Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.
Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.
Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.
Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.
Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.
Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.
La vita in Afghanistan
Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».
Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».
E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.
«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.
Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.
I Balcani
Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.
Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.
«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».
Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.
Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.
Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.
«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.
Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.
I sopravvissuti alla rotta balcanica
A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.
Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.
Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.
Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.
La frontiera tra la neve
Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.
Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.
«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».
Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.
Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.
«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».
Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.
Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.
Il game infinito
Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».
Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.
Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.
«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».
Verso la Germania
Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.
«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».
A molti, invece, è andata peggio.
Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.
«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».
Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.
«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.
A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.
«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».
L’umanità del confine
Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.
Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.
Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.
La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.
Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.
«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.
Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.
In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.
La terra di Ur dei caldei
«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.
«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.
In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».
Terra di persecuzione
Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.
A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.
«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.
Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».
Forte simbolismo
Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.
«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.
L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.
Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».
al-Sīstānī, Sako e il papa
Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.
Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.
Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.
Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.
Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.
L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».
Il viaggio e la pandemia
In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.
«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.
Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.
Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».
Luca Lorusso
Le chiese irachene
In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.
Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.
Pluralità di confessioni
In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.
Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.
Esodo e timori
Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.
E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».
L.L.
Mosaico di religioni
Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.
La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.
All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).
Gli sciiti
All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.
Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.
Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.
Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).
In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.
I santuari
I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.
Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.
L.L.
Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī
Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.
Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.
Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?
«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.
Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.
Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.
La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.
In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.
Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.
Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».
La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?
«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».
Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?
«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.
Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.
L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.
Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».
Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.
«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».
Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.
«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.
Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.
Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.
Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».
Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.
«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».
Con il terzo capitolo dell’Esodo entriamo nel cuore della vicenda di Mosè. Inizia un’avventura unica, che sarà fondamentale per la relazione tra il Dio d’Israele e il suo popolo, ma che si lascia anche interpretare come modello ideale di un percorso di fede. Nella nostra lettura, cercheremo di evidenziare entrambe le dimensioni di questo itinerario.
Ci troviamo di fronte a Mosè, salvato miracolosamente da bambino, cresciuto alla corte del faraone, fuggito per aver difeso un ebreo (uccidendo un egiziano). Diventato genero di un sacerdote di Madian, un personaggio rilevante ma che appartiene a un popolo disprezzato e, in più, non certo ricco, dato che si trova a dover mandare le proprie figlie a pascolare le sue greggi. Mosè diventa parte di quella famiglia e si prende cura di pascolarne il gregge.
L’incontro all’Oreb
Il territorio che dalla Giudea arriva all’Egitto è un deserto, ma non dobbiamo pensare a una distesa di dune di sabbia. È punteggiato da oasi, e se lo si attraversa in quei rarissimi momenti in cui piove, lo si trova addirittura trasformato in un prato fiorito e pieno d’erba nutriente e gustosa per le greggi. Al di là del deserto, ci dice il libro dell’Esodo (3,1), Mosè raggiunge il monte di Dio. Molto si è discusso e molto si discuterà sull’identificazione di questo monte, come su altre domande riguardanti la geografia dell’Esodo: in questo nostro percorso eviteremo di occuparci di tali questioni, che sono assolutamente interessanti, ma non hanno né una risposta sicura né ricadute sul messaggio religioso del libro. A noi interessa di più l’esperienza di Mosè e capire come percepisce quanto gli succede.
Mosè vede bruciare un rovo senza che si consumi e decide di avvicinarsi per capire meglio.
Per Mosè, come per noi, e per qualunque percorso di crescita umana, il punto di partenza necessario è la voglia di capire, di vedere, di conoscere. La disponibilità a mettersi in gioco, a non starsene in disparte da spettatori. Se Dio non avesse posto sulla strada di Mosè quel segno curioso, Mosè non si sarebbe fermato; ma se Mosè non avesse voluto andare a vedere che cosa accadeva, la sua vita sarebbe stata più semplice, sicuramente più vuota, e noi non avremmo mai sentito parlare di lui. E chi avrebbe condotto il popolo ebraico fuori dall’Egitto?
Un Dio coinvolto
Dopo essersi avvicinato al roveto ardente, Mosè sente una voce che lo invita a togliersi i calzari, perché si trova in un luogo santo.
Chi tra i lettori ha già sentito la voce di Dio? Magari dal crocifisso, come capitava nei film di don Camillo. Forse nessuno. O forse qualcuno racconterebbe di aver percepito la voce di Dio in momenti delicati della vita: nel consiglio di un amico, in un’intuizione improvvisa, nella serenità giunta come dono, nel coraggio di affrontare una certa scelta. Noi preferiamo essere più razionali nel presentare queste esperienze, mentre l’antichità si fa più facilmente prendere dal gusto del racconto e parla di una voce da un roveto. Forse davvero c’è stato qualche evento sovrannaturale, ma può anche darsi che si tratti solo di un modo di esprimersi metaforico, come anche noi oggi possiamo parlare di una guerra tra la testa e il cuore, senza davvero pensare che i sentimenti stiano nel petto e non nel cervello. Non possiamo sapere di preciso che cosa abbia sperimentato Mosè, ma in ogni caso si è sentito destinatario di un messaggio, partecipe a una conversazione.
E il senso di questa conversazione è chiaro: «Il mio popolo è davvero afflitto, l’ho visto, e ho deciso di scendere ad aiutarlo» (Es 3,7-8).
Non è una presentazione banale, ed è densa di sottintesi. Il libro dell’Esodo aveva già ammesso l’oppressione del popolo, che aveva alzato grida di lamento (Es 2,23). Queste grida però non sembravano essere rivolte in particolare a Dio. È invece Dio a essersi mosso per primo, perché non si è dimenticato di Abramo, Isacco e Giacobbe (Es 2,24; 3,6).
Il popolo afflitto resta il popolo suo. Lungo i secoli non era intervenuto a ricordare la propria esistenza, ma ora non può più tenersi lontano. Dio non si muove per farsi servire e adorare, ma quando l’uomo ha bisogno, si identifica con l’umanità sofferente, si mette al suo fianco. Mosè diventerà chi sappiamo perché ha accettato di mettersi in gioco, ma anche Dio si è messo in gioco: non se ne sta sulle nubi a guardare distaccato la storia, ma si sente coinvolto. E si sente coinvolto dalla sofferenza. Non per compiacersene, ma per guarirla, per toglierla: «Fammi scendere a liberarlo» (3,8).
Il nome di Dio
Comincia qui un lungo botta e risposta tra Dio e Mosè. Nella Bibbia non mancano personaggi che si offrono generosamente per collaborare con l’Altissimo (pensiamo ad esempio a Isaia: «Eccomi, manda me!»
(Is 6,8). Non tutti, però, si offrono senza indugi. Mosè, il più grande, colui che parlava faccia a faccia con Dio (Dt 34,10), l’intermediario per la liberazione dall’Egitto e per il dono della legge, non solo era un assassino fuggiasco e pavido, ma osa anche dire di no a Dio.
Una delle prime obiezioni che muove è che non sa chi ha davanti: «Ecco, io vado dai figli d’Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? Che cosa dirò loro?» (Es 3,13).
Dio in realtà si era già presentato, rimandando ad Abramo, Isacco e Giacobbe (i «vostri padri», appunto: Mosè si era distratto). Ma questo rimando poteva suonare generico: nelle vite dei padri erano successe tante cose, alcune delle quali incoerenti tra di loro. Non sarebbe stato meglio una presentazione più dettagliata, precisa? Quando ci offrono un lavoro, pretendiamo di sapere con che contratto saremo assunti, qual è la retribuzione, quante ferie ci spettano, con quali garanzie. Ma quello che Dio offre non è un lavoro.
Ci sentiremmo molto in imbarazzo (speriamo) se un simile discorso si facesse all’inizio di un’amicizia o di un amore.
Anche Dio sembra perplesso di fronte alla domanda, come se non se l’aspettasse. Poi esce in un «Sono ciò che sono» (3,14), che potrebbe essere tradotto anche come «Sarò ciò che sarò» o «Continuerò ad essere ciò che sono». E prosegue, quasi convinto da una trovata che sembrerebbe estemporanea: «Dirai così agli israeliti: Sarò/sono/continuo a essere mi ha mandato a voi». Potremmo addirittura renderlo con «Ci sarò». Mosè ha chiesto un nome, una definizione, un’identità precisa e un perimetro della missione chiaro; ma di fronte a questa richiesta, che sembra quasi prospettare un lavoro, Dio risponde con la più alta e coraggiosa promessa: «Io ci sarò, io sarò con voi». Se ci pensiamo, noi sappiamo essere molto generosi nelle nostre promesse, le quali spesso si fanno grandi come le nostre speranze o desideri, anche se non siamo padroni del nostro futuro. Possiamo però garantire che non scapperemo, che non ci tireremo fuori. E che cosa accadrà, si vedrà strada facendo.
Manda un altro
Le obiezioni di Mosè non si fermano qui. «Non conto niente» (3,11), «non mi crederanno» (4,1), «non so parlare» (4,10), fino a una frase che le nostre traduzioni, giustamente, ci restituiscono alla lettera, ma di cui rischiamo di perdere il senso profondo e l’improvvisa reazione irritata di Dio. Quando, parlando in italiano, diciamo che Andrea esce da tre mesi con la stampella o esce da tre mesi con Lucia, non intendiamo dire la stessa cosa: nel secondo caso parliamo di una relazione profonda, di affetto reciproco, quanto meno iniziale. Se sentiamo dire che una certa offerta è «per molti», capiamo che non è per tutti, anche se questo di per sé non è stato detto.
Quando Mosè dice: «Signore, manda chi vuoi mandare» (4,13), a noi può sembrare una faticosa assunzione del proprio incarico (che Dio voglia mandare Mosè è chiaro, sta cercando di convincerlo da un quarto d’ora…). Ma nel modo di parlare ebraico quella frase sottintende «tranne me». Come se Mosè dicesse a Dio: «Mi hai convinto, il progetto è veramente affascinante. Ma non contare su di me. Trovati un altro, e sarà un successo». Ecco perché Dio perde un po’ la pazienza.
Anche se non può costringere Mosè. Come con un amico che può anche spazientirsi, ma vuole la collaborazione, non può forzarlo e non farà nulla senza di lui.
Qualche insegnamento
Possiamo provare a tirare un po’ le fila di questa tappa, cogliendo anche che cosa possa voler dire a noi.
L’inizio del libro dell’Esodo ci presenta un Dio che si sente coinvolto con l’umanità. Soprattutto con quella che soffre. Non è il motore immobile dei filosofi, che se ne sta nei cieli a guardare un po’ severo ciò che succede sulla terra. È piuttosto un padre che soffre per i suoi figli, finché non ce la fa più a resistere, e scende sull’Oreb.
E non è un Dio che voglia agire senza gli uomini. Con Mosè insiste, discute, prova a convincere, si arrabbia… ma non si muoverà senza di lui. Il Dio della Bibbia prende totalmente sul serio l’uomo, non lo tratta da burattino. Se Mosè dicesse di no, sarebbe no. Ecco perché Dio si prende il fastidio di tentare di convincerlo, non può passare sopra alla sua libera scelta. La libertà dell’uomo per Dio è tanto sacra da non poter essere forzata neppure da lui. Ecco perché è tanto grande e impegnativa la responsabilità umana.
E, insieme, questa non è un’opportunità riservata solo agli eletti, ai migliori, ai perfetti. Mosè ci può sembrare non migliore né peggiore della maggior parte degli esseri umani. Anche nel suo tentativo di non prendersi responsabilità. Dio non chiama a grandi cose l’umanità perfetta: al limite, la rende indimenticabile, se solo inizia a fidarsi di lui.
Cominciamo poi a cogliere le modalità della relazione con questo Dio: non c’è una proposta da ponderare con la calcolatrice. La chiamata divina non è una proposta assicurativa. È piuttosto un progetto di vita: come ogni progetto di vita (che sia un legame coniugale, una consacrazione, una professione, una scelta di stile o di residenza…) ci sono degli elementi che lo rendono conoscibile, credibile, attraente, ma alla fine se non si decide di fidarsene, di lasciargli spazio, di stare al gioco… non accade. Se ci impegnassimo nella vita solo in ciò che si dimostra affidabile e garantito, non faremmo nulla. Come nelle amicizie, anche nel rapporto con Dio l’unico modo di avere garanzie sulla credibilità della sua chiamata, è ascoltarla. Ciò di cui ci fidiamo, potrebbe tradirci, ma ciò di cui non ci fidiamo, non mostrerà mai le sue potenzialità, siamo noi a tradirne la promessa.
E Dio è promessa, è potenzialità, è slancio sul futuro, è relazionalità. Non è una definizione statica, non è il difensore dell’ordine, bensì della vita, che è disordinata, anche incoerente ma solare e piena di frutti. Per questo non può sopportare di rinchiudersi in una definizione, che possiamo controllare e che ci dice tutto. Il Dio di Mosè è un Dio capace di sorprendere, di invitare a scommettere, a mettersi in gioco. Capace di pentirsi ma anche di rilanciare, di ripartire. Non è il dio dei filosofi (o anche, a volte, del catechismo), racchiudibile in una griglia molto ben organizzata, ma è il Dio dei profeti, degli artisti, di chi ama. E se è vero che viene incontro al bisogno non espresso del suo popolo promettendo intanto la liberazione ma sapendo già che non basterà (allude al servizio che il popolo gli offrirà sul monte, Es 3,12, ma poi non se ne parlerà più finché non sarà ora), ciò che promette non è la programmazione dettagliata di tutto quello che dovrà succedere, ma «solo» la garanzia che la relazione non verrà mai meno: «Io ci sarò».
Angelo Fracchia (Esodo 03 – continua)
Colombia: La pace teorica
testi di Angelo Casadei, Paolo Moiola e Mauricio A. Montoya Vásquesz |
Dagli accordi di pace siglati nel 2016 sono trascorsi oltre quattro anni. Il lunghissimo conflitto colombiano è mutato, ma non è terminato. E le cause che lo hanno prodotto sono ancora irrisolte.
Le parole sono importanti, ma spesso insufficienti, sopravvalutate o inutili. La Costituzione colombiana, promulgata nel luglio del 1991, parla di pace in tre circostanze: nel preambolo, nell’articolo 22 e nel 95. Nel preambolo si dice che il potere sovrano assicura ai cittadini «la vita, la convivenza, il lavoro, la giustizia, l’eguaglianza, l’istruzione, la libertà e la pace». L’articolo 22 afferma che «la pace è un diritto e un dovere di realizzazione obbligatoria». Infine, secondo l’articolo 95, tra i doveri della persona e del cittadino c’è quello di «promuovere il raggiungimento e il mantenimento della pace». Eppure, nonostante le parole solennemente scritte nella Carta costituzionale, in Colombia la pace è largamente incompiuta. Ancora oggi essa rimane una promessa di molti e una speranza di tanti.
