Ragazzi dimenticati

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.


testi e foto di Daniele Biella; dossier a cura di Luca Lorusso |


Sommario

Fantasmi in carne e ossa

I minori migranti senza famiglia in cerca di un approdo

Tra i migranti che attraversano il mediterraneo o la rotta balcanica, diversi sono ragazzi soli, minori non accompagnati. Come gli adulti, anche loro hanno un progetto migratorio, un sogno. Fuggiti da contesti pericolosi per la loro vita, viaggiano in cerca di un luogo sicuro in Europa. Ma l’Europa li respinge, e lo fa talvolta con violenza. Quella fisica, e quella psicologica dell’indifferenza istituzionale che li rende invisibili.

«Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione europea, premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che sono costretti a subire». Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children Italia non parla di fantasmi, ma di persone, di minorenni stranieri non accompagnati.

Sono ragazzi soli, che lasciano l’inospitale madrepatria muovendosi, senza documenti validi, per mesi o anni, lungo rotte precarie e malsane. Si fermano ogni tanto per svolgere lavori di fortuna utili a guadagnare il pezzo successivo del viaggio. Magari hanno in testa una meta precisa: Inghilterra, Germania, Belgio, Francia, Olanda, ma il loro futuro è incerto. La loro condizione di migranti e di minori lontani dalla famiglia originaria, li espone alle leggi spesso anacronistiche degli stati che attraversano, e a persone senza scrupoli che lucrano sulle loro speranze.

Un disastro umanitario nero su bianco

Save the Children Italia, che ha come mission la salvaguardia dei minori e delle loro famiglie, ha compiuto di recente un passo importante per far uscire allo scoperto il tema della condizione dei migranti minori non accompagnati, portandolo sui tavoli del potere in Italia e in Europa: ha chiesto a due giornalisti – a chi scrive, e al fotoreporter Alessio Romenzi – di seguire le rotte percorse a piedi dai minori non accompagnati lungo le frontiere Nord dell’Italia, oggi più interessate dalle migrazioni forzate, ovvero quelle di Trieste e Udine in entrata e di Ventimiglia e Oulx/Claviere in uscita. Ad accompagnare i due giornalisti, per quasi due mesi di ricerca sul campo, Antonella Inverno, responsabile infanzia e adolescenza dell’Ong fondata a Londra nel 1919 da Eglantyne Jebb.

Lo scopo? Realizzare un report che mettesse nero su bianco il disastro umanitario in atto nelle strade e dentro i confini d’Europa – dove i riflettori accesi sono pochi -, che avesse come protagonisti i più vulnerabili, i ragazzini soli.

«Nascosti in piena vista» è il titolo del report, uscito il 17 giugno 2021, tre giorni prima della Giornata mondiale del rifugiato e alle porte del Consiglio d’Europa. Una cinquantina di pagine (consultabili e scaricabili dal sito: www.savethechildren.it/storie-di-minori-migranti) con un forte j’accuse verso le istituzioni europee che, appunto, lasciano diventare fantasmi persone che invece hanno diritto a un’accoglienza immediata e a una vita dignitosa.

Nascosti in piena vista

Sono 9.131 i minori stranieri non accompagnati censiti in strutture di accoglienza in Italia a fine agosto 2021 (in forte aumento rispetto al 2020 quando sono stati 7.080 quelli registrati nell’intero anno). Per il 97% sono maschi, l’87% ha 16-17 anni. Le nazionalità più frequenti sono Bangladesh, Tunisia, Egitto, Albania, Pakistan, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e Afghanistan. Uno su tre si allontana dalla struttura dopo pochi giorni, con punte del 70% in alcune zone.

Altri dati interessanti emergono dall’analisi sul campo sulle frontiere meno monitorabili, quelle cui arrivano i migranti dalla cosiddetta «rotta balcanica», ossia quelle oggetto del report di Save the Children: i boschi tra Slovenia e Friuli Venezia Giulia, e i valichi e le montagne tra Liguria, Piemonte e Francia (come il «Passo della morte» tra Ventimiglia e Mentone): quasi nessuno si ferma in Italia, che siano minori soli o adulti e famiglie.

Nonostante la possibilità di fare domanda di asilo nel nostro paese, o, nel caso del minore, quella di venire accolto subito in comunità protette (come accade ai minori italiani, possibilità introdotta dalla Legge Zampa n. 47/2017, unica del suo genere in Europa), essi non si fermano, perché il loro progetto migratorio prevede di arrivare dove si trovano i loro famigliari, o comunque un numero maggiore di connazionali.

Tanti ragazzi afghani e pachistani, ad esempio, privilegiano l’Inghilterra o la Germania. Chi proviene dall’Africa subsahariana ed è francofono, vuole andare in Francia. Mentre iracheni e iraniani – nazionalità in crescita lungo le frontiere, anche famiglie con bimbi piccoli al seguito – puntano a diverse zone del Nord Europa.

L’aspetto più sconcertante che la ricerca mette in evidenza è che questi ragazzi in viaggio sono in balia di loro stessi. Se non fosse per il terzo settore (Ong, fondazioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, parrocchie) e per semplici cittadini che li intercettano rendendosi disponibili anche solo a dare loro un pasto caldo, un cambio di vestiti, o suggerire dove trovare un giaciglio per la notte, i rischi per loro aumenterebbero a dismisura.

Muri anacronistici e illegali

Il rifugio di Oulx, gestito dalla Fondazione Talità Kum; il presidio di Ventimiglia, nella sede di Caritas Intemelia, dove operano anche Save the Children, Diaconia Valdese e WeWorld; la postazione mobile della Croce Rossa Italiana a Claviere; i volontari dell’associazione Linea d’Ombra, con le associazioni Ics e StradaSiCura, nella piazza della stazione di Trieste dove i migranti arrivano con piedi e gambe devastati da settimane di cammino lungo la rotta balcanica, dopo privazioni e botte subite dalle forze dell’ordine di confine, soprattutto tra Croazia e Bosnia (si veda La dignità sotto i piedi, MC marzo 2021, ndr.). Ecco alcuni capisaldi di solidarietà in mezzo a un’indifferenza istituzionale che è capace di tramutarsi in un muro anacronistico, se non illegale.

Il muro di cui parliamo non è fatto dalle sole violenze fisiche subite dai migranti lungo alcuni confini d’Europa, come, appunto, quello croato o quello bulgaro, ma anche di atti illegittimi all’interno dei confini dell’Ue: diversi minori incontrati durante la ricerca hanno raccontato, ad esempio, di respingimenti subiti dalla polizia francese senza ricevere alcun documento in merito. Trattati come fantasmi, appunto. Altri si sono visti la propria data di nascita modificata dagli ufficiali di frontiera perché risultassero maggiorenni e quindi espellibili. Ci si chiede il motivo di questo accanimento, ma la risposta non arriva. Save the Children e tanti altri enti chiedono all’Unione europea per quale motivo non adotti leggi comuni per i minori, come per esempio un «lasciapassare» che permetta loro di chiedere aiuto dove si sentono più al sicuro.

I ragazzi migranti, invece, sono costretti a passare notti nei boschi o in mezzo alla neve delle montagne, vengono respinti e costretti a ritentare il passaggio. Nessuno di loro torna indietro. Tentano e ritentano non appena recuperate le forze, finché non ci riescono.

L’immagine è quella di un gioco dell’oca in cui tutti perdono: i migranti in termini di serenità mentale (quanto peserà dentro di loro la sensazione di essere considerati numeri e non persone?), le autorità che spendono milioni di euro in personale e attività di monitoraggio utili solo a tardare l’ineluttabile passaggio di frontiera, l’umanità stessa che vede quanto sia facile vanificare il messaggio ecumenico di papa Francesco sulla fratellanza tra i popoli.

L’ingresso in Italia: la fine del «game»

«Quando sbuchi dai boschi della Slovenia, ti può capitare di vederla all’improvviso. L’Italia. Trieste, il suo mare. La fine della rotta balcanica, il game over di settimane di cammino e mesi di attesa, preoccupazione, paura. Puoi ritrovarti nel paesino di Dolina, lungo la ciclabile della Val Rosandra, a Basovizza, o nella miriade di altri luoghi del Carso da cui puoi immetterti su una strada italiana e da lì proseguire il tuo viaggio migratorio nell’Europa che fa finta di non vederti o, quando ti trova, ti trattiene valutando se e quando può respingerti». Inizia così la parte del report di Save the Children dedicato all’ingresso in territorio italiano dal confine sloveno: in tutto, 232 chilometri impossibili da monitorare. Da qui passa almeno il 50% dei minorenni non accompagnati che transitano sul territorio italiano.

Nei boschi si trovano gli oggetti del passaggio delle persone: pettini, dentifrici, documenti, vestiti. Tutto viene lasciato nel bosco perché ora inizia una nuova vita nella quale si può e si deve lasciare il passato alle spalle.

Mauro Caputo, videomaker che abita proprio dalle parti di Dolina, ha realizzato su questi oggetti un intenso docufilm, No Borders. Flusso di coscienza. Lui, come molte altre persone, tentano di capire le esigenze dei profughi in cammino che arrivano a piedi alla stazione di Trieste, dove cercano di prendere treni per attraversare il Nord Italia.

Violenze impunite

Fino a un anno fa, come raccontano testimoni diretti, anche l’Italia si macchiava delle riammissioni di persone in Slovenia, a volte anche minori che raccontano di non avere avuto la possibilità di dire la propria l’età. Queste riammissioni sono state poi interrotte anche grazie all’opera di pressione legale di Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione.

Ora, chi viene intercettato, per esempio dai militari dell’Operazione strade sicure che pattugliano le vie tra i boschi, viene ospitato in un centro di quarantena, a Trieste come a Udine.

Adulti e minori non accompagnati vanno in strutture diverse tra loro. A gestire le strutture per minori, ci sono enti del privato sociale come la cooperativa Aedis a Udine, Casa dello studente sloveno e Duemilauno agenzia sociale a Trieste.

Dopo il periodo di isolamento, per i minori c’è l’ingresso in una comunità, ma i ragazzi, a questo punto, spesso fuggono per altre destinazioni.

«Voglio diventare informatico in Inghilterra, dove ho un cugino. Mi piacerebbe avere i miei genitori vicini, ma in Afghanistan non si può vivere bene e non è possibile studiare (già prima del ritorno al potere dei talebani, ndr.)», racconta Nadir, 16 anni. «Ai miei fratelli però dico di non fare il viaggio che ho fatto, perché in Bulgaria sono rimasto in prigione tre mesi, sono stato picchiato. Se dici che sei un minorenne, non ascoltano. Quando sono arrabbiati, picchiano e basta».

Testimonianze come la sua si moltiplicano, in particolare su quanto accade lungo il confine croato in ingresso dalla Bosnia. A metà ottobre, un video dell’equipe d’indagine giornalistica Lighthouse Reports ha mostrato scene di violenza ai danni di migranti anche molto giovani.

Svariati appelli all’Unione europea arrivano da più parti, ma finora sono rimasti inefficaci, dato che le autorità croate non hanno fatto nulla di più dell’avvio di una «commissione di monitoraggio» che avrebbe lo scopo di verificare i fatti, più che di processare i responsabili.

Nel frattempo, i «game» («giochi», come vengono chiamati dagli stessi migranti i tentativi di superamento delle frontiere) continuano, e ragazzi e adulti provano il passaggio di confine anche 10-15 volte prima di riuscire.

La psicologa Lorena Fornasir e il marito filosofo, Gian Andrea Franchi, fondatori dell’associazione Linea d’Ombra – a cui Missioni Consolata ha dedicato un reportage nel numero di marzo 2021 – molto attivi alla stazione di Trieste nel medicare le ferite dei migranti procurate dal viaggio, a metà ottobre sono ritornati a Velika Kladusa e Bihac, in Bosnia, dove hanno documentato con foto e racconti le condizioni di bambini, famiglie, adulti, anche in difficoltà psicofisiche, che rischiano la vita per superare la frontiera.

 

Ventimiglia, respingimenti dalla Francia

«Ho una ferita nella gamba di una pallottola che mi ha sparato un poliziotto libico quando sono scappato dal centro di detenzione», ci ha raccontato Gyasi, 17enne ciadiano. Durante l’intervista che gli abbiamo fatto, si trovava davanti alla struttura della Caritas Intemelia a Ventimiglia, di fianco ai binari della stazione ferroviaria da cui partono ogni giorno treni per la Francia.

Quei treni, Gyasi e tanti altri come lui, non li possono prendere, perché, seppure si trovino già sul suolo europeo, per effetto della sospensione dell’accordo di Schengen, non passerebbero al controllo: sono considerati irregolari.

Lui era arrivato un mese prima dalla Libia, dove era stato trattenuto e schiavizzato per venti mesi dalla malavita che sfrutta i migranti, e in quel momento voleva andare a Parigi. La notte prima era stato respinto dalla polizia francese: «Ho detto la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne». Sul suo certificato di nascita, che aveva con sé, era scritta la data del 2004. Ma non è bastato. La notte successiva, Gyasi ha ritentato, e non ha fatto ritorno. Qualche tempo dopo sul suo profilo Facebook ha messo la geolocalizzazione su Parigi: ce l’ha fatta, perlomeno ad arrivare alla meta.

Altri, invece, non ce la fanno, e sono messi a dura prova, rimanendo come «fantasmi» sospesi tra un luogo e l’altro.

A Ventimiglia, del resto, per tutto il 2021 non c’è stato nessun centro di accoglienza temporanea (prima della pandemia anche i minori soli potevano accedere temporaneamente all’hub della Croce Rossa), e questo ha significato una vita complicata all’addiaccio.

Ragazzi soli e allo sbando

Gli arrivi sono giornalieri, così come, del resto, le «ripartenze». Sono svariati, infatti, i modi in cui le persone cercano di passare a Mentone: a piedi via ferrovia o autostrada, o via sentiero, attraverso il temibile Passo della morte, sulla montagna a ridosso del mare. Per il Passo della morte si parte dal paesino di Grimaldi superiore. Lì vive Enzo Barnabà, storico e saggista che ha scritto, nel 2019, assieme a Viviana Trentin, un libro intitolato proprio così: Il Passo della Morte. Storie e immagini di passaggio lungo la frontiera tra Italia e Francia, nel quale narra la storia di questo passaggio attraverso i tentativi dell’ultimo secolo di superare la rete di confine.

I minori che arrivano a Ventimiglia sono reduci sia degli sbarchi in Sicilia sia del viaggio lungo la rotta balcanica. Vi arrivano in proporzioni simili, che variano a seconda del periodo: durante la ricerca erano maggiori gli arrivi dal «game». Ad aprile 2021, per esempio, dei 453 minori non accompagnati passati dal centro Caritas in cui Save the Children ha un Child friendly space (Spazio a misura di bambino), 149 erano stati registrati agli sbarchi. Il resto, 304 ragazzi, erano arrivati nella cittadina ligure dopo essere entrati in Italia in Friuli Venezia Giulia.

È un colpo al cuore incontrarli lungo il fiume Roja, alla periferia Nord della città. Lì vanno di sera per la distribuzione di viveri e per ricaricare i cellulari. Questi servizi sono offerti da attivisti di associazioni italiane e internazionali (per esempio 20K, Medecins du Monde e Kesha Nyia, che ha anche una cucina presidio vicino al punto di confine di Ponte San Luigi).

Li si può incontrare anche sui binari morti della stazione: spesso sono molto stanchi, alcuni in preda all’alcol che, in qualche modo, «lenisce le ferite» di quello che stanno vivendo, incalzati dai trafficanti che, nonostante i controlli, imperversano offrendo modi costosi e sempre più pericolosi per passare il confine.

Questi ragazzini sono davvero allo sbando: la loro presa in carico istituzionale, a livello europeo, ancor prima che italiano, dovrebbe avvenire al momento del primo ingresso in Europa. Invece sono qui, perché al posto dell’accoglienza hanno ricevuto dinieghi, e, in alcune frontiere, percosse.

