La vita di questa suora del Cottolengo, in Kenya dal 1905 al 1925, è un inno alla carità, un’esistenza spesa a servizio dei più poveri, dei più bisognosi, avendo cura del prossimo nella concretezza del quotidiano tanto da essere chiamata dai Kikuyu e dai Wameru «mware muega» (suora buona*).
La vita di Maria Carola fu realmente conformata a Gesù Cristo, rinunciando a se stessa e vivendo con fedeltà gli impegni assunti con la sua professione religiosa di suora cottolenghina, prima in Italia e poi come missionaria in terra africana. Ma la prima terra di missione, come donna consacrata, fu la vita semplice e umile nella cucina del convento: «È là che si formò, che imparò lo spirito di sacrificio; è là che incominciò ad essere missionaria, a guadagnare anime a Gesù». Ciò che vale non è «fare il missionario», ma «essere missionario» nei tempi e nei modi che Dio e l’obbedienza richiedono.
Unita a Cristo
Il legame con Gesù fu la costante della storia di Maria Carola fin da ragazza e poi come giovane suora, e andò crescendo in modo straordinario nella sua lunga marcia missionaria. «Il pensiero che potrò in qualche modo concorrere a far dilatare il Regno di Gesù mi riempie di riconoscenza verso di Lei e verso il Signore, io offro fin da questo momento tutta la vita mia». Con queste parole, il 19 marzo 1904, chiese a padre Giuseppe Ferrero, successore del Cottolengo, la possibilità di essere inviata come missionaria in Africa. Desiderio che si realizzò il 28 gennaio dell’anno successivo. Pagò il suo legame con l’Africa attraverso il superamento di se stessa, la rinuncia non solo al male, ma anche agli affetti e alle cose più care. Una potatura che la segnò fino alla fine della vita perché il dono di sé era autentico e non effimero o interessato, come dice un canto: «L’amore vero è un taglio sul vivo, se non vogliamo dare il di più». […]
Nella sua offerta fatta il 6 gennaio 1899, solennità dell’Epifania, quando emise la professione religiosa, tenendo una candela in mano, formulò questa preghiera che anticipò quanto avrebbe vissuto poi: «Che il mio corpo si consumi come questa cera, o Gesù, scompaia dopo aver tanto fatto e sofferto, né di me resti traccia quaggiù come nulla resterà di essa! Che della mia anima, come da questo lucignolo, emani luce e calore: luce radiosa per me nella conoscenza Tua, calore infuocato per il prossimo che dovrò amare tanto da dimenticare me stessa, per poterlo beneficare, edificare e portare a Te, o Gesù, Amore mio Divino! A Te che scelgo per mia porzione nel tempo e nell’eternità».
Obbediente allo Spirito
[…] Suor Maria Carola, grazie alla sua fede e al sacrificio costante di sé, rifulge per la sua straordinaria capacità di sapere coniugare in modo mirabile l’annuncio del Vangelo e la promozione umana, ottenendo frutti di conversione spirituale e di liberazione umana e sociale. L’occupazione a cui suor Maria Carola attendeva con amore erano i catechismi in missione e a domicilio. Quale conforto provava e come si sentiva animata a nuovi sacrifici, nel poter dire: «Eccoti, Gesù, sono Tue queste anime, regna in esse sovrano!». E in quei villaggi sentiva l’altezza della sua vocazione, il dovere di pregare il Padrone della vigna, e il desiderio che il seme gettato germogliasse e giungesse presto a maturità. Era più che persuasa che soltanto dal lavoro della grazia dipende la conversione delle anime. «Noi lavoriamo – diceva – ci affatichiamo, Gesù muove i cuori, Gesù illumina le menti; Gesù è il gran Ladro d’amore; Egli solo sa rubare, e rubare, e rubar bene».
È bello riconoscere che suor Maria Carola, in forza della sua conformazione a Cristo e senza che lei se ne rendesse conto, diventò per i suoi e le persone incontrate una «traduzione dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire».
È bello ricordare la conversione del capo del popolo kikuyu. Nei pressi della missione di Tuso c’era il villaggio del gran capo del Ghekoio (così si scriveva allora, prima che si imponesse la traslittetrazione inglese, ndr), Karoli che era entusiasta di muare Karola, perché diceva: «Porta il mio nome». Quando poi capì che la mware cucinava molto meglio delle sue numerose mogli, la simpatia si accentuò e giornalmente le inviava carni da cuocere, farina e zucchero, burro per la confezione di paste dolci. E suor Karola lo trattava con mille riguardi nell’intento di far conoscere di più il cristianesimo. E infatti le sue speranze non furono deluse: il seme da lei gettato, benedetto dal Signore, germogliò e fruttificò nel 1916, quando Karoli ricevette il battesimo. […]
Per lei l’azione missionaria non fu «un palo secco da innaffiare», ma un’opera di Dio germogliata nel cuore della foresta. Era convinta che il seme della Parola, gettato in quella regione impervia e isolata, avrebbe dato frutti di carità e di rinnovamento.