I numeri del conflitto possono cambiare a seconda delle modalità di raccolta dei dati e dei soggetti che li raccolgono. In tutti i casi si tratta di numeri impressionanti. Il Centro nacional de memoria histórica, tramite l’Observatorio de memoria y conflicto, conta le vittime del conflitto distinguendo tra undici modalità di violenza: azioni di guerra, danni a beni civili, uccisioni selettive, attacchi alla popolazione, attacchi terroristici, sparizioni forzate, massacri, mine antiuomo, ordigni esplosivi improvvisati e ordigni inesplosi, reclutamento e utilizzo illeciti di bambine, bambini e adolescenti, sequestri, violenze sessuali.
Le informazioni, raccolte e minuziosamente catalogate dall’istituzione, disegnano un quadro dettagliato di cosa abbia significato e significhi il conflitto interno per i colombiani. Secondo questa fonte, nel periodo 1958-2020 le vittime mortali (víctimas fatales) della guerra sono state 266.988.
Gli attori principali del conflitto sono quelli conosciuti: la guerriglia (politicamente di sinistra), i gruppi paramilitari (politicamente di destra), gli agenti dello stato, banditi, altri gruppi non identificati.
Leggendo i dati dell’Observatorio de memoria y conflicto, non mancano però le sorprese. Per esempio, la vulgata comune, sia in Colombia che all’estero, ha sempre attribuito le maggiori responsabilità del conflitto alla guerriglia (Farc, in primis). Invece, i colpevoli principali pare siano stati i gruppi paramilitari. Questi sarebbero i primi responsabili delle uccisioni mirate, delle sparizioni forzate, delle violenze sessuali e dei massacri. La guerriglia (Farc, Eln, M-19, Epl, Cgsb), invece, sarebbe in testa per i sequestri, gli attacchi a centri abitati, la distruzione di infrastrutture pubbliche e l’arruolamento nelle proprie file di minori. Gli agenti dello stato sarebbero i protagonisti della maggior parte delle azioni belliche. Dopo la firma dell’accordo di pace del 2016 (prima respinto dal referendum, poi modificato e approvato dal Congresso), la situazione sul campo è mutata, ma non i risultati. In alcune zone sono tornate le Farc con gruppi di dissidenti (identificati come Gao-r), mentre vari attori legati al narcotraffico hanno esteso il proprio dominio. Perché dunque, dopo decenni di lutti e devastazione, la guerra non ha ancora termine? Una delle cause principali è il persistere nel paese di condizioni di povertà e diseguaglianza. Per citare soltanto un dato, nel 2019 la povertà interessava il 35,7% dei colombiani (Departamento administrativo nacional de estadística, Dane). Con percentuali molto più alte in alcune regioni (con un massimo di 68,4% nel dipartimento del Chocó) e nelle zone rurali e amazzoniche.
Queste ultime ospitano anche le zonas cocaleras. Secondo il White House office of national drug control policy (Ondcp, marzo 2020), nel 2019 erano coltivati a coca 212mila ettari per una produzione di 951 tonnellate di cocaina. Invece, secondo lo United Nations office on drugs and crime (Unodc), gli ettari coltivati sono di meno (154mila), ma la produzione maggiore (1.136 tonnellate nel 2019). Quali che siano i dati corretti, la realtà mostra una produzione enorme di cocaina con il coinvolgimento di migliaia di famiglie contadine costrette a coltivare piante di coca non per arricchirsi ma per sopravvivere.
Secondo l’organizzazione non governativa Planeta paz, la pace va costruita e suppone la creazione di condizioni politiche, sociali ed economiche. Essa non significa semplicemente superare il conflitto armato. È necessario «sradicare dalla vita sociale colombiana lo stato di guerra in cui vive la maggior parte dei suoi abitanti a causa dell’incertezza sull’ottenimento dei mezzi necessari per garantire la vita biologica e una vita dignitosa».
In questo quadro, nell’ultimo anno si è anche inserita la pandemia da coronavirus. Una tessera in più da sistemare nel complicato puzzle colombiano.
Paolo Moiola
Colombia
Forma di governo:
Repubblica presidenziale.
Presidente: Iván Duque Márquez del
partito conservatore Centro democratico, guidato dall’ex presidente Álvaro Uribe.
Superficie: 1.141.748 km² (quasi quattro volte l’Italia).
Città principali: Bogotá (capitale), Medellín, Cali, Barranquilla, Cartagena de Indias.
Religioni: 79% cattolici, 12% protestanti; in rapida crescita le chiese evangeliche e pentecostali.
Economia: agricoltura molto varia, con il caffè e la coca al primo posto; allevamento, in primis di bovini; risorse minerarie come oro, smeraldi e petrolio; il paese ha sostituito il Venezuela come primo esportatore sudamericano di petrolio verso gli Usa.
Conversazione
Perdono, riconciliazione e… indifferenza
Nel conflitto e nel processo di pace colombiano, le variabili in gioco sono numerose. Proviamo a fare ordine con il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, studioso del conflitto.
Per chi ha pagato sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto, dimenticare e magari perdonare sono passaggi complicati o forse impossibili. «In primo luogo – ci spiega il professor Mauricio A. Montoya Vásquez, storico e studioso del conflitto -, occorre differenziare tra perdono e riconciliazione. Il perdono è una cosa più personale, che può includere anche caratteristiche religiose. La riconciliazione è una cosa più ampia, che include l’instaurazione di legami di fiducia. È meglio non iniziare un processo di pace con la parola perdono e utilizzare invece la parola riconciliazione».
Chiediamo se la società colombiana sia in grado di dimenticare oltre sessant’anni di conflitto interno. Il nostro interlocutore ha un’opinione particolare. «Non credo – dice – che il problema sia dimenticare, che, a volte, può essere in qualche misura un elemento salvifico. Io credo che, per la maggior parte dei colombiani, il grande problema sia quello dell’indifferenza, come abbiamo visto bene nel plebiscito del 2016. Erano più di 30 milioni le persone aventi diritto, ma solamente 13 milioni hanno partecipato. Inoltre, le persone che hanno votato per il “Sì” (all’accordo di pace) erano quelle che vivevano nei territori più colpiti dalla violenza. È qui che si è deciso di voltare pagina».
Mauricio Montoya ricorda Tzvetan Todorov. «Secondo il filosofo bulgaro – spiega -, ci sono due memorie: una letterale e una esemplare. Ci sono società che vogliono rimanere legate a una memoria letterale, che è quella che ricorda, commemora e – sfortunatamente – mette il dito nella piaga e in ogni occasione cerca vendetta. Con la seconda invece si commemora e si ricorda. Non dimentica, ma è disposta a voltare pagina perché la società del futuro non soffra e non ripeta queste situazioni. Perché la società vecchia sia d’esempio a quella nuova».
Dissidenti e banditi
«Già all’inizio c’erano persone che non erano disponibili ad accettare il processo di pace. In seguito altri – come Iván Márquez, Jesús Santrich, el Paisa y Romaña – si sono ritirati dicendo che non c’erano garanzie sufficienti e che non si stava compiendo quanto stabilito».
«Secondo me, questo è stato un errore. Avrebbero dovuto aspettare visto che il nostro sistema è lento e per questo richiede pazienza. Costoro sono dunque tornati alle armi formando la dissidenza che sta tentando di occupare il territorio che un tempo era dominio delle Farc. In molte zone sono in competizione con bande criminali dedite al narcotraffico. Io penso che i dissidenti abbiano un progetto politico sempre meno visibile e si avvicinino ai Bacrim (acronimo di Bandas criminales come los Urabeños, ndr), ovvero i gruppi paramilitari che non hanno accettato il processo di smobilitazione».
Tuttavia, non c’è soltanto la dissidenza. Ci sono anche notizie incoraggianti: «Un 70 per cento di ex combattenti delle Farc – precisa Mauricio – sta scommettendo sulla pace, anche con vari progetti produttivi: i cento ex guerriglieri e rispettive famiglie che si sono trasferiti su una terra di Mutatà, quelli impegnati nel turismo ecologico, o quelli che hanno aperto fabbriche di abbigliamento (marca “Manifiesta-Hecho en Colombia”) e di birra artigianale (“La Roja”)».
Si tratta di progetti d’inserimento nella società civile da incoraggiare, ma anche da difendere visto che, al 7 gennaio 2021, erano già stati assassinati almeno 252 ex membri delle Farc (un film già visto negli anni Ottanta quando i paramilitari sterminarono gli iscritti al partito Unión patriótica). Ancora più alte sono le cifre riguardanti l’assassinio di líderes sociales (difensori dei diritti umani, ambientalisti, attivisti indigeni e afrocolombiani). Negli ultimi quattro anni sarebbero stati 421, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani. Mentre la Defensoría del pueblo riporta oltre 700 morti. «Eppure – precisa Mauricio -, secondo alcuni, questi líderes sociales sono stati uccisi a causa di lios de faldas (letterale, “litigi per le gonne”, ndr) come fossero cioè problemi amorosi che non hanno nulla a che vedere con il contesto politico».
Chi vuole il fallimento?
Oltre ai dissidenti delle Farc e ai gruppi paramilitari, ci sono molti altri attori che lavorano per far fallire il processo di pace. Il nostro interlocutore non ha dubbi al riguardo.
«Dagli anni Ottanta – spiega – la pace è un tema elettorale. In questo senso, molti lo hanno manipolato per arrivare alla presidenza. È chiaro che ci sono persone che non vogliono che gli accordi si compiano nei modi sottoscritti a l’Avana e, dopo la sconfitta nel plebiscito, al Congresso. Il problema è quello degli approfittatori, dei mercenari che cercano di portare confusione e di preservare i propri interessi particolari. Costoro lavorano affinché le cose non si sappiano e da qui nascono gli attacchi alle istituzioni che operano per il processo di pace».
Dall’accordo di pace firmato dall’allora presidente Manuel Santos e dai vertici delle Farc-Ep, è nato il «Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione» (Sistema integral de verdad, justicia, reparación y no repetición, in sigla Sivjrn). Incorporato nella Costituzione attraverso il decreto legislativo 01 del 2017, il Sistema è fondato su tre componenti: la «Commissione di chiarimento della verità, convivenza e non ripetizione» (Comisión de esclarecimiento de la verdad, la convivencia y la no repetición, Cev); l’«Unità per la ricerca delle persone date per scomparse» (Unidad para la búsqueda de personas dadas por desaparecidas, Ubpd) e la «Giurisdizione speciale per la pace» (Jurisdicción especial para la paz, Jep).
Tra i maggiori oppositori del processo di pace c’è Álvaro Uribe, l’uomo forte della Colombia, fondatore del partito Centro democrático (Mano firme. Corazón grande, «Mano ferma. Cuore grande») del quale è militante anche l’attuale presidente Iván Duque. «È ovvio – conferma Mauricio Montoya – che l’ex presidente Uribe ha avuto ed ha influenza. Ha guadagnato appoggio e popolarità tra una fetta importante della popolazione per la sua opposizione ai gruppi armati, per la sua volontà di non negoziare con essi. La sua scelta militare ha però portato anche a violazioni ed eccessi come per i “falsi positivi” (civili innocenti assassinati dall’esercito che li faceva passare per guerriglieri per ingigantire i propri successi militari, ndr). Uribe continua ad essere molto influente in ambito politico, cosa che gli permette di far eleggere senatori, governatori, sindaci. Oggi rimane popolare tra la popolazione più anziana, ma non tra i giovani colombiani».
Come fare giustizia?
Dopo gli accordi del 2016, le Farc si sono trasformate in partito politico, mantenendo la denominazione ma con un significato diverso: da «Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia» a «Fuerza alternativa revolucionaria del Común». Lo scorso 24 gennaio i responsabili hanno annunciato di aver cambiato il nome in «Comunes» per non confondere il gruppo firmatario degli accordi di pace con il gruppo dei dissidenti. Il leader Rodrigo Londoño, alias Timochenko, ha ammesso che mantenere il nome di Farc non è stata una buona idea e che il nuovo nome del partito fa riferimento alla gente comune.
Questo non significa però che gli ex guerriglieri non verranno giudicati. Gli accordi di pace non sono infatti una patente d’impunità, una rinuncia a fare giustizia e a punire i responsabili.
«I media e i social – spiega Montoya – hanno creato un ambiente negativo attorno alla Jep. Dicendo che è una giustizia dei guerriglieri e che è contro i militari. Tutti argomenti che a poco a poco sono caduti». Anzi, lo scorso 29 gennaio il tribunale speciale creato con gli accordi di pace (la citata Jep, Jurisdicción especial para la paz) ha accusato l’antica cupola della guerriglia di crimini di guerra e di lesa umanità per i sequestri commessi per decenni. Sono stati incriminati otto membri delle ex Farc, tra cui lo stesso Rodrigo Londoño e due senatori.
«A dimostrazione – chiosa Montoya – che il compito che sta svolgendo la Jep è reale».
L’irrisolta questione della terra
In Colombia la diseguaglianza è visibile e confermata da tutti gli indici. Chiediamo al professor Montoya il peso della questione della terra.
«Durante i colloqui e il processo di pace – risponde -, la questione della terra è stata un tema ricorrente. “Perché ancora una volta il tema della terra?”, domandava molta gente. La risposta è semplice: perché in realtà il problema della terra non è stato mai risolto. Sta scritto negli accordi, ma la soluzione ancora non si vede. Un passaggio fondamentale è la trasformazione e attualizzazione del catasto rurale, che significa riuscire a sapere quanti ettari di terra possiedono le persone, quante imposte pagano e se queste sono coerenti con le terre possedute, perché ci sono territori vuoti che non vengono consegnati ai contadini e alle comunità agricole che li richiedono. Molti ritengono che il problema della diseguaglianza e della terra non sia una causa della guerra. Forse non è l’unica, ma è fondamentale».
Il narcotraffico
Legata al tema della terra è la questione delle piantagioni di coca e del commercio della stessa. «Il narcotraffico – spiega il professore – ha attraversato il conflitto dagli anni Settanta. Le coltivazioni di coca continuano sotto il controllo dei gruppi armati, illegali e legali. È infatti comprovato che in questo lucroso business ci sono anche politici. In molti territori ci sono combattimenti tra i vari gruppi armati per controllare le rotte della droga. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex paradiso dell’arcipelago di San Andrés, Providencia e Santa Catalina (davanti alle coste del Nicaragua, ndr) ha altissimi livelli di violenza essendosi convertito in un ponte per il traffico con Stati Uniti ed Europa. Accanto a queste rotte c’è poi il microtraffico all’interno delle città colombiane dove le bande si contendono con le armi il traffico non soltanto di droga ma anche di persone».
