Mer, 7 aprile 2021 – Ottava di Pasqua

At 3,1-10; Sal 104; Lc 24,13-35

Gioisca il cuore di chi cerca il Signore


Da Pensieri Luminosi, un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Impegniamoci per ricevere lo spirito di preghiera, attraverso il quale potremo mantenerci in unione con Dio in qualunque luogo. Durante il lavoro, nell’andrivieni di tutti i giorni, eleviamo a Dio il nostro pensiero, moltiplichiamo gli atti d’amore, sussurriamo qualche breve preghiera. Facendo così non ci …distraiamo nel nostro lavoro e nello stesso tempo, preghiamo.




Mar, 6 aprile 2021 – Ottava di Pasqua

At 2,36-41; Sal 32; Gv 20,11-18

Dell’amore del Signore è piena la terra


Da Pensieri Luminosi, un pensiero al giorno del beato Giuseppe Allamano

Sforziamoci a vivere continuamente alla presenza di Dio: vivere, respirare, immergersi in Dio!




Lun, 5 aprile 2021 – Ottava di Pasqua

At 2,14.22-32; Sal 15; Mt 28,8-15

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio

Anche il messaggio della risurrezione – come tutta la vita di Gesù – è passibile di manipolazioni. D’altronde la storia è piena di revisionismi e di plagi veri e propri. Ma la forza dello Spirito ha ormai raggiunto donne e uomini trasfigurati dall’incontro con il Risorto. Inizia la missione della Chiesa, che rende intrepidi gli stessi discepoli che avevano tradito per paura. Sento anch’io ardere nel cuore il desiderio di condividere il Vangelo con gli altri, soprattutto chi non lo conosce?




Dom, 4 aprile 2021 – PASQUA: RISURREZIONE DEL SIGNORE

At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4 opp. 1Cor 5,6-8; Gv 20,1-9

Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo

La gioia che irrompe diventa vita nuova che scorre nelle vene. Lo sperimenta chi in questo giorno riceve il battesimo. Qui in Mongolia diventare cristiano è una scelta scomoda; chi la fa ne è ben consapevole, può portare ad esclusione. Ma negli occhi che brillano davanti al fonte, si ripete il miracolo che manda in crisi tutte le teorie sociologiche: diventare cristiani non risponde a una strategia politica, è essere attirati da quel Gesù crocifisso e risorto che illumina la propria esistenza.




Sab, 3 aprile 2021 – SABATO SANTO




Ven, 2 aprile 2021 – PASSIONE DEL SIGNORE

Is 52,13-53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1-19,42

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito

Per la mentalità magico-ritualistica di certe tradizioni religiose, uno come Gesù è il massimo della sfortuna: morto violentemente, giovane, senza figli. Non sbandieriamo la sofferenza di quei momenti terribili, basta ascoltare la Parola, già molto esplicita. C’è un silenzio speciale, interrotto dal sibilo del vento che immancabilmente si abbatte sulla nostra tenda quel giorno. Anche la natura partecipa al dolore. Siamo al cuore dello scandalo. Immenso dolore, massima solidarietà con tutti.




Un pugno nello stomaco

 

Tempo fa ero rimasto tra lo sconcertato e il divertito quando, facendo il test online «Quanti schiavi hai», avevo scoperto di avere almeno nove schiavi. Ragione: cellulare, macchina fotografica, jeans, computer e cose simili. Per mia fortuna non ho l’automobile, altrimenti di schiavi ne avrei avuti almeno quindici. Ho pensato a quel test nei giorni tra fine febbraio e inizio marzo, quando è esplosa la notizia del massacro del nostro ambasciatore, Luca
Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo nella Repubblica democratica del Congo. Mi sono reso conto che molti dei «miei schiavi» vivono proprio là e, che lo voglia o no, anch’io ho delle responsabilità in quell’uccisione compiuta da soldataglia che, in fondo, è al soldo diretto o indiretto di chi sfrutta quella schiavitù per garantirmi – e garantirci – il livello di vita al quale siamo abituati e che riteniamo essere nostro diritto.