Testimone della fede
[…] Suor Maria Carola conosceva molto bene gli elementi fondamentali della fede, che in passato erano noti a ogni bambino, perché li aveva appresi nella cerchia famigliare e alla scuola di santi sacerdoti ed educatori. Lei aveva imparato fin da ragazza, da giovane religiosa e poi da intrepida missionaria che «per poter vivere e amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarlo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione e il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola».
Ecco perché tutta la sua vita fu un annuncio continuo del Vangelo e della dottrina cristiana. Ogni occasione fu opportuna per indicare la salvezza nel nome di Gesù e di Maria. Sia cucinando, sia assistendo i malati, sia medicando, sempre la parola evangelica da lei seminata nell’intimo delle persone scese come medicina che cura le ferite e le piaghe dei cuori e delle anime.
Quanto lavorò. Non vi fu capanna, anche lontana, che non fosse visitata, e più volte, da lei; ma il suo prezioso compito fu il nucleo delle catecumene; quanta pazienza nell’impartire i principi della fede, nell’abituarle alla vita cristiana. E una volta cristiane era tutta di loro, giorno e notte, pronta sempre a confortarle, a far da madre a loro e ai loro bambini.
Era una donna di grande fede che sapeva trasmettere l’amore per il Signore pur nella difficoltà della lingua, sia nel catechismo che nei rapporti con la gente.
La sua fede era nutrita dalla Parola di Dio, da solide letture e da intensa preghiera e adorazione.
[…] Tutte le sue fatiche le offriva al Signore per le anime senza badare alla salute, al pericolo.
Presto beata
La beatificazione di questa missionaria del Vangelo (probabilmente in ottobre o novembre di quest’anno, ndr), ci aiuta a ricordare che le missioni hanno il loro centro nell’annuncio della salvezza nel nome di Gesù. Suor Maria Carola non era una dotta, un’intellettuale, ma con il suo annuncio toccò i cuori della gente, perché ella stessa era stata toccata nel cuore dalla grazia dello Spirito. E lo fece nel modo che le era più naturale, senza tanti artifici o metodi speciali. […]
«Per la salvezza delle anime»
Merita ricordare che suor Maria Carola lavorò instancabilmente per la salvezza delle anime, attraverso uno zelo e una dedizione incondizionata, fino al dono della sua vita. Oggi il termine «anima» sembra essere diventato una prerogativa esclusiva della psicologia e il parlare della «salvezza delle anime» sembra una cosa antiquata. […] Suor Maria Carola si preoccupava dell’uomo intero, delle sue necessità fisiche e spirituali. Con il suo esempio e il suo messaggio ci ricorda che «noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima».
Quante anime salvate. Quanti bambini salvati da morte sicura. Quante ragazze e donne difese nella loro dignità. Quante famiglie formate e custodite nella verità dell’amore coniugale e famigliare. Quanti incendi di odio e di vendetta estinti con la forza della pazienza e la consegna della propria vita. E tutto vissuto con grande zelo apostolico e missionario. Le persone che ebbero la grazia di incontrarla fecero l’esperienza di una donna e di una consacrata che non solo compiva coscienziosamente il suo lavoro, ma che non apparteneva più a se stessa. Una disponibilità continua, una dedizione rinnovata ogni giorno ai piedi dell’altare, una consegna fino al sacrificio supremo della vita per la riconciliazione e la pace.
Ella avrebbe voluto sacrificarsi per tutti, dicendo, più coi fatti che con la parola: «Darò a tutti le mie forze finché avrò vita e poi morirò contenta». «Sono tutte anime, sono nostre le anime di tutto il mondo».
Suor Carola: madre
Dalle testimonianze (raccolte per la causa di beatificazione, ndr) traspare un tratto distintivo di suor Carola: quello della maternità. Donandosi interamente a Dio, lei non aveva certo rinunciato al sublime senso della maternità, anzi lo rivendicava a sé con tutto il suo peso, le sue conseguenze, le angosciose trepidazioni. Con la tenace capacità di sperare a ogni costo, fu madre per tutti. Erano in tanti a riconoscere che la maternità che suor Carola manifestava verso tutti era un riflesso vivo della bontà della Madre di Dio e della sua cura per ogni suo figlio.
