Decalogo: istruzioni per vivere (Es 20,1-17)
Solo dopo che il popolo ha affermato di voler vivere insieme al suo Dio, riconosciuto come Signore (Es 19,8), riceve la legge: una sorta di sintesi scritta di ciò che Dio si aspetta dai suoi: un documento che si apre con un testo assolutamente centrale per la vita del popolo, tanto è vero che verrà citato da Gesù (Mc 10,19; Lc 18,20), da san Paolo (Rom 13,9) e addirittura ripreso quasi alla lettera in un altro brano del Primo Testamento (in Dt 5,6-21). Non è frequente che due passi biblici siano uguali: il Deuteronomio riprende la rivelazione e la ridice in un altro modo, ma quando arriva al Decalogo preferisce usare quasi le stesse parole, salvo pochi cambiamenti. Uno scrittore che si comportava così, nell’antichità, lasciava intendere che non si sarebbe potuto riscrivere meglio il testo, che restava quindi intatto. Non è un plagio, è un omaggio.
Un modello di morale?
Nella tradizione ebraica e cristiana il Decalogo è diventato la sintesi delle norme morali, da insegnare al catechismo e da utilizzare per l’esame di coscienza. L’impressione era, infatti, che raccogliesse tutto ciò che Dio «comandava» agli esseri umani. Intorno al Decalogo si è spesso strutturata la morale. Esso è servito come strumento d’ordine di tutti i doveri e i divieti, religiosi e non, a volte elaborati anche al di là del suo stretto contenuto.
Una lettura un po’ attenta ci aiuta però ad accorgerci che dentro al testo del Dealogo c’è qualcos’altro. Qualcosa di più prezioso di un codice di comportamento etico.
Nelle nostre presentazioni del Decalogo spesso si parla di due parti (d’altronde, Es 34,29 parla di due tavole di pietra), una prima riguardante le relazioni con Dio, che coprono tre comandi, e l’altra sui rapporti con gli altri uomini. Nei secoli di elaborazione da parte della Chiesa, poi, gli ultimi comandamenti hanno finito con l’essere molto ampliati (a essere onesti soprattutto il sesto) dando l’impressione che essi avessero un peso maggiore. Possiamo però notare che nell’antichità, lo scrittore faceva come oggi fanno spesso gli insegnanti: dava maggiore spazio a ciò che riteneva più importante, a costo di ripetersi. Possiamo allora notare che ai primi tre comandamenti nel testo dell’Esodo sono dedicati dieci versetti, per un totale di 134 parole (in ebraico), mentre gli altri sette coprono nove versetti, ma solo 44 parole. La prima parte, insomma, è decisamente più ampia, perché evidentemente chi l’ha scritta la considerava molto più importante.
Ma anche un altro particolare ci stimola a ripensare il senso del Decalogo. La prima affermazione del testo, infatti, può sembrare strana per un elenco di norme (Es 20,2: «Io sono il Signore, tuo Dio»): non ordina niente. Sembra piuttosto una presentazione, quasi una premessa, in cui Dio spiega chi è. In effetti le tradizioni catechistiche l’hanno trattata come un’introduzione, che però nel testo è un’altra, al versetto 1 («Dio pronunciò tutte queste parole:»). In più, si tratta di un’autopresentazione ampia, in cui Dio si definisce con il suo nome proprio, poi aggiunge che si tratta del «tuo Dio», precisando di essere colui che ha fatto uscire il popolo dalla terra d’Egitto, «dalla condizione servile». Non si tratta semplicemente di una carta d’identità, ma della spiegazione della relazione che lo lega a Israele. E questa relazione è di salvezza, di liberazione, di legame interiore con qualcosa di nuovo. «Io sono il tuo Dio»: tu hai un Dio, non sei abbandonato, non sei solo, non rimani senza custodia e accompagnamento. Pensavi di essere solo, ma non lo sei; di più, hai accanto a te un Dio, che è tuo.
Un’intuizione e le sue conseguenze
Se lo ripensiamo così, il Decalogo acquisisce subito un’intonazione diversa. Non si tratta più di dover rispettare delle regole, magari specificando quali punizioni o conseguenze ci saranno per i trasgressori. Si tratta invece, come intuizione di partenza, di renderci conto che non siamo soli.