Questa presa di coscienza è stata quasi un pugno nello stomaco. Non è facile da accettare, soprattutto per me che – per scelta e professione – mi ritengo un difensore dei diritti dei poveri, degli oppressi, degli schiavizzati. Su questa rivista da anni scriviamo della situazione del Congo e di realtà simili. L’ultimo pezzo è uscito solo lo scorso dicembre. Mitico è il numero monografico di MC, «Giù le mani dal Congo», del 2004.

Certo non sono io personalmente a sparare, violentare, intimidire, razziare. Non sono io a corrompere i politici con mazzette e privilegi perché chiudano gli occhi su ciò che succede. Non siedo nei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali che si spartiscono le risorse del mondo e trovano più conveniente pagare le milizie che le tasse o investire nelle infrastrutture necessarie a garantire la dignità e sicurezza dei lavoratori e il rispetto dell’ambiente. Non produco, né traffico la montagna di armi che destabilizza quelle regioni. Nonostante questo, non posso dire «non c’entro».

La triste realtà è che alla radice di quella, come di altre situazioni di conflitto, c’è il nostro stile di vita. Un modo di vivere che ci autocentra e che raramente ci offre la possibilità di aprire gli occhi sulla realtà del mondo. Siamo presi da troppe preoccupazioni, alcune futili, come i festival canori o la squadra del cuore, altre più serie come la politica, il Covid, i disastri climatici. Ma sono sempre problemi che vediamo come se toccassero solo noi. Quelli che toccano gli altri è come se non esistessero. E come la soluzione dei nostri piccoli e grandi problemi sia, in realtà, pagata da altri, poco ci interessa. Tutto questo alimenta il consumo e lo spreco come base necessaria per la sopravvivenza del nostro sistema economico. Anche la nostra politica nazionale e internazionale è drogata da eserciti di lobbisti al soldo delle grandi centrali economiche nei luoghi chiave delle istituzioni internazionali.

Ogni tanto, tragedie come quella del massacro dell’ambasciatore e della sua scorta nel Congo, o il coraggioso viaggio di papa Francesco in Iraq, ci obbligano ad aprire gli occhi sul mondo e sul fatto che tutto è interconnesso: la ricchezza di una minoranza si alimenta del sangue e delle lacrime di una maggioranza schiavizzata.

Anche la pandemia del Covid-19 e gli accelerati cambiamenti climatici, sono altri segnali d’allarme importanti. Allarmi che possono diventare un’opportunità: per guardare in faccia la realtà, per farci smettere di cercare capri espiatori o crogiolarci in teorie complottiste, e, infine, perché ciascuno assuma le proprie responsabilità.

È tempo di smettere di essere solo consumatori, fruitori e spettatori, per diventare soggetti responsabili della nostra storia, pronti per una «conversione» del nostro stile di vita, a cominciare dal nostro modo di consumare, di gestire l’ambiente, di partecipare alla vita politica, di mettere in discussione lo strapotere dei super ricchi.

Lo dobbiamo ai milioni di morti del Congo, a quelli di tanti altri paesi del mondo e a noi stessi.




Noi e Voi: dialogo lettori e missionari

Amazzonia

Cari missionari,
ritengo che quanto denunciato dall’inchiesta del Tg2 (cfr. Amazzonia: una nuova emergenza – Tg2 Dossier di sabato 16 gennaio) dovrebbe ispirare le agende politiche di tutti i paesi veramente civili e intenzionati ad affrontare la pandemia come le circostanze richiedono.

In Brasile, distruzione della foresta tropicale e mortalità da coronavirus, sono legati da un rapporto strettissimo: più l’agrobusiness criminale si espande a spese della giungla e delle comunità che da essa dipendono, più il Covid-19 ha modo di diffondersi, di radicarsi di sviluppare nuove varianti, di aumentare il suo potenziale distruttivo.

Come ha ricordato l’impresario Sidney Pollettini, una delle persone intervistate dall’équipe del Tg2, la penetrazione nell’Amazzonia continua grazie anche ai rifornimenti italiani: è dal nostro paese infatti che arrivano le macchine per la lavorazione dei tronchi tagliati: «Sono le migliori al mondo» – assicura Pollettini.