La speranza supera il Monginevro

«C’è un pullman di linea che parte tutte le sere alle 19.45 da Oulx, operosa cittadina piemontese di montagna a pochi chilometri dal colle del Monginevro, confine tra Italia e Francia. Ogni persona che sale paga i 2,20 euro del biglietto che la porterà in 20 minuti al massimo a Claviere, ultimo centro italiano a quota 1.760 metri, meta sciistica incuneata nella Francia per tre dei suoi quattro lati. Dalla piazza Europa, nomen omen, dopo quattro chilometri di cammino su un piacevole sentiero senza troppo dislivello, si arriva a Mongénevre, territorio francese nel dipartimento Hautes-Alpes. Ma non tutte le persone che salgono sul pullman per Claviere potranno percorrere liberamente quel sentiero. Non ne hanno diritto, dice la Paf, la polizia di frontiera francese: devono chiedere asilo politico in Italia, non in Francia, se vogliono rimanere in Europa». A differenza di Ventimiglia, qui può succedere che un ragazzo minorenne venga respinto e riconsegnato alla polizia italiana senza alcun foglio di via, come se non fosse mai passato di lì. Non gli viene chiesta l’età – perché altrimenti dovrebbe essere preso in carico dalle istituzioni – e non gli viene consegnato nessun refus d’entree così che le associazioni francesi non abbiano prove per fare ricorso contro il respingimento.

Ancora una volta, quindi, ci troviamo di fronte a giovani vite sospese nel mezzo della Fortezza Europa, la quale, seppure sia tutt’altro che inespugnabile (anche in queste montagne, dopo qualche tentativo, si passa, spesso anche perché a fronte di poliziotti transalpini più duri, se ne possono trovare in altre notti di più «solidali») erige muri anche fra gli stati fondatori dell’Unione. E questo non accade solo alle frontiere orientali, dove la reticenza ad accogliere è maggiore, come in Ungheria, Polonia e, appunto, Bulgaria, oltre alla già citata Croazia. Meno male che da queste parti, nell’alta Val Susa, nota per la tenacia della sua gente, l’aiuto non manca: sono tanti i volontari che danno una mano, offrono un pasto o un alloggio, chiedono conto alle autorità (che, a volte, vedi il Comune di Oulx con l’attuale sindaco Andrea Terzolo, si dimostrano attente alle necessità dei profughi e collaborano con la società civile). L’antropologo Piero Gorza, ad esempio, in un momento di emergenza, ha accolto diversi migranti in casa propria. Il parroco don Luigi Chiampo e la fondazione che ha creato, Talità Kum, gestisce una casa rifugio modello a Oulx dove le persone sostano, si rifocillano e si preparano per il viaggio notturno sulle montagne. Proprio qui, nel Rifugio Massi, le persone che capiscono di trovarsi, forse per la prima volta dopo mesi, in un ambiente in cui si riceve rispetto e si può dare fiducia, si aprono e raccontano di sé.

Esemplare la vicenda di Ahmad, 16enne afghano, da tre anni in viaggio, passato attraverso lo sfruttamento lavorativo in Turchia, l’approdo sulle isole greche e la rotta balcanica: il giorno dell’arrivo al rifugio è carico di vita, sente vicina la meta, dato che, una volta in Francia, vuole raggiungere la Germania.

Accade che la notte viene respinto, senza alcun foglio di via. La Croce Rossa italiana, meritevole nel suo servizio da queste parti anche attraverso il progetto Migralp, lo intercetta a lo riporta al rifugio la mattina dopo.

Ahmad ha perso completamente la serenità, è arrabbiato perché molti compagni di strada ce l’hanno fatta, e lui no.

Ci riprova la sera dopo, questa volta il tentativo va a buon fine.

Chissà dove sarà ora. Di lui ci rimangono nella memoria parole d’oro: «Come il diamante diventa forte grazie alla durezza, si può crescere solo grazie alle difficoltà. Ho viaggiato per tanti paesi, ho avuto un percorso difficile per poter arrivare fin qui, però non mi sono mai arreso. Vorrei dire alla mia mamma che le voglio bene, mi manca tanto e andrò a trovarla».

Daniele Biella

Abdel, 19 anni

Pachistano, incontrato a Trieste a maggio 2021, ne aveva 17 all’epoca dei fatti*.

«Siamo scesi dalla montagna in Croazia e abbiamo viaggiato per due giorni e ci siamo seduti, sdraiati tutti, il trafficante ci ha fatto riprendere fiato. Eravamo all’incirca cento persone. Ed è arrivata la polizia. Quindici, venti persone sono scappate e anche il trafficante è stato catturato con noi. Loro prima ci hanno spruzzato lo spray negli occhi. Sai? Lo spray per gli occhi. Poi sono arrivati due furgoni. Ci hanno fatto salire su quelli e ci hanno portati verso la frontiera della Bosnia. Lì c’era un fiume, una specie di fiume, ci hanno portati lì, picchiati molto e hanno bruciato i nostri zaini, ci hanno fatto togliere i vestiti e hanno bruciato anche quelli e ci hanno fatto tornare indietro in mutande.

[…] Poi dopo quindici giorni ci abbiamo riprovato. Abbiamo proseguito, siamo arrivati in Slovenia. Gli sloveni ci hanno presi e tenuti in prigione e da lì ci hanno riportati indietro: gli sloveni ci hanno consegnati ai croati. I croati sono arrivati e ci hanno riportati indietro. E ci hanno portati di nuovo al fiume dove ci hanno fatto ritogliere i vestiti. Tolti i vestiti, ci hanno picchiati, uno ci teneva le braccia e uno le gambe, e ci buttavano nel fiume. L’acqua era fredda, faceva freddo, avevano un bastone nero, era tipo così, e picchiavano con quello uno ad uno e lo buttavano nell’acqua. L’acqua scorreva veloce, tanto che la persona non riusciva ad uscire, e le pietre ci ferivano i piedi
[…]. I poliziotti ci hanno circondati da tutti e quattro i lati. I ragazzi che avevano cercato di scappare li hanno presi e picchiati. Poi ci hanno riportati indietro, dove c’è una montagna molto alta. C’era un “billa” [inteso come un uomo con gli occhi chiari], era il loro capo, era cattivo, era molto violento, ci picchiava, dava calci. Tra loro c’era un brav’uomo, gli diceva di non picchiare, lo diceva in inglese, e l’altro si arrabbiava anche con lui, e lui allora rimaneva zitto. […] Era arrivato un tagliaboschi, stava facendo la legna nei boschi. Il trafficante è andato a chiedergli se poteva andarci a prendere del cibo se gli avessimo dato i soldi. Lui ha preso i soldi e non si sa se lui o qualcun altro ha chiamato la polizia, e la polizia è arrivata. I piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Quando abbiamo riprovato di nuovo a scappare, uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. L’hanno preso e buttato nel fiume, l’hanno buttato nel fiume, la polizia, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato neanche noi».

D.B.

* Abel e Nadir, interviste raccolte nel report di Save the Children, Nascosti in piena vista, giugno 2021.

Nadir, 16 anni

Afghano, incontrato a Trieste nel maggio 2021.

«Ho trascorso due mesi in Turchia, sei, sette mesi in Bulgaria, dove sono arrivato a inizio 2021, poi in Moldavia, e quattro mesi in Serbia. Non ho incontrato la polizia croata né la polizia slovena. Non ho avuto problemi di cibo o acqua. Avevamo cibo e cose da bere nelle borse nei boschi. Sono entrato direttamente in Italia. La parte più difficile del viaggio è stata in Bulgaria. Non si comportano bene con i migranti. Non importa se uno ha 15-16 anni, se è un bambino o un adulto, comunque lo portano in prigione e lo picchiano. Non ero stato mai in prigione prima della Bulgaria. Sono rimasto in prigione per tre mesi. Per quindici giorni non ho visto l’aria aperta, il cielo, solo la cella. E poi alla fine mi hanno dato un foglio e mi hanno detto: “Vai!”. Mi hanno chiesto “Quanti anni hai?”, ma non ascoltano niente. Ci hanno picchiato. Non guardano dove ti picchiano: la testa, le gambe, la schiena, gli occhi. Non guardano neanche, picchiano e basta, i migranti e i rifugiati. Dicevano: “Perché sei venuto? Perché sei venuto qui?”. E poi ci picchiavano. […] Eravamo dodici amici, ma non so adesso dove sono gli altri. […] Sai, in Afghanistan, c’è la guerra. Ci sono i talebani, picchiano la gente e la uccidono. La situazione è molto brutta in Afghanistan. Tutti vogliono venire in Europa, vogliono una vita, vogliono studiare, e in Afghanistan non è possibile. Va tutto male là. Ma in Italia le persone sono buone, hanno cura di noi, ci danno tutto. Ho un cugino in Gran Bretagna, a Birmingham. Lui studia lì. A me piace l’informatica. Per imparare l’inglese prima di tutto ho guardato film, ho imparato le parole e poi le frasi. Poi ho iniziato a parlare alle persone in inglese e molto lentamente ho imparato. Ora prima di tutto vorrei studiare e poi trovare un lavoro legato ai miei studi. Mi piacerebbe avere i miei familiari vicino. Tutti desiderano avere il loro papà o la mamma con sé e trascorrere una vita felice. Ma la situazione è critica là. […] Ai miei fratelli direi: “Non venite in questo modo, è troppo pericoloso”. Non lo rifarei, mai nella vita».

D.B.

Famiglie, speranza cercasi

Le condizioni dei giovani genitori e dei loro bambini

Sui confini italiani, accade d’incontrare famiglie con bimbi anche molto piccoli, in fuga da contesti pericolosi. Giovani genitori, pieni di speranza per un futuro migliore, e di amarezza per un presente lacerante, fatto di muri e di botte, di dignità negata.

«Di chi avete paura? Di me e mio figlio?», urla un giovane padre iraniano, con un bimbo in braccio, avvolto in un giaccone più grande di lui. Lo fa puntando lo sguardo verso la montagna, rivolgendosi a due punti neri a lato di un pilone della seggiovia. Lì è già territorio francese.

Quei due punti neri sono poliziotti – della Paf, polizia di frontiera francese – che pattugliano a piedi i sentieri attorno a Claviere.

Oltre alla realtà dei minori soli, c’è quella di centinaia di famiglie con figli, anche molto piccoli, al seguito. Giovani genitori e bambini che passano anni lungo le rotte migratorie in condizioni a dir poco devastanti.

Con un rapido calcolo sulla base delle osservazioni fatte dal vivo a Trieste, Ventimiglia e soprattutto Oulx, Save the Children stima il passaggio di sessanta nuclei familiari al mese, ovvero almeno 240 persone, dato che i figli al seguito sono quasi sempre due o più. Le provenienze sono soprattutto Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, qualcuna dal Nepal e, ancora, ma più di rado rispetto al passato, qualche famiglia siriana. Tutte risolute ad arrivare a destinazione, nonostante le difficoltà: colpisce la loro forza di volontà, la determinazione di portare i loro figli in un luogo dove possano crescere con più speranza rispetto alla patria lasciata alle spalle.

Un rifugio sul confine

Il rifugio Massi a Oulx è un luogo neutro nel quale si incontrano famiglie migranti che riposano qualche ora. Queste famiglie vengono accolte dagli operatori della fondazione Talità Kum e da volontari che si alternano portando scarponi, vestiti, viveri, fermandosi spesso a condividere un po’ di tempo con le persone, riconoscendo loro quella dignità che era stata cancellata dal «game» lungo la rotta balcanica, negli hotspot sulle isole greche, sui gommoni, nei camion e in tutte le altre situazioni di privazioni e violenze che sono costretti a vivere, loro malgrado, molti migranti.

«Le indegne esperienze traumatiche vissute dai bambini in questi viaggi si affiancano a un altro aspetto: spesso sono i figli, soprattutto nella fascia d’età dagli 11 ai 16 anni, a diventare portavoce delle famiglie. Parlano più lingue, sanno usare gli smartphone e la tecnologia, si orientano bene e capiscono al volo chi può essere più utile tra le persone che si trovano davanti. Allo stesso modo, a volte, le autorità sono meno vessatorie nei respingimenti quando hanno davanti dei bambini», spiega il rapporto. «Tutte queste ragioni fanno sì che i bambini siano un elemento strategico per la famiglia, una sorta di salvavita. Come nelle favole settecentesche», specifica Piero Gorza, antropologo e ricercatore di On Borders che vive proprio a Oulx e studia da decenni i flussi migratori.

Solidarietà sulla strada

Il sorriso dei più piccoli dà forza ai più grandi, anche se i più grandi vedono quanto è pesante il fardello dell’esperienza migratoria sulle spalle dei bimbi. Al rifugio, ad esempio, due sorelline afghane giocano a guardie e ladri e raccontano a mamma e papà: «Stiamo giocando al poliziotto che picchia il migrante» (vedi box a pag. 47, ndr.).

Ci vorranno mesi, se non anni, per superare i traumi del viaggio una volta giunti – si spera – a una destinazione sicura.

Tra famiglie che si incontrano e si conoscono lungo il viaggio, succede che scatti la solidarietà: si uniscono, fanno un tratto di viaggio assieme, si aspettano e, in alcuni casi, se per qualche motivo un nucleo viene diviso a una frontiera, si prendono cura di chi ha bisogno.

Questo accade anche per i minori non accompagnati: nel loro viaggiare «soli», spesso percorrono tratti di strada con nuclei familiari ai quali si affezionano e con cui poi rimarranno in contatto.

Anche per la situazione delle famiglie in viaggio, una soluzione dovrebbe essere cercata con un accordo interfrontaliero tra paesi europei, per capire dove i migranti hanno familiari, così da metterli in contatto e garantire un ricongiungimento sicuro, al riparo dai rischi del viaggio e dal traffico di esseri umani.

Daniele Biella

Porta d’Europa, opera di Mimmo Paladino

 

Lampedusa, frontiera Sud

Due giorni nell’Isola. sbarchi e memoria del 3 ottobre 2013

Quarantatrè sbarchi in 48 ore. Adulti, ragazzi, bambini accolti e trasferiti dal molo ai centri di accoglienza. Senza turbare i turisti. Mentre decine di migrant arrivano con piccole barche, a otto anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, alcuni sopravvissuti e parenti delle vittime ricordano i loro morti e l’urgenza della ricerca di verità e giustizia.

Se nel Nord Italia il movimento tra frontiere è continuo, altrettanto succede al Sud, dove ogni giorno nuove persone, compresi minori stranieri non accompagnati, sbarcano sulle coste.

Molti ragazzini, proprio come gli adulti, una volta arrivati in Italia in una regione meridionale, prendono la via del Nord. Spesso hanno Ventimiglia come tappa successiva.

La frontiera Sud, il mare di mezzo, il Mediterraneo, vede nelle sue acque centinaia di migranti che provano a raggiungere l’Europa per iniziare da zero una vita con più prospettive. Loro malgrado lo fanno nel modo più pericoloso.

Sbarchi, trasbordi e quarantene

Missioni Consolata ha potuto riscontrare, direttamente a Lampedusa, ben 43 sbarchi in 48 ore, almeno mille persone in tutto nelle sole due giornate del 2 e 3 ottobre 2021. Erano soprattutto «barchini» provenienti dalla Tunisia, ciascuno con una ventina di persone a bordo, ma anche dalla Libia con 50-60 migranti ognuna.

La settimana prima era arrivato un peschereccio con 600 persone. Tra esse, numerosi minori soli, in gran parte, come è logico geograficamente, provenienti dai paesi del Nord Africa e dell’Africa subsahariana.

I ragazzi non accompagnati, quando arrivano, normalmente vengono condotti dal porto di sbarco, il molo Favaloro, all’hotspot. Dato, però, che per legge non potrebbero stare in strutture per adulti, nel giro di pochi giorni vengono portati in Sicilia. Trasferiti su navi di linea, separati dai passeggeri, devono fare 7-10 giorni di quarantena.

Nei due giorni di visita a Lampedusa, abbiamo assistito alle operazioni di salvataggio e poi di trasbordo. Queste venivano effettuate dalle autorità competenti – Guardia costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, ministero della Salute per le pratiche mediche – con contingenti tali che, di fatto, creavano una sorta di militarizzazione dell’isola.

Soccorrere ricordando il 3 ottobre 2013

Durante la nostra visita, Lampedusa stava vivendo un boom del turismo: l’estate 2021 è durata fino a fine ottobre, con strutture pressoché piene. I turisti non vedevano alcun migrante. Le persone sbarcate, infatti, venivano portate con pulmini dal porto all’hotspot, senza mettere piede nelle vie cittadine.

Save the Children, Diaconia Valdese, Fcei (Federazione delle chiese evangeliche in Italia) sono presenti agli sbarchi, assieme alle agenzie dell’Onu, Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) e Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), per controllare la giusta presa in carico dei minori e delle famiglie.

