Uniti in difesa dell’Amazzonia

testo di Paolo Moiola |


A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social  panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.

Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».

Il cammino del Fospa

Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.

Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).

Il volo di un uccello nell’Amazzonia boliviana. Foto Paolo Moiola.

La resistenza contro il modello imperante

Il logo del Fospa e il manifesto del convegno dello scorso novembre, organizzato a Mocoa, in Colombia, in modalità virtuale. Immagine di FOSPA, novembre 2020.

Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.

Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».

In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.

In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.

«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).

Neppure il Covid

Ambiente e popolazioni della  Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.

Il logo del Fospa.

«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.

A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.

Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.

«Natura sana, popolazioni sane»

La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.

Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».

Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.

Un’iguana. Foto Paolo Moiola.

Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.

Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.

Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.

Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.

Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.

La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».

Un ragazzo, probabilmente figlio di un ribeiriño, su una canoa nelle acque intorbidite del Rio delle Amazzoni, in Brasile. Foto Paolo Moiola.

Le direzioni della storia

Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.

La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».

Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.

Paolo Moiola

Delfini di fiume in un affluente del Rio delle Amazzoni. Foto Paolo Moiola.




Brevetti farmaceutici:

soldi pubblici, profitti privati

testo di Francesco Gesualdi |


Nati per proteggere i diritti degli inventori, i brevetti sono particolarmente odiosi quando riguardano i farmaci. La ricerca costa, ma è anche vero che spesso essa viene finanziata con denaro pubblico, come sta avvenendo per i vaccini contro il Covid-19.

La pandemia da Covid ha riacceso la discussione attorno ai brevetti farmaceutici, cosa che succede ogni volta che scoppia un’emergenza sanitaria. Successe nel 1997 quando ci fu l’emergenza Aids, nel 2013 quando scoppiò l’infezione da Ebola e succede oggi che siamo assediati dal Coronavirus.

Il brevetto è una protezione accordata dall’autorità pubblica agli inventori, per impedire che altri possano usare le loro invenzioni senza permesso e senza aver pagato un prezzo per il loro uso.

Si narra che il primo brevetto sia stato rilasciato in Inghilterra nel 1449 dal re Enrico IV a favore di tale John of Utynam, un produttore di vetro di origine fiamminga. L’attestato reale gli assicurava il diritto di produrre in esclusiva, per la durata di venti anni, il vetro speciale di sua invenzione. In quello stesso periodo, in tutta Europa la scienza muoveva i primi passi e le richieste di protezione si moltiplicarono. Fra il 1561 e il 1590 la regina Elisabetta I rilasciò una cinquantina di brevetti permettendo ai beneficiari di detenere il monopolio produttivo di prodotti come sapone, pellame, tessuti, metalli, carta. Ma la protezione non era gratuita e, pur di incassare, la Corona rilasciava brevetti anche a impostori che non avevano inventato proprio nulla di nuovo. Ne venne fuori un mezzo scandalo che, nel 1624, spinse il Parlamento inglese a mettere ordine nella materia emanando un’apposita legge sui brevetti. Nel 1790 fu la volta degli Stati Uniti e in breve di tutti gli altri paesi industrializzati che, a loro volta, si dotarono di una legislazione a tutela delle invenzioni. Ma le protezioni accordate avevano validità solo all’interno dei confini nazionali, per cui non scongiuravano il rischio che le invenzioni potessero essere copiate da soggetti esteri. Nel 1873 questa paura divenne così dilagante da mandare deserta la più importante fiera internazionale delle invenzioni che si teneva a Vienna. Tanto che nel 1883 i governi degli undici paesi più industrializzati si ritrovarono a Parigi con l’intento di formare un’area di protezione comune, all’interno della quale i brevetti rilasciati in un qualsiasi paese firmatario valessero anche negli altri. L’accordo, che prese il nome di Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale, prevedeva anche l’istituzione di un organismo di vigilanza denominato Birpi, Ufficio internazionale per la protezione intellettuale. Nel 1967 il Birpi venne soppresso e sostituito con la Wipo, Organizzazione mondiale per la protezione intellettuale, elevata addirittura al rango di Agenzia speciale delle Nazioni unite.