Con il Venezuela e gli Stati Uniti
Lo scorso febbraio il presidente Iván Duque ha annunciato la regolarizzazione (tramite il nuovo Estatuto nacional de protección) per dieci anni di oltre due milioni di immigrati venezuelani, che permetterà loro di accedere ai sistemi pubblici della salute e dell’educazione e di lavorare regolarmente. Il presidente colombiano ha sempre usato (furbescamente) la lotta contro il Venezuela di Maduro come strumento di lotta politica interna e internazionale.
«Duque usa quel paese – spiega Mauricio Montoya – in termini elettorali per spaventare la popolazione su certi candidati o modelli politici o idee per supposte affinità al Venezuela o, come viene spesso detto, al castrochavismo. Credo perciò che le relazioni tra i due paesi si manteranno tese, instabili e polarizzate».
Nel frattempo, negli Stati Uniti, storico alleato del paese, la presidenza è passata da Donald Trump a Joe Biden. «Non cambierà molto – osserva Montoya -. Alcuni media dicono che, avendo il governo colombiano appoggiato Trump, Biden presenterà il conto. Non credo sarà così. La Colombia non perderà l’appoggio statunitense né in termini economici né di lotta al nartraffico. Credo però che gli Usa avranno un ruolo nella competizione per la prossima presidenza la cui campagna inizierà ancora quest’anno».
In effetti, l’ex presidente ed ex senatore Álvaro Uribe ha già iniziato le audizioni per selezionare i propri candidati.
Paolo Moiola
Incontro con un dissidente Farc
«Ricercato, vivo o morto» (l’ultima intervista)
Abbiamo incontrato Dúver, uno dei leader dissidenti delle Farc. È stata una conversazione unica. Due mesi dopo, Dúver è stato ucciso in un’operazione militare che ha avuto una grande eco sui media locali.
Solano (Caquetá). Ho ricevuto un invito da parte di Dúver Guzmán, nome di battaglia di Marco Tulio Salcedo, importante guerrigliero delle Farc-Ep, a Mononguete, lungo il fiume Caquetá. Il luogo prescelto è presso il distributore galleggiante di benzina, situato nel porticciolo principale del paese. L’appuntamento è per venerdì 18 settembre, alle 10,30.
Con Rito, il motorista della parrocchia, arrivo in anticipo, alle 9,30. Mentre attendo, vedo arrivare dall’altra parte del fiume, in territorio della regione del Putumayo, altri guerriglieri che non fanno però parte di coloro che sto aspettando.
La guerriglia vuole sapere tutto
All’ora concordata arriva Dúver. Viene verso me, mi dà la mano e mi offre da bere una gazzosa. Ci accomodiamo uno di fronte all’altro: io su una panca, lui su una sedia. Alla cintura porta una pistola. Indossa una maglietta con la mappa della Colombia e l’immagine di Marulanda: il contadino che fondò le Forze armate rivoluzionarie della Colombia è raffigurato che impugna un fucile, mentre nel mezzo della mappa campeggia la sigla Farc-Ep.
Iniziamo a parlare. Subito mi chiede: «Padre, mi parli del progetto». Non capisco, o meglio, fingo di non capire quello a cui vuole riferirsi Dúver, e così inizio a parlargli del progetto di evangelizzazione che portiamo avanti nel Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano con mons. Joaquin Humberto Pinzón, il nostro vescovo; dell’équipe missionaria in parrocchia, composta da quattro suore, due seminaristi, un laico missionario e me come parroco e coordinatore.
Proseguo la mia descrizione: «Dúver, il territorio della parrocchia è molto vasto, visto che comprende 106 comunità, 90 villaggi di coloni e 16 popoli autoctoni. In esso ci sono la parrocchia San Francisco d’Asis formata nel 2019, il centro di missione Assunzione, il centro di missione San José, la parrocchia Nuestra Señora de las Mercedes. Per la vastità del territorio in futuro sono previste quattro parrocchie».
Dúver ascolta attentamente, anche perché la guerriglia vuole sapere tutto ciò che succede nell’area in cui essa opera. «Come missionari della Consolata – continuo -, siamo presenti in questa regione dal 1951 e a Solano in modo permanente dal 1959, mentre la parrocchia è stata istituita nel 1969. La nostra presenza ha come sua prima finalità l’annuncio di Gesù Cristo, ma abbiamo sempre tenuto presente l’educazione scolastica, e oggi proseguiamo il lavoro appoggiando e proponendo alcuni progetti sociali».
Gli spiego la nostra filosofia: «L’annuncio del Vangelo non è scollegato dall’aspetto sociale: evangelizzazione e promozione umana, che come missionari della Consolata, le abbiamo nel sangue».
Dúver mi interrompe dicendo: «Il Vaticano ha molti soldi!». Gli rispondo: «Non so quanti soldi abbia il Vaticano. Io so solo che il nostro Vicariato e il nostro vescovo di soldi non ne hanno. Viviamo alla giornata, di quello che si riceve dalle offerte delle persone semplici del nostro popolo caqueteño e da aiuti di alcuni benefattori sia colombiani che di altri paesi».
Insiste che gli parli del progetto, però di nuovo chiedo che mi dica a quale progetto si riferisce. Alla fine, gli suggerisco: «Il progetto cambio climatico?». Annuisce. «Il nome completo è “Miglioramento sostenibile della situazione socio-economica e ambientale della popolazione amazzonica nelle regioni del Caquetá e Putumayo”. È appoggiato dalla Cooperazione tedesca e dalla Caritas tedesca, ed è coordinato dalla Pastorale sociale colombiana».
«Sosteniamo 60 famiglie della zona, con supporto tecnico nell’area agroforestale e con un adeguato allevamento del bestiame nei pascoli. Ne deriva quindi un lavoro anche di formazione al lavoro comunitario e impegno politico».
A Dúver però queste informazioni non bastano: vuole sapere l’ammontare in denaro degli aiuti economici che arrivano. Minaccia che, se non gli darò l’informazione, parlerà con il vescovo.
Per evitare di esporre mons. Joaquin gli dico che «più o meno il progetto ha una base di appoggio di 200 milioni di pesos colombiani (50mila euro, ndr) all’anno per un periodo di tre anni». Dúver commenta: «Pensavo molto di più!».
Dall’età di 12 anni nella guerriglia
Dopo aver raggiunto il suo obiettivo, la conversazione si apre a vari argomenti. Gli chiedo: «Da quanto tempo si trova nelle Farc?». «Da quando avevo 12 anni. Sono originario del Caguán. Ho vissuto nella regione del Meta. Ora vivo in questo territorio, in una zona tra il fiume Caquetá e il fiume Caguán».
Domando: «Quando finirà questa guerra che dura da più di 60 anni?». «Quando – risponde – il popolo aprirà gli occhi e avrà in mano il potere». «Ma come pensate di arrivare al potere?», insisto io. «L’unica soluzione sono le armi. È il linguaggio più chiaro per farsi capire, sentire, e rispettare anche se noi tuteliamo la giustizia a favore della comunità».
«Le racconto, padre, che, poco tempo fa, un grande proprietario terriero ha venduto una grandissima finca (fattoria). Noi gli abbiamo chiesto una percentuale ma lui ci ha negato il denaro. Lo abbiamo processato davanti al popolo ed abbiamo lasciato decidere alla stessa comunità che lo ha graziato». E continua: «Padre, ha visto quanti líderes delle comunità sono stati assassinati perché hanno aperto gli occhi al popolo?»
Allora gli chiedo: «Dúver dov’era quando si sono fatti gli accordi di pace?». «Nel “monte”, in foresta a continuare la guerra. Non possiamo lasciare scoperti spazi che altri potrebbero occupare».
«Che altri gruppi ci sono oltre le Farc nella zona?», domando. «Il gruppo narcotrafficante messicano di Sinaloa: il loro territorio è un po’ più giù verso Curillo. Ma sono interessati solo ai soldi. Noi paghiamo 2.300 pesos (circa 0,55 euro, ndr) al grammo la pasta di coca, mentre loro la pagano molto meno. Se il contadino non si adegua alle regole da loro imposte, viene ucciso senza chiedere il parere alla comunità».
Dopo quasi due ore di chiacchierata, ci salutiamo. Mi accorgo che, dietro a me, ci sono altre persone in attesa di parlare con il dissidente delle Farc. Li saluto. Poi, con Rito salgo sulla barca e ci dirigiamo dal porto verso il paesino per salutare la gente. Con tutte le precauzioni possibili.
Angelo Casadei
L’UCCISIONE
Il 24 novembre 2020 le autorità colombiane hanno annunciato la morte di Marco Tulio Salcedo Pinilla alias Dúver, responsabile («cabecilla») delle finanze di un gruppo dissidente delle Farc (ufficialmente, «Grupo armado organizado residual», Gao-r), struttura Míller Perdomo, operante nei dipartimenti di Caquetá, Putumayo e Meta.
L’operazione è stata effettuata dalla Sesta divisione dell’esercito nazionale nella vereda Mononguete, nel municipio di Solano, Caquetá.
Sulla testa di Dúver vigeva una taglia di 150 milioni di pesos (circa 35mila euro) per la sua cattura o morte.
Secondo le autorità competenti, la struttura criminale era incaricata di raccogliere denaro tramite estorsioni e sequestri, traffico di droga, reclutamento forzoso, soprattutto di minori, attacchi a strutture militari.
Pa.Mo.
Il reclutamento forzato
Storia di Isabel, guerrigliera per forza
Reclutata, arrestata, condannata, liberata e ancora reclutata. In questo cammino disperante, Isabel ha trovato l’aiuto della Chiesa. Eppure, oggi è scomparsa di nuovo, persa nel gorgo di un conflitto infinito.
Solano (Caquetá). Siamo in piena novena della festa patronale Nuestra Señora de la Mercedes (Nostra Signora della Misericordia), che ricorre il 24 di settembre. Lunedì 21 settembre arriva in canonica una donna (la chiamerò Isabel) con un bambino di quattro anni, mezz’ora prima dell’eucaristia delle 18,00. «Padre, provengo dal villaggio Yurilla che è lungo il fiume Mecaya – mi dice -. La prego, deve aiutarmi a mettermi in contatto con i militari della Forza aerea».
«Nella finca (fattoria) dove vivo, ci sono 24 ragazzini dai 12 ai 14 anni che le Farc-Ep stanno addestrando alla guerra. Quattro di loro sono gravemente feriti. Vi è stato un violento scontro con il gruppo Sinaloa (potente cartello di narcotrafficanti messicani, ndr) lungo il fiume Putumayo un po’ più in giù della nostra finca».
«Uno dei ragazzi mi ha chiesto di cercare un sacerdote e chiedergli aiuto. Sono qui a Solano perché ho dei seri problemi ginecologici e il medico, dopo la visita, mi ha indirizzata a Florencia per degli accertamenti più approfonditi, ma non posso andarci finché non avrò l’autorizzazione del comandante Danilo. Vivo qui nel Mecaya dall’inizio dell’anno con mia sorella. Lei è la moglie di un comandante delle Farc».
«Un giorno è venuto Danilo e mi ha imposto di essere parte del movimento. Avevo due possibilità: o m’inserivo come guerrigliera militare o collaboravo come guerrigliera “civile”. Vedendomi costretta, ho deciso per questa seconda scelta».
«Mi ha proposto di andare con lui in un loro centro per fare da cuoca a sessanta persone promettendomi che mi avrebbe dato 750mila pesos il mese (circa 170 euro, ndr), e la possibilità di poter uscire dalla finca ogni due mesi».
«Non ho ancora visto un soldo e sono quattro mesi che sono chiusa in quel posto».
«Prima di trasferirmi nel Mecaya sono stata quattordici anni in prigione. Ero stata condannata a trentacinque anni ma, per buona condotta e per i vari corsi a cui ho partecipato, mi hanno condonato gli anni rimanenti».
«Padre, io voglio salvare questi ragazzini: me
l’hanno chiesto e, come le ripeto, quattro sono feriti gravemente e hanno bisogno di cure immediate. Per favore mi metta in contatto con il colonnello della base aerea, e anche con il vescovo. Con lei e con loro, attorno a questo tavolo, posso indicare il luogo preciso dove si trova la finca di addestramento delle Farc. Devo parlare velocemente con la Forza aerea perché intervenga immediatamente, domani potrebbe essere troppo tardi! Nella Farc ho fatto parte dell’équipe di strategia militare, quindi sono in grado di dare le coordinate dove si trovano i ragazzi. Mi aiuti, padre».
«Isabel – le rispondo -, mi lasci pensare questa notte per vedere cosa fare, e domani ci sentiremo». Mi dà il suo numero di cellulare, anche se mi dice che è senza caricabatterie.
Contatto con il «personero»
Non dormo tutta notte con il pensiero di quei ragazzini. Devo e dobbiamo fare qualcosa. Ne parlo con il vescovo Joaquin che mi suggerisce di mettere Isabel in contatto con il «personero» (figura giudiziale dello stato presso la quale chiunque, anonimamente, può fare ricorso per eventuali denunce soprattutto quando sono violati i diritti umani, ndr).
Alle otto contatto la segretaria che mi dà il suo numero. Gli telefono subito e mi dice che sarà libero alle nove. Chiamo Isabel che viene nell’ufficio della parrocchia per continuare il dialogo.
La aggiorno dicendole che ho parlato con il vescovo e che la cosa migliore è metterla in contatto con il personero. Isabel insiste però che vuole parlare con un colonnello della Forza aerea per intervenire immediatamente.
Ha anche delle esigenze pratiche: «Padre, mi può prestare il caricabatterie. Inoltre, sono rimasta senza soldi. Mia sorella mi ha dato 50mila pesos (11 euro, ndr), ma li ho spesi per l’alloggio e la cena per me e il mio bambino. Questa mattina, quando sono uscita dalla casa dove abbiamo dormito, la signora che gestisce il posto aveva una colazione prenotata per una persona che poi non è arrivata. Quando ha visto che il bambino piangeva perché aveva fame, ce l’ha regalata».
Testa bassa e manette ai polsi
Isabel ripercorre gli anni della sua esistenza. «Quando avevo 8 anni, i miei genitori sono stati uccisi a San Vicente del Caguán. Allora il vescovo Luis Augusto Castro mi ha accolta alla Finca del niño (Fattoria del bambino) con mia sorella e mio fratello, e lì sono rimasta quattro anni».