L’alto numero di arrivi sull’isola è coinciso con la commemorazione del naufragio del 3 ottobre 2013, in cui avevano perso la vita 368 persone, in gran parte eritree, al quale era seguito quello dell’11 ottobre, con 268 vittime – di cui 60 bambini – in gran parte siriani.

La commemorazione è stata molto sentita. Il Comitato 3 ottobre ha organizzato eventi per un gran numero di studenti arrivati sull’isola da tutta Europa allo scopo di capire le migrazioni forzate raccontate dalla voce dei protagonisti, compresi diversi dei 47 superstiti e dei familiari delle vittime delle due stragi citate.

Alcuni superstiti, salvati con le loro mani da alcuni pescatori isolani, tra cui Vito Fiorino e Costantino Baratta, insediatisi nel frattempo soprattutto in Germania e Svezia, si sono sposati e hanno avuto figli.

Erano presenti anche madri di giovani tunisini dispersi durante il viaggio, accompagnate dai volontari di Carovane migranti e di altre associazioni che cercano verità e giustizia per le vittime. Dopo otto anni, infatti, non sono ancora state fugate le ombre sui ritardi e sulle omissioni di soccorso delle autorità in quelle circostanze.

Daniele Biella

Famiglia afgana

Zalmai e Jamila, marito e moglie di30 anni, con due bimbe di sei e quattro anni. Incontrati a Oulx a maggio 2021, hanno provato il «game» dieci volte.

«Lasciai l’Afghanistan perché mia moglie era stata promessa a qualcun altro. Lei fuggì con me. Fummo poi minacciati. Arrivammo in Iran, ma quegli uomini riuscivano a mandarmi minacce perché avevano soldi. […] Dalla stazione di polizia mi fecero rimanere e mi presero quattro volte il telefono, i croati. Mi presero i soldi. Mi inflissero tanta sofferenza. Mi picchiarono. Mentre mi stavano respingendo mi chiedevano “maani”, cioè chiedevano soldi, “money”. Ci perquisivano, cercavano soldi e prendevano tutti i soldi che trovavano. Ci trattennero, ci misero una maschera sulla faccia mentre ci espellevano. Presero i soldi da qualunque famiglia che conoscessi. Avevano questi bastoni di plastica: ci colpirono con quelli. In qualunque paese tu dicessi loro che saresti andato, Francia, Germania, ti avrebbero picchiato. Menzionavano un paese e poi ci colpivano. Uno, due, tre… a loro non importava quanto ci picchiassero. Ci sedemmo e basta. Quindi ci diedero un calcio o ci dissero: “Alzati!”, e ci tolsero tutti i vestiti e ci picchiarono. Ci arrestavano sempre. Ecco perché abbiamo così sofferto. Mia moglie era malata, ma era riuscita ad arrivare. Fu colpita dal freddo. Aveva nevicato e il corpo le faceva male ovunque. Era stata arrestata e aveva le sue figlie con lei. Alla fine arrivarono due poliziotti. La trascinarono come un cadavere. Continuavano a trascinarla e a trascinarla. […] Quando partimmo con il gruppo di 35 persone verso la Croazia, la bambina aveva paura della polizia e avrebbe avuto paura ogni volta che la polizia sarebbe comparsa. E l’altro problema è che quando diventa ansiosa, si colpisce, sul muro, sul terreno, su qualsiasi cosa. Si colpisce molto duramente, che sia la testa o altro. Si fa male da sola. Non capisce nulla in quei momenti. Una volta che si riprende, ovvero quando si sente meglio, allora piange da quel momento in poi. Ma il fatto è che rimane a disagio. Si rattrista per 5, 10, 15, o 20 minuti, tutto qui. Abbiamo sofferto lungo la strada e speravamo che tutto il ricordo della sofferenza venisse cancellato rapidamente dalla sua memoria, altrimenti sarebbe rimasto nel suo cervello. Sai, è una bambina e le piace giocare. Così quando si siede con la sorella, assegnano a ciascuno ruoli come “Io sono un rifugiato” e l’altra dice “Io sono la polizia”. Poi si alzano e quella che fa il poliziotto viene colpita dall’altra, si inseguono a vicenda e poi combattono. È così che si ricordano. Quindi, non stanno dimenticando quelle cose. Tutti i ricordi, le cose nella loro mente, quelle cose sono ancora nella loro mente».

D.B.

Con gli occhi dei minorenni

Raccomandazioni di Save the Children all’Unione europea.

Un minore è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un minore, e i suoi diritti vanno protetti e promossi indipendentemente da ogni altra circostanza relativa alla sua condizione o status suoi personali o dei suoi genitori, ad esempio l’origine nazionale, etnica o sociale o, ancora, lo status legale.

Il principio di non discriminazione è un valore fondante della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc), stella polare in tema di diritti dei minori che, applicandosi a tutti i minori in ogni circostanza, è centrale anche quando si parla di bambine, bambini e adolescenti coinvolti nella migrazione. Come recentemente riconfermato dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’Infanzia, in nessun caso un minore straniero non accompagnato può essere espulso o respinto alla frontiera, in base alle norme di diritto internazionale poste a tutela dei diritti umani, dal diritto umanitario e sui rifugiati, e, in particolare, all’articolo 33 della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951 e dall’articolo 3 della Convenzione Onu contro la tortura.

Ciascuno degli stati alla cui frontiera e nel cui territorio arriva un minore, coinvolto più o meno consapevolmente in un percorso migratorio, ha la responsabilità di prendersene cura, in base a una serie di norme vincolanti volte ad assicurarne la protezione e il riconoscimento di uno status legale.

L’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea conferma la centralità del superiore interesse dei minori in tutte le azioni o decisioni che li riguardano intraprese dalle autorità pubbliche o da istituzioni private.

[…] Come è evidente dalla lettura delle testimonianze, di fronte alla mancanza di un sistema di protezione e accoglienza europeo per i minori migranti, all’assenza di procedimenti rapidi e ben funzionanti di ricongiungimento familiare, alla necessità sinora disattesa di riforma del
Regolamento di Dublino e al quasi totale abbandono dell’esperienza della relocation fra stati membri, fatte salve sporadiche e quanto mai limitate iniziative su base volontaria, ai minori e alle loro famiglie non rimangono alternative che affidarsi ai passeur per proseguire nel proprio percorso migratorio attraverso le frontiere interne dell’Unione. Una scelta obbligata che si accompagna alla necessità di essere invisibili, con il rischio di restare intrappolati nelle maglie del traffico di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale o lavorativo e di subire violenze e vessazioni o di esserne testimoni.

In questo quadro, le violazioni dei diritti dei minori migranti continuano a consumarsi all’interno e all’esterno dei confini dell’Ue, con uno specifico allarme per le zone di confine, sia lungo il perimetro delle cosiddette «frontiere esterne» dell’Unione europea, sia in corrispondenza delle frontiere tra stati membri, luoghi di particolare criticità e pericolo per i minori, nonostante l’Allegato VII del Codice Schengen preveda che sia prestata particolare attenzione nei confronti del minore che attraversa la frontiera e che siano adottate particolari modalità nei confronti dei minori accompagnati o non accompagnati.

I minorenni in particolare – come ci ricorda il Comitato sui diritti dell’infanzia – non dovrebbero mai essere respinti verso un paese dove vi siano fondate ragioni di ritenere che essi siano a rischio di danni irreparabili o verso un altro paese dal quale essi potrebbero essere lì respinti, anche in considerazione delle loro esigenze primarie di sopravvivenza e sviluppo, tenuto conto dell’età e del sesso.

[…] Il caso delle frontiere Nord dell’Italia è, per alcuni versi, emblematico del vuoto politico e giuridico lasciato dalle istituzioni dell’Unione europea e dagli stessi stati membri in tema di movimenti migratori: prassi delle forze di polizia impegnate nella gestione dei confini diverse da territorio a territorio, mancanza di un coordinamento locale e tra i territori dove insistono le diverse frontiere, mancanza di un’indicazione strategica che tenga conto della necessità di gestire i flussi in arrivo dalle diverse frontiere – Sud e Nord – e di distribuire l’accoglienza sull’intero territorio, assenza di mediatori che possano veicolare informazioni ai valichi di frontiera, le principali criticità riscontrate.

Di fronte alla situazione attuale serve guardare alle politiche europee, compresa la riforma degli atti legislativi nell’ambito del Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo emanato a settembre 2020, e a quelle nazionali, con gli occhi dei minorenni che ogni giorno provano ad attraversare i nostri confini.

Save the Children Italia




Collaborare (Es 18) nella «normalità»


Il popolo d’Israele è libero, al di là del mare, fuori dalla casa di schiavitù. Ha già sperimentato la nostalgia del passato e il sostegno di Dio (con la manna, l’acqua e persino con un dono che sembra parlare dell’eccezionalità di una festa, le quaglie). Tutto sembrerebbe risolto, ma il percorso in realtà non è finito.

Ora, l’attenzione si sposta su Mosè, chiamato a fare un altro passo, questa volta nella direzione della gestione del quotidiano. Alcune situazioni sono vissute prima da lui, poi vengono vissute in modo simile dall’intero popolo. Tocca ora alla guida di Israele aggiungere un altro mattone.

Una famiglia (18,1-12)

Quando in Esodo 2,15-22 abbiamo incontrato Ietro, il sacerdote madianita divenuto suocero di Mosè, pensavamo che servisse semplicemente a introdurre la moglie, o forse addirittura il figlio. Ma Ietro ora ritorna in scena, imprevisto, e si comporta come se si trovasse di fronte a un popolo stanziale. Infatti si reca in visita dal genero, riportandogli moglie e figli.

In questa veloce annotazione ci sono molti particolari che ci stupiscono. Intanto, non sapevamo che a Mosè fosse nato un secondo figlio, Elièzer. Poi, se Sipporà e i suoi figli vengono condotti nell’accampamento ebraico, significa che non erano con Mosè in Egitto.

Noi lettori sappiamo diverse cose sulle vicende vissute da Mosè e dal suo popolo. Come quest’ultimo avesse dapprima assistito allo scontro con il faraone quasi da spettatore, ma poi aveva dovuto prendere posizione e ogni famiglia aveva dovuto esplicitare la sua identità ebrea (Es 12,7), partire in fretta di notte con carri e bestiame, anziani e bambini, lasciandosi alle spalle gli egiziani in lutto per la morte dei primogeniti. Sappiamo anche che gli egiziani li hanno inseguiti con un esercito veloce e agguerrito. Non sappiamo però quanto tempo trascorre dal primo scontro tra Mosè e il faraone e l’uscita di Israele dall’Egitto. Potrebbero essere trascorsi mesi, oppure poche settimane o addirittura giorni.

In quel tempo Mosè ha rischiato la propria vita esponendosi in prima persona. Il testo ci dice tutte queste cose. Ma che Mosè non avesse portato con sé in Egitto moglie e figli non ce lo dice, e in effetti non ce lo aspettavamo. Li ha lasciati fuori dall’Egitto per precauzione? Come garanzia per il suo ritorno fuori dall’Egitto?

Enigmi

Colpisce, poi, che l’Esodo narri l’accoglienza calorosa che Mosè riserva a Ietro, ma non dica niente riguardo a come abbia ricevuto la moglie e i figli. Certo, possiamo spiegarci questa cosa con il fatto che il mondo culturale da cui il libro dell’Esodo proviene e, ancor di più, quello che intende storicamente narrare, erano contesti fortemente patriarcali e maschilisti, dove inoltre i figli rappresentavano semplicemente la garanzia di continuità del clan, ma non erano valorizzati in sé. È però vero che, nonostante questo retroterra, spesso, nei racconti biblici, le donne vengono presentate con fisionomie nette, con progetti, sogni e frustrazioni proprie, come autentiche protagoniste delle storie che coinvolgono i loro mariti. E nel caso di Sipporà questo non succede.

La figlia del sacerdote madianita aveva agito autonomamente, salvando Mosè, nell’enigmatico episodio in cui, mentre tornavano verso l’Egitto dopo la chiamata divina, aveva salvato la vita del marito circoncidendo il figlio (Es 4,24-26). Ma quel racconto, nel quale peraltro pare che la coppia avesse un figlio solo e che stesse andando in Egitto unita, è l’unico nel quale Esodo parla di Sipporà in modo significativo. E ora, invece, veniamo a sapere che non è stata in Egitto con il marito.

Ciò potrebbe significare che dopo la circoncisione del primogenito Gersom, Mosè ha rimandato alla casa paterna la propria famiglia. Però l’assenza, in quel contesto, del secondo figlio (il cui nome, Elièzer, in Es 18,4, è spiegato alludendo alla liberazione dal faraone) può lasciare intendere che solo dopo un periodo in Egitto, moglie e figli sarebbero stati fatti tornare. Se così fosse, le vicende dello scontro con il faraone sarebbero durate molto più a lungo di quanto il racconto spieghi.

Non lo sappiamo. Come succede spesso nei racconti biblici, ci troviamo di fronte a molte meno informazioni di quelle che noi riterremmo necessarie. Ma, proprio per questo, le notizie che troviamo sono significative. È come se l’autore ci dicesse che non è importante il perché Mosè avesse mandato via la propria famiglia, ma il fatto che ora vi si riunisce.

Una vita normale?

Dopo le vicende epiche dell’uscita dall’Egitto, e le cadute vergognose del deserto, ora Mosè, come il suo popolo, riprende una vita normale. La famiglia è simbolo di ordinarietà, anche per chi in una famiglia non vive (e magari se la ricrea con abitudini, animali o piante «di casa»).

Questa ordinarietà ci restituisce un Mosè non perfetto. Abramo, Elkana (1 Sam 1, il padre di Samuele, più grande profeta-sacerdote d’Israele), lo stesso Giacobbe, avevano avuto con le mogli una relazione intensa, di scambio e di affetto. Mosè, invece, no. O almeno, il testo dell’Esodo non ce ne parla. Sembrerebbe ricadere nel più scontato cliché patriarcale. Esso fa da sfondo ai racconti biblici, ma non è il modello da imitare. Ancora una volta, come nei casi dell’uccisione della guardia egizia (Es 2,12), del matrimonio con una madianita o delle incertezze davanti alla chiamata divina (Es 3-4), la vicenda umana di Mosè sembra perfettibile.

I più grandi modelli di cammino con Dio non sono necessariamente persone del tutto esemplari. A contare non è la loro perfezione, ma la relazione con l’Altissimo. Questo parla, di rimbalzo, anche a noi oggi: la «normalità», la banalità, e, spesso, anche l’imperfezione della vita di ognuno di noi, non sono un impedimento a una relazione intensissima e profonda con Dio.

Nessun integralismo

La stessa sensazione di imperfezione e, in fondo, di normale vita umana, è sucitata anche da un altro particolare: Ietro riconosce le grandi opere compiute dal Signore (chiamato JHWH, il «nome proprio» del Dio d’Israele: Es 18,9), ma poi lo celebra facendo «olocausto e sacrifici a Elohim», chiamando Dio con il suo «nome comune». Siamo sicuri che sia un sacrificio al «Dio giusto»?

Ancora una volta, non siamo certi di nulla. Si può immaginare e sostenere che, dopo aver lodato il Dio d’Israele, Ietro lo onori con il suo sacrificio. Ma d’altra parte non possiamo dimenticare che lui è un sacerdote madianita, incaricato di sacrificare ai suoi dèi, e che non ha ancora una conoscenza profonda del Dio di Mosè.

D’altra parte, Elohim, grammaticalmente, è un plurale. Se è vero che molto spesso nella Bibbia ebraica indica genericamente «Dio», in una forma plurale che è di onore, quello resta comunque un nome generico, che potrebbe anche indicare un sacrificio non a un dio singolo, ma a diverse divinità. Come spesso accade in questo racconto così centrale per la fede ebraica e cristiana, dobbiamo sopportare l’ambiguità.

Alcuni elementi sono tuttavia chiari: la Bibbia, nonostante alcune apparenze e qualche passaggio diverso, non è integralista, e infiltra in molti brani l’impressione di un culto, una morale e una vita che non sono proprio immacolati e limpidi: se restano esemplari è perché si pongono sempre in relazione con Dio, non perché rispettino alla lettera norme e regole.