L’istituzione della Wipo fu il primo passo per estendere la protezione della proprietà intellettuale, ossia delle invenzioni e delle scoperte scientifiche, a livello mondiale. Fino ad allora tale problema non era sentito perché il mondo industrializzato era circoscritto a una manciata di paesi, collettivamente definiti Nord del mondo, che già avevano adottato regole comuni.

I brevetti ai tempi della globalizzazione

Col passare degli anni, altri paesi del cosiddetto Sud del mondo, in particolare Brasile, Argentina, India, Cina, Sudafrica, cominciarono a sviluppare il proprio apparato produttivo e fra le imprese del vecchio mondo industrializzato tornò la paura di essere derubate delle proprie invenzioni. Così sorse il problema di come obbligare anche i paesi del Sud ad adottare le stesse regole di protezione di proprietà intellettuale che il Nord applicava già da decenni. L’occasione si presentò a metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando lo sviluppo dei trasporti e delle nuove tecnologie di comunicazione avevano intensificato gli interscambi planetari a tal punto che tutti i paesi si erano convinti della necessità di facilitare ulteriormente l’integrazione economica mondiale. Insomma tutti pensavano che fosse conveniente per ognuno aprirsi ai rapporti con gli altri, ma per riuscirci bisognava rendere i confini più porosi. Nasceva la globalizzazione che fondamentalmente chiedeva alle nazioni di tutto il mondo di ridurre al minimo i dazi doganali e di abbassare il più possibile le regole di carattere ambientale, sanitario, sociale, in modo da creare meno ostacoli possibile al fluire di merci, capitali e processi produttivi. In tutti gli ambiti fuorché uno: quello dei brevetti per i quali si chiedeva l’innalzamento di barriere protettive.

La costruzione di un mondo pensato più per merci, capitali e interessi industriali che per le persone, esigeva l’adozione di una serie di nuove regole che richiese un intero decennio di trattative internazionali sui temi più disparati. Fra essi quello relativo alla protezione della proprietà intellettuale per il quale venne costituito un apposito tavolo che, alla fine, partorì un accordo denominato Trips, Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, richiamato come fonte giuridica. Detto accordo comparve in bella mostra fra i sei trattati posti a fondamento   della nuova architettura commerciale internazionale, supervisionata da un nuovo organismo che debuttò nel 1994, sotto il nome di Organizzazione mondiale del commercio (Omc, Wto per dirla all’inglese).

«La ricerca costa»

Nel Sud del mondo, uno degli ambiti dove più si sentirono gli effetti negativi del giro di vite operato sui brevetti, fu quello farmaceutico. Fino ad allora vi erano stati paesi, fra cui India, Brasile, perfino Thailandia, dove l’assenza di obblighi di licenza verso i soggetti esteri proprietari delle formule aveva permesso il fiorire di un’industria farmaceutica locale che produceva farmaci a prezzi molto più bassi di quelli commercializzati dalle imprese proprietarie dei brevetti. La spiegazione fornita dalle grandi case farmaceutiche a giustificazione degli alti prezzi di vendita applicati sui propri prodotti è che la ricerca costa, a volte anche molto, mentre il tempo a  disposizione per recuperare i soldi investiti non va oltre i venti anni. Periodo dopo il quale ogni formula può essere usata liberamente dando luogo ai così detti farmaci generici. Considerato l’alto tasso di segretezza che avvolge le imprese, i conti nelle loro tasche non si possono fare, ma un aspetto che le case farmaceutiche evitano sempre di raccontare è quanto vale la compartecipazione dei soggetti pubblici sotto forma di contributi in denaro o di pezzi di ricerca eseguiti nelle università pubbliche. A tale proposito ci viene in aiuto un’indagine Ocse, secondo la quale  la spesa complessiva per ricerca farmaceutica e sanitaria nei trenta paesi più industrializzati nel 2014 ammontava a 151 miliardi di euro, di cui 100 sostenuti dalle imprese e 51 dai governi. Venendo al presente, il solo governo degli Stati Uniti ha erogato circa 10 miliardi di dollari a fondo perduto a favore di sette imprese farmaceutiche impegnate nella messa a punto di vaccini anti-Covid. Ricevere soldi pubblici e poi imporre prezzi salati è però cosa indecente. Meglio sarebbe che la ricerca per la cura delle malattie fosse sostenuta interamente dagli istituti pubblici e messa a disposizione gratuitamente a tutti, salvo coprire le spese con l’innalzamento delle imposte sui redditi d’impresa. La trasformazione del sapere in bene comune è l’unico modo per sbarazzarsi dei brevetti che creano disuguaglianza e gettano nella disperazione i più poveri.

