Ven, 5 marzo 2021

Gen 37,3-4.12-13a.17b-28; Sal 104; Mt 21,33-43.45-46

Ricordiamo, Signore, le tue meraviglie


Da Punti luminosi
un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

La nostra vita è seminata di spine, alcune delle quali molto pungenti. Quando si fanno sentire di più, tutti vorremmo sentire da qualcuno una parola amica che ci dia coraggio.




Gio, 4 marzo 2021

Ger 17,5-10; Sal 1; Lc 16,19-31

Beato l’uomo che confida nel Signore

Il povero ha un nome, non è semplicemente il risultato karmico di esistenze precedenti risoltesi in male. In questo, il Cristianesimo è davvero rivoluzionario. Lazzaro rimane se stesso anche dopo la morte, lo si riconosce come tale, non si perde in un tutto indistinto, liberato dall’illusione dell’io. È lui ed è “accanto ad Abramo”. Anche le nostre storie più ferite sono fatte oggetto della cura di Dio, che ci offre sempre una nuova possibilità. Ma il tempo è limitato, dobbiamo approfittarne.


Da Punti luminosi
un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Un missionario che non ami il prossimo e non attragga a sé tutte le persone con un amore ardente, manca ad uno dei doveri più importanti, perché in lui tutto deve parlare di amore al prossimo.




Mer, 3 marzo 2021

Ger 18,18-20; Sal 30; Mt 20,17-28

Salvami, Signore, per la tua misericordia

 


Da Punti luminosi
un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Gesù aveva molto più da fare che noi. Nonostante ciò si ritirava per pregare senza paura di perdere tempo, o di sottrarsi al bene spirituale dell’umanità. Questa è stata la prima lezione che ci ha dato: per ottenere buoni risultati nell’apostolato dobbiamo diventare persone di preghiera.




Mar, 2 marzo 2021

Is1,10.16-20; Sal 49; Mt 23,1-12

A chi cammina per la retta via mostrerò la salvezza di Dio


Da Punti luminosi
un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Prima santi e poi missionari! Non si devono invertire i termini. Alcuni, spinti dalla fantasia, pensano solo al secondo punto: essere missionari. Ma non deve essere così: prima santi e poi missionari.




Martirio, Vangelo vivo


Aveva 10 anni Blanca, 12 sua sorella Lilliam e 17 Bryan José. Tre ragazzi del Nicaragua, i più giovani tra i venti «martiri» del 2020 che ricorderemo durante la 29a giornata dei missionari martiri il 24 marzo, anniversario dell’uccisione di San Oscar Arnulfo Romero. Otto
sacerdoti, un religioso, tre suore, due seminaristi e sei laici. Le due sorelline, gioiose testimoni della loro fede, facevano parte dell’Infanzia missionaria.

Venti nomi, otto dall’America, sette dall’Africa, tre dall’Asia e due dall’Europa, che non esauriscono certo la lista di chi ha dato la propria vita per il Vangelo nel 2020. «All’elenco se ne deve aggiungere un altro […] che comprende operatori pastorali o semplici cattolici aggrediti, malmenati, derubati, minacciati, sequestrati, uccisi, come anche quello delle strutture cattoliche a servizio dell’intera popolazione, assalite, vandalizzate o saccheggiate. Di molti di questi […] non si avrà mai notizia, ma è certo che in ogni angolo del pianeta tanti ancora oggi soffrono e pagano con la vita la loro fede in Gesù Cristo» (Agenzia Fides).

Oggi si parla di oltre 300 milioni di cristiani che vivono negli oltre 50 paesi nei quali è più facile essere perseguitati, ostacolati nell’esercizio della fede, emarginati, discriminati e imprigionati. Sono quasi tremila quelli uccisi ogni anno (più di otto al giorno). È alto il numero delle donne, dei giovani e giovanissimi cristiani che subiscono violenza.

Le storie che arrivano da Nigeria, Siria, Pakistan, Libia, India, e ora anche Cabo Delgado in Mozambico, e da molti altri paesi, lasciano l’amaro in bocca. E non è solo l’integralismo islamico, segno della crisi interna allo stesso Islam, che preoccupa. L’intolleranza religiosa e il suo uso politico si manifestano anche, ad esempio, in un paese induista come l’India, o in uno buddhista come il Myanmar, dove vengono perseguitati sia cristiani che musulmani, come pure in quei paesi nei quali gruppi settari e ultra tradizionalisti di cristiani si legano a leader più o meno populisti e antiliberali (come sta accadendo nelle Americhe e anche in alcuni paesi europei).

Pure la cosiddetta cultura laica della nostra Europa, ufficialmente paladina della libertà, non è immune da tale virus, quando promuove idee verso le quali non è ammessa nessuna critica, mettendo a rischio la libertà di pensiero e quindi anche la libertà religiosa.

Un’altra forma di esclusione e ostracismo nei confronti dei cristiani è praticata attraverso i social e i media, con la promozione di modelli di vita centrati sull’io, sull’autorealizzazione della persona tramite denaro, divertimento, consumi, gioco, rischio, sesso. L’attacco a valori cristiani come la sobrietà, la castità, l’altruismo, il perdono, la famiglia, la vita, anche quando non è esplicito, è pervasivo e potente, soprattutto su chi lo subisce, più in modo emotivo che razionale, durante il delicato processo di formazione della sua personalità.