«Terminate le scuole elementari nella Finca del niño, sono tornata a casa dalla nonna. Avevo soltanto 12 anni, ma su di me, allora non lo sapevo, erano puntati gli occhi della Farc che mi ha preso e mi ha introdotta nelle loro fila, per addestrarmi a combattere».
È un’esistenza difficile quella di Isabel. «Mi hanno fatto abortire molte volte, perché i bambini sono un “peso” e un pericolo per i guerriglieri. Noi viviamo nella foresta, ci nascondiamo, combattiamo. Ed è proprio a causa di questi aborti che ora ho questi seri problemi di salute. Ho avuto però un figlio da un compagno guerrigliero, il quale è morto in uno scontro a fuoco e in quel contesto l’esercito mi ha fatto prigioniera. Le dicevo, padre, che sono stata condannata a 35 anni, ma per buona condotta ne ho scontati soltanto 14».
Mi accorgo che Isabel si sta commuovendo mentre continua a raccontare: «Mi trovo in carcere. Ho la testa bassa e le manette ai polsi. So che si stanno svolgendo i colloqui per trovare un accordo di pace. Il vescovo Luis Castro visita i carcerati. Appena lo vedo lo riconosco. Lo vorrei abbracciare, come feci da bambina quando mi uccisero i genitori, ma non posso farlo perché sono custodita da due guardie e devo rimanere seduta. Allora lo saluto alzando le mani e le muovo come se fossero ali di una farfalla, perché, padre Angelo, facevo questo gesto quando il vescovo veniva a trovare me e tutti gli altri bambini alla Finca del niño. Il vescovo mi guarda, mi riconosce, mi chiama per nome. E io piango».
Durante i lunghi dialoghi per trovare un accordo di pace tra la Farc e lo stato colombiano, mons. Luis Castro è il rappresentante della Conferenza episcopale colombiana. Da quel momento tra Isabel e mons. Castro si ristabilisce il contatto e il vescovo la aiuterà per buona parte della sua lunga detenzione. Isabel è molto riconoscente di quel provvidenziale appoggio.
Dubbi (tra fedeltà e tradimento)
Dopo aver ascoltato il suo drammatico racconto, le offro del denaro per comprare vestiti al bambino, per pagare la camera e il cibo. Si convince anche a chiamare il personero.
Chiamo la segretaria che si mette in contatto con lui. Così, finalmente, tutti e tre ci sediamo attorno al tavolo del suo ufficio.
Il personero, Carlo Mario, dice subito che lui è un tramite. Non può coinvolgersi direttamente vivendo in un territorio ad alto rischio. Può «aprire porte» e offrire contatti e propone autorità a livello nazionale come il procuratore. Tuttavia, Isabel insiste che ci deve essere un intervento immediato dell’esercito.
Carlo Mario allora fa un esempio chiarificatore: «Se tu – spiega – dai un pezzo di carne a un cane affamato, lui lo addenta e se lo divora immediatamente senza tenere in conto chi sta attorno e le eventuali conseguenze. In questo territorio, in questo momento, le forze dell’esercito cercano dei risultati. Se vi è un obiettivo preciso e chiaro, loro arrivano con un potente spiegamento di uomini, senza tener conto di chi si trova nel luogo: civili bambini, donne… Così possono andarci di mezzo le stesse persone che la guerriglia obbliga con la forza di stare dalla loro parte. Oppure può accadere che la stessa guerriglia le elimini per non lasciare testimoni».
Isabel mi chiede dei fogli e incomincia a disegnare la posizione della finca, dove si trovano i ragazzi e le postazioni della guerriglia attorno e nel resto del Putumayo e Caquetá.
Carlo Mario allora si mette in contatto con la base aerea di Tres Esquina e parla direttamente con il colonnello, che non può venire, ma invierà il vice che nel pomeriggio arriverà a Solano. Il luogo dell’incontro con l’intelligence della Forza aerea sarà nel salone della catechesi.
A questo punto Isabel mi prende la mano e me la stringe forte. Sente che, in qualche modo, sta tradendo il movimento guerrigliero dopo tanti anni di fedeltà e mi dice: «Lo faccio per i ragazzi che sono stati strappati alle loro famiglie e arruolati contro la loro volontà, per la durezza del comandante Danilo verso loro e verso me».
«Un giorno mi ha colpito violentemente con il calcio della pistola sul viso facendomi cadere per terra e per questo sono svenuta. Mio figlio di quattro anni si è messo in piedi, davanti al comandante, e con autorità l’ha minacciato e gli ha detto di smettere di picchiare la sua mamma».
Sicuramente il tempo trascorso fuori dalle file della guerriglia, quando era in carcere, i corsi di studio e il contatto con altre persone hanno fatto pensare Isabel.
È forte il desiderio di non collaborare più con il movimento guerrigliero. Non può scappare perché il figlio di sedici anni è sequestrato. L’ha dovuto lasciare nella fattoria come garanzia che sarebbe ritornata.
Le chiedo: perché, dopo il carcere, sei tornata in questo territorio? «La mia famiglia è qui, dove potevo andare? Sono uscita di prigione che non avevo assolutamente niente. Sono venuta da mia sorella che vive come guerrigliera civile in un paesino del fiume Mecaya con un guerrigliero che, ogni tanto, la viene a trovare».
I colloqui, il ritorno, la scomparsa
In attesa dei militari andiamo a pranzo. Nel pomeriggio Isabel mi vuole mostrare quello che ha comprato per il figlio e mi ringrazia.
All’ora stabilita inizia l’incontro con i due militari della base aerea. A un certo punto, uno esce per confermarmi che il dialogo è iniziato, ma Isabel non ha voluto dare il suo numero di telefono. Mi domanda se posso fare da intermediario con il mio cellulare, e naturalmente accetto. La conversazione dura sino alle sei del pomeriggio.
Alla fine, i militari mi dicono che vi sarà un nuovo incontro però ancora non sanno quando.
Il giorno dopo, mercoledì, mi chiamano e mi dicono che ci troveremo quello stesso giorno o il successivo ma che, in ogni caso, devo attendere una conferma.
Nel pomeriggio Isabel viene in parrocchia mentre mi trovo in un incontro. Vado a parlarle. È preoccupata perché ancora non la chiamano, e insiste a chiedermi di vedere il vescovo. Tramite il mio cellulare la metto in contatto con i militari. Nel frattempo parlo con il vescovo, che la incontra poco dopo. Isabel gli chiede una benedizione e gli affida i suoi due figli se dovesse succederle qualcosa.
Ha piena fiducia nella Chiesa perché, nella sua vita, è stata aiutata con mons. Castro. Una storia che sembra ripetersi.
Giovedì mi richiamano i militari perché contatti la muchacha per continuare il dialogo. L’appuntamento è per le nove del mattino. Isabel non mi risponde. Nel frattempo arriva il vice colonnello. Isabel chiama. Arriva dopo qualche minuto. La conversazione si protrae sino alle cinque del pomeriggio. In seguito i militari mi chiamano e mi dicono che si è creata una certa fiducia e, quindi, continueranno il contatto.
Venerdì mattina presto Isabel mi chiama e mi avvisa che cercherà di viaggiare in giornata per rientrare alla finca dove ancora si trova il figlio più grande. È lui la ragione per la quale lei fa ritorno in foresta.
Durante il suo viaggio, Isabel mi invia vari messaggi Whatsapp. Dopo quel giorno, non ho più saputo nulla.
I militari non avevano mai abbandonato il potere. Oggi se lo sono ripreso per intero, sotto lo sguardo accondiscendente della Cina. La leader Aung San Suu Kyi è stata posta agli arresti, ma neppure lei è esente da responsabilità.
Proteste di piazza, vittime, persone incarcerate, coprifuoco. Il colpo di stato avvenuto lo scorso primo febbraio ha fatto precipitare il Myanmar nella paura di un ritorno alla dittatura militare, già sperimentata tra il 1962 e il 2010. Allora le conseguenze furono sanguinose per il popolo e la politica: l’embargo voluto dagli Stati Uniti assieme alla Gran Bretagna, e in seguito da tutte le democrazie occidentali aveva messo in crisi non tanto un’economia già poco sviluppata e concentrata nelle mani di pochi conglomerati controllati in gran parte dai generali, quanto milioni di birmani, in particolare donne, impiegati a centinaia di migliaia nelle industrie tessili e artigianali del paese che furono costrette a chiudere. Per mantenere i loro profitti, ai generali bastò però cambiare partner commerciali, raccogliendosi attorno agli abbracci di Cina e Thailandia. Dal punto di vista politico, ogni opposizione venne cancellata, e i leader più in vista incarcerati o, come nel caso di Aung San Suu Kyi, posti agli arresti domiciliari. Gli ufficiali che oggi guidano il Tatmadaw, l’esercito birmano, non sono gli stessi che per cinque decenni tennero la nazione sottomessa ai loro assurdi voleri: questi hanno viaggiato e studiato all’estero, hanno tessuto rapporti con diplomazie e imprenditori di tutto il mondo, hanno vissuto la rivoluzione sociale che, in quest’ultimo decennio, ha trasformato il paese. Ma, pur essendo più disponibili dei predecessori ai compromessi e al dialogo, non sono immuni da rigurgiti totalitaristici. In Myanmar, così come nella vicina Thailandia, il confine tra dittatura e democrazia è alquanto labile.
Il ruolo del Tatmadaw
Per governare un paese etnicamente frammentato in miriadi di lingue, culture, fedi, economie, società, ci vuole un’istituzione forte e trasversale. Dispiace ammetterlo, ma l’unica organizzazione in grado di rappresentare tutte queste tendenze è proprio il Tatmadaw. Del resto, la stessa Aung San Suu Kyi non ha mai negato la necessità di avvalersi dei militari per governare. Sin dal suo primissimo comizio, tenuto nel 1989, la Lady ha sempre detto chiaramente che una Birmania senza il Tatmadaw (peraltro fondato da suo padre) non avrebbe potuto esistere.
Questo è il nodo più nevralgico e problematico della democrazia birmana: una nazione che, per mantenere la propria unità, deve poggiarsi sulle forze armate sarà sempre caratterizzata da estrema fragilità. Per questo ha bisogno di un leader non solo forte e autorevole, ma anche politicamente capace di gestire i delicatissimi equilibri esistenti tra il parlamento e l’esercito. Il primo più o meno rappresentativo delle forze democratiche, il secondo necessariamente forte per intervenire con determinazione ogni qual volta l’unità del paese venga messa in pericolo.
La signora e il generale
Nel Myanmar del 2021 si sono venuti a confrontare due leader capaci di rappresentare queste identità: Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. La prima è sostenuta dal voto popolare ed è a capo di un partito, la «Lega nazionale per la democrazia» (Lnd), che detiene la maggioranza assoluta nella camera dei rappresentanti (258 seggi su 440). Il secondo è comandante delle forze armate, un generale a cinque stelle, uomo duro che ha speso otto anni della sua carriera nello stato dello Shan entrando in conflitto con il Myanmar national democratic alliance army, la coalizione di eserciti etnici che controllavano il commercio dell’oppio e quello, ormai più redditizio e sicuro, delle metanfetamine.
Due personalità che, seppur differenti per formazione professionale, provenienza famigliare e idee politiche, sono molto simili tra loro in fatto di ambizioni e suscettibilità. Nessuno dei due sopporta l’altro, ma mentre Min Aung Hlaing non aveva bisogno di Aung San Suu Kyi, questa non poteva governare senza Min Aung Hlaing.
I due piatti della bilancia hanno mantenuto una difficile stabilità sino a quando i due leader si sono limitati a regnare entro i loro limiti. Aung San Suu Kyi ha approfittato della momentanea debolezza dei vertici del Tatmadaw monopolizzando la scena politica e accentrando su di sé tutte le cariche più importanti delle istituzioni parlamentari: consigliere di Stato (premier),
ministro degli Esteri, presidente della Lega nazionale per la democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche. Non potendo, per Costituzione, occupare la carica di presidente ha fatto eleggere il proprio avvocato Win Myint per poi occupare il posto di ministro dell’ufficio del presidente e divenire lei stessa presidente de facto della nazione. Un raggiro costituzionale che in qualunque altro paese democratico sarebbe stato oggetto di proteste e accuse di scandalo e disonestà, ma che nel nuovo corso della politica birmana è stato addirittura portato ad esempio in una famosa intervista fatta a Tin Oo, il patron (93enne) e uno dei fondatori della Lega per la democrazia di cui la Signora è presidente. Le dichiarazioni, imprudenti ma significative, di Tin Oo dimostrano quanto misteriosa e ambigua sia la visione di democrazia posseduta dai politici locali.
Le mosse del generale
Sul lato opposto, l’ascesa di Min Aung Hlaing ha posto di fronte alla premier birmana un formidabile avversario che si è rivelato ancora più scaltro di lei nell’aprirsi nuovi spazi. A differenza della sua rivale, il generale ha iniziato a tessere un dialogo con le «nazioni etniche», in particolare con i kachin cristiani e con i rakhine buddhisti, meritandosi l’approvazione dell’inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Nel maggio 2020 Min Aung Hlaing ha riorganizzato i vertici militari rafforzando la presenza di una nuova leva di giovani ufficiali a lui fedeli. Al tempo stesso, ha iniziato a preparare una poltrona di presidenza dell’Union solidarity democratic party (Usdp) per blindare la posizione della sua famiglia in campo imprenditoriale in previsione del suo imminente (a giugno 2021) ritiro in pensione. La protezione dei beni acquisiti durante la carriera è una costante sempre presente nella politica birmana, in particolare tra i militari. Questi hanno sempre approfittato del loro potere per accumulare ricchezze e piazzare nei posti chiave loro famigliari dedicando gli ultimi anni della loro vita professionale a instaurare legami con i loro potenziali successori affinché non cadessero in disgrazia.
Grazie al decennio passato nello stato Shan, Min Aung Hlaing ha potuto costruire un impero economico immenso, ma l’arrivo nel 2016 di Aung San Suu Kyi al potere ha rischiato di mettere in pericolo la sua ricchezza. Ha posposto quindi il suo pensionamento di cinque anni (dal 2016 al 2021) iniziando a muovere le sue pedine. E quando, il prossimo giugno, si ritirerà dalla carica di comandante delle forze armate, cercherà di traslare la sua influenza in campo politico candidandosi a presidente dell’Usdp.
Il putsch militare del 1° febbraio è quindi da vedersi anche in una visione personalistica della politica birmana.