La battaglia del Sudafrica di Mandela

Il primo paese a portare l’attenzione su quanto i brevetti possano essere devastanti per le popolazioni dei paesi più poveri, fu il Sudafrica che nel 1997 si trovò a fronteggiare una grave crisi da Aids. Gli unici farmaci antiretrovirali contro l’Hiv circolanti nel paese erano quelli prodotti dalle grandi multinazionali detentrici delle formule, che sperimentavano quanto fosse più lucroso essere padroni del mercato piuttosto che concedere licenze. A rimetterci erano i malati che avrebbero dovuto lavorare un anno di fila per poter sostenere la cura di un solo mese. A quei prezzi, neppure il governo era in grado di procurarsi tutte le dosi che servivano per curare le centinaia di migliaia di malati presenti nel paese. Eppure, c’erano nazioni che non avendo ancora applicato il trattato sulla protezione della proprietà intellettuale producevano quegli stessi farmaci a costi molto più bassi.

Perciò Mandela, che all’epoca guidava il Sudafrica, autorizzò l’importazione parallela dei farmaci anti Hiv da paesi come l’India e il Brasile. La reazione delle case farmaceutiche fu immediata e, invocando la violazione di tutte le regole a protezione dei brevetti, dichiararono di voler dare battaglia in tutte le sedi possibili: dai tribunali locali al gran giurì dell’Organizzazione mondiale del commercio. Fortunatamente ci fu una grande sollevazione della società civile che provocò una tale indignazione a livello mondiale da indurre le multinazionali a ritirarsi da tutte le iniziative giudiziarie da loro avviate. Tuttavia, il caso aveva fatto scuola e vari paesi del Sud del mondo pretesero che l’Organizzazione mondiale del commercio dichiarasse nero su bianco che le emergenze sanitarie sono motivazioni sufficienti per sospendere le regole a protezione dei brevetti.

Emergenza Covid-19

Nel 2003 una nota del Consiglio generale dell’Omc precisava tre punti fondamentali. Primo: le regole sulla proprietà intellettuale non possono e non devono essere di impedimento alla tutela della salute pubblica. Secondo: in caso di bisogno, i paesi in emergenza possono autorizzare al proprio interno la produzione dei farmaci necessari a fronteggiare la crisi, pur in assenza di licenza da parte dei detentori dei brevetti, purché venga pagato un indennizzo. Terzo: se nel paese in emergenza non esistono le condizioni industriali per produrre i farmaci che servono, essi possono essere importati dai paesi che, per le ragioni più varie, producono i farmaci senza licenza e, quindi, a basso prezzo.

Nonostante l’esistenza di tali salvaguardie, il 2 ottobre 2020 India e Sudafrica* si sono rivolti agli organi di governo dell’Omc per richiedere la momentanea sospensione del trattato sulla protezione della proprietà intellettuale sostenendo che è di ostacolo alla possibilità di procurarsi, con rapidità ed economicità, tutto ciò che serve per far fronte alla pandemia da Covid-19: dalle mascherine ai ventilatori, dai kit diagnostici ai farmaci antivirali, dai disinfettanti ai vaccini. Il 16 ottobre la richiesta è stata discussa all’interno del Consiglio di vigilanza del trattato, ma nessuna decisione è stata presa. Si è semplicemente preso atto che i paesi presenti erano divisi in tre gruppi: i più poveri favorevoli alla richiesta, quelli a reddito medio con richieste di chiarimenti e i più ricchi contrari. Segno di quanto sia ancora forte la sudditanza della politica nei confronti delle imprese. Una situazione che pone non solo problemi di etica, ma anche di democrazia.

 Francesco Gesualdi

Farmaci e vaccini: come ci si regolerà per il Covid-19? Foto Myriams Fotos – Pixabay.