I cristiani, oggi, sono perseguitati come e più di quanto non lo fossero nei primi secoli dopo Cristo. Non è un dato felice. Eppure, paradossalmente, è un bel segno, un segno di grande vitalità. Nonostante la crisi di fede, molto forte soprattutto in Europa e nelle Americhe, il Vangelo non ha perso sapore. I cristiani continuano a imitare il loro Maestro, abitando le periferie del mondo, in mezzo ai poveri, agli esclusi, ai marginali. Il Vangelo continua a dar fastidio agli Erodi e ai grandi sacerdoti del nostro tempo. Continua a contestare una logica politica ed economica che dimentica la dignità della persona, indipendentemente dalla sua cultura o stato sociale, una politica che preferisce investire in armi invece che su pace, salute ed educazione, un’economia che depreda il pianeta a vantaggio di pochi. «Fratelli tutti», ha scritto papa Francesco. Parole semplicissime, ovvie forse, ma non per tutti. Parole che portano al martirio.

Se da una parte la conta delle vittime, le terribili violenze, le umiliazioni sistematiche, gli imprigionamenti ingiustificati, la distruzione di chiese, il bavaglio all’informazione, spezzano il cuore, dall’altra lo rinvigoriscono, perché sono segni di quanto sia ancora viva e forte la buona notizia di Gesù. Se milioni di cristiani, ancora oggi, sono disponibili a pagare di persona per la fede, una fede che non chiama alla vendetta, che promuove il perdono, che ama i nemici, che fa crescere la vita, possiamo avere speranza.

 




Noi e Voi, dialogo lettori e missionari

A proposito dell’Esodo

Ho letto l’inizio dello studio di Fracchia sull’ultimo numero della rivista, e mi sono rattristata perché vedo che tende a dare una interpretazione estremamente riduttiva della storia dell’Esodo. Ho letto due libri del prof. Anati ritrovando diverse convergenze con il testo biblico. Oltre a quelle esposte nell’articolo che allego, rilevo che, mentre Mosè era a Madian, Dio lo invia in Egitto dicendogli: «Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi verrete qui ad adorarmi su questo monte». Quando Mosè torna, trova suo suocero, che certo non era andato in giro per la penisola del Sinai. Quindi Madian. Ma non mi dilungo.

Mi dispiace soltanto che queste scoperte non vengano prese sul serio. Solo l’associazione Biblia, portando i suoi iscritti sia al Sinai, sia ad Har Karkom, ha dimostrato di aver dato importanza a questa diversa storia. Tra i partecipanti c’erano professori della Facoltà valdese di teologia (Soggin per esempio, se ricordo bene) e mio fratello, che erano rimasti molto colpiti dalla maestà di questo monte e dai reperti archeologici.

Retrodatare l’evento è un problema? Ma quante vicende umane sono state retrodatate!

Itala Ricaldone
Genova,  28/01/2021

Gent.ma signora Ricaldone,
intanto la ringrazio per la cortese e informata reazione al mio articolo. Ogni osservazione non superficiale e costruttivamente critica, come la sua, arricchisce e aiuta a chiarire o anche a ripensare le proprie espressioni.

La bibliografia e le ipotesi di spiegazione su Mosè e sul Sinai sono sterminate. Tra quelle è opportuno muoversi senza perdere d’occhio dove si vuole andare.

Lo scopo dei miei articoli sulla nostra rivista è di aiutare (e magari stuzzicare) ad affrontare di nuovo la lettura di testi biblici, scoprendoli nutrienti per la nostra fede di donne e uomini contemporanei. Per questo, tra l’altro, non si offre una bibliografia e non si giustificano le affermazioni, se non solo sul testo biblico: il mio studio alle spalle deve restare nascosto, perché l’approfondimento «accademico» non è il nostro interesse primario.

Al riguardo, le ipotesi di spiegazione archeologica della vicenda dell’Esodo sono affascinanti ma potrebbero fuorviare la nostra attenzione. Ancora oggi c’è chi contesta l’affidabilità storica della Bibbia per rifiutarne il messaggio, e chi invece crede che dimostrandone la verità storica anche il contenuto spirituale si imporrebbe come vincolante. Per questo ho accettato l’idea (ammessa e non concessa) che la vicenda dell’Esodo possa ormai contenere pochi dati affidabili, per mostrare come continui a mantenere un valore spirituale ed esistenziale prezioso. Ed è questo a interessarci, qui. Non vorrebbe essere riduzionismo, ma una scelta: privilegiare la lettura spirituale del testo su quella storico esegetica.

Grazie, in ogni caso.

Angelo Fracchia
28/01/2021

2019, marzo. Nella sua casa presso il Maria Mfariji shrine di Marsabit.

Mons. Ambrogio Ravasi

Rev.mo Padre,
ricevo da sempre la bella e ineguagliabile rivista e nell’ultimo numero ho letto con vera gioia il ritratto di mons. Ambrogio Ravasi, grande figura di missionario, servitore zelante e instancabile del Vangelo e della Chiesa. Ammirevole anche la figura di padre Gottardo Pasqualetti.

