2013, n. 2. Traduzione nostra.
2- �Francesco Careri, Una città a parte. L’apartheid dei Rom inItalia, introduzione all’inserto speciale L’abitare dei Rom e dei Sinti, de «Urbanistica Informazioni», n. 238, 2011, pp. 23-25.
3- �Cfr. Marco Revelli, Fuori luogo. Cronaca da un campo rom, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
4- �Consiglio d’Europa, Collective Complaint by the European Roma Rights Center against Italy, 27/2004.
Ha scritto questo dossier:
Manuela Cencetti
Torinese. Il cinema e il processo di creazione audiovisuale sono al centro dei suoi interessi e attività formative e professionali. È cofondatrice dell’Associazione culturale «i313». È coinvolta in nove edizioni del festival Cinemainstrada. Nel 2007 dirige il film Ato’ tzi tza’ (Aquì Estamos). Genocidio en Guatemala. Nel 2011 fonda il collettivo «Cine en la Calle» con giovani di Città del Guatemala, dove realizza laboratori di formazione e la prima edizione del Festival «Cine en la Calle». Nel 2013 monta il cortometraggio La casa è di chi la abita che racconta l’occupazione di una casa, a Torino, dal punto di vista dei bambini. Nel 2013 realizza assieme a Stella Iannitto per l’Associazione i313, La mia strada è il mondo intero, girato con un gruppo di ragazze rom bosniache e romene, residenti in due baraccopoli nella periferia Nord di Torino. La versione di Jean è il suo ultimo lavoro, diretto con Stella Iannitto e Jean Diaconescu.
Dossier a cura di Luca Lorusso
Non diamoci pace
Condividiamo queste poche righe del superiore generale del Missionari della Consolata, padre Stefano Camerlengo. Sono tratte da un documento che egli invia ai missionari, ma certamente sono parole intense che valgono per tutti.
Quest’anno siamo giunti alle soglie della Quaresima “avvolti” dal dramma della guerra scoppiata tra Russia e Ucraina…: una guerra che ha di certo conseguenze ben più vaste… Dolore e silenzio ci trafiggono il cuore… le grida di dolore e sofferenza non potevano che farsi più lancinanti dinanzi a una guerra che è tornata a insanguinare le terre europee e che peraltro deve ridestare l’attenzione sui tanti conflitti che, vicini o lontani da noi, interpellano la nostra coscienza di uomini, di credenti e di missionari.
Davanti a queste guerre e a tanto odio e malvagità ci sentiamo impotenti. Rimane la preghiera e la generosità della nostra vita. Ma, la preghiera autentica ha un prezzo da pagare perché colui che prega in modo autentico, prima che cambiare Dio o la storia, deve lasciarsi personalmente cambiare dall’incontro con Dio, per stare nella situazione in cui si trova con una responsabilità che non viene attenuata o attutita, ma al contrario potenziata dall’incontro con Dio, con il suo desiderio e con la sua grazia.
Cerchiamo di convertire la nostra esistenza per poter non semplicemente giungere a Pasqua, ma per poterla sperimentare nella carne.
Aggiungiamo però un suggerimento: non accogliamo nel cuore e nella mente ciò che è contro la pace (pensieri, parole, azioni) e apriamoci ogni giorno a ciò che la costruisce in noi e attorno a noi! Ogni giorno facciamo CONCRETAMENTE un atto di DISARMO e un atto di PACIFICAZIONE: dobbiamo assolutamente cambiare rotta! Dobbiamo far soffiare venti buoni nel mondo a partire dalle nostre case! Dobbiamo smetterla di attendere che la pace sia decretata e fatta dai governanti: dobbiamo decretarla e farla noi! E il primo disarmo dobbiamo farlo in noi stessi come diceva il Patriarca Atenagora. Meditiamo a fondo le sue parole: “La guerra più dura è la guerra contro sé stessi. Bisogna arrivare a disarmarsi. Ho perseguito questa guerra per anni, ed è stata terribile. Ma sono stato disarmato. Non ho più paura di niente, perché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più sulle difensive, gelosamente abbarbicato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non ci tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se uno me ne presenta di migliori, o anche di non migliori, ma buoni, accetto senza rammaricarmene. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, vero e reale è sempre per me il migliore. Ecco perché non ho più paura. Quando non si ha più nulla, non si ha più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, ci si apre al Dio-Uomo che fa nuove tutte le cose, allora Egli cancella il cattivo passato e ci rende un tempo nuovo in cui tutto è possibile.”