Questo, in un mondo normale, dovrebbe costituire un motivo d’orgoglio. Ma possiamo considerare normali le modalità e la velocità con le quali le foreste amazzoniche vengono sfruttate? Possiamo considerare normale il modo con cui Bolsonaro, i latifondisti, la polizia brasiliana e le squadre paramilitari trattano le minoranze indigene?

Possiamo considerare normale il tributo che il Brasile sta pagando al Covid? ffettuosi saluti

Ivo Scorfanetti
23/01/2021


Padre Giuseppe Radici

A Grumello del Monte (Bg) abbiamo ricordato con una messa il 9° anniversario di padre Giuseppe Radici (1924-2012). Grazie al parroco, don Angelo.

Padre Giuseppe, missionario della Consolata, era un amico di famiglia, concelebrò al funerale di mio padre Ezio e dedicò molto tempo alla causa dell’emigrazione orobica costituendo il Circolo dei bergamaschi di San Paolo del Brasile dove visse per oltre 60 anni.

Ogni volta che rientrava organizzavo diversi incontri ed ovunque veniva accolto con successo. Cordiali saluti,

Dott. Massimo Fabretti
Grumello del Monte, 09/02/2021

Bergamasco (orobico) genuino, padre Radici è stato inviato in Brasile subito dopo la sua ordinazione avvenuta nel 1950. Là è rimasto, servendo con grande generosità e dedizione in São Manuel, Rio do Oeste, Três de Maio e São Paulo. Significativa la sua presenza in mezzo alla comunità italiana, soprattutto di origine bergamasca. La sua avventura missionaria si è conclusa l’8 febbraio 2012.


Piccola bimba

Egregio Piergiorgio Pescali,
mi permetto di inviarle questo pensiero che mi è sgorgato alla vista dell’immagine della bimba inserita nell’articolo a pag. 49 apparso su MC 1-2 gen-feb 2021. Complimenti e auguri a tutti voi.

Volti di etnia kirghiza. Foto Piergiorgio Pescali.

«Mia piccola bimba,
da giorni, guardando la foto che ti hanno scattato,
vedo il genere umano non solo il tuo visino.

Rappresenti la vita che si vive,
il tuo sguardo esprime tutto ciò che sarai e già sei.

Cara bimba, ci osservi tutti.
Ci guardi già. Conosci, incerta, sorpresa,
ci invadi inconsapevolmente, ma già sbigottita.

Siamo noi che dobbiamo amarti.
Tu ci rimproveri, ma aspetti.

Lo esprime la luminosità del tuo sguardo,
diretto e interrogativo,
che mandi a chi ti sta difronte,
e tu ancora non conosci.

Ti voglio bene.
Possa tu essere la bambina mia e di tutti».

B. Repetti
13/02/2021


RD Congo

Egregio Direttore
sul MC 12/2020 ho letto l’ampio servizio sulla RD Congo. Sono rimasto esterrefatto della situazione catastrofica di questa grande nazione: malavita, barbarie, atrocità a tutto campo e di ogni genere, soprattutto sul corpo delle donne, sotto lo sguardo impotente delle autorità e del contingente Onu.

Voi dite che il «mondo» sta a guardare, meglio, si gira dall’altra parte. Ma ci potete dire che cosa ci può fare il cosiddetto «mondo» e quei soldati Onu che rischiano ogni giorno la vita? Cordiali saluti.

Angelo Guzzon
Cernusco Lombardone (Lecco), 28/12/2020

 

L’uccisione di Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e del loro autista Mustapha Milambo, ha finalmente costretto anche i grandi media a mettere in prima pagina la tragedia del Congo che in questi anni è costata milioni di morti.

Cosa può fare la comunità internazionale? Forse, per prima cosa, dovrebbe mettersi d’accordo per regolamentare le imprese multinazionali che ormai gestiscono il pianeta, l’economia, la salute e le risorse come se fossero loro proprietà privata senza rendere conto ad alcuno.

Poi, invece di una costosissima Monusco, investire gli stessi soldi per rafforzare e riqualificare l’esercito regolare del Congo e le istituzioni civili di quel paese.