Vittorie ed errori
Aung San Suu Kyi, The Lady, è forse una delle poche personalità oneste del paese e a lei dobbiamo molto: la sua perseveranza nel continuare a denunciare le nefandezze dei militari durante gli anni della dittatura è stata d’esempio per chiunque lottasse per i diritti umani. La Lady ha dimostrato che, con la tenacia, è possibile raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Tuttavia, come spesso accade ai personaggi pubblici, quando Aung San Suu Kyi si è trovata a dover mettere in pratica i proclami e le promesse lanciate mentre era all’opposizione, la sua inadeguatezza e inesperienza sono uscite allo scoperto, smantellando la sua figura idealizzata.
Al netto delle interferenze e dei giochi di potere che si sono realizzati nel parlamento con i militari, Aung San Suu Kyi ha pesantissime responsabilità nella disastrosa gestione dei rapporti con le nazioni etniche e con la classe lavoratrice del paese.
Per favorire gli interessi minerari cinesi, ad esempio, ha costretto migliaia di contadini ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre a Letpadaung affermando che il bene della nazione è superiore a quello individuale. Lo stesso è avvenuto con i Mon e i Kachin.
Sul piano dei rapporti con le varie etnie, la consigliera di stato è stata pesantemente criticata dalle stesse associazioni, organizzazioni e governi che le avevano garantito incondizionato appoggio negli anni della sua prigionia. Più volte ha glissato l’argomento Rohingya, Kachin, Mon rifiutando ostinatamente di condannare le violenze perpetrate ai loro danni. Su questo tema si è consumato l’ultimo atto dello scontro con i militari.
Già nello stato Kachin, il Tatmadaw aveva iniziato, con la mediazione giapponese, una serie di colloqui con la Chiesa battista (i Kachin hanno una forte rappresentanza di cristiani protestanti) e con il Kachin independence organisation nonostante Aung San Suu Kyi avesse cercato di ostacolare il dialogo.
Buddhisti e Musulmani
Nello stato Rakhine, il doppio confronto che vedeva governo e militari uniti contro i Rohingya musulmani a Sud e contro i buddhisti dell’Arakan army a Nord, si è sviluppato in modo completamente divergente. Mentre i Rohingya continuano a essere oggetto di brutalità e persecuzioni da parte della maggioranza buddhista rakhine con la complicità sia del governo che della chiesa buddhista e delle forze armate, nelle zone settentrionali, dove i musulmani sono praticamente assenti, è la guerriglia indipendentista dell’Arakan army a impegnare le forze governative.
Lo stato Rakhine (Arakan è il nome storico della regione, mentre Rakhine è il nome dato dai militari nel 1989 in conformità con l’etnia maggioritaria) è l’unico che, nelle elezioni del 2015, ha visto prevalere con una maggioranza assoluta l’Arakan national party (Anp). Secondo la Costituzione, avrebbe, quindi, dovuto essere questo partito a formare il governo regionale, ma Aung San Suu Kyi, con un colpo di mano anticostituzionale, ha imposto un gabinetto a guida Lnd. Questo ha inasprito la già delicata situazione sociale portando a una recrudescenza delle attività della guerriglia.
Il 14 ottobre 2020, tre settimane prima delle elezioni generali che hanno visto la vittoria dell’Lnd sul piano nazionale, tre membri del partito sono stati rapiti dall’Arakan army. Due giorni dopo la Commissione elettorale ha deciso di annullare le elezioni nel Rakhine. Questa mossa ha generato proteste e nuove manifestazioni che sono rientrate solo dopo che il Tatmadaw, ancora con la mediazione giapponese, ha raggiunto un accordo con l’Anp e l’Arakan army. Secondo i punti dell’accordo, non ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, gli elettori dello stato avrebbero potuto recarsi alle urne entro la fine di gennaio 2021.
La protesta delle tre dita
A seguito del colpo di stato militare, manifestazioni popolari si sono susseguite in tutta la nazione. Anche suore e preti si sono mobilitati scendendo in piazza con manifesti e mostrando le tre dita, un gesto divenuto simbolo di protesta in Thailandia nel novembre 2014 sull’onda dell’emotività suscitata dalla serie cinematografica Hunger Games e adottate, come altre mode provenienti dalla vicina nazione, anche in Myanmar.
Le contestazioni si sono ripetute in tutto il paese, ma se nelle regioni che comprendono la Birmania storica, abitata dall’etnia maggioritaria bamar (la stessa di Aung San Suu Kyi), sono state partecipate e sparse su tutto il territorio, negli stati etnici i cortei sono stati sporadici e limitati nelle grosse città dove si concentrano i Bamar.
Sui media occidentali sono apparse anche foto di rifugiati rohingya con le tre dita alzate accompagnate con didascalie che pretendevano che anche questi musulmani, del cui dramma erano responsabili sia i militari che Aung San Suu Kyi, si fossero schierati accanto alla leader birmana incarcerata. Nulla di più infondato. Quasi nessuno dei siti amministrati da attivisti rohingya ha espresso solidarietà con Aung San Suu Kyi, ma tutti hanno mostrato la loro «solidarietà con il popolo del Myanmar» o con «coloro che lottano per la democrazia». «La dittatura deve finire, ma Aung San Suu Kyi non è la risposta», è il commento che si legge più frequentemente. Non sono inoltre mancate le foto in cui si vede il monaco Sitagu Sayadaw, il più rispettato monaco della sangha buddhista dello stato Rakhine e strenuo sostenitore della lotta contro i musulmani, ricevere doni dal generale Tun Tun Naung assieme ad altri due comandanti regionali dello stato Rakhine all’indomani del colpo di stato.
L’età del futuro
Quale sarà allora il futuro del Myanmar? Se si vuole riprendere la strada della democrazia, alternative ad Aung San Suu Kyi non sembra ve ne siano, con buona pace per le minoranze etniche.
La Lady è l’unica personalità in grado di convogliare le idee assai confuse e frastagliate della Lega nazionale per la democrazia. Allo stesso tempo, però, Aung San Suu Kyi non è quello che si può definire un genio politico: ha inanellato un errore dopo l’altro nella sua gestione governativa (e anche prima, tra cui rifiutare il dialogo con Khin Nyunt quando era agli arresti domiciliari dando così via libera all’ascesa del generale Than Shwe).
Del resto, un governo di soli civili sarebbe impossibile, non solo perché non sarebbe in grado di contrastare la disintegrazione del Myanmar, ma anche perché i militari sono appoggiati da tutti i governi del Sud Est asiatico. I militari birmani, infatti, reprimono quelle istanze centrifughe etniche che minano non solo l’unità del loro paese, ma anche quella della Thailandia (che non concede cittadinanza alle proprie etnie), della Cina (che già deve fronteggiare le richieste di autonomia dei tibetani e degli uiguri) e dell’India (che non ha ancora risolto il problema dell’Assam). Se il governo birmano concedesse ampia autonomia o addirittura indipendenza ad alcune delle proprie nazionalità etniche, si rischierebbe di attivare quell’«effetto domino» profetizzato da Eisenhower e sul quale si scrisse la dottrina di McNamara in Vietnam (se un paese diventa comunista, anche gli altri potrebbero seguirlo).
Quindi, se non c’è alternativa democratica ad Aung San Suu Kyi, l’unica speranza è che, dopo il colpo di stato, la Lady si trovi in condizione tale da cercare appoggio internazionale e rivedere così la sua politica nei confronti delle etnie (non solo Rohingya) e la sua politica di svendita economica del paese. Certo è che l’ex consigliera di stato ha già 75 anni e non è in ottima salute. Occorre quindi trovare quanto prima un suo successore. Al momento però all’orizzonte non si vede nessuno in grado di sostituirla.
Le attività umane stanno determinando la sparizione o la riduzione di molte specie viventi (animali e vegetali). Questa perdita (silenziosa) della biodiversità ha conseguenze molto preoccupanti per la nostra vita e per quella del pianeta.
Il surriscaldamento del pianeta (global warming) è quasi ovunque oggetto di attenzione, nonché di iniziative tese a rallentarne l’aggravamento. Questo perché sono già ben visibili gli effetti in termini di alterazioni del clima, sotto forma di alluvioni, uragani, valanghe che lasciano spesso una scia di morte e devastazione. A questi fenomeni si aggiunge lo scioglimento del ghiaccio ai poli, con l’aumento del livello del mare che, in futuro, rappresenterà un serio problema per molte popolazioni costiere e la scomparsa di molti ghiacciai montani, con la conseguente perdita di grandi quantità di acqua dolce. Si parla invece un po’ meno della perdita della biodiversità, probabilmente perché avviene in modo più silenzioso e questo non ci aiuta a renderci conto di quali gravi conseguenze essa comporti per il genere umano. Sicuramente essa eguaglia e probabilmente supera per importanza e urgenza la crisi dovuta ai cambiamenti climatici. Peraltro, i due fenomeni sono strettamente connessi tra loro.
Antropocene e tassi d’estinzione
L’estinzione delle specie è un fenomeno sempre esistito, ma i tassi attuali sono di gran lunga superiori a quelli naturali. Si stima che, dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, i tassi di estinzione di uccelli e di mammiferi siano da 100 a 1.000 volte superiori rispetto a prima. Il tasso di estinzione globale per tutte le specie animali e vegetali è circa 10mila volte superiore a quello naturale, e il numero di estinzioni è aumentato soprattutto negli ultimi due secoli nei quali le attività umane hanno causato in molti modi la scomparsa o la riduzione di diverse specie. Secondo gli scienziati, siamo di fronte alla sesta estinzione di massa nella storia della Terra, questa volta per cause antropiche e con proporzioni superiori persino a quella che causò la scomparsa dei dinosauri 65 milioni di anni fa.
Il peso delle attività umane sul pianeta è tale che si parla dell’era geologica attuale come di Antropocene, perché l’essere umano non solo si è adattato all’ambiente, come fanno tutte le specie viventi di successo, ma lo ha modificato a suo favore, a scapito spesso delle altre forme di vita.
Per capire cosa stiamo perdendo, è necessario soffermarsi un attimo su cosa sia la biodiversità. Questo concetto comprende ogni manifestazione della vita, a tutti i livelli di organizzazione biologica. Si va dal livello molecolare a quello del patrimonio genetico, dalle specie alle comunità biologiche, quindi la biodiversità è una componente essenziale dell’ambiente naturale nel quale è comparsa e si è evoluta anche la specie umana. Gli esseri umani hanno bisogno della biodiversità per la loro sopravvivenza e ne fanno parte. La biodiversità è l’insieme dei patrimoni genetici e delle conoscenze apprese dalle specie nei loro processi evolutivi che da milioni di anni permettono loro di sopravvivere e adattarsi a condizioni ambientali estremamente variabili.
I benefici della biodiversità
I vantaggi della salvaguardia della biodiversità sono molteplici. In primo luogo essa garantisce la qualità della vita delle future generazioni per il suo valore economico, attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali. C’è poi il suo valore scientifico, che si traduce nella conoscenza e nella conservazione delle specie. Non meno importanti sono i valori estetico, ricreativo, culturale e spirituale. La biodiversità, infine, svolge un’azione regolatrice fondamentale dei cicli biogeochimici della terra, stabilizzando il clima, regolando i deflussi delle acque e rinnovando il suolo. In pratica, la biodiversità è per il pianeta quello che per noi è il sistema immunitario.
Se veniamo aggrediti da agenti patogeni, il nostro sistema immunitario, alla base del quale sta un’enorme variabilità legata al patrimonio genetico, è in grado di scegliere, tra infinite possibilità, il tipo di anticorpo più adatto a neutralizzare il patogeno di turno. La variabilità anticorpale, tra l’altro, risulta inferiore nei legami tra consanguinei, perché il patrimonio genetico dei loro figli è impoverito, cioè presenta meno diversità.
La stessa cosa avviene con la biodiversità. È la differenziazione tra le specie, che assicura ad un ecosistema equilibrio e capacità di rispondere ai parassiti. Le monocolture, ad esempio, sono quasi sempre tendenti ad essere aggredite da parassiti, e possono essere mantenute solo dall’intervento dell’uomo con l’uso di pesticidi, di erbicidi e di fitofarmaci.
In un ecosistema naturale esiste, invece, un equilibrio tra parassiti e predatori naturali, come uccelli, vespe, ragni, mosche e funghi, che con la loro azione antagonista riducono la vulnerabilità delle singole specie. Da questo si capisce che è indispensabile mantenere una grande variabilità genetica a livello di popolazione per conservare le specie e, più in generale, gli ecosistemi.
Una pluralità di cause
Quali sono le cause principali dell’estinzione delle specie e quindi della perdita della biodiversità? Sicuramente una delle principali cause è la sostituzione degli ecosistemi naturali con agroecosistemi o con ecosistemi urbani. Altre cause molto importanti sono il bracconaggio, la pesca intensiva, le pratiche agricole intensive con l’uso di pesticidi, erbicidi e fitofarmaci, l’introduzione di specie esotiche in contesti a loro estranei, con conseguente diffusione di agenti patogeni, la frammentazione degli habitat naturali, l’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’atmosfera. Molto spesso più fattori agiscono simultaneamente nella riduzione della biodiversità.
Talvolta le alterazioni ambientali prodotte localmente hanno conseguenze su scala continentale. Possiamo pensare alla plastica dispersa in acqua nei fiumi e nei mari di tutto il mondo, soprattutto laddove si trovano grandi insediamenti urbani. Essa si frammenta in microplastiche e viene ritrovata nelle acque artiche e antartiche, anche dove non esistono villaggi, oppure alle piogge acide, che inquinano i grandi laghi del Nord America e dell’Europa continentale e settentrionale e che prendono origine dalle emissioni atmosferiche prodotte a migliaia di chilometri di distanza.
A causa dell’acidificazione delle acque, è stato calcolato che sono scomparse più di 200mila popolazioni di pesci e un milione di popolazioni di invertebrati (dove per «popolazione» si intende l’insieme degli organismi di una data specie in un dato luogo).
La deforestazione e l’Amazzonia
Per quanto riguarda la sottrazione di habitat, basta pensare che, secondo il Wwf, negli ultimi trent’anni sono stati deforestati 420 milioni di ettari di terreno, cioè una superficie equivalente a quella dell’Unione europea, la maggior parte dei quali in zone tropicali. Mediamente, ogni anno vanno persi almeno 10 milioni di ettari di foreste, che vengono convertiti in terreni agricoli. Nel solo 2018 sono andati persi 3,6 milioni di foresta pluviale primaria, una superficie grande quanto il Belgio. Le foreste pluviali primarie sono le più vecchie, mai modificate finora dall’attività antropica. Hanno un ruolo fondamentale sia nella preservazione della biodiversità, sia nella limitazione delle emissioni di gas climalteranti.