Myanmar:

Lotta alla polio sui monti dei Chin

testo e foto di Dan Romeo | www.iviaggididan.it |


Era il febbraio del 2016 quando per la prima volta ho visitato il «Chin state», un piccolo stato che fa parte di quello che, con il dominio coloniale britannico, era chiamato la Birmania e poi, sotto la dittatura militare, è stato ribattezzato Myanmar.

Gli abitanti del Chin sono di origine sino-tibetana e occupano quella catena montuosa che copre approssimativamente la Birmania (oggi Myanmar) occidentale fino a Mizoram, nel Nord Est dell’India, e piccole parti del Bangladesh. Non costituiscono un unico gruppo, ma hanno tra di loro diverse etnie come Asho, Cho, Khumi, Kuki, Laimi, Lushai e Zomi, ciascuna con la propria lingua appartenente alla famiglia linguistica tibeto-birmana.

Per circa l’80% sono cristiani, mentre la popolazione rimanente è buddhista o animista. Il loro numero in Myanmar è incerto a causa dell’assenza di statistiche demografiche affidabili sin da prima della seconda guerra mondiale. Oggi si stima che ci siano circa mezzo milione di Chin nello stato omonimo e nel Sagaing, nel Nord Ovest del Myanmar.

Poveri e accoglienti

La maggior parte dei Chin vive in villaggi o piccolissime città. Le loro case sono tradizionalmente costruite in legno e appoggiate spesso in maniera precaria su pilastri consumati dal tempo; hanno tetti di paglia e pareti di bambù. Nonostante le loro condizioni di vita siano estreme, i Chin sono sempre disposti ad aprire le porte delle loro case con il sorriso per accogliere i rari stranieri che riescono a raggiungere i loro villaggi remoti. Hanno un desiderio insaziabile di conoscere e scoprire tutto ciò che sta al di là delle loro montagne.

Lo stato di Chin è una delle zone più povere del Myanmar. Più di sette persone su dieci sono sotto la soglia di povertà e circa l’80% delle famiglie vive in condizioni al limite della sopravvivenza e con carenza alimentare. Recenti statistiche stimano che un bambino su dieci muoia entro entro i cinque anni di vita, con un tasso di arresto della crescita infantile pari al 41% e con il 20% dei bambini sottopeso. Basti pensare che qui solo il 15% dei bambini è nato in una struttura sanitaria.

I bambini protagonisti

Nel 2016 Unicef Myanmar mi affidò l’incarico di documentare la campagna di vaccinazione contro la poliomielite appena lanciata. Il team sul campo mi informò della difficoltà del viaggio, soprattutto durante la stagione dei monsoni, quando interi versanti delle montagne franano a valle rendendo le strade impraticabili. Ma la proposta costituiva per me un’opportunità più forte di qualsiasi difficoltà. Mi ritrovai nella capitale dello stato del Chin, Hakha, dopo tre settimane di viaggio estenuante, prima in aereo e poi in auto su strade sterrate, spesso ridotte a pietraie, che si inerpicano sulle montagne al confine con l’India e il Bangladesh. Tracciati di terra di un giallo intenso su strapiombi mozzafiato, con pareti di roccia, spesso segnati da frane, contro le quali lungo tutto il percorso sono pronti scavatori e camion durante tutto l’anno.

Per due settimane sono poi passato di villaggio in villaggio, di casa in casa con gli operatori sanitari per sensibilizzare sui benefici della vaccinazione contro la poliomielite e somministrare i vaccini. Una campagna che ha cercato di colmare i ritardi decennali causati da strutture inadeguate e soprattutto da anni di guerra civile che hanno provocato la fuga e la migrazione di gran parte della popolazione.

in basso, in primo piano, la cattedrale di Hakha, la capitale del territorio Chin.

Il racconto di Eint

Particolarmente toccante per me fu la testimonianza di Eint, una mamma di sette figli, che con il suo ultimo nato appena vaccinato in braccio, mi raccontò che non avrebbe mai dimenticato quanto era accaduto un anno prima, nell’ottobre 2015, quando suo figlio di circa due anni era stato in condizioni fisiche precarie e, nonostante le medicine, aveva continuato ad avere una febbre persistente. «Un giorno, dopo aver partecipato a una festa nel villaggio dei miei genitori, tornati a casa, notai che mio figlio era febbricitante e cadeva a terra ogni volta che cercava di alzarsi».

Per questo Eint lo aveva portato d’urgenza in ospedale. Dopo la visita medica, «i medici mi hanno detto che era la poliomielite. È stato un momento molto duro e complicato», mi disse Eint. «Mi sentivo una mamma inutile».

Suo figlio era uno delle decine di migliaia di bambini che ogni anno contraggono l’infezione da virus della poliomielite, ma era stato salvato grazie alla prontezza della madre che lo ha portato all’ospedale ai primi sintomi.

La sfida

I servizi di immunizzazione, specialmente nelle aree difficili da raggiungere come lo stato del Chin, rappresenta una sfida per il sistema sanitario del Myanmar. Di conseguenza, i bambini sono meno protetti dai virus. Nei villaggi dove la maggioranza della popolazione è musulmana, ci sono anche barriere linguistiche e culturali che aumentando la distanza tra la comunità e il personale sanitario e i volontari.

La violenza intercomunitaria scoppiata nel 2012 nel vicino stato di Rakhine – dove vivono i Rohingya – ha complicato ulteriormente la situazione e, di conseguenza, i bambini di tutte le comunità corrono rischi maggiori.

Sono stato testimone di come l’Oms, insieme a Ong internazionali e al ministero della Salute del Myanmar, stia cercando di debellare la polio, sia con l’informazione e campagne di sensibilizzazione che con la vaccinazione sistematica in tutto il Myanmar e in particolare nelle aree più remote come Rakhine, Chin, Magway, Bago e Ayeyarwady. Le immagini di queste pagine cercano di documentare l’ambiente nel quale vive la minoranza cristiana Chin e la campagna di vaccinazione rivolta a salvare bambini sotto i cinque anni dalla polio.

Daniele Romeo
dan@dan.ph

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I Perdenti 58. Beato Carlo Acutis

L’Eucaristia «è la mia autostrada per il Cielo». Sono le parole semplici e significative di un adolescente, espresse nel linguaggio tipico dei giovani d’oggi. Quel ragazzo era Carlo Acutis.

Carlo nasce a Londra, dove i genitori si trovano temporaneamente per motivi di lavoro, il 3 maggio 1991, da Andrea Acutis, di una nota famiglia di Torino, e Antonia Salzano, una coppia di genitori dediti al lavoro e alla famiglia. Appena un mese dopo la nascita di Carlo, la famiglia si stabilisce, per motivi di lavoro del padre, a Milano dove il piccolo Carlo inizia a frequentare le scuole prima presso le Suore Marcelline e, poi, nel liceo classico «Leone XIII», diretto dai Gesuiti.

Curiosità viva

Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: quella di avere una grande curiosità sul mondo che lo circonda e sul mistero della vita. È talmente curioso – specialmente sulle questioni religiose – che la mamma inizia a seguire un corso di teologia per riuscire a soddisfare le domande che il figlio, man mano che cresce, le pone. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva: Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli. Prende a modello di vita alcuni giovani santi: Francisco e Jacinta Marto, i pastorelli di Fatima, Tarcisio, Luigi Gonzaga, Domenico Savio.

Anche al catechismo si distingue per la sua attenzione, per la capacità che ha di entrare nel mistero di Dio.

Amore all’Eucarestia

All’età di sette anni riceve la prima comunione: da allora, come racconterà la mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». S’innamora così tanto dell’Eucaristia che ne diviene un vero apostolo, non solo presso i suoi amici e coetanei e verso i più piccoli quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, attraverso una delicata sensibilità cristiana che resta una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita.