Mons. Ravasi appartiene alla schiera ormai abbastanza nutrita dei vescovi missionari della Consolata che a partire dai fratelli Perlo hanno dato lustro all’Istituto in qualunque angolo della «vigna» furono inviati, spesso da pionieri. Conservo una vecchia foto del gruppo di vescovi Imc sul sagrato di san Pietro ove si trovavano come partecipanti al Concilio.

Dalla mia raccolta di necrologi ho potuto conoscere tante di queste figure veramente affascinanti che hanno operato per impiantare avamposti della Chiesa senza mezzi, partendo dal nulla assoluto o incrementandone la presenza in zone e in tempi difficili.

Siete partiti bene col nuovo anno e spero possiate ricordarne altri di missionari chiamati al servizio episcopale in ogni continente e chi sa se un giorno non ne nasca una raccolta in volume. Nel mio piccolo penso che lo meritino assolutamente.

La ringrazio con i più deferenti saluti.

Luigi Bisignano
Lonato (Bs), 28/01/2021

 

Padre Antonio Giannelli

Sono passati 20 anni (23/01/2001 – 23/01/2021) da quando padre Antonio Giannelli Imc ha raggiunto la Casa del Padre, lasciando in tutti noi e a tutti quelli che l’hanno conosciuto un profondo vuoto. Quanti ricordi ci legano a lui, ma soprattutto nel ricordo di quello che ha saputo insegnarci, donandoci con la sua fede incrollabi!e e la sua voglia di vivere, la sua battaglia fino alla fine contro la malattia che aveva debilitato il suo fisico, ma non la sua voglia di aiutare tutti e insegnarci che la fede è la cosa più importante, quella che ci porta ad essere migliori.

Nel suo Kenya che ha vissuto per quasi quaranta anni nelle varie missioni (Rocho – Fort Hall – Gekondi – Kiangoni – Gaturi – Kerugoya – lchagaki – Tetu) padre Antonio ha saputo trasmettere, oltre le sua fede incrollabile, l’amore per gli altri, donando anche costruzioni per anziani, laboratori di sartoria, nuove chiese, fino a raggiungere una sperduta cappella, che poi diventerà la sua ultima dimora, Wamagana.

Ancora oggi laggiù se si parla di padre Antonio, hanno un ricordo vivo e tangibile. La costruzione della chiesa, dedicata alla Madonna della Cultura di Parabita, sua città natale, ma soprattutto dell’istituto da lui fondato e costruito in aiuto ai ragazzi portatori di handicap, l’Allamano special school. Dal 1996 in quell’istituto vengono accolti tutti i ragazzi in difficoltà sia fisica che psichica, ai quali viene offerto sia un aiuto completo, sia morale che materiale. Che dire di padre Antonio, uomo, ma soprattutto missionario con la «M» maiuscola che ha saputo infondere nei nostri cuori quelle cose che per lui erano indispensabili, fede, amore e carità?

Da parte nostra, oltre a continuare a ricordarlo, siamo riusciti – grazie all’aiuto di tanti amici e dei suoi parenti sempre presenti a mantenere vivo l’istituto. Speriamo, nonostante la pandemia che ci ha colpito, di riuscire a far sì che l’Allamano special school, continui a vivere per lui e per i suoi ragazzi. Tante cose sono state fatte, il pozzo, la lavanderia, l’infermeria, i dormitori, il pulmimo e tante altre cose, ma speriamo che con l’aiuto di tutti gli amici e tutte le persone che vivono ancora nel suo ricordo, possiamo continuare a far sì che l’istituto continui a esistere.

Fulvia Cattò e amici tutti
21/01/2021


Reddito universale

Buongiorno,
insieme al reddito di cittadinanza, già sperimentato in Italia da tempo, si parla (anche il Papa) di reddito universale. La pandemia aggraverà le disuguaglianze economiche, già aumentate nel nuovo millennio. Più aumenta la concentrazione della ricchezza, più peggiora «l’indice di disumanità» del pianeta. Per semplificare penso a un reddito minimo per ogni persona, da quando nasce sino alla morte, ricco o povero che sia, compensato da un sistema di prelievo fiscale fortemente progressivo. Sarebbe interessante un’opinione sulla vostra rivista a cura di Francesco Gesualdi che cura con grande passione e ricchezza intellettuale la rubrica «E la chiamano economia». Grazie per l’attenzione.

Claudio Solavagione,
08/01/2021

Ecco la pronta risposta di Francesco Gesualdi.

Il tema del reddito universale di base è tanto giusto in termini teorici, quanto complesso nella sua applicazione. La complessità deriva dal fatto che non si tratta semplicemente di garantire a tutti un ammontare di denaro, ma di assicurare che dietro a quel denaro ci sia della merce da poter comprare. Possibilità che si realizza solo se coloro che sono inseriti nella produzione mercantile accettano di rinunciare a una parte di ciò che producono in modo da accantonare la ricchezza che serve per assicurare a tutti un reddito di base. Che, tradotto, significa disponibilità a pagare tasse molto più alte di quelle pagate oggi. Perché al fondo, il reddito universale di base è una grande operazione di ridistribuzione della ricchezza mercantile prodotta: chi la produce accetta di condividerla anche con chi non la produce. Se questa disponibilità c’è, allora il reddito universale di base è possibile, altrimenti rimane un miraggio.