Le foreste tropicali rappresentano inoltre la più grande farmacia del pianeta. La deforestazione comporta quindi la perdita di specie sia vegetali, che animali, che potrebbero tornare molto utili per le sostanze in esse presenti, soprattutto in campo farmaceutico.
Solo in Amazzonia, che ha un’estensione di 6,7 milioni di chilometri quadrati, tra il 1988 e il 2017 sono stati persi ogni anno mediamente 12mila chilometri quadrati con dei picchi fino a 28mila. La tecnica maggiormente usata in questa regione per deforestare ed espandere le aree destinate a coltivazioni, allevamenti ed estrazioni minerarie è l’utilizzo del fuoco. Nel 2018 sono stati contati circa 73mila roghi.
Se non si interviene urgentemente, il terreno bruciato va incontro a dilavamento, erosione e desertificazione, amplificando i rischi prodotti dai cambiamenti climatici. Si calcola che, se si perdesse tutta l’Amazzonia, andrebbe perso il 10% di tutta la biodiversità mondiale, oltre all’habitat per 34 milioni di persone. Se poi consideriamo che le foreste assorbono globalmente 2,4 miliardi di tonnellate di carbonio all’anno e l’Amazzonia vi contribuisce per un quarto, è evidente che essa rappresenta uno dei pilastri fondamentali dell’equilibrio climatico terrestre.
Biodiversità e fame (il caso del grano)
La perdita di biodiversità significa anche aumento della fame nel mondo, insorgenza di intolleranze alimentari e perdita di molecole utilizzabili a scopo farmaceutico.
La biodiversità può aiutare a contrastare la fame nel mondo, perché la disponibilità di diverse specie utilizzabili a scopo alimentare è senz’altro più sicura dei prodotti delle monocolture e degli allevamenti intensivi, che più facilmente possono soccombere all’aggressione di agenti patogeni o alle avversità climatiche, essendo caratterizzate da una minore variabilità genetica, rispetto alle specie selvatiche.
Recenti studi hanno portato alla conclusione che l’aumento dell’intolleranza al glutine potrebbe derivare dall’uso diffuso, che si fa attualmente, di sole quattro varietà di grano per la panificazione e la produzione di pasta, con il quasi totale abbandono delle antiche varietà. Le varietà di grano usate fino alla metà del secolo scorso erano circa una cinquantina, ma con l’avvento dell’agricoltura meccanizzata e l’introduzione delle monocolture è stata data la preferenza alle specie selezionate successivamente agli anni Settanta, con un’altezza ottimale per l’uso della mietitrebbia e dalla maggiore resa. Questo ha però comportato una disassuefazione del nostro organismo alle diverse varietà di grano e quindi di glutine, con conseguente possibile insorgenza dell’intolleranza. Inoltre, i grani antichi presentano un tipo di glutine con una diversa struttura e più facilmente assimilabile, rispetto a quello delle cultivar moderne.
Formare una coscienza collettiva
Come fare quindi a difendere la biodiversità? Oltre alle azioni intraprese a livello internazionale dai vari governi, o a quelle di organizzazioni come il Wwf o Greenpeace, oltre alla realizzazione di strumenti di difesa della natura come i bioparchi e di conoscenza come gli ecomusei, è indispensabile una continua informazione ed educazione della popolazione, e dei giovani in particolare, attraverso la scuola e i media, per creare una coscienza collettiva capace di rendersi conto delle gravi conseguenze che la distruzione dell’ambiente ha sul genere umano.
Rosanna Novara Topino
I numeri
A rischio estinzione
Secondo un rapporto congiunto del Wwf e della Zoological Society of London del 2016, tra il 1970 e il 2012, le popolazioni di animali selvatici al mondo si sono dimezzate. Secondo la «lista rossa» dello Iunc (Unione internazionale per la conservazione della natura) sono minacciati di estinzione:
●︎ 1.199 specie di mammiferi (il 26% delle specie conosciute);
● 1.957 di anfibi (41%);
● 1.373 di uccelli (13%);
● 993 di insetti (0,5%).
Sicuramente queste stime sono per difetto, perché la nostra conoscenza del numero reale delle specie viventi è alquanto approssimativa.
Basta pensare che, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si sospettava che una percentuale compresa tra l’83 e il 98% di specie fosse ancora da scoprire. Questo significa che, con le nostre attività, portiamo all’estinzione specie di cui non siamo nemmeno a conoscenza, soprattutto per quanto riguarda le specie che vivono ai tropici (si stima che il loro numero sia compreso fra 3 e 30 milioni).
Attualmente in tutto il pianeta sono state descritte 1.371.500 specie animali, ma si pensa che il loro numero possa variare tra 2 e 11 milioni. I funghi conosciuti sono circa 100mila, ma il loro numero dovrebbe essere compreso tra 600mila e 10 milioni di specie. Le piante conosciute sono 307.700, ma il loro numero potrebbe essere di 450mila specie. Dei batteri probabilmente conosciamo solo l’1%. Ciò che sappiamo per certo è che ogni specie vivente rappresenta un tassello indispensabile dell’ecosistema in cui vive e la sua perdita porta senz’altro all’alterazione di un equilibrio tra esseri viventi.
RTN
Le cause della moria
I nemici delle api
La moria delle api è un esempio di forte riduzione di popolazione all’interno di una specie. Essa è dovuta all’azione di varie concause, tra cui sicuramente l’uso di pesticidi, la presenza di agenti patogeni e l’introduzione di specie aliene. Il fenomeno preoccupa fortemente dagli anni 2000, quando si è iniziata a registrare una vera e propria sparizione di intere colonie. Il fatto però è antecedente a quegli anni, poiché in Usa tra il 1947 e il 2005 è andato perso il 59% delle colonie di api, mentre in Europa tra il 1985 e il 2005 il 25%. Ci sono ben 29 agenti patogeni che attaccano le api, il principale dei quali è il Varroa destructor, un acaro parassita dell’Apis mellifera e dell’Apis cerana, ma una grande responsabilità per la moria è dei pesticidi neonicotinoidi. Oltre a questo è stata introdotta in Europa e in Italia in particolare una specie aliena carnivora, che aggredisce le api durante il loro ritorno all’alveare, cibandosene. Si tratta della Vespa velutina, un calabrone di origine asiatica. Oltre alla riduzione delle api, si calcola che solo in Europa il 9,2% delle 1.965 specie di insetti impollinatori stia per estinguersi, mentre un ulteriore 2,5% potrebbe essere minacciato nel prossimo futuro. Considerando che l’80% delle piante esistenti dipende, per la riproduzione, dall’impollinazione per mezzo di insetti, possiamo capire quale sia la portata di questo fenomeno. È celebre, a tal proposito la frase di Einstein: «Se le api scomparissero dalla Terra, per l’uomo non resterebbero che quattro anni di vita».
RTN
L’economia secondo Francesco
testo di Francesco Gesualdi |
Un’economia che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del pianeta e non lo depreda. È l’idea di economia di papa Francesco.
Nel novembre dell’anno scorso si è tenuto ad Assisi un importante simposio internazionale, che aveva per titolo The economy of Francesco, l’economia di Francesco. L’iniziativa è nata da un invito che papa Francesco aveva rivolto il 19 maggio 2019 a giovani economisti, imprenditori e imprenditrici di tutto il mondo: «Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda. Un evento che ci aiuti a stare insieme e conoscerci, e ci conduca a fare un “patto” per cambiare l’attuale economia e dare un’anima all’economia di domani. […] Nella lettera enciclica Laudato si’ ho sottolineato come, oggi più che mai, tutto è intimamente connesso e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. Occorre pertanto correggere i modelli di crescita incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente, l’accoglienza della vita, la cura della famiglia, l’equità sociale, la dignità dei lavoratori, i diritti delle generazioni future. Purtroppo, resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità».
Non bastano le scelte individuali
Gli organizzatori hanno ritenuto che l’invito di Francesco potesse essere soddisfatto affrontando dodici aree tematiche, per l’occasione ribattezzate «villaggi tematici»: lavoro e cura; management e dono; finanza e umanità; agricoltura e giustizia; energia e povertà; profitto e vocazione; policies for happiness; CO2 della disuguaglianza; business e pace; economia è donna; imprese in transizione; vita e stili di vita. Tutte tematiche importantissime, ma forse non le più appropriate per capire quale forma organizzativa deve assumere il sistema economico per raggiungere gli obiettivi auspicati da papa Francesco.
Come cattolici abituati a dare valore alle scelte individuali, abbiamo la tendenza a concentrarci sugli aspetti di microeconomia: la gestione aziendale, il ménage familiare, il risparmio personale e tutti gli altri ambiti che lasciano spazio alle scelte dei singoli. Percorsi senz’altro da esplorare, ma con la consapevolezza che, per vincere le sfide odierne, non bastano le scelte individuali: serve anche una nuova idea di organizzazione economica, senza la quale ci salviamo l’anima, ma non l’umanità.
Fino a ieri il nostro problema principale era la cattiva distribuzione della ricchezza. Un problema gravissimo che stava e continua a stare alla base di molti altri problemi: le disuguaglianze Nord-Sud, le guerre, le migrazioni di massa, le crisi economiche, la disoccupazione, l’aumento di povertà a ogni latitudine. Alle richieste di giustizia, il sistema ha sempre opposto grande resistenza e se, qualche eccezione c’è stata, si è verificata solo in presenza di crescita. In effetti nella seconda metà del secolo scorso, quando l’Europa era attraversata da una crescita sostenuta, in molti paesi si è affermata la socialdemocrazia contrassegnata da bassa disoccupazione, redditi medio-alti e una buona previdenza sociale. Poi, sotto i colpi del neoliberismo, della globalizzazione, della crisi finanziaria e dell’austerità, la crescita si è fermata provocando ovunque aumento di disuguaglianze, disoccupazione, povertà.
La misura del Pil e i limiti del pianeta
Oggi il vero limite alla crescita non viene da dentro il sistema, bensì da fuori. Viene dal pianeta che, dopo due secoli di crescita ossessiva, sta dando segni di cedimento sia sul piano delle risorse che dei rifiuti. Alcuni segnali sono la crisi idrica, l’impoverimento dei mari, l’eccesso di anidride carbonica, i cambiamenti climatici, perfino la pandemia da Covid. Segnali di crisi che diventano ancora più gravi alla luce del fatto che metà dell’umanità non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana: non mangia a sufficienza, non dispone di servizi igienici e talvolta neppure dell’acqua potabile, non ha accesso alla corrente elettrica, non può curarsi, non può mandare i propri figli a scuola. Per vivere meglio, questa parte di umanità deve consumare di più, ma rischia di non poterlo fare finché noi opulenti non accettiamo di sottoporci a cura dimagrante perché c’è competizione per le risorse scarse. Non a caso nella Laudato si’, papa Francesco scrive: «È arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». E nella lettera d’invito ai giovani economisti scrive che «occorre correggere i modelli di crescita».
Mettere in discussione la crescita, significa mettere in discussione il capitalismo perché l’obiettivo di ogni persona che si mette in affari, non importa se in agricoltura, nell’industria, nel commercio o nella finanza, è ottenere un profitto da reinvestire ulteriormente per avere un capitale sempre più ampio. Il desiderio di arricchimento è sempre esistito, ma non era mai successo che fosse elevato a scopo di sistema come invece è successo con il capitalismo. Prova ne sia che il Pil, il famoso Prodotto interno lordo, è stato assunto al tempo stesso come obiettivo e come indicatore dello stato di salute dell’economia e della società. Possiamo dire che il Pil scorre dentro le nostre vene, non solo per il martellamento ideologico che abbiamo subito attraverso ogni possibile mezzo mediatico (pubblicità) e istituzionale (scuola), ma anche perché il sistema è stato abbastanza abile da legare la sopravvivenza di ciascuno di noi alla crescita.
Tra natura e disoccupazione: dubbi e paure
In effetti, prima che alle imprese, la sobrietà fa paura ai sindacati e ai partiti di sinistra per le ricadute sull’occupazione. Sappiamo tutti che il lavoro è legato a doppio filo ai consumi: se questi ultimi crescono, l’occupazione ha qualche possibilità di crescere, altrimenti a crescere sono i licenziamenti.
La storia dimostra che il capitalismo ha messo in atto un vero e proprio piano per trasformarci tutti in persone dipendenti dal lavoro salariato. Prima ci ha spossessato di ogni possibilità di provvedere a noi stessi, poi ci ha detto che l’unico modo per far fronte ai nostri bisogni è rifornirci al supermercato, che però esige denaro per fare passare le merci al di là della cassiera. Così il nostro problema è diventato come procurarci quel denaro che è chiave di accesso ad ogni nostro bisogno e desiderio. Ed ecco il lavoro salariato come unica soluzione che il sistema ci mette a disposizione. Ma il lavoro salariato è legato alle vendite, e più vendite significano più consumo di materia e maggiore produzione di rifiuti. Il che procura non poco imbarazzo in chi ha la doppia sensibilità sociale e ambientale: praticare la sobrietà per non danneggiare la natura o vivere il consumismo per non favorire la disoccupazione? Per cui il vero tema che dovremo affrontare in una prospettiva di sostenibilità è quello del lavoro: come coniugare sobrietà e lavoro per tutti?
La strada per uscire dal dilemma è chiederci se esistono altri modi, oltre il lavoro salariato, per provvedere ai nostri bisogni. Modi non più basati sulla compravendita, e quindi sul denaro, ma sulla gratuità. Se potessimo ottenere ciò che ci serve in forma diversa dall’acquisto, smetteremmo di dipendere dal denaro e quindi dal lavoro salariato. Automaticamente, Pil, produzione e consumi smetterebbero di essere i padroni indiscussi della nostra vita, la sufficienza tornerebbe ad essere la nostra guida per ritrovare l’armonia con noi stessi, con gli altri, con la natura.
Le calamità e il «lavoro d’uso»
La soluzione è il «lavoro d’uso», la forma più ancestrale di lavoro, quello applicato direttamente ai bisogni da soddisfare in ambito personale e familiare: cucinare, lavare, riparare, curare, insegnare. Una soluzione che ci può apparire obsoleta. Eppure, se vogliamo ampliare il soddisfacimento dei nostri bisogni, senza chiedere agli altri di aumentare i propri consumi, dovremmo espandere proprio il lavoro d’uso. Con un’avvertenza: oltre che a livello individuale, il lavoro d’uso può e deve essere organizzato anche a livello collettivo. Lo sperimentiamo ogni volta che siamo colpiti da una calamità. Se il fiume esonda o arriva il terremoto, ci mettiamo subito tutti insieme per affrontare l’emergenza. Ed ora molti sindaci invocano il lavoro d’uso anche in situazione di normalità: quando i soldi si fanno scarsi si scopre quanto sia importante il lavoro delle persone per soddisfare i bisogni collettivi.