      1. Porre sanzioni ai paesi limitrofi che guadagnano dalla situazione fuori controllo.
      2. Esigere la tracciabilità delle materie prime che vengono usate per cellulari, computer, batterie e prodotti simili, con garanzia di salari e servizi adeguati (salute, sicurezza, educazione, infrastrutture, ecc.) a chi lavora nella raccolta e produzione delle stesse materie prime, oltre al pagamento delle dovute tasse al governo del paese.
      3. E da parte nostra non cambiare i nostri gadget elettronici ad ogni nuova versione.

Ovviamente questi sono solo degli accenni. Il problema è complesso e, come viene ben espresso anche da papa Francesco nella Laudato si’ e nella Fratelli tutti, si tratta di pensare a un cambiamento radicale del nostro sistema economico e realizzare quella che è chiamata la «transizione ecologica» che richiede un nuovo stile di vita e un nuovo approccio alla gestione del nostro pianeta.

 


Complimenti a Chiara e Marco

Per Chiara Giovetti, autrice di un ottimo articolo sulla cooperazione marca Usa.

Una volta c’era a Panama una Escuela des Americas, dove si addestravano gli ufficiali degli eserciti sudamericani. La parte principale dell’addestramento consisteva nel selezionare i più fedeli per insegnar loro a far comprare dai loro eserciti, a caro prezzo, gli armamenti radiati dagli Usa e tenersi la differenza, assicurandosi così una eterna fedeltà. Ma poi la cosa si è risaputa ed è nata una diffidenza generalizzata verso gli ufficiali che avevano frequentato quella scuola, e si è tornati al sistema tradizionale di ricorrere alla massoneria, che nelle Americhe è molto diffusa e istituzionalizzata.

Per Marco Bello, autore di un bellissimo articolo sul Madagascar, che ho girato in lungo e in largo nel 1977. Eravamo in 12, tra cui parecchi medici che però non si sono accorti che una di noi si era presa la malaria, diffusissima. La cosa che mi ha più colpito è il culto degli antenati e della continuità della famiglia: in molte regioni le ragazze prima di sposarsi devono dimostrare di essere capaci di far figli.

Claudio Bellavita
14/02/2021

 


Andare contro corrente

Marzo, aprile e maggio 2020 e poi anche autunno e inverno: italiani impossibilitati a muoversi liberamente causa lockdown. Tutta la grande scienza e la grande tecnologia umana messa in ginocchio da un piccolissimo, microscopico virus. Ora è un virus a mettere in crisi il mondo intero, in futuro potrebbero essere megacomputer o catastrofi atmosferiche causate dal troppo inquinamento e dal continuo uso di armi. Viviamo un’era nella quale la potenza distruttiva nelle mani dell’uomo potrebbe cancellare qualsiasi segno di vita su questo satellite del sole. Come se non bastasse, la potenza dei supercomputer è tale da mettere sotto controllo e assoggettare un numero di persone superiore a quello di tutti gli abitanti della terra.

È necessario che la ragione e l’amore abbiano il sopravvento sulla follia e l’odio che imperversano nel mondo. Occorre che l’umanità agisca con più coscienza. L’insegnamento di Cristo è la più vera difesa della vita e della dignità umana. […]

Sa andare anche controcorrente, contro le mode sbagliate. Occorre diffondere maggiormente il lieto annuncio del Vangelo e soprattutto viverlo. Scomparirebbero immediatamente le numerose guerre e guerriglie che ancora ci sono. Anziché produrre armi micidiali si produrrebbero aratri nel senso di macchinari per il benessere, non per la morte, la natura sarebbe rispettata, non distrutta dall’inquinamento eccessivo per la troppa sete di denaro.

C’è grande necessità di diffondere e vivere il Vangelo più autentico. Il mondo e l’uomo hanno sete della Verità vera annunciata e vissuta da Cristo non di verità soggettive o di false verità. Cordiali saluti

Enrica Barbiroglio
11/02/2021

Gentile lettrice,
perdoni i tagli alla sua lunga lettera. Ho cercato di mantenere il messaggio centrale.

In questi giorni mi è capitato di leggere un testo che parlava dei rischi connessi all’uso degli algoritmi al servizio solo del profitto e di una scienza centrata su se stessa senza una vera riflessione etica, senza valutare le motivazioni, i vantaggi o le conseguenze del loro uso sulla dignità e libertà dell’uomo, di ogni uomo, specialmente dei più poveri e fragili.