Per quanto ne so, al momento il reddito universale di base non esiste in nessun paese, evidentemente perché in nessuna nazione esiste una comunità con un senso di giustizia tanto elevato. E se è difficile introdurlo nelle singole nazioni, a maggior ragione è difficile prevederlo a livello planetario. Servirebbe un grande patto di solidarietà internazionale per il quale i paesi più ricchi accettano di dedicare alla cooperazione internazionale molto più dell’esiguo 0,15-0,30% del Pil che molti paesi industrializzati destinano oggi.

Ciò non di meno, in occasione del Covid, da più parti è stato auspicato che anche nei paesi più poveri venissero introdotte delle misure di protezione sociale a tutela delle fasce più fragili. Esattamente come è successo nei paesi a ricchezza avanzata che complessivamente dal marzo al dicembre 2020 hanno speso   513 miliardi di dollari in protezione sociale. I paesi più poveri ne hanno spesi solo 77, pur ospitando l’85% della popolazione mondiale. Naturalmente sarebbe servito molto di più per una protezione allargata. Al riguardo l’Undp, l’Agenzia per lo sviluppo delle Nazioni Unite, ha fatto varie simulazioni giungendo a cifre molto diverse a seconda della platea di persone che si prendono in considerazione e dal livello di reddito che si vuole garantire. La previsione minimale, quella tesa a garantire a un miliardo di poveri assoluti almeno un dollaro e 90 centesimi al giorno riconosciuto come limite della povertà assoluta, costerebbe un paio di miliardi di dollari al giorno ossia 720 miliardi in un anno.  Quella massimale, tendente a garantire a 2,7 miliardi di persone (il 44% della popolazione del Sud) la cifra di 5,5 dollari al giorno ritenuta necessaria per una vita minimamente dignitosa, costerebbe 15 miliardi al giorno, ossia 5.400 miliardi in un anno. Cifra importante, dal momento che rappresenta il 6,5% del prodotto lordo mondiale, ma non impossibile da raggranellare.

Si potrebbe cominciare esonerando i paesi del Sud dal pagamento del servizio del debito che nel 2020 è stato pari a 320 miliardi di dollari. Ma in questo campo il massimo che i paesi ricchi hanno accettato di fare è stata la sospensione del servizio del debito per i paesi più poveri finché la pandemia non sarà passata. Qualcosa come 30 miliardi di dollari per gli anni 2020-2021, che è meglio che niente. Ma considerato che si tratta solo di un rinvio e non di una cancellazione, non ci porta molto lontano.

Matteo p Pettinari con la mamma in mezzo a bambini

Mamma missionaria

Il 23 gennaio scorso, lo stesso in cui 25 anni prima i missionari della Consolata iniziavano l’avventura missionaria in Costa d’Avorio, Roberta Mazzanti, mamma di padre Matteo Pettinari, ci ha lasciati. «Come abbiamo cantato con lei poche ore prima che partisse per il Paradiso, la sua vita è tata per noi e per tutti quelli che l’hanno conosciuta “dono di Lui e del suo immenso amore”».

Mamma Roberta (nella foto con padre Matteo a Dianra) è stata missionaria fino in fondo con il figlio missionario. Con padre Matteo ringraziamo il Signore per il dono che lei è stata per tutti noi.




La regina dei container

testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |


Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.

«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.

Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.

Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.

A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.

A corte, dalla regina

Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.

Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.

Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.

Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.

Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.

Uniti si può

Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».

Lo spedizioniere

Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.

La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.

Riciclo e circolazione

Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.

Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.

Dentro al container

Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.

Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.

Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è   una pratica illecita).

L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.

Piccoli commerci

Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.

Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.

Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.

Tutti in discarica

Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».

Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.

Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio


Le autrici

Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/




Quei bravi «ragazzi»

testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |


Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.

In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.

Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.

C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.

Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.

Solidarietà milanese

Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.

Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.

Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.

Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.

Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.

Un rapporto d’amicizia

Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.

«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».

I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?

Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.

Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.

Un cane di nome Stella

«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»

Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.

Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.

È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.

Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.

Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.

Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.

Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.

Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.

Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.

Il tempo di un abbraccio

Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.

Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.

Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.

Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.

La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.

A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.

La realtà siciliana

Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.

È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.

Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.

È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».

L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.

A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.

Contro emergenza

È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.

Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.

Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».

Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.

«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».

Catania, senza dimora

Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.

Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.

L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.

«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».

Valentina Tamborra e Angelo Anzalone




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




Stati Uniti. È ancora lunga la strada per il sogno

Dopo la schiavitù, gli Stati Uniti conobbero la segregazione. Un periodo di cento anni segnato dalla lotta di personaggi come Rosa Parks e Martin Luther King. Ancora oggi il razzismo è ben presente nella società americana come hanno evidenziato le vicende avvenute durante la presidenza di Donald Trump.

Per soli bianchi: posti a sedere, sale d’attesa, bagni, cabine telefoniche, fontanelle, ma anche scuole e università. Per quasi un secolo (1865-1964), la scritta «Whites only» fu la dimostrazione tangibile che negli Stati Uniti era terminata la schiavitù, ma non il razzismo.

La pratica aveva il nome di «segregazione razziale». Essa consisteva nella separazione fisica delle persone sulla base della razza o, meglio, visto che il concetto non ha valenza scientifica, della presunta razza. Si dividevano i neri dai bianchi all’interno di strutture pubbliche (scuole, tribunali, ecc.), servizi pubblici (mezzi di trasporto) e privati (ristoranti, barbieri, campi sportivi, servizi igienici, ecc.) e li si segregava in aree residenziali a loro dedicate (ghetti).