Un popolo (Es 18,13-27)

Il suocero di Mosè non ha però finito di immischiarsi nell’opera del genero. Si ferma qualche giorno da ospite e, nel frattempo, guarda che cosa succede. Vede che ogni mattina tanta gente va da Mosè per regolare le proprie questioni. La guida del popolo ascolta, valuta, fa capire quale sia la volontà di Dio e passa al caso successivo. Ietro scuote il capo, e spiega al genero che non approva: «Così non va bene! Hai un popolo numeroso, non puoi pensare di provvedere a tutto tu! Stabilisci invece degli anziani che giudichino le questioni ordinarie, e lascia che ti inoltrino soltanto quelle più difficili!» (Es 18,17-23).

Un consiglio di buon senso, semplice da elaborare, a cui Mosè, ci viene da pensare, sarebbe potuto arrivare anche da solo. Eppure, c’è bisogno che glielo fornisca il suocero, sacerdote di quei madianiti con cui gli ebrei avrebbero in futuro fatto più volte la guerra (cfr. Nm 25; Gdc 6-7; ricordiamo che erano madianiti anche i mercanti a cui Giuseppe fu venduto dai propri fratelli: Gen 37,28-36).

Il capo del popolo liberato dall’Egitto, l’uomo che parlava faccia a faccia con Dio (Es 33,11), ha bisogno del consiglio, peraltro non particolarmente geniale, del suocero, per imparare a gestire convenientemente il proprio popolo. E deve imparare a delegare, a farsi da parte, a lasciare che altri lavorino al posto suo, a non avere tutto sotto controllo.

Quale insegnamento per noi?

Noi siamo abituati a spiegazioni didattiche o morali molto esplicite, capaci di dirci con parole chiare che cosa fare e non fare, cosa è bene e cosa è male. In fondo, cerchiamo questo (magari persino per contestarlo) in tutte le tradizioni religiose o legali. Ma le forme religiose, soprattutto quelle più antiche, preferiscono raccontare, e comunicare contenuti attraverso narrazioni e storie.

Il Primo Testamento, per lo più, non fa eccezione: nella storia di Abramo è in realtà contenuta la spiegazione del modo ideale con cui rapportarsi con Dio, così come i primi tre capitoli di Genesi, che apparentemente sono una storiella carina e senza pretese, sono un condensato intensissimo della concezione dell’essere umano, e così via. Non fa eccezione l’Esodo, dove il racconto chiarisce il modo con cui relazionarsi con il Dio d’Israele attraverso un percorso lungo e articolato, nel quale all’iniziale interesse e stupore (Es 3-4) segue l’attento contemplare e soppesare dell’opera di Dio (Es 7-10), fino al momento in cui occorre prendere posizione (Es 11) e addirittura decidere di buttarsi, rischiando la propria vita sulla fiducia di una semplice promessa (Es 14).

Ci si poteva forse immaginare che il percorso fosse finito qui, ma in realtà si tratta ancora di investire fiducia e ascolto in una promessa che non si presenta con manifestazioni eccezionali ma passa attraverso le fatiche e i rimpianti della vita «normale» (Es 15-17).

Questo capitolo ci lancia verso un contesto ancora nuovo. Possiamo essere tentati di ridurre il cammino con Dio alle occasioni eccezionali, eroiche, ma queste sono soltanto un momento, un’introduzione o una svolta, di un percorso che passa dalla vita consueta, quotidiana, fatta di incertezze, tentazioni, ritorni indietro, e anche di mediazioni, di suggerimenti magari banali, di percezione del proprio limite e trucchi per superarlo, persino di piccole o grandi miserie e fragilità.

Nel cammino con il Dio d’Israele non è richiesta l’eccezionalità o la perfezione, ma solo di mettersi in cammino.

Angelo Fracchia
(Esodo 10 – continua)




Grande, Romero, Proaño, avvocati degli oppressi


Perseguitati, incarcerati, uccisi. Rutilio Grande, Leonidas Proaño, Oscar  Romero, tre grandi esponenti della Chiesa latinoamericana. Tre uomini legati dalla fede e dalla scelta per gli ultimi. Tre uomini che hanno dato la vita per il riscatto e la nobilitazione degli oppressi.

Il primo passo della storia che vogliamo raccontare ci porta in Ecuador, alla scoperta della vita e dell’opera di un fulgido rappresentante della teologia della liberazione, il teologo e vescovo Leonidas Eduardo Proaño Villalba.

Proaño naque nel 1910 a San Antonio de Ibarra, un paese a soli sei chilometri da Ibarra, capitale della provincia di Imbabura, nel Nord dell’Ecuador. La sua infanzia trascorse in seno a una famiglia artigiana che si dedicava alla produzione di cappelli di paglia. Ebbe la possibilità di frequentare le scuole elementari e successivamente, grazie all’interessamento di un parroco amico del padre, fu inviato nel 1925 al seminario di San Diego di Ibarra. In quell’istituzione poté terminare gli studi superiori per poi proseguire l’approfondimento della filosofia e della teologia nel seminario maggiore di Quito, capitale del paese andino.

Nel 1936, esattamente il 29 di giugno, Leonidas Proaño venne ordinato sacerdote, dando inizio ufficialmente a un cammino che lascerà una testimonianza di fede e speranza per i più emarginati del paese, in particolare per le popolazioni indigene. Attivo fin dai primi anni ‘40 con opere di divulgazione e scrittura (fondò la libreria «Cardijn» nel 1941 e il giornale  «La Verdad» nel 1944), Proaño si fece strada dentro il clero ecuadoregno, prima nella sua provincia natale e poi, con la nomina a vescovo, nella capitale della provincia del Chimborazo, Riobamba (dal 1954 al 1985), situata nel cuore dell’Ecuador.

Mons. Proaño, «guerrigliero comunista»

È qui, nel centro del paese andino, che Proaño dispiegò, in modo avvolgente e innovativo, la sua opera di reinterpretazione sociale e di riscatto comunitario. Lo stesso governo dell’Ecuador, nei suoi archivi (consultabili online), racconta in modo dettagliato e coinvolgente le vicende di quegli anni, che videro come protagonista colui che passerà alla storia come il vescovo degli indigeni e dei poveri. In quegli archivi si legge che, nel 1954, monsignor Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, si dissociò dai modi tradizionali di esercitare il sacerdozio e, precursore del metodo «vedere-giudicare-agire», entrò nelle brughiere e nelle colline dell’ampia geografia della provincia del Chimborazo, per interiorizzare nella sua azione una visione profonda e veritiera del territorio. Nelle sue molte e lunghe visite, potè toccare con mano la dolorosa realtà degli indigeni maltrattati dai proprietari terrieri, in un sistema di oppressione ed espropriazione che continuava fin dai tempi della colonia. Proaño si schierò senza se e senza ma con gli indigeni, da lui riconosciuti come i più poveri tra i poveri, iniziando insieme a loro la più grande opera di liberazione e nobilitazione nell’Ecuador repubblicano.

Dal 1960 in poi, la sua opera di educazione e riscatto iniziò a estendersi sul territorio. Creò nel 1960 un progetto chiamato «Scuole radiofoniche popolari» e, nel 1962, fondò il «Centro di studi e azione sociale» con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle comunità indigene emarginate dallo stato. Proaño partecipò ai grandi movimenti di rinnovamento della Chiesa cattolica di quegli anni, come il Concilio Vaticano II e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nel quale giocò un ruolo da protagonista.

Il vescovo di Riobamba dovette superare innumerevoli conflitti, incomprensioni, persecuzioni e accuse. Venne etichettato come il vescovo rosso, comunista, sovversivo e terrorista: il motivo di ciò risiedeva nella sua ostinata fermezza nell’esigere giustizia, terra e dignità per le popolazioni indigene. Tanti e tali attacchi lo portarono, nel 1973, a dover viaggiare a Roma per difendersi dall’accusa di essere un guerrigliero comunista: venne assolto, ma, nonostante ciò, rientrato in Ecuador, nel 1976 dovette assaggiare il carcere sotto la dittatura di Guillermo Rodríguez Lara. Leonidas Proaño lasciò all’età di 75 anni (nel 1985) la carica di vescovo, ma la sua opera non terminò quel giorno. Fu nominato presidente della Pastorale indigena e nel 1986 fu anche candidato al premio Nobel per la Pace. Il 29 maggio del 1988 inaugurò il centro di formazione delle missionarie indigene
dell’Ecuador, nella comunità di Pucahuaico, nel suo paese natale San Antonio di Ibarra. Morì a Quito il 31 agosto del 1988, ma pochi giorni prima, il 12 agosto, aveva fatto in tempo a creare la fondazione «Pueblo indio del Ecuador».

Proaño e Grande

In questa enorme e significativa vicenda umana c’è un punto di connessione con la storia di Rutilio Grande e quindi di Romero che avrà conseguenze regionali estremamente rilevanti. Proaño, dopo aver partecipato al Celam, venne eletto presidente del dipartimento della Pastorale e da quella posizione si fece promotore della creazione dell’«Istituto itinerante della pastorale dell’America Latina» (Ipla). Proprio a Quito, per frequentare i corsi dell’istituto, arrivò nel 1972 il sacerdote Rutilio Grande, avido di nuovi stimoli per rinnovarsi e distanziarsi dal conservatorismo radicale della Chiesa salvadoregna.

Dopo gli studi all’Ipla, Grande passerà alcuni mesi a Riobamba, nella diocesi di mons. Leónidas Proaño,  vivendo proprio nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero e ospitale ma soprattutto vicino alla gente. Un modello di fede e di Chiesa molto diverso rispetto a quanto vissuto da Grande nel Salvador, che risvegliò in lui una nuova consapevolezza.

Un fedele mostra una foto di Rutilio Grande; il padre gesuita sarà beatificato il 22 gennaio 2022. Foto Vatican News.

Rutilio Grande, gesuita

Rutilio Grande nacque il 5 luglio 1928 a El Paisnal, un piccolo centro abitato a circa 45 km dalla capitale del Salvador, San Salvador. Membro di una famiglia numerosa e con genitori separati, dopo la morte della madre (avvenuta quando Rutilio aveva solo 4 anni) venne cresciuto dal fratello più grande e dalla nonna. La donna era una fervente cattolica e fu lei l’iniziatrice di Rutilio ai misteri della fede.

Altra figura essenziale nella vita di Rutilio fu quella dell’arcivescovo Luis Chávez y González, conosciuto quando aveva solo 12 anni. Questi gli offrì la possibilità di proseguire gli studi nel seminario della capitale, cosa che fu un punto di svolta nella vita del giovane Rutilio che successivamente, il 23 settembre del 1945, entrò nella Compagnia di Gesú facendo il noviziato a Caracas (Venezuela), dove rimase per due anni.

Dopo aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza, iniziò un percorso tortuso fatto di viaggi, crisi di salute, periodi di docenza e di studio che si alternavano a dubbi sulla sua vocazione. L’America Latina e la Spagna furono il contesto geografico e umano in cui egli visse in quegli anni, e proprio a Oña (Spagna) venne ordinato sacerdote il 30 luglio 1959: pochi mesi dopo l’annuncio di Papa Giovanni XXIII della convocazione del Concilio Vaticano II.

Un’ulteriore tappa di studi europea, questa volta alla Lumen Vitae di Bruxelles (1963-1964), gli fece scoprire quella che sarebbe poi diventata la teologia della liberazione e con essa una via nuova di interpretare la propria missione apostolica.

L’amicizia con Romero

Tornato nel Salvador, padre Rutilio svolse prima il ruolo di formatore nel seminario San José de la Montaña (nella capitale) e poi quello di rettore dell’Externado de San José. Nel 1967 iniziò la sua relazione con Oscar Romero, un’amicizia che perdurò negli anni e che vide, nel giugno del 1970, proprio Rutilio Grande servire come cerimoniere alla consacrazione di Romero come vescovo ausiliare di San Salvador. Quelli furono proprio gli anni nei quali Grande si trovava in aperta critica e grossa difficoltà con la struttura clericale salvadoregna. I suoi metodi di insegnamento, che vedevano l’opera evangelizzatrice andare di pari passo con la promozione di uno sviluppo di un’intellettualità critica e comunitaria, non trovavano il consenso dei suoi superiori. Rutilio però era stato oramai positivamente contaminato dall’esperienza belga e dalla successiva II Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín (1968), che fu fonte d’ispirazione per il suo zelo pastorale e per la sua solidarietà e la vicinanza con i poveri.

Proprio in quel contesto, all’inizio del 1972, Grande intraprese il suo viaggio in Ecuador dove potè toccare con mano l’opera dirompente di Proaño.

Un cartello all’interno di una chiesa di Quito, capitale dell’Ecuador, ricorda a chi entra che i poveri sono tanti e che occorre aiutarli. Foto Paolo Moiola.

Inviso a latifondisti e conservatori

Dopo quell’esperienza rivelatoria, Rutilio accettò di diventare parroco di Aguilares (settembre 1972), la stessa parrocchia dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza. Lì fu uno dei gesuiti incaricato di fondare le Comunità ecclesiali di base (Ceb) e di formarne i dirigenti, chiamati «Delegati della Parola».

Queste attività allarmarono i latinfondisti della zona e anche le frange più conservatrici del clero salvadoregno che temevano che la Chiesa cattolica venisse infiltrata e controllata dalle forze politiche di sinistra. Come ricorda José M. Tojeria in «Novedad y tradición: el martirio de Rutilio Grande», il Gesù del Vangelo era il centro dell’attività pastorale di Rutilio e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares e El Paisnal lo accolsero con entusiasmo.

Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo attraverso una modalità pedagogica ispirata a Paulo Freire. Grande ebbe la funzione di aiutare i membri delle comunità rurali ad acquisire coscienza della propria dignità, dei propri diritti, capacità e possibilità.

Questo avveniva mentre il Salvador era terreno di un confronto crescente tra i settori ricchi e la maggioranza della popolazione che versava in una situazione di estrema povertà. Rutilio Grande giocò un ruolo importante in questo scontro sociale, denunciando apertamente gli abusi e soprusi del governo, toccando il suo zenit con quello che viene ricordato come il «Sermone di Apopa» del 13 febbraio 1977 (omelia relativa al controverso caso del sacerdote colombiano Mario Bernal Londoño, espulso dal Salvador dopo essere stato sequestrato da supposti guerriglieri). Meno di un mese dopo, il 12 marzo 1977, mentre viaggiava in una jeep nella parrocchia di Aguilares, Grande cadde in un’imboscata dei gruppi paramilitari di estrema destra noti come «squadroni della morte». Con lui vennero uccisi anche Manuel Solorzano (72 anni) e Nelson Rutilio Lemus (16 anni).

È il 24 marzo del 1980, mons. Oscar Romero viene assassinato mentre celebra messa nella cappella dell’ospedale Divina Provvidenza, a El Salvador. Foto ANSA.

Un altro assassinio

La morte cruenta dell’amico Rutilio Grande provocò una grande crisi in mons. Romero. Una trasformazione che, probabilmente, egli aveva iniziato già a partire dall’ottobre del 1974, quando venne nominato vescovo della diocesi di Santiago di Maria, nel dipartimento di Usulután.

Nei due anni che trascorse in quella zona rurale del paese, potè toccare con mano la repressione governativa, i massacri e il terrore nei quali erano tenuti i contadini da parte dell’esercito che operava come braccio armato dei latifondisti. Un bagno di realtà che dovette spingere Romero a rivedere molte delle sue precedenti posizioni. Lì passò due anni e, successivamente, il 3 febbraio del 1977 venne nominato da Paolo VI arcivescovo di San Salvador, proprio per succedere al padrino spirituale di Rutilio, monsignore Luis Chávez y González. Solo 28 giorni dopo la sua nomina, Romero venne raggiunto dalla notizia dello spietato omicidio dell’amico. Oscar Arnulfo Romero avrebbe fatto la stessa fine il 24 marzo del 1980.

Diego Battistessa


Archivio MC




Se i ricchi arrivano anche nello spazio


Lo spazio è la nuova frontiera dell’uomo. E, in quanto tale, suscita dubbi e domande. I viaggiatori attuali sono da considerarsi turisti spaziali o pionieri di una nuova era? Gli enormi costi di questi viaggi sono giustificabili? Le colonizzazioni extraterrestri saranno presto una necessità reale per l’umanità?

Il prossimo febbraio 2022, la missione AX-1, organizzata dall’Axiom Space, porterà l’israeliano Eytan Stibbe, lo statunitense Larry Connor e il canadese Mark Pathy a bordo della Stazione spaziale internazionale (International space station, Iss). A rendere particolarmente interessante la notizia è il fatto che i tre sono ricchi uomini d’affari che non hanno mai intrapreso la carriera d’astronauta. Sono, quindi, a tutti gli effetti dei semplici turisti spaziali.