Dal micro al macro
Ovviamente il discorso è molto più articolato, ma questi brevi cenni mostrano che, per passare da un’economia della crescita a un’economia del limite, nel rispetto della dignità di tutti e della piena inclusione lavorativa, bisogna sapere operare trasformazioni profonde nell’impostazione economica, fino a ripensare il ruolo del lavoro, il ruolo del mercato, il ruolo del denaro. Soprattutto bisogna concentrarsi sull’economia pubblica per ridefinire la sua funzione e per capire come possiamo farla funzionare in maniera autonoma dal mercato, perché quando le risorse si fanno scarse bisogna riscoprire la programmazione e creare le premesse per garantirci alcune sicurezze di base come il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per tutti, la difesa dei beni comuni, un’occupazione minima per tutti.
Traguardi che solo l’economia pubblica può garantire. Ecco perché è riduttivo, e alla fine poco risolutivo, concentrarsi sulle tematiche micro tralasciando quelle macro. È un po’ come concentrarsi sul dito, mentre papa Francesco ci indica la luna.
Una visione incompleta
Azzardo un paio di ipotesi sul perché gli economisti cattolici hanno scarsa propensione ad occuparsi dell’architettura complessiva del sistema e soprattutto perché tendono a non includere l’economia pubblica fra le scelte strategiche di cambiamento. Una prima motivazione è che non hanno piena consapevolezza dello stato di crisi del pianeta e che il tempo della crescita è finito. La seconda motivazione è che fanno una lettura selettiva della dottrina sociale della Chiesa.
Da Leone XIII in poi, molti papi hanno scritto encicliche sociali che hanno dato ampi riconoscimenti ad aspetti come la proprietà privata, l’iniziativa economica, il mercato. Nel contempo, hanno sempre puntualizzato che serve l’intervento dello stato, affinché tali libertà non entrino mai in rotta di collisione con il godimento dei diritti e la tutela dei beni comuni. Troppi economisti e politici hanno la tendenza a fermarsi alle prime affermazioni dimenticando di integrarle con le precisazioni poste a loro corredo. Una lettura ideologica che ostacola la ricerca di soluzioni capaci di affrontare le nuove sfide che la storia ci lancia.
Ricordi impressi nelle immagini che dipingono paesaggi desertici, scenari lunari, cieli blu cobalto, orizzonti infiniti dai colori saturi e contrastati. Memorie romantiche e nostalgiche.
La Mongolia è un paese sorprendente che ti porta, attraverso una grande varietà di paesaggi sconfinati, dalla terra arida e piatta della steppa al caldo soffocante (o al freddo a -40°) del deserto del Gobi. Le distanze sono incredibilmente grandi, possono passare molte ore di viaggio (in fuoristrada) senza intravedere alcuna presenza umana, quando in lontananza si scorgono finalmente piccole strutture bianche circolari. Sono le yurte, dall’antico nome turco adottato dai Russi, ma i Mongoli le chiamano gher, che significa abitazione.
Nelle parole di suor Esperanza, missionaria della Consolata di origini colombiane, c’è una definizione che descrive perfettamente il rapporto simbiotico tra la gente di qui e l’ambiente. «Il popolo mongolo ha bisogno della purezza dell’aria per respirare e per vivere, dell’ampiezza di un respiro infinito come l’orizzonte del cielo che ti viene incontro e ti sostiene. Quando sembra che stia per finire dietro una montagna, si riapre e riparte verso l’indefinito offrendosi allo sguardo incredulo di chi supera la cima. È come il senso della nostra vita».
I numeri da record fragile ecosistema
La Mongolia detiene molti record. È una nazione tra le prime 20 più estese al mondo, ma con appena 3 milioni di abitanti (dei quali oltre la metà vivono nella capitale Ulaanbaatar e dintorni). Il deserto del Gobi è il quinto deserto più grande e copre un’area di quasi 1,3 milioni di km2, quattro volte l’Italia, mentre la Mongolia stessa si estende per quasi 1,6 milioni di km2. Quello che colpisce di più è però il numero di animali da allevamento: ben 64 milioni di capi tra pecore, capre, mucche, cavalli e cammelli. Ma la Mongolia è molto di più che questi enormi numeri e uno dei deserti più affascinanti del mondo. È un paese di contrasti e di colori.
Il popolo mongolo è costituito da circa 20 gruppi di etnie diverse. I Khalkh sono il gruppo più numeroso e quello più diffuso in tutta l’Asia settentrionale. Gli appartenenti a questa etnia sono considerati i discendenti diretti del clan di Chinggis Khaan (che noi conosciamo come Gengis Khan), e quindi i veri conservatori della cultura mongola. Nel tredicesimo secolo, Chinggis Khaan formò il più grande impero nella storia del mondo. La lingua khalkha è di conseguenza la principale lingua mongola.
Un popolo nomade
La vita del popolo nomade della Mongolia, che costituisce circa un terzo della popolazione totale della nazione, è stata plasmata dal clima per oltre tre millenni. Questi pastori, che vivono nelle vaste steppe del paese, dove pascolano il loro bestiame, fonte principale del loro sostentamento, hanno sviluppato un elevato livello di resilienza che li aiuta a rimanere in equilibrio con la natura.
Il clima secco e la scarsità d’acqua dell’Asia centrale, combinati con il suolo in gran parte inadatto all’agricoltura, hanno portato le popolazioni locali a prendersi cura del proprio ambiente. Conoscono infatti i tempi lunghi che l’ecosistema nel quale vivono impiega per rigenerarsi. Il sostentamento dei nuclei nomadi dipende dal loro bestiame e quando i pascoli si esauriscono, essi sono costretti a spostarsi.
Purtroppo, a causa degli imperativi economici di un mercato globalizzato e dei cambiamenti climatici, che stanno entrambi degradando rapidamente i pascoli della Mongolia, i pastori nomadi non riescono più ad adattarsi.
Oggi, a causa della scarsità di cibo e delle difficili condizioni climatiche e naturali, molti di loro sono costretti a migrare verso i centri urbani e a unirsi ai ranghi dei poveri.
I «Gher District»
Negli ultimi tre decenni, più di 600mila pastori, circa il 20% della popolazione del paese, hanno abbandonato il loro stile di vita nomade e si sono trasferiti nella capitale Ulaanbaatar, che ora sta lottando per fornire servizi di base alla sua popolazione in rapida espansione. Queste famiglie hanno abbandonato i loro animali e, in alternativa alle steppe sconfinate, hanno scelto la relativa sicurezza dei «Gher District», aree alla periferia di Ulaanbaatar costituite dalle tradizionali dimore mongole.
Non c’è stata alcuna pianificazione urbanistica nel modo in cui questi distretti sono stati creati, e gli agglomerati di gher sono cresciuti a dismisura.
Il tenore di vita in queste zone è molto basso. Inoltre, il carbone bruciato durante l’inverno dalle famiglie in questi insediamenti ha trasformato Ulaanbaatar in una delle città più inquinate del mondo.
Le sfide
La Mongolia sta affrontando sfide vitali per preservare il suo stile di vita tradizionale e l’equilibrio naturale. L’alto livello di inquinamento della capitale e l’aggressiva politica mineraria attuata in collaborazione (e dipendenza) con i Cinesi, creano seri problemi all’ambiente.
Tuttavia l’aspetto positivo è che c’è una popolazione di giovani, istruita e ambiziosa con una formazione solida nell’ambito dell’ecoturismo, delle tecnologie, delle scienze ambientali e dello sviluppo sostenibile. Tutto questo sta portando a un cambiamento di atteggiamento. Molte iniziative dal basso stanno prendendo forma con l’obiettivo di risolvere i problemi della dipendenza dal carbone e dello sfruttamento delle risorse naturali, comprese iniziative per salvare la fauna selvatica in via di estinzione.
Dan Romeo
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Questo reportage fotografico in una terra difficile e complessa come la Mongolia è stato possibile grazie ai Missionari della Consolata e all’organizzazione sul campo di mons. (allora ancora «padre») Giorgio Marengo che ci ha accompagnato alla scoperta delle radici, della cultura, delle religioni e delle sfide di questo popolo. Nel prossimo appuntamento andremo alla scoperta del tradizionale Naadam Festival e dei paesaggi selvaggi e surreali che fanno della Mongolia uno dei luoghi più suggestivi al mondo.
Il lavoro minorile
testo di Chiara Giovetti |
Il 2021 è l’anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile, fenomeno che interessa 152 milioni di bambini sul pianeta e di cui le Nazioni Unite auspicano l’eradicazione totale entro il 2025. Ma, ai tassi attuali, l’obiettivo non sarà raggiunto, anche a causa della pandemia che sta minacciando di vanificare i risultati raggiunti finora.
Secondo il più recente rapporto@ dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, o Ilo nell’acronimo inglese), il lavoro minorile interessa 152 milioni di bambini e adolescenti fra i 5 e i 17 anni, uno ogni dieci bambini che vivono sul pianeta. Nella metà dei casi, pari a circa 73 milioni, le vittime svolgono lavori pericolosi che ne mettono a rischio «la salute, la sicurezza e la moralità»: lavorare di notte o troppo a lungo, essere esposti ad abusi fisici, psicologici o sessuali, lavorare sottoterra, sott’acqua, ad altezze pericolose o in spazi ristretti sono alcuni degli elementi che qualificano un lavoro come pericoloso.
Circa metà dei bambini vittime di lavoro minorile ha dai 5 agli 11 anni, oltre un quarto ha dai 12 ai 14 anni e la restante parte ha dai 15 ai 17 anni. I maschi sono 88 milioni, le femmine 64 milioni.
Il quadro normativo internazionale di riferimento su questo tema si fonda sulla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 20 novembre 1989, e su diversi altri documenti internazionali tra cui le due Convenzioni dell’Oil, la 138 del 1973 e 182 del 1999. Queste, fra le altre cose, fissano il limite di età per essere ammessi all’impiego a 15 anni (13 se si tratta di lavori leggeri) e a 18 per i lavori pericolosi, codificano le caratteristiche delle peggiori forme di lavoro minorile e sanciscono l’applicazione del termine «bambino» a ogni persona con meno di 18 anni. Le persone fra i 15 e i 17 anni incluse nelle statistiche Oil sul lavoro minorile, quindi, non lo sono per l’età, ma perché il lavoro che svolgono può essere dannoso per la loro salute e il loro benessere psico-fisico.
La definizione e la tendenza
Il lavoro minorile, che con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile il mondo si è impegnato a eliminare entro il 2025, chiarisce l’Oil, è quello che «priva i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità e che nuoce al loro sviluppo mentale e fisico»; un lavoro «mentalmente, fisicamente, socialmente e moralmente pericoloso e nocivo», che priva i bambini della possibilità di andare a scuola, o li costringe ad abbandonarla prematuramente o a combinare l’impegno scolastico con un lavoro eccessivamente lungo e pesante@. Le cose sono migliorate molto nel periodo fra il 2000 e il 2016, nel corso del quale i minori costretti a lavorare sono passati da 245 milioni agli attuali 152, con una riduzione pari al 38%. Tuttavia, gli anni fra il 2012 e il 2016 hanno visto una diminuzione più lenta rispetto ai quadrienni precedenti. Mantenendo quel ritmo, nel 2025 ci saranno ancora 121 milioni di bambini lavoratori. Per raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile 8.7 – che riguarda appunto l’eliminazione di tutte le forme di lavoro minorile e dà il nome all’alleanza internazionale di enti governativi, agenzie Onu e altre organizzazioni, nata per contrastarlo (Alliance 8.7@) – è necessario un deciso cambio di passo.
I Paesi e i settori del lavoro minorile
Nove bambini su dieci tra quelli costretti a lavorare vivono in Africa (72 milioni) e nella regione dell’Asia Pacifico@ (62 milioni). L’Africa è al primo posto anche per la percentuale di bambini lavoratori, che sono quasi il 20%, cioè uno su cinque, mentre in Asia Pacifico la quota è del 7%.
La restante popolazione colpita è suddivisa tra Americhe (11 milioni in termini assoluti, pari al 5% dei bambini), Europa e Asia centrale (6 milioni, 4%) e stati arabi (1 milione, 3%).
L’Africa, sottolinea il rapporto Oil, ha visto un aumento del lavoro minorile pari all’1% nel quadriennio 2012-2016, in controtendenza rispetto alle altre regioni del mondo – che hanno tutte registrato dei cali – e nonostante le politiche che i governi africani hanno messo in atto per ridurre il fenomeno. I motivi di questo incremento non erano ancora chiari quando il rapporto Oil è stato elaborato; è possibile che il prossimo rapporto, atteso quest’anno, e relativo al quadriennio 2016-2020, includa qualche spiegazione. Intanto, però, è già chiaro che una grossa parte del risultato finale, a livello globale, dipende dalla capacità di invertire la tendenza in Africa.
Quanto ai settori economici, l’agricoltura è quello più interessato con 108 milioni di bambini impiegati, pari al 71% del totale, mentre il 12% dei bambini lavora nell’industria e il 17% nei servizi.
Il lavoro minorile nel settore agricolo riguarda principalmente l’agricoltura di sussistenza e commerciale e l’allevamento del bestiame, ma si estende anche alla pesca, alla silvicoltura e all’acquacoltura. «Il peso relativo dell’agricoltura», si legge ancora nel rapporto, «è aumentato in modo significativo dal 2012, quando il settore rappresentava il 59% di tutto il lavoro minorile: un cambiamento che probabilmente riflette lo spostamento della distribuzione regionale della popolazione lavorativa minorile verso l’Africa, dove predomina il lavoro minorile agricolo».
Lavoro in famiglia e lavoro domestico
Più di due terzi di tutti i bambini coinvolti nel lavoro minorile sono collaboratori nell’attività della propria famiglia, mentre il lavoro retribuito e il lavoro in proprio rappresentano rispettivamente il 27% e il 4%.
Questi numeri, continua il rapporto, sottolineano un aspetto importante: non è necessario un datore di lavoro terzo perché i bambini siano coinvolti nel lavoro e ne subiscano le conseguenze. Quelli impiegati da datori terzi sono l’eccezione, la maggior parte dei bambini è impiegato nelle fattorie e nelle imprese di famiglia. Comprendere e affrontare i motivi per cui le famiglie sono così dipendenti dal lavoro minorile è quindi fondamentale per eliminarlo, indipendentemente dal fatto che il lavoro sia svolto come parte delle catene di fornitura locali, nazionali o globali, o per la sola sussistenza familiare.