Quando il Vangelo sintetizza tutta la «legge» in un’unica parola: ama il tuo prossimo, offre la chiave che sconvolge davvero ogni logica economica e politica, ogni relazione sociale, ogni relazione tra gli uomini.

È putroppo triste che abbiamo bisogno di un piccolissimo indomabile virus per tornare a pensare e agire da «uomini» fatti a immagine di Dio, l’Amore.

 


Cosa c’entar l’amore con la scienza?

L’amore è un sentimento, un’emozione che nasce dall’inconscio. Recentemente alcuni studi hanno dimostrato che l’attrazione fisica e sessuale è legata a fattori chimici, ma l’amore non è necessariamente legato al corpo e alle sue pulsioni; può essere qualcosa di astratto.

Chi ama il proprio Dio, qualunque esso sia o chiunque egli sia, non lo ha mai visto o non ha mai avuto contatti con lui. Alcune religioni disdegnano qualsiasi principio emozionale, compreso l’amore, perché è equiparato al desiderio che, una volta ottenuto, genera altri desideri in un crescendo di cupidigia senza fine lasciandoci nell’arsura dell’inappagamento. Anche quando sembriamo completamente appagati dall’amore, dovremo comunque fare i conti con un futuro che non lascia scampo alla sua perdita.

Ed è stata proprio la perdita della persona con cui ho condiviso gli anni più coinvolgenti della mia vita che mi ha indotto a colmare il vuoto emotivo creatosi cercando di trovare un’interazione scientifica con l’incomprensione della Morte.

La ricerca nel trovare un canale di comunicazione tra l’arida freddezza della solitudine e la spiegazione logica delle leggi fisiche e chimiche dell’Universo hanno prodotto questa serie di poesie che altro non sono che congetture e speranze, se vogliamo anche velleitarie, in cui affondare il proprio dolore e il proprio vuoto.

Piergiorgio Pescali

Il Mio Dio

Non mi interessa
avere soldi.
Se avessi soldi
vorrei avere potere.

Non mi interessa
avere potere.
Se avessi potere
vorrei avere stelle.

Non mi interessa
avere tutte le stelle.
Se avessi tutte le stelle,
vorrei avere l’Universo.

Non mi interessa
avere l’Universo.
Se avessi l’Universo
vorrei essere Dio.

Non voglio nulla
di tutto questo
perché possiedo già
soldi, stelle, Universo.

Te.

Piergiorgio Pescali, Versi d’amore e di scienza, Bertoni editore,
Corciano (Pg) 2020, 86 pagine, 14 euro.




Etiopia: La breve ferocia

testo di Enrico Casale |


Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.

È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.

Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.

Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.

Potere tigrino

Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.

Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.

In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.

Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).

Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.

Rifugiati etiopici in fuga dalla guerra del Tigray – Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP

La vendetta

Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.

Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.

La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).

Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.

A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.

Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.

La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.

Conflitto breve e feroce

© GCIS / Kopano Tlape

Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.

«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».

Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.

Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.

Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».

Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.

«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».

In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.

Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.

A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.

In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).

Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.

Il Tigray oggi

«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».

La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».

Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».

La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».

Un sopravvissuto del massacro di Mai Kadra, il 9 novembre 2020. / Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP

Quale futuro?

Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.

La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.

L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».

Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.

Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.

Enrico Casale




Burundi: Il nuovo corso di Evariste

testo e foto di Marco Bello |


Il paese vive in un regime repressivo che nega le libertà fondamentali dal 2015. Da giugno scorso ha un nuovo presidente che fa sperare in future aperture. Ma occorre dargli tempo, dicono gli osservatori. E l’Unione europea, che ha imposto sanzioni al paese nel 2015, fa prove di dialogo.