Sì: “NON DIAMOCI PACE” FINCHÉ NON CI SIA PACE IN TUTTI E PACE PER TUTTI!
Buona Quaresima e una Santa Pasqua!
Stefano Camerlengo
Da Notiziario IMC, N. 51
Roma, 31 marzo 2022
A Medyka e Shehyni alla frontiera Sud Est tra Polonia e Ucraina
Carissimi tutti,
con questo 4 aggiornamento oltre a ringraziare tutti voi per la continua solidarietà concreta che state dimostrando in questa situazione, desidero condividere l’esperienza che ho fatto questa settimana recandomi in Ucraina.
Il viaggio è nato da una proposta arrivata da don Leszez Kryza direttore nazionale dell’Ufficio di aiuto alla chiesa in oriente, struttura appartente alla Conferenza episcopale polacca.
Dopo aver riempito completamente la macchina di beni di prima necessità, quali cibo e medicinali, siamo partiti all’alba di giovedì 31 marzo, in direzione della frontiera di Medyka a sud est della Polonia. Con noi si è unita Clara la volontaria infermiera che da settiane è con noi. Dopo cinque ore di viaggio in un clima che si è fatto improvvisamente invernale alternando la pioggia alla neve, arriviamo presso la frontiera.
Non sono tanti i mezzi che passano il confine dalla Polonia all’Ucraina; tuttavia, i tempi di controllo dei documenti sono lunghi, dovuto sia al controllo dei documenti sia al controllo della merce trasportata, entrando in un paese in guerra i soldati vogliono essere certi di cosa si trasporta.
La frontiera polacca la passiamo senza difficoltà, invece dalla parte ucraina siamo fermati a lungo, per la mancanza di un documento della nostra macchina che abbiamo solo in versione on line e non stampata. Dopo piu di tre ore di attesa, siamo costretti a rientrare in Polonia a motivo della mancanza di questo documento. Cambiamo il nostro piano. Decidiamo di lasciare gli aiuti trasportati presso la sala di una parrocchia dei francescani vicino alla frontiera, per essere già nei prossimi giorni di nuovo spedita oltre il confine con un altro trasporto.
Questo cambio di situazione ci porta alla decisione di entrare in Ucraina a piedi. Il controllo dei documenti dalla Polonia all’Ucraina avviene in modo sbrigativo anche se non siamo soli, alcuni rifugiati, non molti, ritornano. Ci spiegano che sono coloro che abitano vicino a questo confine in una zona meno bombardata di altre. Hanno i mariti che li aspettano nelle loro case e inoltre trovare lavoro in Polonia non è facile… Aiutiamo una giovane donna a portare due borse della spesa pesanti. È tutto quello che ha con sé. La soldatessa ucraina mi chiede cosa andiamo a fare in Ucraina. Le spiego il problema che abbiamo avuto poco prima con la macchina aggiungendo che vorremmo organizzare il passaggio dei beni. Fissandomi seriamente negli occhi per un momento fa poi un mezzo sorriso e ringrazia per quello che stiamo facendo. Sono parole che mi colpiscono perché dette da un soldato non sono per niente scontate.