La segregazione razziale fu la modalità attraverso cui la società bianca dominante riuscì a circoscrivere e limitare le conseguenze prodotte dall’abolizione legale della schiavitù, avvenuta nel 1865.

Per dirla con l’Enciclopedia Britannica: «La segregazione razziale fornisce un mezzo per mantenere i vantaggi economici e lo status sociale superiore del gruppo politicamente dominante».

L’insegna di una lavanderia che lavora soltanto per bianchi.

«Separati ma eguali»

Durante e, soprattutto, dopo il periodo della ricostruzione postbellica (1865-1877), gli stati del Sud, appartenenti alla ex Confederazione (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee, e North Carolina), e l’Oklahoma, iniziano ad applicare norme discriminatorie nei confronti della minoranza nera.

Queste leggi sono conosciute sotto i nomi generici di «Black codes» (codici per i neri) e «Jim Crows laws» (leggi Jim Crows, dal personaggio interpretato da un attore che si dipinge il viso di nero). Ecco qualche esempio.

A fine 1865, lo stato del Mississippi emana una legge secondo la quale i neri, senza lavoro o che si riuniscano senza permesso, sono considerati vagabondi e, in quanto tali, punibili con una multa o, a discrezione del giudice, con il carcere. Nel caso che il nero condannato non paghi la multa entro cinque giorni, è compito dello sceriffo trovargli un’occupazione fino al pagamento della somma dovuta. La stessa legge punisce i bianchi che si riuniscano con neri o abbiano con essi rapporti.

Negli stati del Sud si susseguono le norme che richiedono la separazione dei bianchi dalle «persone di colore» (colored, così all’epoca vengono chiamate) sui mezzi del trasporto pubblico (tram, autobus e treni). Il principio applicato è conosciuto come quello del «separati ma eguali» (separate but equal). Secondo questo principio, la segregazione razziale è consentita purché sia prevista una pari sistemazione per i passeggeri neri.

Ne è significativo esempio il «Louisiana Separate Car Act», approvato nel luglio 1890. Al fine di «promuovere il comfort dei passeggeri», le ferrovie della Louisiana devono fornire «posti uguali ma separati per le razze bianche e colorate» sulle linee che percorrono lo stato.

Nel 1896, il principio «separati ma eguali» viene confermato anche dalla Corte suprema chiamata a deliberare sul caso «Plessy v. Ferguson».

Homer Plessy è un calzolaio di New Orleans. Proveniente da una famiglia mulatta, Homer è una persona attiva nel sociale. Per protestare contro le leggi sulla segregazione, nel 1892 acquista un biglietto di prima classe sulla East Louisiana Railroad e si siede nello scompartimento per «solo bianchi». Alla richiesta di allontanarsi, Plessy rifiuta e per questo viene fatto scendere dal treno, imprigionato per una notte e rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 500 dollari. Nel processo l’imputato dichiara di aver visto violati i diritti sanciti dal XIII e XIV emendamento della Costituzione, ma il giudice John Howard Ferguson lo dichiara colpevole.

Nel 1986 la causa «Plessy v. Ferguson» (dal nome dei due protagonisti) arriva davanti alla Corte suprema. Questa, con una netta maggioranza (sette contro uno, con un giudice assente), dà torto al ricorrente sostenendo la costituzionalità della segregazione razziale secondo la dottrina del «separati ma uguali».

Avendo dalla loro parte la Corte suprema degli Stati Uniti (composta di nove membri eletti a vita), fino al 1954, gli stati del Sud possono emanare senza problemi leggi di segregazione razziale. Come testimoniano varie sentenze, «la Corte sostanzialmente acconsentì alla “soluzione” del Sud ai problemi delle relazioni razziali» (prof. Melvin Urofsky, Britannica).

In sostanza, queste leggi vengono emanate e sono vigenti pur violando uno o più degli emendamenti della Costituzione americana introdotti dopo la guerra civile: il XIII (che proibisce la schiavitù), il XIV (pari protezione davanti alla legge) e il XV (diritto di voto).

Al Lincoln Memorial una giovane attivista domanda (retoricamente): «Dov’è il sogno?». Foto Victoria Pickering.

Anni cinquanta: la storia cambia

Dopo la Prima guerra mondiale, cambia il clima generale e cambia anche la Corte suprema. Nel 1950, la «Associazione nazionale per il progresso delle persone di colore» (National Association for the Advancement of Colored People, Naacp) chiede a un gruppo di genitori afroamericani tra cui Oliver Brown di Topeka (Kansas) di tentare di iscrivere i propri figli a scuole per soli bianchi (all-white school). Oliver prova a iscrivere la figlia Linda, 9 anni, alla scuola elementare Sumner della cittadina, ma l’iscrizione viene negata in quanto l’istituto non accetta bambini di colore. L’associazione afroamericana raccoglie altri 12 casi e intenta una causa collettiva conosciuta come «Brown contro l’ufficio scolastico» (Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas). Nel 1954, la Corte suprema sentenzia che «sistemi d’istruzione separati sono per essenza ineguali. [I ricorrenti], in ragione della segregazione qui contestata, sono stati privati dell’uguale protezione davanti alla legge».