A guidarli verso l’Iss sarà l’ex astronauta della Nasa Michael López-Alegria, che ha al suo attivo ben cinque missioni nello spazio. Sarà lui l’unico professionista che condurrà il terzetto a bordo del Falcon 9 della SpaceX di Elon Musk, il fondatore della Tesla. La navicella spaziale si aggancerà alla stazione internazionale, dove, per la «modica» cifra di 55 milioni di dollari ciascuno, i tre magnati saranno ospitati per otto giorni.

Il costo esorbitante che i turisti dovranno pagare spianerà la strada verso una nuova forma di economia dopo che, nel 2019, la Nasa ha accettato di accogliere visitatori privati sulla stazione spaziale. Intanto, lo scorso ottobre, un regista e un’attrice russi sono stati 12 giorni a bordo della stazione per girare un film. Questi hanno preceduto l’attore Tom Cruise e il regista Doug Liman che si sono prenotati per un successivo volo durante il quale gireranno scene di un altro film. Intanto, Space Hero, un’agenzia di produzione televisiva, ha annunciato che, nel 2023, il vincitore del suo reality show avrà come premio un viaggio e soggiorno alla Iss con la Axiom Space.

Connor, Pathy e Stibbe, però, non si definiscono «turisti spaziali», bensì «pionieri di una nuova era», quella della colonizzazione di nuovi mondi. E questa definizione non è del tutto errata.

I tre «comuni mortali» si sono volontariamente sottoposti a test coordinati con istituti, ospedali, enti scientifici al fine di monitorare lo stato delle condizioni di esseri umani non completamente addestrati per affrontare eventuali colonizzazioni extraterrestri.

In particolare, Larry Connor ha scelto di collaborare con la Mayo Clinic e la Cleveland Clinic; Mark Pathy con il Montreal Children’s Hospital e la Canadian Space Agency, mentre l’israeliano Stibbe si sottoporrà a test coordinati con l’agenzia spaziale israeliana e la Ramon Foundation.

Inoltre, l’equipaggio non professionista, prima di essere portato in orbita, ha dovuto affrontare 15 settimane di training e i dati raccolti durante il loro addestramento saranno utilizzati per successive missioni esplorative.

I viaggi nello spazio stanno conoscendo un’accelerazione a causa dell’interesse di alcuni tra i maggiori miliardari del mondo. Foto Piro4D – Pixabay.

Voli suborbitali e voli orbitali

Le missioni spaziali hanno sempre generato polemiche per gli alti costi e le energie umane, tecnologiche e logistiche profuse. È quindi naturale che anche la missione AX-1, riservata a gente facoltosa, abbia partorito contraddittori anche tra coloro che hanno sempre sostenuto la necessità di investimenti nell’esplorazione dello spazio. L’alto costo della «gita» sembra uno schiaffo alle ristrettezze economiche in cui versa parte della popolazione mondiale, ma se vogliamo preservare il futuro dell’umanità, dobbiamo anche guardare oltre l’oggi e il domani. Con il depauperamento delle risorse del nostro pianeta, l’aumento di popolazione e la sempre maggiore richiesta di energia, la colonizzazione di altri pianeti sarà, a detta di un numero sempre maggiore di scienziati e politici, non più una scelta, ma una necessità. In questo quadro le missioni turistiche, per quanto facciano storcere il naso perché (sino a oggi) riservate a una ristretta cerchia di persone, potrebbero rappresentare una prima verifica della possibilità di periodici viaggi di trasferimento di nuovi coloni.

Nel frattempo, il turismo spaziale decolla e sono già diverse le compagnie che stanno offrendo voli sia suborbitali (quelli che raggiungono un’altezza massima di 100 chilometri) che orbitali (quelli che raggiungono e superano i 400 chilometri, potendo agganciarsi così all’Iss). L’agenzia di consulenza spaziale Northern sky reserach stima che, entro il 2028, i voli suborbitali potranno valere 2,8 miliardi di dollari per salire a 10,4 miliardi entro il 2040 mentre i voli orbitali raggiungeranno i 610 milioni di dollari entro il 2028 e i 3,6 miliardi entro la decade successiva.

Una satellite in orbita attorno alla terra. Foto Pixabay.

Branson contro Bezos

Jeff Bezos di Amazon ha fondato «Blu Origin». Foto Daniel Oberhaus.

Le principali compagnie che si contendono il mercato dei voli turistici suborbitali sono la «Virgin Galactic» di Richard Branson e la «Blue Origin» di Jeff Bezos.

La prima opererà con la SpaceShipTwo, una navicella guidata da due piloti che potrà trasportare sei passeggeri i quali dovranno sottoporsi ad un addestramento di tre giorni prima del volo. La SpaceShipTwo verrà poi trasportata a 12mila metri di altezza da un jet, il WhiteKnightTwo e, dopo essersi sganciata dall’aereo madre, razzi propulsori porteranno la navicella a un’altezza di circa 90 chilometri. Il volo è parabolico e i passeggeri proveranno solo in parte la sensazione della microgravità prima di rientrare sulla Terra, nel New Mexico. La società di Branson ha già venduto 600 biglietti a un prezzo tra i 200mila e i 250mila dollari ciascuno.

Il magnate Richard Branson ha fondato la Virgin Galactic per viaggiare nello spazio. Foto Virgin Galactic.

La Blue Origin, invece, opererà con una capsula portata a 100 chilometri da un booster (razzo ausiliario), il New Shepard, con una traiettoria verticale. Dopo aver subito gli effetti della microgravità per pochi minuti, i passeggeri rientreranno nel Texas utilizzando un sistema di paracaduti tipo quello utilizzato dalle navicelle sovietiche, mentre il booster potrà essere riutilizzato per successivi lanci. A differenza dei clienti della Virgin Galactic, quelli che si affideranno alla Blue Origin necessiteranno di un solo giorno di addestramento.

Compagnie in orbita

L’unica azienda che si affaccerà a breve al turismo spaziale orbitale è, come già scritto, l’Axiom Space fondata dall’ex direttore operativo dell’Iss Michael Suffredini e dall’iraniano naturalizzato statunitense Kam Ghaffarian. L’Axiom ha stretto una collaborazione con la SpaceX di Elon Musk, a cui è affidato il compito di trasportare i turisti in orbita, e la Nasa, che ospiterà i visitatori nella stazione spaziale al costo di 35mila dollari a notte per persona. Ma i programmi della Axiom Space sono ben più ambiziosi: nel 2024 dovrebbe entrare in funzione una «depandance» spaziale collegata all’Iss e, dal 2028, addirittura una stazione completamente indipendente che ospiterà i clienti senza appoggiarsi alla stazione spaziale internazionale.

Ci sono però altre compagnie già pronte a sfruttare la ghiotta occasione rappresentata da questa nuova forma di turismo: la Space Adventure di Eric C. Anderson e la stessa Virgin Galactic hanno in programma di spartire la torta con l’Axiom Space. La Space Adventure ha già una certa esperienza nel campo avendo trasportato sette turisti sulla stazione spaziale con la Soyuz russa per una settimana al costo «stracciato» di 20 milioni di dollari. Nel 2023 porterà altri turisti, e uno di essi avrà anche la possibilità di effettuare una passeggiata nello spazio. Recentemente, un accordo con la SpaceX ha permesso alla Space Adventure di programmare voli orbitali senza appoggiarsi all’Iss: i clienti resteranno semplicemente cinque giorni a orbitare attorno alla Terra.

I crateri della luna. Foto Ponciano-Pixabay.

«Cara Luna»

Il progetto turistico più ambizioso rimane però dearMoon di Yusaku Maezawa, un uomo d’affari giapponese che ha già siglato un contratto con la SpaceX per un viaggio attorno alla Luna in programma nel 2023, poco prima di Artemis III, la missione della Nasa che, nel 2024, riporterà un uomo e una donna (questa volta veri astronauti) sulla superficie del nostro satellite.

Elon Musk di Tesla ha fondato «SpaceX». Foto Daniel Oberhaus.

Maezawa sarà accompagnato da altri otto turisti a cui offrirà il volo, scelti dopo una selezione a cui hanno partecipato più di un milione di candidati. Non si conosce il costo dei biglietti che il giapponese ha riservato per sé e i suoi compagni di viaggio, ma la SpaceX sta già costruendo il nuovo razzo, la Starship, che trasporterà la comitiva.

Di tutte le missioni turistiche spaziali, però, dearMoon è quella più ambigua e meno dettagliata. Secondo il suo ideatore, lo scopo sarebbe quello di promuovere la pace nel mondo dando un nuovo impulso all’arte, un obiettivo piuttosto banale per una missione che costerà miliardi di dollari (Elon Musk ha lasciato trapelare che l’intera progettazione e realizzazione costerà alla SpaceX cinque miliardi di dollari).

Magnati e raccolte di fondi

Resta il fatto che, almeno nelle sue forme iniziali, il turismo spaziale sarà riservato a privilegiati, coloro che potranno permettersi il lusso di spendere milioni di dollari o euro per passare qualche ora nello spazio osservando a distanza un pianeta che, per loro, sta diventando sempre più stretto.

È forse anche per questo motivo che la cooperazione con istituti di ricerca e ospedali (in particolare dedicati alla cura di bambini) è ormai divenuta quasi una consuetudine per i magnati della finanza e dell’imprenditoria che decidono di spendere una cospicua quantità di denaro per assecondare un loro sfizio o una loro passione.

Una passeggiata spaziale. Foto NASA.

Ospedali nello spazio

Lo scorso settembre, la missione Inspiration4, guidata da Jared Isaacman, aveva indicato come scopo principale della gita turistica spaziale (costata, per quattro persone, 200 milioni di dollari) una raccolta fondi a favore del St. Jude Children’s Research Hospital, una fondazione gestita dalla Alsac (American lebanese syrian associated charities) fondata nel 1957 dall’attore libanese-statunitense Danny Thomas. Thomas era un devoto cattolico, che, appena giunto negli Stati Uniti, chiese aiuto a San Giuda Taddeo. Avendo trovato successo, fama e agiatezza, decise di dare vita all’Alsac che, nel 1962 costruì l’ospedale, divenuta oggi la quindicesima organizzazione benefica degli States. Oggi l’Alsac raccoglie circa 750 milioni di dollari ogni anno per il funzionamento del centro (i cui costi operativi si aggirano sui 620 milioni di dollari per anno). La raccolta di fondi costituisce il 74% del budget del St. Jude (in media gli ospedali nazionali raggiungono a malapena donazioni per il 10% del loro budget) e permette alla struttura sanitaria di ospitare ogni anno circa 7.800 bambini pazienti senza chiedere alcun contributo economico alle famiglie.

Isaacman, fondatore e proprietario della Shift4 Payment, aveva offerto i costosi biglietti ad altre tre persone, tra cui un medico ausiliario dello stesso St. Jude la quale era riuscita a sconfiggere un tumore osseo che l’aveva colpita nella sua adolescenza. Obiettivo della missione Inspiration4 era quello di raccogliere aiuti economici per 200 milioni di dollari (la stessa cifra sborsata da Isaacman per la vacanza spaziale) grazie alla pubblicità che ne sarebbe derivata. Il traguardo è stato raggiunto e superato (anche grazie alla donazione di 50 milioni di dollari fatta da Elon Musk), ma sono in molti ad aver storto il naso per la manipolazione sempre più frequente fatta dai miliardari per giustificare agli occhi della società i loro capricci.

La simpatia e la poca notorietà di Isaacman, gli hanno evitato numerose critiche per il suo costoso capriccio, cosa non accaduta con altri suoi colleghi del calibro di Jeff Bezos o Richard Branson o allo stesso Elon Musk.

La democratizzazione dello spazio, come qualcuno ha definito il turismo spaziale, è ancora un obiettivo lontano da raggiungere.

Piergiorgio Pescali

Il lancio di una navetta spaziale statunitense. Foto WikiImages – Pixabay. | Uno dei punti contestati a questi viaggi e anche il tasso di inquinamento prodotto dai lanci. Un solo volo inquina più di quanto possa inquinare un povero in tutta la sua vita.

 




L’Amazonia secondo Salgado


Il famoso fotografo brasiliano non è soltanto un grande artista. Nel suo lavoro infonde, infatti, anche un forte impegno sociale e ambientalista. Iniziando dall’Amazzonia sotto assedio.

Il fotografo brasiliano Sebastião Salgado è uno dei più apprezzati maestri della fotografia contemporanea mondiale. Da circa quattro decenni la sua arte ci mostra luoghi splendidi e grandi atrocità umane. Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, Salgado ha visitato più di 130 paesi con la sua macchina fotografica, spinto da un forte impegno sociale e ambientalista. Aveva lasciato il Brasile durante la dittatura stabilendosi a Parigi. Tutto iniziò nel 1973 con un reportage sulla siccità del Sahel, seguito da uno sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in Europa. Nel 1974 documentò la rivoluzione in Portogallo e la guerra coloniale in Angola e nel Mozambico; nel 1994 il genocidio del Ruanda. Il suo impegno ambientalista si è concretizzato con la fondazione dell’Istituto Terra (institutoterra.org) nel
Minas Gerais, con l’obiettivo di ripiantare quattro milioni di alberi in terre nelle quali l’ecosistema era stato devastato, recuperando oltre 1.500 ettari di «mata atlantica». L’evoluzione del progetto ha comportato la nascita del «Centro per l’educazione e il restauro ambientale» (Cera) che propone un approccio ecosostenibile come unica via per salvare la Terra.

Dopo le ricerche «Exodus. In cammino sulle strade delle migrazioni» e «Genesis», quest’ultima che testimonia la maestosa bellezza delle regioni più remote del pianeta, Salgado ha intrapreso una serie di viaggi per immortalare l’incredibile ricchezza e varietà della foresta amazzonica brasiliana e i modi di vita dei suoi popoli. Da tutto ciò è nata la mostra «Amazônia», allestita al «Maxxi-Museo nazionale delle arti del secolo XXI» (maxxi.art) di Roma fino al 13 febbraio 2022 come unica tappa italiana. Ne è curatrice Lélia Wanick Salgado, compagna di viaggio e di vita del fotografo.

Sciamano Yanomami dialoga con gli spiriti prima della salita al monte Pico da Neblina, stato di Amazonas, Brasile, 2014. Foto Sebastião Salgado / Contrasto.

La foresta e i guardiani

«Amazônia» è una spettacolare esposizione di circa duecento fotografie, rigorosamente in bianco e nero, grazie alle quali possiamo esplorare alcuni angoli di questo ecosistema unico ma in grave pericolo e conoscere dodici popolazioni indigene brasiliane.

Dal 2013 al 2019, non senza difficoltà, Sebastião e Lélia hanno viaggiato all’interno dell’Amazzonia brasiliana che occupa parte del Nord Ovest del paese e rappresenta un insostituibile patrimonio di tutta l’umanità. Hanno effettuato 48 spedizioni raggiungendo anche territori ove vivono popoli indigeni isolati. Salgado ha fotografato la selva, i fiumi, le montagne, per testimoniare l’incredibile diversità naturale della immensa foresta pluviale amazzonica e le modalità di vita degli indigeni brasiliani. Si è fermato nei loro territori per settimane, documentando gli Yanomami, gli Asháninka, gli Yawanawá, i Suruwahá, gli Zo’é, i Kuikuro, i Waurá, i Kamayurá, i Marubo, gli Awá, i Macuxi e i Korubo. Ha voluto fotografare non le ferite, ma la bellezza di questi luoghi dimostrando che, nelle aree dove vivono i popoli indigeni, la foresta non ha subito quasi nessun danno.

La mostra è divisa in due parti: nella prima, le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica con sezioni che vanno dalla foresta vista dall’alto, alle tempeste tropicali e alle isole nella corrente, il più grande arcipelago di acqua dolce al mondo, conosciuto come arcipelago di Anavilhanas, caratterizzato da isole dalle forme più disparate che emergono dalle acque del Rio Negro.

Accanto a filmati e video, le immagini rivelano un labirinto di tortuosi affluenti che alimentano fiumi giganteschi, montagne che raggiungono 3mila metri come il monte sacro Roraima, cieli intensi e carichi di nuvole ove si creano veri e propri «fiumi volanti». Questi ultimi rappresentano una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità di acqua che si innalza verso l’atmosfera. Di quella umidità ha bisogno l’intero pianeta.