Israele, questo popolo che ancora non ha scoperto di essere un popolo, ha un Dio. E non nel senso che abbia qualcuno da venerare, per il quale faticare, a cui presentare offerte. Ha un Dio perché colui che lo lega a sé lo ha già liberato, lo ha fatto uscire dall’Egitto che era una terra di schiavitù.
Quella che ci sembrava una pallida introduzione ai comandamenti, è in realtà il cuore pulsante di tutta questa pagina: il popolo ebraico, e chiunque vorrà mettersi su quella strada, non è solo. Non siamo soli. C’è un Dio pronto a mettersi dalla nostra parte e a muoversi per primo, rendendoci liberi. Perché non è un Dio che cerchi schiavi, ma persone autonome che decidano di legarsi a lui non per costrizione ma per amore, non servi ma amici, o addirittura sposi (cfr. Os 2,21-22; Is 61,10-11; Ez 23; Gv 15,15).
Al primo versetto del nostro testo, Dio si presenta al suo popolo, ma per presentarsi non usa una definizione filosofica, non dice «Io sono l’essere perfettissimo…». Al contrario, si presenta in relazione: «Io sono il tuo Dio, io ti ho fatto uscire dall’Egitto». Non si presenta in astratto, ma in rapporto con coloro con cui parla. Non è l’amore, è l’amante.
Letta così, la prima frase non può essere una semplice introduzione, ma l’intuizione di fondo. Israele non è solo, noi non siamo soli. Dio c’è, ed è in relazione con loro, con noi. Il resto, in fondo, sono conseguenze.
Se Dio c’è, ed è in relazione con Israele, perché andare a cercare altri dèi («Non avrai altri dèi di fronte a me», Es 20,3)? Non ce n’è bisogno. Dio c’è già.
Ma non solo non c’è bisogno di cercare degli dèi. Bisogna anche evitare di trasformare il Dio d’Israele in un amuleto, in qualcosa di oggettivato, di fisso, di rigido, di «sicuramente nostro». Anche questo dice il versetto 4 («Non ti farai idolo né immagine alcuna…»), che è stato inteso nella tradizione ebraica come invito a evitare di farsi una qualunque immagine di Dio (anche perché l’immagine di Dio, nel mondo, esiste già, ed è l’uomo che vive: cfr. Gen 1,26; S. Ireneo dirà che «gloria di Dio è l’uomo vivente»). Ma in più c’è l’intuizione, colta plasticamente nell’episodio del vitello d’oro (Es 32), che in assenza di Dio non si sia più liberi, ma si diventi servi di altro, oltre tutto di qualcosa che non è superiore all’uomo. Chi ha Dio come Signore, invece, non ha altri signori.
Un sostituto di Dio, poi, può essere, sì, un idolo, ma anche la tentazione di ridurre il Dio vivente a un’immagine sola, a un’idea sola. Es 20,4 ci dice che Dio continuerà a sorprenderci, pur continuando a essere affidabile. È vivo, non è un ritratto o una statua, non è un’idea sempre rigida e fissa. Potrà anche essere imprevedibile, arrabbiarsi e castigare, anche se promette già che manterrà l’ira per tre o quattro generazioni, ma la bontà per mille (Es 20,5-6).
A cerchi sempre più larghi
Il testo del Decalogo parte da questo discorso di fondo e lo sviluppa come una serie di conseguenze man mano più ampie.
Se JHWH è il nostro Dio, non c’è bisogno di cercarne altri. Ma a questo punto, come ulteriore conseguenza, occorre evitare di appellarci a Dio per ciò che non è da Dio (v. 7). È inutile pretendere che possa salvaguardarci e vivere al posto nostro, sostituirsi alle nostre decisioni, cambiare il mondo compiendo ciò che sarebbe affidato a noi. Sarebbe un «invocare Dio invano», perché se ne ridurrebbe il ruolo a qualcosa di infimo e marginale; come sposarsi per avere a disposizione una cuoca o uno spaccalegna. Dio si propone come nostro compagno, come garanzia ed esito della speranza, non come tappabuchi alle cose che, nella nostra vita, potrebbero non funzionare.
E ancora, e sempre di conseguenza: se Dio può essere questo elemento centrale della vita umana, occorre trovare tempo per lui. Lui per primo è consapevole che la nostra vita si muove tra moltissimi impegni e urgenze. Ma se riconosciamo che qualcosa è centrale nella nostra esistenza, sentiremo il bisogno di donargli tempi e spazi. Non necessariamente la parte maggiore del tempo, di certo, ma la più importante. «Tempo di qualità», diremmo noi oggi, senza però aver inventato l’idea. Secondo l’intuizione dell’Esodo, si tratta di un giorno su sette, destinato a recuperare ciò che ci fa autenticamente esseri umani, anzi creature, se è vero che al riposo settimanale sono richiamati non solo tutti gli esseri liberi, ma anche gli schiavi e il forestiero e addirittura il bestiame (v. 10: «il settimo giorno è il sabato, in onore del Signore»). Di più, persino Dio si è fermato il settimo giorno (20,11), perché il ritorno all’essenziale della nostra esistenza, indipendentemente da tutto il lavoro più urgente che dobbiamo accollarci, è un’esigenza dei viventi tutti.
Fino a coinvolgere gli altri
I cerchi non si fermano. Il v. 12 («Onora tuo padre e tua madre») sembra quasi collegare la dimensione divina con quella umana. Invita a «dare peso» ai genitori, che rappresentano ciò da cui veniamo senza averlo deciso, il dono di una vita che è in nostra gestione ma non ci siamo guadagnati. Non si toglie l’autonomia alle persone libere, non si dice che occorra ubbidire a ogni ordine dei «padri», ma che va concessa loro importanza, rilievo, peso. Non ci siamo fatti da noi, occorre riconoscerlo.
Nei primi «comandi», quelli fondamentali, il testo offre anche delle motivazioni. Qui lo fa per l’ultima volta, indicando, più che la ragione, lo scopo: «perché si prolunghino i tuoi giorni». Il verbo ebraico può essere tradotto «allungarsi» («prolunghino» nella traduzione Cei), come fanno tutte le versioni moderne, ma anche «approfondirsi», come se la percezione di ciò da cui veniamo, la consapevolezza di dover essere grati per un dono che non ci siamo cercati, permetta non solo di allungare il tempo della nostra vita, ma (soprattutto?) di viverlo in profondità, conoscendone il pregio. È diverso il nostro rapporto con un oggetto che ci siamo comprati da quello che abbiamo con un regalo ricevuto.
Gli altri comandamenti, più veloci e secchi, si pongono a questo punto ancora come conseguenza dell’intuizione di fondo iniziale.
Dal momento che conosco il pregio della mia vita, rispetterò anche quella altrui («Non uccidere», v. 13).
Anzi, non mi limiterò a rispettare la vita fisica, ma anche quella dimensione di speranza e costruzione di vita che è soprattutto il legame di coppia: «Non commettere adulterio» (v. 14). Questo comandamento nella tradizione si è ampliato a tutti i reati sessuali, ma non è così nel testo biblico, il quale non sembra tanto interessato al sesso in sé, quanto alla relazione tra persone.
Ma sono a servizio della vita anche i possedimenti altrui («Non rubare», v. 15), e il buon nome che tutela una piena vivibilità dell’esperienza umana («Non risponderai contro il tuo prossimo una testimonianza falsa»: v. 16).
All’ultimo cerchio concentrico troviamo anche il semplice desiderio dei beni degli altri, perché sentirsi minacciati nelle proprie «cose» rende precaria la vita. L’elenco del v. 17 («Non desidererai la casa del tuo prossimo», la moglie, lo schiavo, il bue, l’asino, ecc.) risente di una cultura contadina arcaica, nei fatti molto maschilista e pronta non solo a considerare la moglie uno dei tanti beni, ma a metterla in un ordine approssimativamente di costo economico: per questo viene dopo la casa, anche se prima del bue… (v. 17).
È come se, progressivamente, si cogliessero, una per volta, le conseguenze del passo precedente. Al centro di tutto, però, come causa prima delle nuove intuizioni, c’è la percezione che non siamo soli, che Dio è con noi, che è in relazione con noi, che intende salvarci. Tutto il resto è conseguenza. E non tanto comando, ordine, quanto, per così dire, percorso per assomigliare sempre più a Dio, istruzioni per vivere bene questa relazione con lui che trasforma la nostra vita.
Angelo Fracchia
(Esodo 12 – continua)