Un anno e mezzo dopo questa storica sentenza accade un altro evento che segnerà la storia dei neri d’America.

Il bus di Rosa Parks

La foto segnaletica di Rosa Parks, l’iniziatrice (1955) della rivolta contro la segregazione sui mezzi pubblici.

Montgomery, Alabama, 1° dicembre 1955. Al termine della sua giornata lavorativa, Rosa Parks, una donna nera di 42 anni, prende l’autobus per tornare a casa sistemandosi sul primo sedile dietro la parte riservata ai bianchi. Le norme della città di Montgomery richiedono infatti che tutti i mezzi di trasporto pubblico abbiano posti separati per bianchi (nella parte anteriore) e neri (in quella posteriore).

Durante il suo percorso l’autobus si riempie e vari passeggeri bianchi rimangono in piedi nel corridoio. L’autista se ne accorge, ferma il mezzo e sposta il cartello che separa le due sezioni indietro di una fila, chiedendo a quattro passeggeri neri di lasciare i loro posti ai bianchi.

Tre di loro obbediscono all’autista, mentre Rosa Parks si rifiuta. «Non credo che debba alzarmi», risponde la donna. A quel punto, l’autista chiama la polizia. Questa arresta la donna per violazione delle norme locali e la porta alla centrale. Verrà rilasciata quella notte dietro cauzione.

Pochi giorni dopo – il 5 dicembre – al processo Rosa Parks viene condannata al pagamento di una multa. La storia della donna fa però nascere tra la comunità afroamericana di Montgomery una protesta civile e pacifica di grande portata: il boicottaggio degli autobus della città. Circa 40mila pendolari afroamericani iniziano a disertare i mezzi pubblici, scegliendo di muoversi a piedi o su taxi da loro stessi organizzati.

La protesta (funestata anche da violenze dei segregazionisti) prosegue per 381 giorni fino al 13 novembre 1956. In quella data la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sui trasporti pubblici.

La prigione di Birmingham

La lotta di Rosa Parks è stata guidata dal giovane e preparato pastore della Dexter Avenue Baptist Church di Montgomery. Il suo nome è Martin Luther King.

Nel 1957, assieme ad altri pastori e leader neri, King fonda ad Atlanta, sua città natale, la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei dirigenti cristiani del Sud), organizzazione per i diritti civili. Nel 1959, King viaggia in India, dove approfondisce la filosofia nonviolenta di Ghandi. Il suo lavoro di pastore è ad Atlanta, ma la sua attività principale è ormai girare il paese per parlare di razzismo e diritti civili. Inevitabilmente si scontra più volte con le autorità. A Birmingham, Alabama, una città con alti livelli di segregazione, lancia una grande campagna di resistenza, coinvolgendo nella protesta anche ragazzi. Viene arrestato. Nell’aprile 1963 pubblica la «lettera dal carcere di Birmingham» in cui controbatte alle critiche pervenutegli dagli ecclesiastici bianchi della città e spiega la pratica della disobbedienza civile nonviolenta.

«Per oltre due secoli – scrive Martin Luther King – i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile

vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà».

La protesta dei cittadini neri, la lettera dal carcere e le violenze della polizia di Birmingham hanno una vasta eco portando la questione razziale all’attenzione generale.

Un’insegna nella stazione delle corriere di Durham, in North Carolina, nel 1943, indica la sala d’attesa per i neri («colored»), come prevedono le norme Jim Crow. Foto Jack Delano.

Il sogno di Martin

Pochi mesi dopo, la protesta si sposta a Washington, dove il Congresso sta discutendo il Civil Rights Act, la legge antidiscriminazione presentata dal presidente John Kennedy. Il 28 agosto 1963 Martin Luther King, davanti a una folla di 250mila persone, pronuncia il suo discorso più famoso: I have a dream, ho un sogno.

Il leader afroamericano delinea chiaramente la meta: «In America, non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini». Ma le modalità per raggiungere quest’obiettivo sono, secondo Martin Luther King, precise e inderogabili: «In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica». Infine, ecco il sogno: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere».

Il 3 luglio 1964, circa un anno dopo la marcia e il discorso di Washington, il presidente Lyndon Johnson (sostituto dell’assassinato John Kennedy) firma il Civil Rights Act, avendo alle spalle Martin Luther King.

La lotta non conosce pause. Pochi mesi dopo (a marzo 1965), ancora nello stato dell’Alabama, Martin Luther King partecipa alle marce da Selma a Montgomery, la prima delle quali repressa dalla polizia, attuate per reclamare il diritto di voto anche per gli afroamericani. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1965, il presidente Johnson firma il Voting Rights Act, con il quale i neri ottengono finalmente l’accesso al voto.

Martin Luther King non potrà però continuare a perseguire il suo sogno perché viene assassinato a Memphis, in Tenneesee, il 4 aprile 1968, all’età di 39 anni.

«La vera pandemia è il razzismo», un cartello eloquente di una afroamericana. Foto Miki Jourdan.

Da Obama a Trump

Nelle elezioni del novembre 2008 viene eletto Barack Obama, primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. I problemi razziali del paese non si risolvono però con la sua elezione. Con Obama la condizione dei neri migliora nel campo dell’istruzione e della salute, ma non in quello del lavoro e del reddito.