Entrando in Ucraina notiamo dalla parte opposta una coda molto piu lunga di rifugiati che attendono di entrare in Polonia. Nella vicinanza delle frontiera da entrambi i paesi ci sono tante organizzazioni umanitarie, sono volontari provenienti da tutto il mondo: americani, spagnoli, portoghesi, ebrei, sono tutti giovani sorridenti che trasmettono un calore umano fatto di sorrisi di mille piccole attenzioni verso i profughi. Alcuni sono vestiti da clown come al circo per strappare un sorriso ai bambini che scappano dalla guerra. Altri si prestano con carrelli della spesa ad aiutare a portare i pochi bagagli dei profughi. Altri ancora offrono bevande calde, pasti, cioccolata… siccome la giornata è fredda e umida vengono distribuite delle mantelline per la pioggia che anche noi beneficiamo e si organizzano dei ripari dalla pioggie mista a neve che cade ininterrottamente, usando delle serre per fiori che qualcuno ha offerto. Ci sono anche delle stufe a gas come quelle che si trovano nei ristoranti all’aperto che riscaldano nelle immediate vicinanze.
Incontriamo un gruppo di volontari polacchi che hanno allestito un campo a fianco della frontiera, in Ucraina. Conosciamo Magdalena che fin dall’inizio è qui presente. Ci racconta che la situazione in questi giorni è meno pesante rispetto all’inizio; tuttavia, non c’è sicurezza e da un momento all’altro potrebbe di nuovo tutto precipitare a seconda degli sviluppi della guerra nel paese.
Solo da questa frontiera sono passate circa 700.000 persone (circa la capienza di 10 grandi stadi di calcio) su un totale di 2.700.000 che hanno varcato il confine con la Polonia.
I primi giorni sono stati i più drammatici. Magdalena ci racconta che i primissimi aiuti sono arrivati tutti da Ovest fermandosi in territorio polacco senza oltrepassare il confine. Ancora oggi lì ci sono decine e decine di tende di volontari. Molto meno se ne trovano ancora oggi dalla parte ucraina, dove ci sono le code piu lunghe di profughi.
Ci sono video che mostrano all’inizio del conflitto, code di oltre 30 km di macchine in attesa di passare il confine. Erano tra i pù fortunati perche stavano al caldo e seduti, al contrario della maggioranza di essi che aspettavvano all’aperto giorno e notte anche per tre e quattro giorni, per passare il confine. Anche se le pratiche burocratiche sono state semplificate l’ondata di profughi da smaltire è stata così grande che non lasciava alternative. Per scaldarsi durante la notte si bruciava tutto quel poco che si trovava compresi i vestiti non utilizzati. Ci sono stati, ci raccontano i volontari, anche casi di parti precoci a seguito dello stress e della stanchezza.
Avendo lasciato la macchina al di là del confine, verso sera ci rimettiamo in coda con i profughi per rientrare in Polonia. Ci colpisce molto la dignita di queste persone. Non sentiamo un lamento o una imprecazione. Ci si guarda solo negli occhi. Le storie che ci raccontano sono terribili e talmente crudeli che si fanno fatica a descrivere. Sono tutte persone che scappano dall’estremo est del paese, Mariopol, Charchowy, Donbas, Kiev…
Le uniche persone accompagnate dai volontari che accorciano le file sono solo alcuni anziani su carrozzine avvolti da coperte. Gruppi di persone poco nominate in questo conflitto, ma che rappresentano un altro lato debole della popolazione. Nessuno si lamenta di questo anche se la stanchezza e il freddo non aiutano. Dopo circa tre ore in fila ritorniamo in Polonia. A differenza dei profughi, abbiamo una macchina ad attenderci e un luogo sicuro dove ritornare. È notte fonda quando ritorniamo a casa presso la nostra comunità dopo quasi 24 ore di viaggio. Siamo stanchissimi, ma anche coscienti che abbiamo visto molto e come testimoni molto possiamo continuare a fare molto insieme a tutti voi. Dopo Pasqua probabilmente ci recheremo ancora in Ucraina questa volta per qualche giorno.