C’è una fotografia di suor Carola che è come l’icona della sua vita: quella in cui tiene tra le sue mani due neonati (foto pag. 24), quasi a significare che le sue mani furono grembo di vita. Questa suora cottolenghina servì l’amore e la difesa della vita, soprattutto la più fragile e vulnerabile, camminando nella via tracciata da san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una donna che testimoniò i misteri cristiani dell’incarnazione e della redenzione: nella fotografia, la capanna sullo sfondo ci ricorda la grotta di Betlemme; le mani di suor Carola, che custodiscono e mostrano le due creature, sono come la mangiatoia che accolse il neonato Figlio di Dio fatto uomo nell’umiltà e nella povertà della nostra condizione. La croce che la missionaria porta sul petto è il richiamo a una vita consegnata e consumata nella grazia di Gesù Salvatore a favore di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Le donne e le madri che accompagnano suor Carola rappresentano la sua dedizione per la difesa, la promozione della dignità della donna. Colpisce infine come in questa immagine suor Carola appaia così conformata alla missione e alla gente a lei affidata da assumere lei stessa tratti quasi africani.
Passaggio del Mar Rosso
La sua esistenza, vissuta nel segno della fede e della missione, terminò tra le acque del Mar Rosso dove il suo corpo fu lasciato a causa della morte sopravvenuta il 13 novembre 1925. Un mare che ricorda l’esodo, il cammino verso la terra promessa. Suor Carola visse un battesimo che la configurò pienamente al Signore Gesù nel suo sacrificio pasquale. Fu una donna redenta e collaboratrice della redenzione fino al dono totale di sé, quasi in una specie di olocausto come profeticamente aveva pregato il giorno della sua prima professione religiosa e come aveva scritto nella domanda per poter partire come missionaria. Soprattutto all’Africa, ferita d’ogni parte da germi d’odio e di violenza, da conflitti e da guerre, questa donna proclama la speranza della vita radicata nel mistero pasquale, esorta a perseverare nella speranza che dona il Cristo risorto, vincendo ogni tentazione di scoraggiamento. […]
Suor Carola ci dice che la Chiesa annuncia la Buona Novella non solamente attraverso la proclamazione della Parola che ha ricevuto dal Signore, ma anche mediante la testimonianza della vita, grazie alla quale i discepoli di Cristo rendono ragione della fede, della speranza e dell’amore che sono in essi.
Grazie alla testimonianza evangelica e cottolenghina di suor Maria Carola Cecchin «le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore».
Pierluigi Cameroni
* Letteralmente mware indica una ragazza non sposata, con allusione alla sua bellezza e vitalità. Abbiamo scritto la parola all’italiana, come si pronuncia, perché nella grafia inglese, imposta nei primi decenni del 1900, si scrive mwari. Una suora è una donna non sposata.
Testi tratti e adattati da:
- «Carola Cecchin: donna di comunione e di pace», commemorazione della venerabile suor Maria Carola di don Pierluigi Cameroni, postulatore generale della Famiglia salesiana di don Bosco, Torino, Cottolengo, 28 novembre 2021.
- rivista Incontri;
- sito web del Cottolengo: www.cottolengo.org
e delle suore cottolenghine: www.suorecottolengo.it
Ringraziamo suor Antonietta Bosetti, postulatrice della causa di beatificazione di suor Carola, per averci fornito il materiale e le informazioni necessarie.
Le foto sono dell’Archivio fotografico IMC, scattate probabilmente da monsignor Filippo Perlo.
Amare sino alla fine
Breve biografia
Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Pd) il 3 aprile 1877, da Francesco Cecchin e Antonia Geremia, settima di dieci figli, di cui i primi due morti in tenerissima età. Fiorina apprende dai suoi cari – dalla mamma in primo luogo – ad amare il Signore e a pregare ogni giorno.
Non ha nulla di particolare che la distingua dalle compagne, anzi viene descritta «senza foggia e colore», non bella fisicamente, ma semplice e determinata. Ama la solitudine e la preghiera. A 18 anni matura il desiderio di consacrarsi. Il suo parroco si rivolge alle suore del Cottolengo di Bigolino (Tv), dove è subito accettata e incaricata di prendersi cura di un gruppo di bambine orfane, servizio che svolge con tenerezza e cuore di mamma. La superiora accoglie la sua richiesta di abbracciare la vita religiosa per essere unicamente di Dio e del prossimo e l’accompagna a Torino, alla Piccola Casa.
Il 27 agosto 1896, entra nella Congregazione delle Suore di san Giuseppe Cottolengo (dette anche Suore Vincenzine della Piccola Casa della Divina Provvidenza). Veste l’abito religioso e inizia il noviziato il 2 ottobre 1897 prendendo il nome di suor Maria Carola. Nell’Epifania del 1899 fa la professione religiosa.