Nella seconda parte incontriamo fotografie dei popoli indigeni: gli intensi legami familiari, la caccia e la pesca, la preparazione e la condivisione dei pasti, l’importanza dei capi spirituali, le danze, i rituali, il rapporto con la terra. I filmati permettono di ascoltarne le voci, di conoscere la filosofia e la ricchezza delle loro culture. La mostra si sviluppa in spazi che ricordano le «ocas», tipiche abitazioni indigene, evocando gli insediamenti nel cuore della foresta. In questo viaggio si è accompagnati da una sinfonia creata appositamente dal compositore francese Jean-Michel Jarre. E ancora, ritroviamo una sala con paesaggi boschivi, le cui immagini scorrono accompagnate dal suono del poema sinfonico «Erosão ou a origem do rio Amazonas» di Heitor Villa Lobos. In un’altra sala sono esposti ritratti di donne e uomini indigeni con una musica composta da Rodolfo Stroeter del gruppo Pau Brasil.

Etica ed estetica costituiscono la forza di immagini che invitano a riflettere su un mondo minacciato, sul problema ambientale che mai come oggi si è fatto urgente, sulla necessità di proteggere ciò che resta della foresta amazzonica e dei suoi popoli. Sebastião e Lélia Salgado sperano di stimolare il pensiero e l’azione a difesa di questo inestimabile patrimonio dell’umanità e dei suoi popoli. Vogliono sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di una immensa terra ferita da deforestazioni abnormi, di uomini e donne che difendono le loro terre e resistono da 500 anni: sono loro i guardiani della foresta, i veri difensori dell’ecosistema amazzonico. Da essi abbiamo molto da imparare.

È compito di ognuno

Nella prefazione di Amazônia (Contrasto, ed. Kochen), la guida che accompagna la mostra, il fotografo scrive: «Sin dal momento della sua ideazione, con Amazônia volevo ricreare un ambiente in cui il visitatore si sentisse avvolto dalla foresta e potesse immergersi sia nella sua vegetazione rigogliosa, sia nella quotidianità delle popolazioni native. Grazie all’impenetrabilità della foresta, per interi secoli alcuni gruppi etnici sono riusciti a preservare il loro tradizionale stile di vita. Oggi, però, questi stessi gruppi e la foresta in cui vivono sono seriamente minacciati. Queste immagini vogliono essere la testimonianza di ciò che resta, prima che possa scomparire. Affinché la vita e la natura possano sottrarsi a ulteriori episodi di distruzione e depredazione, spetta a ogni singolo essere umano del pianeta prendere parte alla sua tutela».

Antonella Rita Roscilli

Sebastião Salgado con la moglie Lélia Wanick Salgado. Foto Instituto Terra, Minas Gerais, Brasil.




A spasso su strade d’acqua


L’Amazzonia, quasi un mito lontano, con la sua foresta, gli immensi fiumi. Ma anche territorio conteso, al centro dell’attualità, tra incendi e cambiamenti climatici. In questo ecosistema ci sono tante storie umane, semplici e complesse.

Il 23 agosto del 2019, io e la mia amica Marika siamo partite per Belém (Pará, Brasile), dove avevo il contatto di una coppia. Appena arrivate ci siamo tuffate nell’accogliente umidità della città, dal sapore aspro dell’açai. L’açai è una bacca di colore blu, alimento base delle popolazioni indigene. Da essa si ricava una bevanda violacea ricca di antiossidanti.

Da Belém siamo partite per la Ilha do Marajò, l’isola fluviale più grande al mondo. In seguito, abbiamo preso un barcone fluviale, un mezzo di trasporto locale che poteva ospitare fino a 300 amache e qualche cabina, per raggiungere l’ecovillaggio di Macaco, vicino alla Ilha do Amor (Isola dell’amore), e raggiungere infine Manaus. In totale, cinque giorni e 105 ore di navigazione sull’immenso Rio delle Amazzoni.

A Manaus ci aspettava la meravigliosa famiglia di Vau ed Enoque, di cui conoscevamo solo i nomi. Marika aveva ottenuto il loro contatto da una commessa di un negozio di Forlì, dopo averle chiesto il prezzo di un paio di jeans. La vita funziona sempre in maniera inaspettata.

Da questa base sicura, siamo partite nuovamente per conoscere gli angoli meno conosciuti di Manaus e dintorni.

Voglia di raccontare

Da quel viaggio sarebbe nato poi l’impulso di narrare questa parte straordinaria del mondo, ma soprattutto la vita delle persone incontrate. E ne sarebbe nato «Strade d’acqua», una raccolta di racconti. Il libro ripercorre le tappe più significative del viaggio. In ognuna di esse c’è un personaggio reale che racconta la sua esperienza e, tramite essa, mostra la realtà ecologica, politica, sociale ed economica di un pezzettino di Amazzonia.

Il primo intento del libro è quello di raccontare in modo semplice e diretto alcune nozioni scientifico-naturalistiche che riguardano la ricchezza e le peculiarità di quell’ecosistema fragilissimo.

Ciò che immediatamente ci ha colpite, infatti, è stata la dimensione della natura, fuori dalla nostra immaginazione. Per fare un esempio, l’esemplare più alto di angelim vermelho (Dinizia excelsa), chiamato anche gigante dell’Amazzonia, misura 80 metri.

Una natura esuberante e pericolosa e pure piena di leggende: le trasformazioni notturne del delfino rosa (o boto vermelho), le radici della marapuama (Ptychopetalum olacoides), con cui oggi viene preparato il «viagra dell’Amazzonia» (anche se dagli indigeni è utilizzato per curare le paralisi), le «formiche proiettile», che entrano velocemente a fare parte della quotidianità e del linguaggio del viaggiatore.

Foresta esuberante e fragile

Prima ancora di mettere piede in Brasile, sull’aereo, scopro con stupore e una vaga tristezza per la perdita di quelle poche nozioni che credevo di aver imparato a scuola, che la foresta amazzonica non è il grande polmone del mondo. Tra un pisolino e l’altro, Juan, un agronomo peruviano incontrato per caso, mi ha spiegato che sono le diatomee (microalghe unicellulari, ndr) a produrre gran parte dell’ossigeno mondiale, attraverso un ciclo che dai deserti africani raggiunge e coinvolge anche
l’Amazzonia. Di fatto, la foresta amazzonica utilizza quasi tutto l’ossigeno che produce per alimentare i tessuti dei suoi alberi e tutti i batteri e funghi che degradano gli scarti degli alberi caduti al suolo. Questo ricco strato di materia organica assicura alle piante la loro stessa sopravvivenza. L’esuberanza della flora amazzonica nasconde la sua fragilità e la poca fertilità del suo suolo, fatta di strati di sabbia e argilla. Se si taglia un albero e se ne tolgono le radici, lì, non cresce più nulla. La foresta si trasforma in un deserto.

Gli studi di archeobotanica dimostrano come l’Amazzonia sia una sorta di «giardino addomesticato» dall’uomo. Già prima del 1492, milioni di indigeni abitavano quelle foreste considerate vergini.

L’agricoltura preispanica prevedeva l’arricchimento continuo del suolo amazzonico infecondo, e la sua riutilizzazione, piuttosto che l’ampliamento delle arre coltivabili tramite incendi controllati. Gli indigeni hanno saputo interagire con la foresta senza comprometterne l’ecosistema come fanno le multinazionali agricole oggi.

Incontro con i riberinhos

Un’altra realtà che abbiamo incontrato è quella delle comunità fluviali, i cosiddetti riberinhos, che vivono lungo le sponde del fiume più lungo del mondo, il Rio Amazonas. Un flusso d’acqua, fango e detriti imponente, che espandendosi «nella sua grandiosità, raggiunge il fondo dell’orizzonte, tentando, invano, di allargare anche il cielo».

Gli abitanti dei grossi centri urbani considerano i riberinhos persone felicemente autosufficienti, senza però conoscere le loro difficoltà. Queste comunità sono isolate, spesso non hanno la possibilità di accedere ai servizi di base, anche se hanno sempre pesce a disposizione, faticano a reperire acqua potabile. Inoltre devono lottare contro le invasioni dei taglialegna illegali nei loro territori.

Durante la navigazione, dall’alto del nostro barcone vedevamo dei bambini dalla terraferma saltare sulle piroghe per dirigersi verso la nostra imbarcazione, sfidando le onde create dal nostro scafo. Si avvicinavano per recuperare i sacchetti chiusi, riempiti di vestiti e cibo, che i nostri compagni di viaggio lanciavano loro. La povertà di queste comunità spesso spinge le ragazzine a prostituirsi a marinai, commercianti o proprietari delle imbarcazioni.

Arrivo a Manaus

Siamo poi arrivate a Manaus, la capitale bollente dell’Amazzonia. Una città costruita a fine Ottocento durante il florido commercio della gomma che mise in piedi un vero e proprio sistema schiavista, dove torture e minacce nei confronti degli indigeni erano all’ordine del giorno.

La ricchezza sociale di questa città è straordinaria: dal centro alle sue periferie ribollono iniziative di riscatto sociale come il percorso per disabili (la strada per bambini speciali) nella baraccopoli di Petropolis. Ci sono slanci di creatività come quella di Rò, un giovane che stampa le foglie degli alberi sulle magliette per ricordare a tutti la loro somiglianza e parentela con la natura. Le lavoratrici sfruttate dalle multinazionali nella zona franca di Manaus sviluppano riflessioni sul senso della vita.

Queste sfumature umane si intersecano con le traiettorie sociali dei rifugiati venezuelani che vendono acqua alle macchine ferme ai semafori, spremono arance agli angoli delle strade, dimenticandosi i propri titoli di studio e vivendo nelle aiuole accampati su materassi di cartone o in stanze sovraffollate. Si incrociano anche con le proteste delle comunità indigene che hanno dovuto lasciare la foresta e sono relegate ai margini della città e che lottano per il riscatto della propria storia e dei propri diritti.

Nel libro riporto anche alcune testimonianze raccolte a Torino di ritorno dal viaggio: quella dell’indigena Célia Xakriabá, 30 anni, professoressa, attivista e una delle coordinatrici del Articulação dos Povos Indígenas (Apib), arrivata in Italia con una delegazione di indigeni brasiliani per denunciare gli abusi del presidente Jair Bolsonaro contro le comunità. Quella di padre Josiah K’Okal, missionario della Consolata che ha vissuto per anni a contatto col popolo indigeno Warao del Venezuela, e quella di Carlo Zacquini, uno straordinario fratello della Consolata che ha dedicato la sua vita agli indigeni Yanomami e di conseguenza alla protezione della foresta.

Amarilli Varesio


Manaus, Colonia Antonio Aleixo

Un quartiere complesso

Il quartiere Colonia Antonio Aleixo nasce nel 1930 per i cosiddetti «soldati della gomma» che estraevano la sostanza (borracha) dagli alberi della gomma, seringueiras. In seguito, negli anni Quaranta, cominciò a essere utilizzato come lebbrosario per allontanare tutti i malati da Manaus, e, verso la fine degli anni Settanta, fu aperto alle loro famiglie, circa duemila anime. Fino a una ventina d’anni fa, gli autobus che collegavano il quartiere alla capitale erano differenziati per evitare contaminazioni, ma ancora oggi questo continua a essere un luogo di emarginazione per i suoi abitanti.

Nel 2017, al suo interno, grazie alla passione di Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid, fondatori del ramo amazzonico dell’associazione O pequeno nazareno (il piccolo nazareno), nasce il Projeto gente grande (Pgg). Il Pgg è una scuola per la prevenzione della criminalità, del lavoro infantile e della mendicità. È gestita da educatori sociali. Gli studenti, per otto mesi, seguono quattro cicli: sviluppo pedagogico, nel quale si insegna portoghese e matematica e si iscrive il minore alla scuola pubblica, se non lo è ancora; sviluppo personale, dove si lavora sui valori e sull’etica e sulla personalità; sviluppo professionale, dove si impara a scrivere il curriculum e a lavorare in gruppo; infine, sviluppo tecnologico, dove si insegnano i principi base per usare il computer.

«L’obiettivo finale è inserirli nel mercato del lavoro come apprendisti. Ma è necessario partire da valori fondamentali quali il rispetto, l’onestà, la responsabilità, l’amore per il prossimo; dimensioni che spesso i ragazzi di strada perdono nel tentativo di far fronte agli strappi affettivi e alle necessità economiche che devono affrontare. C’è molto rispetto per il nostro lavoro da parte degli abitanti del quartiere, e anche da parte dei trafficanti di droga. Negli adulti c’è un desiderio profondo di vedere i propri figli fare una vita diversa dalla loro. Noi non diciamo ai ragazzi che trafficare droga non va bene, ma, dando loro delle opportunità concrete, li aiutiamo a non diventare manodopera infantile del commercio illecito», racconta Tommaso.

A.V.


Manaus, Tarumã

Il parco delle tribù

La comunità indigena Parque das Tribos risiede nel quartiere  Tarumã di Manaus ed è formata da più di 400 famiglie di 38 etnie diverse. La migrazione indigena verso l’area urbana è cominciata negli anni Settanta con l’inaugurazione della zona franca e negli anni a venire non si è più fermata. Sulle strade del quartiere, l’asfalto è stato posato per la prima volta nel 2018, assieme all’impianto d’illuminazione pubblica a led e ai servizi di acqua corrente.

Nel Parque das Tribos si lotta per la conservazione delle tradizioni native, ma anche per l’accesso all’educazione superiore e universitaria delle nuove generazioni. In questo contesto multilingue, Claudia Martins Tomas, di etnia Baré, ha deciso di aprire una scuola indigena. Dopo essersi laureata in Pedagogia e Interculturalità e aver ricevuto alcuni finanziamenti, Claudia ha realizzato un progetto di conservazione e trasmissione della lingua autoctona. I bambini e i ragazzi che frequentano la sua scuola sono delle etnie più disparate: Ticuna, Desana, Tukano, Mura, Kokama, e altre ancora. Per insegnare, utilizza la sua lingua materna, il Nheengatu o Lingua Geral Amazonica. Una lingua franca utilizzata nel processo di colonizzazione che i gesuiti standardizzarono, partendo dalla lingua Tupinambà, e adattarono alla grammatica portoghese. Era l’idioma più parlato sulla costa atlantica; fu imposto come mezzo di comunicazione principale e insegnato agli indigeni che fungevano da forza lavoro nelle missioni.

Claudia non parla la sua lingua originaria, il baré, perché non esiste più.

Durante le sue lezioni, la donna narra leggende, insegna i segreti dell’artigianato e delle decorazioni. Lo fa principalmente in Nheengatu, ma anche nelle altre lingue indigene, per rinforzarle. La scuola è un container e nella stagione secca si scalda come un forno. Claudia vende collane di semi e vestiti pitturati con colori naturali e motivi indigeni per finanziare la scuola.

A.V.


Manaus, centro storico

Medicina indigena

João Paulo Lima Barreto è un indigeno di etnia tukano, antropologo, ideatore e coordinatore del Centro di Medicina Indigena Bahserikowi’i, collocato nel centro storico di Manaus. Ha i capelli neri e una pacatezza perenne nello sguardo. Il Centro è stato aperto nel giugno 2017. Nel primo mese ha ricevuto più di 1.200 persone per i trattamenti con i Kumuã (o anche conosciuti come pajés, specialisti). Gli specialisti presenti al Centro sono di etnia tukano, desano e tuyuka. I loro trattamenti sono rivolti a curare dolori emozionali, muscolari, ferite, mal di testa, gastriti, calcoli nei reni; vengono somministrati attraverso i bahsese (benedizioni) e sono affiancati da rimedi prodotti dagli indigeni di etnia apurinã e da rigide raccomandazioni, come astenersi dal mangiare certi alimenti o da attività sessuali.

«All’inizio, la maggior parte delle persone si aspettavano di vedere il guaritore in una capanna, con le piume in testa e le collane di semi al collo; si aspettavano che guarisse tutto e subito, come per magia. Arrivavano con l’immaginario creato dai media, dal folclore e dalla ricerca. Quando scoprivano che il pajé indossava bermuda e camicia e riceveva in una casa storica, uguale alle altre della via, rimanevano delusi e smettevano di venire», racconta João. La sua intenzione è che le persone possano conoscere altre forme di trattamento a partire dai saperi dei popoli originari, visto che fino ad adesso le terapie indigene sono sempre state considerate pratiche religiose o forme di stregoneria. Invece, secondo il pensiero tukano, ogni problema psicologico corrisponde a un disordine nelle aree vitali di una persona: il lavoro, la vita familiare, la salute, la vita comunitaria. È necessario sostenere queste aree con le benedizioni degli specialisti. «A differenza della medicina occidentale, quella indigena serve più come prevenzione che come trattamento. Io suggerisco di imparare ad anticipare la malattia, ascoltando e conoscendo meglio il proprio corpo».