A dimostrazione del cammino ancora da percorrere, la circostanza che nel 2013, cioè all’inizio del suo secondo mandato, nasce il movimento Black lives matter (le vite dei neri contano).

Il successore alla Casa Bianca è l’imprenditore e miliardario Donald Trump, che mette subito in mostra la sua totale mancanza di scrupoli negando per lungo tempo la nascita americana di Obama.

Le proteste degli afroamericani dilagano nelle città Usa soprattutto durante il secondo mandato di Trump. Con l’ex presidente i «suprematisti bianchi» (cioè coloro che ritengono i bianchi intrinsecamente superiori alle persone di colore) – riuniti in gruppi come The Proud Boys, gli Oath Keepers o i Three Percenters – hanno molta visibilità e libertà d’azione. Nei drammatici eventi del 6 gennaio 2021, i sostenitori di Trump e assalitori del Campidoglio sono nella quasi totalità bianchi.

Due ragazze mostrano cartelli di appoggio al movimento «black lives matter» (le vite dei neri contano). Foto Tom Hilton.

Joe Biden, finalmente

Sono ormai passati 55 anni dalla fine (formale) della segregazione e discriminazione razziali. Tuttavia, ancora oggi la minoranza nera – oltre 48 milioni di persone pari al 14,7 per cento della popolazione statunitense – è fortemente penalizzata. I neri sono discriminati nei rapporti con la polizia e la giustizia (più morti, arrestati e condannati), nell’accesso a buone scuole e ai lavori migliori, nell’assistenza sanitaria (Pew Research Center, Race in America 2019, aprile 2019).

Non sarà facile per il nuovo presidente Joe Biden porre rimedio a ingiustizie razziali sedimentate e acutizzate durante i quattro anni di Trump.

Tuttavia, i suoi passi iniziali sono di buon auspicio. La vice di Joe Biden è Kamala Harris sulle cui spalle ricadono una serie di primati: la prima donna, la prima nera (il padre è giamaicano), la prima tamil (per parte di madre) a diventare vicepresidente degli Stati Uniti. Inoltre, in considerazione delle età di Biden (78 anni) e di Kamala (56), la ex procuratrice della California è una candidata molto accreditata alla prossima presidenza.

Anche il movimento Black lives matter sembra mostrare speranza e fiducia nel cambiamento attraverso una lotta non-violenta. A gennaio, sul proprio sito, ha scritto: «Ogni giorno che passa, facciamo sempre più passi verso la realizzazione dell’America in cui Martin Luther King ha sempre creduto».

Paolo Moiola


Cronologia: 1865-1968

Dalla segregazione a Martin Luther King

  • 1865-1877

    Martin Luther King, leader della causa degli afroamericani, assassinato nel 1968. Foto Library of Congress.

    È il periodo della «ricostruzione» post bellica. Negli stati del Sud inizia a essere applicata la segregazione attraverso norme specifiche denominate «Black codes» e «Jim Crows laws».

  • 1866
    A Pulaski, in Teneessee, nasce il Ku Klux Klan (Kkk), la più violenta tra le organizzazioni di suprematisti bianchi.
  • 1896
    La Corte suprema stabilisce che la segregazione sui vagoni dei treni della Louisiana è costituzionale sostenendo il principio del «separati, ma eguali» (separate but equal).
  • 1909, febbraio
    Nasce la «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti.
  • 1915
    L’Oklahoma entra nella storia Usa come il primo stato a separare le cabine telefoniche pubbliche.
  • 1954, maggio
    Una sentenza della Corte suprema – Brown v. Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico) – dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
  • 1955, 1 dicembre
    A Montgomery, capitale dell’Alabama, l’attivista Rosa Parks si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un passeggero bianco. Viene arrestata. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici della città, protesta che dura per 381 giorni.
  • 1964, 3 luglio
    Una legge federale – il «Civil Rights Act» – rende illegale ogni forma di discriminazione razziale, non solamente da parte degli organismi pubblici, federali o locali, ma anche nelle relazioni commerciali e nel lavoro.
  • 1965, 21 febbraio
    A 39 anni, il leader nero Malcolm X viene assassinato con sette colpi di arma da fuoco durante un discorso pubblico ad Harlem.
  • 1965, marzo
    Per il diritto di voto agli afroamericani si svolgono tre marce da Selma a Montgomery.
  • 1965, 6 agosto
    Il presidente Lyndon B. Johnson firma il «Voting Rights Act», una legge progettata per far rispettare i diritti di voto garantiti dal 14.mo e 15.mo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
  • 1968, 4 aprile
    Martin Luther King, leader nero di fama mondiale, viene assassinato a Memphis.

(a cura di Paolo Moiola)


«Sala d’attesa per i colorati»: un’indicazione specifica per i neri nella stazione di Rome, Georgia, nel 1943. Foto Esther Bubley – Library of Congress.

Neri americani*: i numeri (2019)

  • popolazione nera: 48,2 milioni
  • percentuale su totale: 14,7 per cento
  • tasso di povertà: 20,8 per cento (10,1%**)
  • tasso di disoccupazione: 6,1 per cento (3,3%**)
  • educazione superiore (college): 29 per cento (45%**)
  • stati con più neri: New York, California,Texas, Florida e Georgia
  • città Usa con più neri: New York, Chicago, Detroit.