Per qualche anno, dal 1899 al 1905, presta servizio in qualità di cuoca a Giaveno, nel collegio affidato agli Oblati di Maria dove è ammirata per «l’obbedienza, l’umiltà, il suo spirito di preghiera, virtù rese attraenti dalla sua carità perché sempre disposta a sacrificare se stessa per essere di sollievo e conforto a tutti». Viene poi trasferita nella cucina centrale della Piccola Casa di Torino, dove serve, con dedizione esemplare, le suore che ritornano in Casa Madre per cure. Lì vede partire per il Kenya il primo gruppo di otto suore Vincenzine (il 25 aprile 1903) e poi il secondo di dodici (il 24 dicembre 1903) per coadiuvare i primi Missionari della Consolata che avevano sentito l’esigenza di avere personale femminile per l’evangelizzazione.
Il 19 marzo 1904 fa domanda scritta di poter partire anche lei per le missioni. La richiesta è accolta e il 28 gennaio 1905, a 28 anni, parte con la terza spedizione formata da sei suore cottolenghine e da tre missionari.
Arrivata a Mombasa il 19 febbraio, in treno raggiunge Limuru, appena oltre Nairobi, sull’altopiano che si affaccia alla Rift Valley. Lì si ferma alcuni mesi per ambientarsi. A fine giugno viene mandata a Tuthu (scritto Tuso, all’italiana), la prima missione fondata nel giugno 1902, dove rimane fino all’agosto del 1909 e conosce bene anche il gran capo dei Kikuyu, Karòli. Va poi per circa un anno a Iciagaki, e dal luglio 1910 fino alla fine del 1916 è a Mogoiri, dove lavora con padre Gaudenzio Barlassina, già incontrato a Tuthu.
Nel 1916 è trasferita a Wambogo (che diventerà poi Gekondi). La Prima guerra mondiale infuria anche in Africa, gli Inglesi, per la loro guerra, arruolano a forza oltre 500mila carriers (portatori), dei quali ne muoiono oltre 200mila. I missionari e le missionarie, comprese le Missionarie della Consolata arrivate in Kenya nel 1913, come la beata Irene Stefani, partono per curarli negli ospedali da campo in Kenya e Tanganyka. Parte anche suor Rachele da Wambogo e suor Carola prende il suo posto.
Nel settembre 1920 passa dalla terra dei Kikuyu al Meru, dall’Ovest all’Est del Monte Kenya. Nuova terra, un nuovo popolo e nuova lingua da imparare.
A Tigania (Meru), superiora di una comunità di quattro suore, si dimostra donna saggia e prudente, «attiva ma non dissipata, seria ma non ruvida, schietta ma non imprudente; era di una pietà così soda e soave insieme da mostrare la santa libertà di spirito che le era tutta propria; con la stessa disinvoltura afferrava il mestolo o il rosario; era sempre la stessa con le consorelle, con gli estranei, con i missionari, sia nei giorni di tregua che nelle incombenze più difficili e più pressanti». Ma qui, oltre i disagi e le fatiche, una malattia dolorosa e debilitante, diagnosticata come enterocolite sanguigna, le procura gravi sofferenze. Lei però è sempre pronta, sempre disponibile a uscire, a visitare i malati nei villaggi, a catechizzare con le parole e i gesti le giovani, i poveri. Tigania vede i suoi ultimi eroismi e la sua totale immolazione al Signore. Davvero, come Gesù, «amò i suoi sino alla fine» (Gv 13,1).
Dal 1919 in poi, i superiori della Piccola Casa dispongono il rientro delle suore a Torino, per gravi dissapori soprattutto con monsignor Filippo Perlo, vicario apostolico, parzialmente risolti grazie all’intervento di papa Benedetto XV. Il vescovo Perlo, pur riluttante, obbedisce all’ordine del papa, e le suore rientrano in Italia a gruppi di otto. Suor Maria Carola, pur sofferente ormai da anni, è l’ultima a lasciare l’amata missione con la consorella suor Crescentina Vigliano. Dopo 290 km a piedi fino a Nairobi, raggiunge in treno Mombasa dovei si imbarca sul piroscafo Porto Alessandretta il 25 ottobre 1925, destinazione Italia, Torino Piccola Casa.
Durante il viaggio si aggrava e muore il 13 novembre sullo stesso piroscafo ed è sepolta nel Mar Rosso nel tratto compreso tra Massaua e Suez. Ha 48 anni.
Gigi Anataloni