Assisi

Carlo ha un legame speciale con Assisi, «un luogo che il giovane milanese amava e in cui ha respirato il carisma di Francesco – scriverà di lui William Stacchiotti su La Voce -. Lo considerava il posto che lo faceva sentire più felice e qui aveva espresso il desiderio di essere sepolto. Carlo ha iniziato a frequentare la città dal 2000 dopo che i genitori acquistarono un’abitazione nel centro storico a fianco alla chiesa di Santo Stefano. Durante le festività natalizie e pasquali e nelle vacanze estive, amava trascorrere il suo tempo in città insieme ai suoi amici frequentando la piscina e giocando a calcio. Una vita serena, spensierata, vissuta con gioia con i suoi coetanei e con le persone incontrate nei suoi lunghi soggiorni. Egli non era un semplice turista o un pellegrino come i tanti che affollano la città del Poverello».

La malattia fulminante

Ma la storia terrena di questo giovane non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Si pensa inizialmente a una semplice febbre, un’influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi portano a una diagnosi infausta: leucemia del tipo M3, incurabile.

Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Entrando dice a sua madre: «Da qui non uscirò più», le sue sono parole di un’autentica profezia. Nei giorni del ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non viene mai sentito lamentarsi, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, lui sempre risponde: «Bene, c’è gente qui che sta peggio di me. Non svegliate mia madre che è stanca e si preoccuperebbe». Ormai conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: «Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso». Il 9 ottobre chiede l’unzione degli infermi, tre giorni dopo, il 12 ottobre, si spegne serenamente, raggiungendo quel Cristo che tanto ha amato nella sua breve vita.

Originale, non fotocopia

Amava ripetere: «La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo». Sua inoltre è la frase: «Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie». Per orientarsi verso questa meta e non «morire come fotocopie», Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente. Ma per una meta così alta servono mezzi specialissimi: i sacramenti e la preghiera. In particolare, Carlo metteva al centro della propria vita il sacramento dell’Eucaristia che chiamava «la mia autostrada per il Cielo». Così lo ricorda mons. Michelangelo M. Tiribilli al Sinodo dei giovani del 2018.

Amore ai poveri

I funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: si presentano alla celebrazione persone di ogni ceto, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito, un giovane che si avvicinava a loro, che li aiutava, che li faceva sentire amati, tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neanche dalla mamma.
È un classico dei santi, chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.

Carlo, in uno dei suoi video, ha espresso il desiderio di essere sepolto in terra ad Assisi, e viene, quindi, inumato in una tomba della famiglia nel cimitero della città francescana.

Amico di Gesù

La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo, Carlo è stato un giovane come tanti giovani, ma nella sua normale giovinezza ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei fa fatica a cogliere: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e stordisce, Carlo è riuscito a sentire la voce sottile del Signore, che chiama a una vita vera; fra i fuochi della gioventù e le tormente del XXI secolo è riuscito a sentire quel sussurro di una brezza leggera, che è stato per lui e, attraverso lui, per molti, una trasfigurazione che lo ha fatto somigliare a quel Gesù che tanto ha amato. Carlo Acutis è la dimostrazione che non esistono tempi o età in cui è più difficile vivere la fede, perché Gesù non è un ideale o un pensiero filosofico, Gesù è una persona viva, che ama, che si fa amare, e l’amore non ha tempo e non ha età.

Il miracolo

Il 12 ottobre del 2010, mentre si celebrava il ricordo di Carlo nella parrocchia di Nostra Signora Aparecida di Campo Grande, in Brasile, al momento della benedizione con una sua reliquia, si avvicinò al sacerdote celebrante un uomo con il suo bambino in braccio, affetto da pancreas anulare, una rara malattia, che causava al bambino continui conati di vomito, anche se ingeriva solo liquidi. Giunti dinanzi alla reliquia, il bambino chiese al padre cosa dovesse dire e il padre rispose: «Chiedi di smettere di vomitare». Baciando la reliquia il bambino ripeté le parole «smettere di vomitare». Da quel momento il vomito cessò per non tornare più. Nel mese di febbraio del 2011 i genitori sottoposero il bambino a nuove analisi ed emerse che il piccolo era totalmente e inspiegabilmente guarito. Questo miracolo è stato riconosciuto dalle Commissioni della Congregazione delle Cause dei Santi per la beatificazione di Carlo.

Beatificazione

Constatata la grande fama di santità di cui Carlo ha goduto sin dal giorno della sua morte, il 15 febbraio 2013 fu istruito il processo diocesano per la sua beatificazione, conclusosi il 24 novembre 2016.