(*) «Black population», «african americans» sono i termini più utilizzati negli Stati Uniti per indicare la popolazione nera. I termini «negro» («negroes», al plurale) e «colored» sono caduti in disuso.
(**) Percentuale per la popolazione «bianca».

Fonti: US Census Bureau (census.gov); US Bureau of Labor Statistics (bls.gov); US Department of Education (ed.gov).

 (Pa.Mo.)


Politica e religione in Usa

Il cattolico Joe Biden

Il nuovo presidente Joe Biden, secondo cattolico (dopo John Kennedy) a ricoprire la massima carica degli Stati Uniti. Foto Matt Johnson.

Joe Biden, dal 20 gennaio 2021 alla guida degli Stati Uniti, è il secondo presidente Usa di fede cattolica. Il primo fu John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963). Si stima che il 3 novembre 2020 circa la metà degli elettori cattolici abbia votato per Biden. L’altra metà si è schierata con l’ex presidente Donald Trump; una buona parte di costoro appartiene alla schiera degli anti Francesco.

Durante il suo mandato, l’ex presidente ha avuto rapporti soprattutto con i cristiani evangelici. Trump aveva l’Evangelical Advisory Board, un organismo composto principalmente da leader di organizzazioni della destra religiosa, predicatori televisivi e pastori conservatori (The Washington Post, 30 agosto 2018). Aveva Paula White, nota televangelista della Florida, come capo consigliere spirituale.

Il primo giugno dello scorso anno, nel pieno delle proteste per l’uccisione di George Floyd, Donald Trump ha camminato dalla Casa Bianca fino alla Chiesa episcopale di San Giovanni. Un centinaio di metri sgombrati dalla polizia con i gas lacrimogeni. Arrivato davanti alla chiesa con il suo stuolo di accompagnatori (peraltro, tutti bianchi e senza mascherine), l’ex presidente si è piazzato davanti all’insegna e ha alzato al cielo la Bibbia che teneva tra le mani. Senza aprirla. Tutto in favore di telecamere e macchine fotografiche.

Per tutto il suo mandato presidenziale, Trump ha usato la religione per i suoi fini politici, un «nazionalismo cristiano» che ha ottenuto molto seguito tra fette consistenti di evangelici e di cattolici.

Ci sono stati politici repubblicani e leader religiosi che hanno parlato apertamente di un intervento di Dio per la sua ascesa al potere. Franklin Graham, noto pastore evangelico, in un’intervista del luglio 2019 ha affermato che «Dio era dietro le ultime elezioni» vinte da Trump.

Anche la frettolosa nomina alla Corte suprema della giudice cattolica Amy Coney Barrett, nominata pochi giorni prima delle elezioni del 3 novembre, rientrava nel disegno politico ed elettorale dell’ex presidente. Questo utilizzo strumentale della fede religiosa da parte di Trump ha contribuito a fomentare un clima fortemente divisivo.

Il 30 agosto 2020, padre James Altman di La Crosse, Wisconsin, è intervenuto nel dibattito con un video pubblicato su YouTube: «Non puoi essere cattolico ed essere democratico […] Pentiti – esorta padre Altman nel suo accattivante filmato – del tuo sostegno a quel partito e alla sua piattaforma o affronterai le fiamme dell’inferno!».

L’opposizione della destra cristiana continua anche dopo la chiara sconfitta del presidente. «Jesus saves» dicevano alcuni cartelli nella manifestazione pro Trump del 6 gennaio 2021 sfociata nell’assalto al Campidoglio. Quei fatti hanno però costretto vari leader religiosi repubblicani (come i pastori Mark Burns, Pat Robertson, ecc.) a prendere apparentemente le distanze dall’ex presidente. Se questi sembra, almeno per il momento, fuori gioco, non lo è però il «trumpismo».

Il giorno seguente all’insediamento del nuovo presidente, il sito del «Falkirk Center» della Liberty University, istituto cristiano (evangelico battista), ha pubblicato un lungo articolo sui «modi in cui tutti noi possiamo glorificare Cristo mentre ci opponiamo alle politiche di Biden».

Nella sua lettera di benvenuto (datata 20 gennaio) al nuovo presidente e alla sua famiglia, l’arcivescovo José Gómez, presidente della Conferenza episcopale statunitense (United States Conference of Catholic Bishops, Usccb), ha scritto che «lavorare con il presidente Biden sarà unico, sarà il nostro primo presidente in 60 anni a professare la fede cattolica». Tuttavia, è facile prevedere che il dialogo non sarà certamente semplice su alcuni temi e, in particolare, sulla questione dell’aborto su cui la lettera dell’arcivescovo si sofferma molto.

Secondo una ricerca del Pew Research Center (4 gennaio), nel 117.mo Congresso degli Stati Uniti la maggioranza assoluta dei parlamentari sarebbe di religione protestante (294 persone, il 55,4 per cento del totale), mentre i cattolici sarebbero 158, pari al 29,8 per cento, più di quanti sono nel paese (20 per cento). Difficilmente i cattolici pro Trump cambieranno idea rispetto al suo successore. È invece molto probabile che, al contrario di Trump, il cattolico Joe Biden non userà la fede religiosa come strumento di lotta politica.

Paolo Moiola

 


Le puntate precedenti: