Uniti in difesa dell’Amazzonia
testo di Paolo Moiola |
A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.
Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».
Il cammino del Fospa
Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.
Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).
La resistenza contro il modello imperante
Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.
Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».
In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.
In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.
«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).
Neppure il Covid
Ambiente e popolazioni della Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.
«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.
A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.
Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.
«Natura sana, popolazioni sane»
La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.
Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».
Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.
Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.
Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.
Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.
Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.
Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.
La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».
Le direzioni della storia
Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.
La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».
Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.
Paolo Moiola