Carlo fu dichiarato venerabile il 5 luglio 2018.

Il 6 aprile 2019 fu riesumato (come è tradizione fare nel caso di cause di beatificazione) e il corpo fu trovato in buono stato di conservazione, ancora con tutti gli organi integri. Ne fu prelevato il cuore (come reliquia) e il corpo fu trattato per la conservazione. Fu quindi traslato nel Santuario della Spogliazione, dove si venera all’interno di un monumento funebre, dotato di vetro, che permette, durante le ostensioni, di vederne il corpo.

Il 20 febbraio 2020 fu promulgato il decreto sul miracolo. La cerimonia religiosa della sua beatificazione si tenne il 10 ottobre 2020, celebrata nella sua amata Assisi.

Patrono dell’Internet?

Nell’esortazione apostolica Christus vivit – scritta a fine marzo 2019 -, papa Francesco, dopo aver ricordato tanti santi e sante giovani, ha un ricordo particolare per Carlo e le sue brillanti doti informatiche. «Ti ricordo – scrive nei nn. 104-106 – la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane venerabile Carlo Acutis.

Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.

Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo».

Queste parole di papa Francesco hanno incoraggiato l’iniziativa di chiedere che Carlo sia proclamato il patrono del web.

don Mario Bandera

Clicca qui per andare al sito ufficiale sul beato Carlo Acutis
con accesso all’Associazione Carlo Acutis e al Progetto TUCUM.




Guerre di ieri e di oggi


Parliamo di guerra. Lo facciamo attraverso le parole di tre autori molto eterogenei tra loro. Tre modi diversi di ricordare, raccontare e vivere la tragedia della guerra che, forse, hanno in comune un obiettivo: esorcizzarla.

La guerra dei Bepi

Andrea Pennacchi è padovano, classe 1969. Attore e scrittore di teatro. Il grande pubblico lo conosce grazie al suo intervento settimanale a Propaganda Live, programma di attualità, politica e società su La7 (l’ex Gazebo di Rai3).

A settembre è uscito, con la casa editrice milanese People, La guerra dei Bepi. Quindici euro molto ben spesi.

Si tratta di un testo teatrale adattato, ma non troppo, alla narrativa, nel quale Pennacchi viaggia attraverso tre guerre: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, e poi quella Somala.

Dall’aprile del 1945 l’esercito italiano non è più coinvolto in uno scontro bellico fino al 2 luglio del 1993. L’incantesimo si rompe a Mogadiscio, al checkpoint Pasta, dove i soldati italiani sono impegnati nell’operazione Unosom.

Andrea Pennacchi fa parte di quel contingente militare. Volontario. E non per caso.

Suo nonno, da tutti chiamato Bepi, ha combattuto nelle trincee del Carso.

Suo padre, nome di battaglia Bepi, ha combattuto tra le fila partigiane. Arrestato, deportato, sopravvissuto in qualche modo ai lager.

Andrea, nipote e figlio dei due Bepi, va alla ricerca delle sue radici nel modo più complesso, pericoloso e contraddittorio: in guerra.

«Quando ho deciso di fare il servizio militare – racconta -, ero desideroso anche io di far parte di quell’epos che aveva attraversato la storia della mia famiglia, volevo in un certo senso essere anche io un Bepi».

Il testo è godibile, forte, veneto, divertente, tragico, serio, comico, tagliente, proprio come il Pennacchi che abbiamo conosciuto in Tv.


Admira e Bosko

Andrea Roccioletti, torinese, classe 1979, è un libraio, ma anche (forse soprattutto) un art performer di gran talento. Tra i suoi studi, la Scuola di applicazione dell’Esercito, come civile. Ramo peacekeeping.

Nel 2019 ha scritto per l’editore torinese Autori Riuniti, un romanzo breve dal titolo Admira e Bosko. Sarajevo 1993.

Ancora il 1993, ma due mesi prima i fatti di Mogadiscio di cui parla La guerra dei Bepi.

La storia di Admira Ismic e Bosko Brkic è conosciuta: lei, una ragazza musulmana, lui, il suo fidanzato serbo ortodosso, in una Sarajevo assediata. Il 19 maggio del 1993 furono uccisi, mentre cercavano di fuggire assieme attraversando il ponte Vrbanja, dai cecchini serbi
(vedi MC 10/2017, I Perdenti 28).