Un tema a sé è poi quello del lavoro domestico, cioè quello svolto «per e all’interno della propria famiglia: prendersi cura di fratelli o membri della famiglia malati, infermi, disabili o anziani, pulire e fare piccole riparazioni, preparare e servire i pasti, lavare e stirare i vestiti», e attività simili. Queste attività sono una forma di produzione «non economica» che le Nazioni Unite non includono fra gli indicatori concordati a livello internazionale per misurare l’attività economica nazionale. Secondo le stime del 2016, tuttavia, almeno 800 milioni di bambini sono in qualche misura coinvolti nelle faccende domestiche. Per 47 milioni di bambini l’impegno in casa occupa fra le 21 e le 42 ore settimanali, mentre per 7 milioni di loro supera le 43 ore. In entrambi i casi, è sulle bambine che ricade il maggior peso: due terzi dei bambini che partecipano al lavoro domestico sono femmine.
Le cause
I motivi che costringono bambini e adolescenti a lavorare sono vari, si legge sul sito ufficiale della campagna delle Nazioni Unite@: i bambini lavorano perché la loro sopravvivenza dipende da questo, perché i loro genitori non hanno accesso a un lavoro dignitoso, perché i sistemi nazionali di istruzione e protezione sociale sono deboli e perché gli adulti approfittano della loro vulnerabilità. A volte sono credenze radicate a favorire il fenomeno, ad esempio l’idea che il lavoro aiuti a formare il carattere e sviluppare le proprie abilità, o la convinzione che sia giusto per loro seguire le orme dei genitori e quindi impararne il mestiere molto presto.
Alcune situazioni, inoltre, spingono le famiglie povere a indebitarsi e a ripagare il debito con il lavoro dei propri figli. In alcuni casi il lavoro minorile si aggiunge al lavoro forzato: secondo un rapporto Oil del 2017 sulla schiavitù moderna, su quasi 25 milioni di persone costrette al lavoro forzato, circa 4,3 milioni erano bambini con meno di 18 anni. Fra questi, un milione di bambini era vittima di sfruttamento sessuale, tre milioni di altre forme di sfruttamento lavorativo e trecentomila erano in lavori forzati imposti dalle autorità statali.
Altre forme di lavoro forzato minorile coinvolgono i bambini i cui genitori sono in una condizione di schiavitù. «Un esempio comune», prosegue il rapporto, «è il lavoro minorile nel contesto del lavoro agricolo familiare. I genitori sono schiavi del debito con un proprietario terriero e i figli devono lavorare con loro».
Gli effetti della pandemia
La pandemia da nuovo coronavirus sta rischiando di annullare molti dei progressi fatti nell’ultimo ventennio: «In tempi di crisi», ha detto lo scorso giugno Henrietta Fore, direttore esecutivo dell’Unicef, «il lavoro minorile diventa una strategia di adattamento per molte famiglie. Con l’aumento della povertà, la chiusura delle scuole e la diminuzione della disponibilità dei servizi sociali, sempre più bambini vengono spinti nel mondo del lavoro»@. Secondo le proiezioni dell’Unicef riportate lo scorso settembre dal New York Times@, 24 milioni di bambini abbandoneranno la scuola a causa del Covid-19.
Molti stanno già svolgendo lavori inadatti alla loro età e spesso pericolosi: in Kenya, riporta il quotidiano newyorkese, i bambini di 10 anni stanno lavorando nell’estrazione della sabbia; i loro coetanei in Africa Occidentale tagliano le erbacce nelle piantagioni di cacao. In Indonesia, bambine e bambini di otto anni vengono dipinti d’argento e messi a fare le statue viventi che chiedono la carità.
Fra le storie riportate dal New York Times quella di Rahul, undicenne di Tumakuru, nell’India meridionale, mostra come la pandemia stia minacciando di togliere definitivamente ai bambini la possibilità di sviluppare il loro potenziale e di usarlo per uscire dalla povertà: «Rahul è un bravo studente», dice di lui il suo maestro. «La sua capacità di apprendimento è molto buona e ha notevole proprietà di linguaggio. Ha un quoziente intellettivo alto, dice che vorrebbe diventare un medico e potrebbe farcela». Ma da quando le scuole in India hanno chiuso, lo scorso marzo, Rahul aiuta il padre a rovistare nei mucchi di immondizia in cerca di plastica riciclabile in cambio di qualche centesimo all’ora.
Il lavoro minorile, si legge nell’articolo, «è solo una parte di un imminente disastro globale: la malnutrizione grave sta perseguitando i bambini dall’Afghanistan al Sud Sudan. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, i matrimoni forzati per le ragazze sono in aumento in Africa e in Asia, così come il traffico di bambini. I dati dell’Uganda hanno mostrato che le gravidanze delle adolescenti sono aumentate durante le chiusure scolastiche legate alla pandemia. Gli operatori umanitari in Kenya hanno riportato che molte famiglie mandavano le loro ragazze adolescenti a prostituirsi per sfamare la famiglia».
Molti bambini potrebbero non tornare più a scuola anche dopo le riaperture perché una volta che cominciano a guadagnare è molto difficile per le loro famiglie rinunciare a quella fonte di reddito: «Ho paura che, anche se la scuola riapre, dovrò continuare a fare questo lavoro per via dei debiti della mia famiglia», confessa al New York Times Mumtaz, dodicenne di Gaya, in India orientale. Dalla chiusura delle scuole lavora in un cantiere insieme al fratello Shahnawaz, di dieci anni, trasportando sul capo secchi pieni di ghiaia. «Ho mal di testa», dice Shahnawaz, «la notte non riesco a dormire. Tutto il mio corpo trema».
Chiara Giovetti
I Perdenti 60. Derek Redmond e la tenerezza di un papà
testo di don Mario Bandera |
L’infortunio di Derek Redmond alle Olimpiadi del 1992 non è solo uno straordinario episodio sportivo ma, soprattutto, una toccante testimonianza d’amore. Una dimostrazione del profondo legame che c’è tra un padre e un figlio. Fra il padre di Derek, suo primo «allenatore» e tifoso, e il figlio corridore.
Derek Redmond nasce a Londra il 3 settembre del 1965. Fin dall’adolescenza mostra il suo talento nella corsa e fa sperare che col tempo si farà strada. Crescendo si specializza nella corsa dei 400 metri piani e sorprendentemente, non ancora ventenne, stabilisce il record britannico nella specialità. Prima di partecipare ai giochi olimpici di Seul nel 1988, Redmond vince un argento mondiale e un oro europeo.
Nella capitale coreana, durante le batterie di qualificazione, nel riscaldamento, a meno di due minuti dall’inizio della gara, Redmond sente un dolore lancinante a una gamba, che non gli permette di prendere parte alla corsa.
Sul tabellone, a fine gara, il giovane inglese figura quindi in ultima posizione con la dicitura Dnf «Did not finish» (non ha finito). Derek subisce diversi interventi chirurgici, e riesce a ritornare competitivo, tanto da partecipare di nuovo alle olimpiadi, quelle di Barcellona del 1992 durante le quali, però, avrà un nuovo infortunio. Nel nostro colloquio immaginario ripercorriamo le tappe della carriera sportiva di Derek fino a quel famoso incidente.
Ci racconti, in breve, i tuoi risultati prima dell’Olimpiade del ‘92?
Ho battuto il record britannico dei 400 metri piani nel 1985, quando non avevo ancora vent’anni. Nel 1986 ero parte della squadra che vinse la staffetta 4×400 metri ai Campionati europei e ai Giochi del Commonwealth. Nel 1987 ho riconfermato e migliorato il mio record nei 400 metri piani, lo stesso anno in cui ho vinto la medaglia d’oro nella staffetta 4×400 ai mondiali di Roma.
Quando è iniziata la tua passione?
Ho iniziato a correre quando ero ancora bambino, con mio padre che mi accompagnava nelle diverse piste d’atletica dove erano in programma le più svariate corse podistiche giovanili.
Tutti dicevano che avevo una falcata potente ed elegante, resistenza nella velocità, capacità di dosare lo sforzo e dedizione assoluta negli allenamenti.
Uno così è conteso da tutti gli allenatori giovanili.
E io ho sempre cercato di non deludere chi aveva fiducia in me.
Diciamolo pure, uno che a diciannove anni ha fatto il record britannico del mezzofondo è apparso subito come il volto nuovo per l’Europa che voleva sfidare gli Stati Uniti nei quattrocento metri all’Olimpiade di Seul.
Mi ero preparato con scrupolo e dedizione per quell’evento.
Ero giovane, ma sapevo che certi treni non passano spesso. Mi ero allenato duramente ed ero arrivato in Corea con due ambizioni: la prima era quella di qualificarmi per la finale, la seconda era di tornare a casa con una medaglia. Non importava di che colore, mi bastava salire sul podio.
Ma il 1988 non è stato il tuo anno, visto che durante i giochi non hai potuto partecipare alla finale per un infortunio al tendine di Achille. Come hai reagito di fronte a quella situazione?
Mi sentivo bollato da quel Dnf, «non ha finito la corsa». Dopo quell’infortunio ho dovuto subire in tutto ben tredici interventi. I piedi, le caviglie e le mie gambe stavano insieme come cristalli di Boemia: delicatissimi, ma per me preziosissimi. Il mio sogno era tornare a essere di nuovo competitivo: è stato veramente un cammino lungo e doloroso che mi ha impegnato per diversi anni.
La tenacia e la perseveranza hanno portato il loro frutto: hai vinto, infatti, l’oro nella staffetta 4×400 metri ai mondiali di atletica di Tokyo del ‘91.
L’allenatore della squadra britannica credeva in me e si era preso il rischio di mettermi nella staffetta per i mondiali. Ero in squadra con Roger Black, John Regis e Kriss Akabusi: sulla carta una grande staffetta. Nella pista di Tokyo siamo diventati la staffetta della leggenda che ha trionfato lasciandosi alle spalle il fortissimo quartetto a stelle e strisce.
Così ti sei qualificato agevolmente per l’appuntamento olimpico del 1992 a Barcellona. I bookmakers inglesi ti presentavano come uno dei favoriti.
Finché non ho avuto il mio nuovo infortunio, sembrava che l’Olimpiade questa volta andasse bene. Avevo vinto tutte le gare preliminari ed ero già nelle semifinali della corsa dei 400 metri. Mi avevano dato la corsia numero cinque, quella riservata ai migliori, con un raggio di curva ideale e la possibilità di controllare facilmente gli avversari ai lati.
Subito dopo lo sparo dello starter, sono partito con agilità e ho iniziato la solita progressione. Ma ai centocinquanta metri dall’arrivo ho sentito il muscolo della gamba «stirarsi» e un dolore lancinante. Una gamba ha ceduto di schianto e mi sono accasciato a terra portandomi le mani sul viso. Gli altri atleti già tagliavano il traguardo mentre io ero ancora là, in ginocchio sulla pista, immobile e in lacrime.
Pensavo ai quattro anni passati tra sale operatorie, centri di riabilitazione, palestre e pista per cancellare quel Dnf di Seul.
A questo punto un giudice ti è corso vicino per aiutarti a lasciare la pista, ma tu hai rifiutato il suo aiuto. Ti sei rialzato e, zoppicando vistosamente, hai ripreso la tua corsa saltellando su una gamba sola.
Dentro di me ripetevo insistentemente che non ci sarebbe stato di nuovo un Dnf accanto al mio nome. Dovevo finire la corsa. Mi son tirato su, mi sono messo in piedi e ho cominciato a saltellare sulla gamba sana per raggiungere la meta. Il dolore era molto intenso, ma non sono uno che si arrende facilmente. Volevo finire la gara, fosse anche stata la mia ultima corsa. Nulla per me era peggio del pensiero che non avrei terminato la mia gara.
In quel momento tutti gli spettatori dello stadio avevano occhi solo per te.
Saltellando stremato, sono arrivato al rettilineo finale. In quel momento, un uomo, evitando la sorveglianza, è entrato in pista ed è corso verso di me. Con sorpresa ho visto che era mio padre, quel papà che vent’anni prima mi aveva portato per la prima volta su una pista d’atletica.
Evidentemente non ce la faceva più a vederti in quelle condizioni.
Mi si è avvicinato e mi ha sorretto, aiutandomi a sopportare il dolore: io piangevo come un bambino, ma avevo accanto a me la migliore spalla su cui posare il capo. Così insieme, abbracciati, io e mio padre abbiamo continuato la nostra corsa.
In quel breve percorso cosa ti ha detto tuo papà?
Mi ha ripetuto con voce piena di commozione: «Derek, sono tuo padre, tieni presente che non sei obbligato a finire la corsa».
Gli ho risposto: «Papà, voglio portare a termine questa gara».
E lui, di rimando: «Ok, abbiamo iniziato questa avventura insieme e la finiremo insieme».
Poi mi ha consigliato di camminare e smettere di correre saltellando, ripetendomi in continuazione. «Sei un campione, non hai nulla da dimostrare».
Abbracciati, abbiamo zoppicato insieme verso la linea del traguardo. Sulla pista eravamo ormai solo io e mio padre, l’uomo a cui ero più affezionato, quello che aveva supportato le mie scelte e la mia carriera nell’atletica da quando avevo sette anni.
Sugli spalti erano tutti in piedi a vedere voi due, padre e figlio, che procedevate uniti. Poi, tuo padre ti ha lasciato a cinque metri dal traguardo.
Sì, era la mia gara, e dovevo finirla da solo. Lui era al di là della linea, ad accogliermi con un grande abbraccio.
Non mi sono neppure accorto della «standing ovation» che il pubblico mi dedicava, non capivo più nulla, ero solo in lacrime.
Il video di quella gara è stato scelto dal comitato olimpico internazionale per la campagna Celebrate humanity perché: «Redmond e suo padre, nonostante il dolore e l’umiliazione, non arrivarono primi o secondi o terzi. Ma arrivarono!». A distanza di tanti anni Derek ripete che quella gara gli ha tolto tutto ma gli ha dato di più. E continua a riportare la sua esperienza in giro per il mondo. Perché le medaglie passano, le statistiche si dimenticano, i risultati si confondono: solo le emozioni rimangono.
Don Mario Bandera
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Ricordiamo che i fatti sono veri, ma questa intervista a Derek, che è ancora vivo e vegeto, è una finzione.