A.V.

 




Le nuove energie dell’Africa


Prima volontario, poi esperto in micro impresa e console onorario. Dopo quattro decadi e mezzo di lavoro nell’Africa più povera, Paolo Giglio si toglie qualche sassolino dalla scarpa. Spiega perché la cooperazione non funziona, e propone soluzioni.

«Sono accettabilmente vivo. L’anno prossimo avrò 70 anni, devo prepararmi». Esordisce così Paolo Giglio, piemontese di Cascinette d’Ivrea (To), che vive e lavora nel Sahel da 45 anni. Ci conosciamo oramai da alcuni decenni, dalla fine del secolo scorso. Volontario, cooperante, console onorario d’Italia in Niger, ma anche sperimentatore senza sosta di nuove tecniche su energie alternative e agricoltura, che devono però essere sempre adattate al contesto saheliano. Paolo è anche Cavaliere Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.

La sua parlata chiara e schietta è intervallata da qualche battuta e, ogni tanto, dalla sua tipica «grassa» risata, quasi a volere sdrammatizzare temi che sono pesanti come macigni.

Paolo ha attraversato la storia della cooperazione allo sviluppo dai suoi inizi a oggi: «La cooperazione è sempre peggio – ci dice in collegamento da Niamey, Niger -. Oramai i progetti hanno solo amministratori, perché di tecnici non c’è più bisogno. Se una saldatura è fatta male, nessuno la va a guardare, ma se la fattura è sbagliata, allora sei fregato».

Così, l’anno scorso, ha voluto raccogliere alcuni suoi scritti – sì, Paolo sa anche scrivere – e, insieme all’amico Stefano Bechis, agronomo, docente all’Università di Torino, esperto di energia solare per l’agricoltura e compagno di mille progetti, ha pubblicato il volume «Nuove energie per l’Africa», uscito in italiano e francese, per l’Harmattan.

Chiediamo a Paolo il perché di questo libro. «Arrivai in Alto Volta (poi Burkina Faso, nda) il 22 marzo del 1973. Sono passati un po’ di anni e mi sono detto che certe idee bisogna dirle, proporle. Poi magari non verranno accettate, ma pazienza, occorre farlo».

Arrivato in Africa che non aveva ancora 21 anni, era uno dei primi obiettori di coscienza riconosciuti dalla legge italiana del 1972 e faceva il servizio civile sostitutivo di quello militare. Era con la Ong Lvia che in quegli anni muoveva i primi passi. «Poi la cosa mi è piaciuta e mi sono fermato. Altri che hanno svolto il servizio nel mio stesso periodo, non sono mai più tornati. All’inizio ho fatto tanti errori, ma ho anche imparato molto. Purtroppo, quello che vediamo noi adesso è che i giovani arrivano e dopo un anno pensano di avere risolto tutti i problemi».

Paolo ha visto passare, e spesso ha accolto, generazioni di volontari, cooperanti, esperti. Gli chiediamo cosa è cambiato nell’approccio al volontariato internazionale. «Negli anni ‘70 arrivavamo senza una formazione specifica – io, ad esempio, sono maestro – e allora cercavamo di imparare. Osservavamo il paese per capire. Adesso lo prendono come un mestiere qualsiasi. Ma se uno non ci crede almeno un po’, in questo campo i risultati non possono esserci».

Paolo non è benevolo con i finanziatori. «I tecnocrati europei, non lo fanno apposta a dire stupidaggini, ma ne sono convinti. Ci sono cose (nella cooperazione, nda) che vanno completamente al di fuori della realtà del paese. Negli obiettivi dei progetti, ad esempio, leggiamo sempre le stesse frasi, come il discorso di aiutare gli ultimi. Poi, nella realtà, con le procedure che ci sono attualmente, vengono aiutati gli intermediari, che sono già ricchi, e non i più poveri».

Paolo da molto tempo spinge sulla micro imprenditorialità locale, tema di cui è stato antesignano e al quale sono oggi arrivati tutti i principali finanziatori, come Unione europea e Cooperazione italiana. Ma anche qui, c’è qualche problema di approccio. «Come scegliamo le microimprese da appoggiare? Loro (i finanziatori, nda) vogliono che si faccia sulla base di un business plan. Ma qui in Niger l’84% della popolazione non sa né leggere né scrivere, come si fa? Si deve fare un’analisi di fattibilità e opportunità con le persone, andandole a trovare, nei quartieri, nei villaggi. E non, ad esempio, invitandoli in venti in una sala a seguire un seminario, come si fa spesso». Paolo ha una massima che lo guida sempre: «Siamo noi che dobbiamo adattarci alla situazione e non la situazione che deve adattarsi a noi».

Contadino pompa acqua nel sistema di irrigazione,comune di Gouna, Zinder, Niger

Adattarsi alla povertà

Nel suo libro, il console propone delle soluzioni. Intanto scrive che ha osservato un adattamento della gente alla povertà, perché non si può lottare eternamente contro una situazione, allora ci si adatta. «Quelli che possono uscire da questa situazione sono coloro che non hanno niente da perdere, quelli che sono già emarginati a causa della tradizione ancestrale, ovvero giovani e donne. Quello che io propongo è di “selezionare chi spicca”, non in base alla carta geografica o al reddito, come spesso fanno i progetti, ma identificando chi ha già iniziato, senza aiuti esterni, una certa attività. Queste persone potrebbero farcela, allora vale la pena aiutarli». L’appiattimento di una data popolazione sulla povertà e sugli aiuti forniti dall’esterno sono una costante nelle aree con economia di sopravvivenza.

«Un aspetto che è migliorato rispetto al passato, è che noi tendiamo a lavorare attraverso gli eletti locali (sindaci, ecc.). Questi, soprattutto in area rurale, hanno interesse che le cose funzionino, sia perché sono del posto, sia perché sperano di essere rieletti. Lavorare con i funzionari statali, invece, è più complicato, perché, che lavorino o no, lo stipendio lo portano a casa. Ma questo è così in tutti i posti del mondo».

«La Cooperazione internazionale è sempre più lontana dalla realtà», aggiunge ancora il veterano. «Ad esempio, dicono che ci sono troppi bambini in Niger e bisogna sensibilizzare. Ma se un contadino non ha dieci figli che, quando sarà vecchio, gli daranno di che vivere, come farà? Qui, su 22 milioni di abitanti, i pensionati sono settemila, e tutti della funzione pubblica».

Altra regola d’oro di Paolo Giglio: le tecnologie utilizzate nei progetti devono essere il più possibile riparabili localmente. Questo, oltre che a far funzionare le cose, fa girare l’economia locale.

E qui si torna agli artigiani, visti come microimprenditori del settore privato.

«Bisogna lavorare con gli artigiani, sedersi con loro, discutere di quello di cui hanno bisogno e cercare di aiutarli a quel livello».

«Ma i donatori hanno bisogno di quelli che sanno parlare bene, per farsi pubblicità e usarli in quei seminari e simposi che non servono a niente. Ci sono imprese che vincono premi, ad esempio sull’energia solare, ma non hanno mai posato un pannello solare».

Un esempio molto semplice: «Le donne che fanno da mangiare per strada a Niamey (capitale del Niger). Tutte insieme hanno un giro d’affari che supera quello della più grossa società del Niger. Ognuna di loro riesce a far credito a 10-12 funzionari i quali pagano solo a fine mese, quando ricevono lo stipendio. Loro dovranno andare a comprare la materia prima a credito, perché non hanno liquidità. Il loro beneficio è inoltre piccolissimo. Se si desse loro un micro credito, potrebbero raddoppiare il loro margine di guadagno, perché non pagherebbero il credito sulle materie prime. Queste donne non possono riempire dei documenti e non hanno il tempo di seguire dei seminari. Se non lavorano, non mangiano».

Una nuova borghesia

Paolo Giglio, nel suo libro, parla della necessità di una nuova borghesia per trainare lo sviluppo del paese. «In questi paesi ci sono i grossi commercianti, pieni di soldi, e i funzionari, ovvero gli impiegati pubblici. Non c’è nulla in mezzo che produca qualcosa. Si tratta di pura compravendita. Produrre qualcosa, anche fuori dal campo agricolo e zootecnico, è possibile. Anche se lo spazio si è ristretto, in quanto il mercato è invaso di prodotti cinesi, di cattiva qualità, ma di costo imbattibile. Bisogna appoggiare fabbri, falegnami, affinché non siano sempre i più poveri. Che possano comprarsi una casa, produrre manufatti concorrenziali e creare lavoro». Giglio parla di una classe media produttiva, oggi inesistente. Appoggiando la creazione di questa classe, si indurrebbe sviluppo economico nel paese.

Energia dell’Africa

Perché il libro di Giglio e di Bechis si intitola «Nuova energia per l’Africa»? Tolto il fatto che entrambi lavorano da molto tempo con la tecnologia solare, soprattutto per il pompaggio di acqua dai pozzi (l’acqua è il bene più importante nei paesi del Sahel), e che nel libro c’è un lungo capitolo che ne spiega l’impiego, le nuove energie per Paolo sono qualcosa di più profondo: «Intendo l’energia che la gente può mettere a disposizione per cambiare le cose. Sono quelli che bisogna appoggiare con i progetti di sviluppo. Faccio l’esempio di una ragazza che si è messa a produrre un certo tipo di borse e ha dato lavoro a sessanta donne rurali. Questo è un esempio virtuoso, di quelli da appoggiare».

Bisogna fare poi molta attenzione alle pressioni sociali che i nostri artigiani possono avere. Se ad esempio si viene a sapere che una micro impresa funziona bene, subito ha addosso frotte di famigliari che chiedono un aiuto, e l’impresa fallisce.

Un’altra problematica che affligge il Sahel da una decina di anni è la sicurezza. Come abbiamo già scritto in vari articoli, tutta l’area è territorio di diversi gruppi jihadisti internazionali, dai quali il Niger non è esente. Per chi segue progetti di sviluppo è diventato molto difficile andare sul campo, nei villaggi e nei luoghi nei quali le attività sono realizzate. «È un ulteriore blocco alla cooperazione di prossimità, soprattutto per i giovani che arrivano. È diventato quasi impossibile andare sul terreno. Ma se si facesse un po’ di prevenzione, con progetti in certe aree, come le periferie urbane, magari si riuscirebbe a salvare qualcosa. Voglio dire che se ai piccoli banditi dai una pompa solare, magari tornano a coltivare. Ovviamente non riusciamo a influire, invece, sul terrorismo».

Migrazione reciproca

Paolo fa una proposta molto operativa e provocatoria per incentivare luso della terra in questi paesi. Attirare giovani imprenditori agricoli europei a installarsi nei paesi del Sahel, in modo da assumere gente e insegnare loro certi mestieri. «È una proposta originale. Non si tratta di nuovi coloni, ma piuttosto di migrazione nelle due direzioni. Penso a microimprese europee che possono aiutare lo sviluppo di questi paesi. Sovente lo sviluppo non è fatto da soli autoctoni, che hanno più blocchi sociali, ma da un giusto mix di locali e stranieri con competenze. Ad esempio, a Niamey, lungo il Niger, sono i Burkinabè che hanno fatto gli orti per primi. Poi i nigerini hanno copiato». E conclude: «Se sono non sposati magari si sposano e restano, altrimenti, se se ne vanno, non possono certo portarsi via la terra».

Marco Bello

Giovani contadini dissodano la terra, sito di Gandou (Gouna), Niger


Come burocrazia e procedure uccidono l’aiuto allo sviluppo

La cooperazione che inganna

Parlando di Unione europea, le agevolazioni della Politica agricola comune (Pac), con 386 miliardi di euro in 7 anni (33% del budget dell’Unione europea), sono destinate per l’80% al 20% delle imprese agricole europee più importanti.

Eurostat indica che nel 2015 sui 22,3 milioni di micro imprese dell’economia europea (settore finanziario escluso) il 92,7% erano imprese con meno di 10 addetti, rappresentando quasi il 30% dei posti lavoro dell’Unione. E ricevevano pochissime agevolazioni.

Lo stesso capita con i progetti di aiuto ai paesi poveri. La stragrande maggioranza dei cosiddetti donatori istituzionali (ad esempio l’Unione europea, l’Agenzia italiana per l’aiuto allo sviluppo…) ha creato delle procedure talmente complicate che i destinatari «piccoli» non riescono ad adeguarsi. Sono quindi i grandi a vincere le commesse e a fare le realizzazioni come intermediari, a carpire gran parte della torta.

Molti affermano che, per esempio, nelle colture orticole ci sono troppi intermediari fra il coltivatore e il cliente. E si inizia a parlare di «distanza zero», situazione nella quale il produttore vende direttamente al consumatore.

Anche nei progetti di sviluppo bisognerebbe tornare alla distanza zero, o quasi, in modo che l’intermediazione fra il donatore e il beneficiario finale sia meno ingombrante possibile. Bisognerebbe poi favorire i progetti eseguiti attraverso strutture locali no profit presenti nella zona d’azione, le quali possono tessere dei legami duraturi nel tempo con i beneficiari finali.

Con la cooperazione stiamo veramente aiutando i poveri? Attualmente no. La maggior parte dei donatori ha intriso il proprio approccio di una burocrazia tale che lo scavatore di pozzi del villaggio non ha nessuna possibilità di ottenere la commessa per fare un pozzo nel suo villaggio, cosa che permetterebbe di dare lavoro e arricchire un pochino la comunità.

Si parla di trasparenza perché sono state introdotte gare di appalto anche per i piccoli contratti, come se gli appalti potessero evitare le «indelicatezze». Non le evitano per niente. Queste pesanti procedure proteggono dei tecnocrati incompetenti che sanno accumulare giustificativi, ma non saprebbero controllare se il pozzo è a modo, se una saldatura è ben fatta o se la manutenzione della tecnologia introdotta può essere fatta localmente. Questo «protegge» anche molti cooperanti, che non vogliono più lavorare sul terreno con delle esecuzioni in regia (tramite coordinamenti dei diversi attori, ndr) dove bisogna sudare sotto il sole per seguire il lavoro quotidianamente. Questi stessi cooperanti si adattano troppo facilmente alle regole burocratiche che permettono loro di restare confinati in uffici climatizzati.

Il Niger ha bisogno di una riforma agraria e non di parole e di carte. Il paese ha bisogno di orticoltura e di trasformazione / valorizzazione della produzione e non di burocrazia, procedure e quadri di concertazione.

L’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo) indica che più del 90% dell’economia africana è informale. L’Istituto nazionale della statistica del Niger (Ins), valutava nel 2018 il Pil del Niger in 3.628 miliardi di franchi cfa (circa 5,5 miliardi di euro) di cui 3.429 miliardi (circa 5,2 miliardi di euro) prodotti dal settore informale, cioè il 94,5%.

Non dico certo che l’economia debba restare informale. Ma per spingere le micro imprese a formalizzarsi bisognerebbe incoraggiarle e non reprimerle. Escluderle non significa spingerle a mettersi in regola, è proprio il contrario. Soltanto affidando delle commesse al fabbricante di pozzi del villaggio gli si può chiedere in cambio di mettersi in regola. Non includere l’economia informale nei progetti di sviluppo significa anche partecipare alla distruzione degli equilibri sociali del villaggio, cioè di coloro che si vorrebbero aiutare.

Infine gli uffici che operano i controlli dei fondi stanziati fanno il loro lavoro con i paraocchi senza commuoversi minimamente se gli ultimi non sono stati presi in conto. Se così non fosse aggiungerebbero ai loro rapporti di analisi almeno delle critiche costruttive. Questi controllori esigono, nel rispetto delle procedure imposte, un numero di documenti cartacei talmente importante che i progetti di sviluppo ormai devono assumere più amministratori che tecnici. Il risultato finale è quello di avere molta documentazione in regola, ma meno pozzi e meno fondi per i beneficiari, mentre negli obiettivi del progetto di sviluppo c’era scritto «dare lavoro alle classi disagiate», «aiutare gli ultimi», «diminuire l’emigrazione».

Il sistema dunque è ingannatore e sembra instaurato per aiutare i ricchi.

Non stupitevi perciò quando gli abitanti dei villaggi, gli ultimi, quelli che non ce la fanno più, scappano verso l’Europa o sostengono silenziosamente dei movimenti estremisti.

Paolo Giglio




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

Banche armate

Gentile redazione,
è da parecchi anni che leggiamo con interesse la vostra rivista, contenente articoli molto interessanti e scritti in modo chiaro e comprensibile a tutti. Nelle vostre pagine affrontate problemi attuali e scottanti. Ci aprite una finestra sul mondo che purtroppo gli altri organi di informazione non ci danno.

Una cosa sola ci lascia un po’ perplessi e ci induce a farvi questo appunto: la scelta delle banche a cui vi appoggiate per i versamenti e le donazioni. Si tratta della banca Intesa San Paolo e di Unicredit Banca. Leggendo anche altre riviste missionarie ed informandoci un po’ sulla questione siamo venuti a conoscenza che i due istituti sopracitati sono ai primi posti nella lista delle «banche armate», ossia delle banche che utilizzano parte dei loro soldi per finanziare la produzione e la commercializzazione di armamenti (vedi legge 185/1990 sulla trasparenza ed il controllo del commercio italiano di armamenti). Ci parrebbe una scelta migliore, per una rivista come la vostra, affidarsi ad altre banche, in particolare a Banca Etica.

Confidando nel fatto che questa nostra lettera vi faccia riflettere sulla questione, vi auguriamo buon lavoro e lunga vita alla vostra bella rivista.

Fabio Vigolo e Gaianigo  R. Patrizia
Cornedo Vicentino, 15/09/2021

Cari Fabio e Patrizia,
grazie di averci scritto. Il disagio che voi provate è anche il nostro. Non vi so dire quante volte in questi anni di servizio a MC abbiamo discusso la questione, bloccati però da problemi oggettivi di gestione e servizi. Ma oggi, finalmente, sono in condizione di dirvi che da questo mese siamo con Banca Etica, di cui, tra l’altro, siamo diventati soci. Trovate i dati cliccando qui..

È un passo che desideravamo da tempo, ed era dovuto anche a tanti nostri missionari che hanno lavorato o lavorano in «contesti armati», tra i quali ricordo padre Guerrino Prandelli, saltato su una mina in Mozambico nel 1972, e i nostri confratelli da pochi anni a Luacano, in Angola, una vastissima area ancora infestata dalle mine della lunga guerra civile. Senza dimenticare quelli che stanno ricostruendo il tessuto sociale e religioso dei 30mila km2 delle missioni di Fingoé e Uncanha in Mozambico, dove per anni guerriglia e controguerriglia hanno distrutto ogni cosa.

Troppi fucili circolano anche nel Nord del Kenya, come ci ricorda mons. Virgilio Pante di Maralal. Per non parlare di Colombia e Messico, dove i nostri missionari operano attivamente per la pace; delle bande armate del Congo Rd che rapinano le materie prime in zone dove i nostri missionari hanno dovuto abbandonare le missioni ai confini con il Sudan per la totale insicurezza. Senza dimenticare la guerra in atto in Etiopia. E questi non sono che effetti marginali di una corsa agli armamenti che sta esplodendo nonostante l’aumento della consapevolezza a livello di base e i continui appelli di papa Francesco.

Purtroppo, passare a Banca Etica non basta a risolvere il problema degli armamenti, che sono finanziati anche attraverso i più insospettabili canali di un mondo finanziario che è fuori dal controllo dei governi e anche dell’Onu. Ma siamo lieti di poter fare questo passo e desideriamo che Banca Etica possa crescere e offrire tutti quei servizi che sono necessari a organizzazioni umanitarie e non profit come la nostra.

 

Strade impensate

Caro padre Gigi,
ho letto l’editoriale «Come un seme» del mese di ottobre e prima di tutto mi congratulo per il traguardo del cinquantesimo di vita missionaria. Condivido in gran parte le riflessioni che esprimi e che suggeriscono come l’incontro tra il nostro spirito, spesso disorientato, e lo Spirito che ha doni infiniti ci incammini lungo strade impensate in cui ci si imbatte in imprevisti spesso sorprendenti che segnalano l’azione invisibile e creativa di tale Spirito, senza escludere anche la fantasia del nostro pensare ed agire. Credo che la fede abbia a che fare spesso con la paradossalità come avviene leggendo tanti episodi della Sacra Scrittura come, ad esempio, quelli di Anna, madre di Samuele, Elisabetta e Maria, tutte donne che diventano madri in modo inspiegabile rispetto ai canoni della natura. Un saluto riconoscente!

Milva Capoia
01/10/2021

Commemorazione di padre Lugi Graiff nel 40° dell’uccisione – la mostra in piazza

Ricordando padre Zizoti

Il 22 agosto 2021 la comunità di Romeno, in provincia di Trento, ha ricordato il compaesano padre Luigi Graiff, missionario della Consolata, assassinato nel 1981 in Kenya. Ricorre infatti quest’anno il 100° anniversario della nascita e il 40° della morte del nostro concittadino.

La ricorrenza, nonostante le difficoltà indotte dalla pandemia di Covid-19 e con le dovute precauzioni anticontagio, ha visto la partecipazione di numerose persone e autorità e la presenza dei molti nipoti e pronipoti del missionario martire della carità.

La cerimonia di ricordo è stata tenuta nella chiesa parrocchiale di Romeno, dove lui è stato battezzato e dove ha celebrato la prima Messa. L’arcivescovo di Trento, mons. Lauro Tisi, ha presieduto la concelebrazione con altri dieci sacerdoti, fra i quali il parroco don Carlo Crepaz e i confratelli missionari padre Claudio Fattor (compaesano), padre Mario Lacchin, che è stato missionario in Kenya con padre Luigi, e padre Gigi Anataloni (direttore di MC), e altri sacerdoti della zona. Presente in streaming anche il missionario di Romeno padre Aldo Giuliani in collegamento dalle Montagne del Sogno in Kenya, non lontano dal Lago Turkana.

Dopo la messa, il sindaco di Romeno Luca Fattor, nipote del compianto padre Ettore Fattor già missionario della Consolata in Brasile, ha illustrato la figura di padre Graiff e poi padre Gigi ha delineato le ragioni e il contesto storico e sociale che hanno portato l’Istituto della Consolata nel Nord del Kenya e ha sottolineanto il particolare stile missionario di amore per i poveri vissuto fino in fondo da padre Luigi su ispirazione del fondatore, il beato Giuseppe Allamano.

Nell’occasione, il gruppo missionario di Romeno, promotore dell’evento, ha allestito un percorso illustrativo composto da 12 poster, per raccontare con foto e testi la vita e l’opera di padre Luigi Graiff. I pannelli dei poster sono stati messi a disposizione dell’arcivescovo per essere esposti nelle varie comunità del Trentino. I poster sono stati riprodotti, insieme ad altri articoli relativi alla figura di Padre Luigi, in un opuscolo distribuito ai presenti, e che porta il titolo: Padre Zizoti raccontato dai suoi compaesani (padre Aldo Giuliani, sen. dr. Candido Rosati, maestra Rita Zucali).

Dott. Andrea Graiff, nipote

Ringrazio la comunità di Romeno, così ricca di missionari – Camillo Calliari (baba Camillo) in Tanzania, Claudio Fattor in Brasile e oggi in Italia, Aldo Giuliani a Sererit in Kenya, Ettore Fattor Luigi in Brasile +2013 – per il dono di questa commemorazione che mi ha fatto riscoprire un missionario dal cuore grande e generoso.
(vedi MC ottobre 2021)

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Uncanha, vita nuova

Carissimi,
a tutti voi un caro saluto e l’augurio di ogni bene in questo nuovo Natale, mentre un altro anno volge al termine, carico di momenti belli e meno belli, ma tutti sono parte della nostra vita, della nostra storia e sono pieni della speranza che ci è data da quel Gesù che ha cambiato il modo di vedere le cose e gli avvenimenti: il cristiano non può prescindere da questo, anche quando costa.

Mi trovo in una zona isolata del Mozambico, dove i Missionari della Consolata avevano cominciato l’evangelizzazione quasi 100 anni fa, nel 1926, poco prima della morte del Fondatore. Pochi anni dopo, per motivi di forza maggiore, avevano lasciato quei luoghi, pur rimanendo nel Niassa, al Nord del Mozambico. Attualmente sono nella missione parrocchia di Uncanha, nell’altipiano di Marávia (Diocesi di Tete). Una realtà bella e verde, anche se per 6-7 mesi all’anno non si vede una goccia di pioggia e il paesaggio cambia e i suoi colori passano dalle tonalità verdi a quelle gialle e nere dei tempi secchi e degli incendi. La gente è Bantu dell’etnia Massenga, anche se non mancano altre lingue e etnie soprattutto verso il fiume Zambezi.

Per diverse ragioni (politiche, belliche, ideologiche, vocazionali, economiche, di isolamento e salute) quella che era una delle prime zone evangelizzate, non ha mai avuto la fortuna di una pastorale continuativa. Nonostante decadi di isolamento e assistenza spirituale saltuaria (una visita all’anno), è rimasto un germoglio che, grazie al lavoro arduo e in condizioni difficili di alcuni missionari, ha dato vita a una Chiesa in crescita. I Missionari della Consolata sono ritornati in zona nel 2013 e a Uncanha nel 2018, con padre Franco Gioda (vedi a pag. 58) che più di tutti ha dato un impulso missionario. Noi cerchiamo di continuare nel piccolo il cammino intrapreso.

Qui tutto parla di missione, si vive la missione con tutte le difficoltà che porta con sé, perché iniziare, seminare il Vangelo, non è sempre facile. Cosa dici? In quale lingua? Con quali idee? Con quale zaino o valigia? Con che stile?

A fine settembre sono andato a visitare la zona di Chawalo; ero già stato nel 2019 a Nhansunga, ma le altre comunità avevano visto un prete solo nel 2016. Purtroppo quelli di Mpembe non erano stati avvisati e così dovranno aspettare un altro anno, ma, sorpresa, ho trovato una nuova comunità, Jemussi, che il catechista Francisco aveva iniziato facendo oltre 20 km a piedi in una zona di savana e sabbia. Le difficoltà alla frontiera con lo Zambia, il viaggio in 10 nella vecchia Corolla per 60 km oltrefrontiera, le due ore a piedi ormai alla luce del telefonino, il passaggio del fiume in canoa al buio per rientrare in Mozambico, non erano niente al confronto della gioia dei cristiani, catecumeni e simpatizzanti nel vedersi visitati e soprattutto con la bellezza di vedere nascere piccoli segni di speranza in queste nuove comunità che accolgono l’Emmanuele, il Dio con noi, che ci visita. È Natale. Francisco è stato formato per un anno con la sua famiglia nel centro catechistico; è giovane e con buono spirito missionario. Gli abbiamo lasciato i soldi per comprare una bicicletta. Se lo merita e se lo meritano i catecumeni che aspettano la sua visita.

Quest’anno al centro catechistico di Uncanha verrà una famiglia proprio da Chawalo, quella di Nixon. Senza di loro, il nostro sarebbe un correre a vuoto. Quell’antiquum ministerium, rispolverato ultimamente anche in un documento di papa Francesco, è fondamentale ed è per questo che ad Uncanha, con padre Gioda, avevamo iniziato per i catechisti un corso annuale, familiare e in lingua locale, che portiamo ancora avanti, finché ci sarà possibile. Grazie anche a voi. Ciao, Buon Natale e Buon 2022.

padre Carlo Biella
Uncanha, Mozambico

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Con gli occhi di Luz

Luz ci guarda dritto negli occhi. Lo sguardo della piccola messicana in copertina, che mi piace chiamare «Luz» (luce), va dritto al cuore. Il suo sorriso, pulito e pieno di speranza, è un canto alla vita, un inno alla gioia. Questo sguardo bello e fiducioso mi rapisce e mi sento guardato dentro. Non sono più solo gli occhi di Luz che mi fissano. Forse è la suggestione del Natale che ormai si avvicina, ma sento come fosse lo sguardo dello stesso Bambino Gesù che mi cerca. Quello sguardo che certamente ha rubato il cuore dei pastori, dei Magi e di quanti sono andati a visitarlo nella stalla di Betlemme. Occhi che hanno visto dentro ciascuno di loro, li hanno conosciuti e amati e hanno parlato loro, mettendoli di fronte alla verità di se stessi. Guardati da quel bambino, ognuno ha capito che non era arrivato lì per caso, ma che Lui li attendeva da sempre.

Gli occhi di Luz sono gli occhi di milioni di altri bambini nel mondo. Non tutti sono felici: troppe volte sono occhi terrorizzati dalla violenza della guerra, annebbiati dalla fame, spenti dalla malattia, tristi per l’assenza d’amore, pieni di paura per gli abusi, angosciati per lo sfruttamento. Sempre però sono occhi che interpellano la tua umanità. Occhi che, con semplicità e candore, credono ancora che ogni persona sia capace di amare.

Un desiderio, un grido e una speranza che, oggi più che mai, sono delusi da troppi adulti. E non solo in Afghanistan e Yemen, Siria e Haiti, Nigeria e Venezuela, tanto per ricordare alcuni dei punti più caldi del dolore dell’umanità. L’elenco delle situazioni di morte potrebbe riempire pagine, una lista senza fine nella quale comparirebbe anche la nostra bella Italia, diventata un paese dove non è più appetibile nascere, e dove si nasce sempre meno.

Dedicata a Madina

Per questo Natale, auguro a tutti noi di lasciarci guardare dagli occhi di tutti e tutte le «Luz» del mondo. Che i nostri occhi non si lascino riempire e incantare dalle luci abbaglianti di strade e centri commerciali, luci che del vero Natale non hanno più niente, segno come sono di un invito al consumismo più sconsiderato che porta spreco, inquinamento e sfruttamento. Che non siano ammaliati dalle forme, colori e immagini accattivanti della moda, del nuovissimo gadget tecnologico, del modello di macchina ultimo grido. Che non siano accecati dagli ammiccamenti dei cartelloni pubblicitari o degli schermi che titillano la nostra vanità, incoraggiano e giustificano il nostro egoismo, gratificano le nostre pigrizie.

Auguro invece che i nostri occhi si lascino interrogare mettendo in questione il nostro stile di vita, le nostre abitudini, i pregiudizi che ci rendono così sicuri. Che ci lasciamo guardare dentro per imparare a vedere noi stessi e il mondo attorno a noi in modo nuovo, per scoprire che possiamo essere soggetti di speranza e cambiamento e non semplicemente ripetitori e continuatori di uno stile di vita senza amore e senza futuro.

In questo tempo di Natale mettiamo pure con amore la statuina di Gesù Bambino nel nostro presepio, ma non accontentiamoci di quella. Cerchiamo invece gli occhi veri del Bambinello in quelli delle persone che incontriamo, a cominciare dal nostro vicino di casa che spesso neppure conosciamo; dalle persone che partecipano con noi alla messa, con le quali magari non condividiamo neppure un «ciao»; da quelle persone che incrociamo ogni giorno.

Lasciamoci disturbare dagli occhi della piccola Madina Hussein, travolta da un treno in Serbia (copertina di MC 1-2/2018), da quelli radiosi della bimba di cui non conosciamo il nome che esce dalla tenda a Lesbo (MC 3/2021) o da quelli tristi del bimbo lavoratore del Myamnar (Mc 08-9/2021).

Non occorre andare indietro nel tempo per cercare gli occhi di Gesù, non è neppure necessario andare lontano. Basta farsi prossimo.

Guardare e lasciarsi guardare con gli occhi di Gesù Bambino. Scopriremo di essere «fratelli, sorelle, padri e madri, figli e figlie» in una grande famiglia, dove ami e sei amato, dove piangi con chi piange affinché il pianto si tramuti in danza alla musica dell’amore.




Mer, 1 dicembre 2021

Is 25,6-10a; Sal 22; Mt 15,29-37

Abiterò nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita

Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano

Molte volte ci lanciamo, anima e corpo nelle attività materiali e quasi ci dimentichiamo di noi stessi, della nostra vita interiore. Così, non va bene. Dobbiamo essere prima santi e poi missionari altrimenti non saremo né una cosa, né l’altra.