A rendere originale il lavoro di Roccioletti non è solo la scelta dello strumento, il romanzo, ma il fatto di averlo scritto con una giovane scrittrice di origine tunisina, Miriam Tahri.

L’amore tra un ortodosso e un’islamica, scardina le logiche imposte dall’assedio. Amore e guerra lottano tra loro, e l’amore, in guerra, soccombe.

La domanda che ci facevamo nel ‘93 era: «Com’è possibile stia accadendo a pochi chilometri da qui?». Il libro di Roccioletti e Tahri, ha sempre sotto traccia questa risposta: «Non solo è stato possibile, ma potrebbe esserlo ancora. Magari non più a Sarajevo, ma più vicino. Magari a casa nostra».

Nell’incipit c’è tutta la capacità dell’autore di prendere per mano il lettore: «Adesso. Io sono l’assassino. Sono certo che leggerai le prossime righe con alcune aspettative. Forse ti aspetti che io ti racconti il mio punto di vista […], che ti racconti come si diventa un assassino […], così che tu possa trarre qualche lezione dalla mia esistenza; ma essa è al tuo servizio tanto poco quanto lo è stata al mio, perché sul male inflitto e quello subito, pennelliamo una doratura di significato che niente dura alla prova del tempo».

Andrea Roccioletti non lo trovate sui social, ma ha un sito: www.roccioletti.com.

Parole buone per superare la crisi

Arriviamo così a Sergio Astori, bergamasco, docente all’Università Cattolica, medico chirurgo specializzato in psichiatria. Anche il suo libro parla di guerra, della guerra mondiale in corso, iniziata nella lontana metropoli di Wuhan, in Cina, a fine 2019, e arrivata in Europa, segnando in modo decisivo le nostre vite. La prima guerra pandemica da molti decenni a questa parte.

La chiave di lettura di Astori capovolge lo schema della visione corrente sulla crisi in corso.

Già il titolo del libro segna la differenza: Parole buone. Pillole di resilienza per superare la crisi.

Proprio perché la pandemia, durante il lockdown di primavera, ci ha precipitati in un linguaggio bellico, il prof. Astori e un piccolo ma tosto gruppo di collaboratori, ha iniziato a cercare, raccontare, diffondere #ParoleBuone, testi che affrontano la «solidarietà», la «prossimità», la «semplicità», l’«ascolto», il «rischio», per accendere una luce di speranza in un tempo di vero e proprio smarrimento collettivo, di fronte alle bare, alle ambulanze, agli infermieri stravolti, ai medici che muoiono curando.

Nella prefazione, Luca Rolandi, giornalista e ricercatore storico, scrive: «Non esiste la normalità, il benessere economico che nasconde abissi di dolore psicologico e morale, esiste la tenerezza dell’amore e della solidarietà […] perché le Parole Buone aiutano […] l’uomo a vivere di ciò che sta sopra di lui».

Le Parole Buone raccolte nel libro, sono state in primavera un’oasi per centinaia di persone barricate in casa. La multimedialità messa a punto dal gruppo di lavoro (social, radio, carta stampata, linguaggio dei segni) ne ha permesso la capillarità.

Quelle parole, nate qualche mese fa, sono ancora drammaticamente attuali. La guerra non è ancora finita. Il libro di Sergio Astori ci aiuterà a superarla.

Sante Altizio

 




Ven, 1 gennaio 2021 – MARIA ss. MADRE DI DIO (s)

Nm 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21

Dio abbia pietà di noi e ci benedica

Maria conserva nel cuore, soppesando ogni cosa. È il modello di una vita raccolta, cioè non dispersa come spesso invece è la nostra, distratta e affannata. Anche per Lei non era tutto chiaro, anzi. Nella fede è per noi vera Maestra. E oggi ci confida il segreto perché questo sia un anno luminoso, pieno di speranza: prestare ascolto, fare attenzione, ponderare gli avvenimenti, offrendo noi stessi a Dio in quello che accade. La voce di Dio è spesso sottile, dobbiamo fare silenzio per accoglierla.