È il 22 febbraio, parlo con il mio amico burundese in esilio, ed ecco che mi comunica la notizia di oggi: «Radio Bonesha Fm potrà di nuovo trasmettere in Burundi!». Lo ha annunciato Nestor Bakumukunzi, presidente del Consiglio nazionale per le comunicazioni (Cnc). È un primo debole segnale di apertura di un regime repressivo. Così come la liberazione dei quattro giornalisti del giornale Iwacu, alla vigilia del Natale scorso, dopo 430 giorni di prigionia. Liberazione arrivata poche settimane dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 4 dicembre 2020, aveva tolto il Burundi dalla sua agenda politica, ovvero dei paesi da monitorare almeno trimestralmente. Il Consiglio aveva adottato una dichiarazione nella quale «[…] prende nota del miglioramento delle condizioni di sicurezza nel paese e delle misure prese per lottare contro l’impunità […]. Il Consiglio sottolinea che molto resta da fare in materia di riconciliazione nazionale, promozione dello stato di diritto e di un sistema giudiziario indipendente ed efficace, la preservazione dello spazio democratico e il rispetto delle libertà fondamentali […]».

La dichiarazione del Consiglio indicava inoltre la «una nuova fase per lo sviluppo» intrapresa dal Burundi, ed esortava la comunità internazionale a continuare a «interagire con il paese».

Ma di quale nuova fase si tratta? Facciamo un passo indietro.

Anno spartiacque

Aprile 2015, il presidente Pierre Nkurunziza, del partito Cndd-Fdd (gli ex guerriglieri hutu durante la guerra civile terminata con gli accordi del 2003), in carica da 10 anni, forza la Costituzione e si ricandida per un terzo mandato (cfr. MC marzo 2016). La società civile, i partiti di opposizione e gran parte della popolazione contestano la candidatura incostituzionale. Il regime reprime le piazze nel sangue. Le vittime sono decine. Il 13 maggio alcuni generali, Godfroid Niyombare e Cyrille Ndairukure in testa, tentano un colpo di stato per rovesciare Nkurunziza, ma vengono scoperti.

La repressione è violentissima e diretta a tutti i settori della società. Inizia una vera e propria caccia all’uomo. Molti intellettuali, giornalisti, leader della società civile e di partiti politici considerati conniventi, vengono arrestati, altri fuggono all’estero. Gli Imbonerakure, i giovani del partito, costituiscono una vera e propria milizia che svolge i lavori di repressione più sporchi.

Nkurunziza va avanti, organizza le elezioni per luglio, impedisce la partecipazione di osservatori stranieri e vince senza difficoltà. La comunità internazionale, che aveva già contestato la candidatura fuori della Costituzione, mette il paese in isolamento. L’Ue attiva sanzioni economiche. Il 2015 diventa un anno spartiacque per il piccolo paese centro africano.

«Dopo il tentato golpe di maggio 2015, la maggior parte dei media indipendenti e i leader della società civile, sono stati obbligati a scappare. A livello dei media abbiamo contato più di cento giornalisti che sono fuggiti nei paesi confinanti o in Europa, e così anche io, che sono partito un po’ tardi. Dopo c’è stato davvero un passo indietro della libertà di espressione, del pluralismo politico», così ci racconta il direttore di un popolare giornale burundese, che chiede l’anonimato.

Nei cinque anni che seguono, il partito al potere occupa tutti gli spazi politici e annulla ogni opposizione dei partiti e della società civile, diventando l’unico attore sia a livello centrale che locale sul territorio. Gli Imbonerakure svolgono un lavoro di controllo capillare nei quartieri delle città. «Chi non è stato arrestato o ucciso, se ha un po’ di soldi, tenta la via dell’esilio. Chi non riesce, resta in patria adottando un profilo basso», ci dice il giornalista, contattato telefonicamente. Molti burundesi passano la frontiera con Rwanda e Tanzania, dove si creano campi profughi, come già negli anni ‘90 durante la guerra civile. Si parla di oltre trecentomila rifugiati. Il regime inoltre isola il paese dal resto del mondo: nell’ottobre 2017 il Burundi esce dalla Corte penale internazionale, nel febbraio 2019 il governo chiude l’ufficio locale dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu.

Evariste Ndayishimiye e la First Lady Angelique Ndayubaha / Photo by TCHANDROU NITANGA / AFP

Cambio al vertice?

Per le elezioni del 2020 Nkurunziza non si ricandida, e il partito al potere Cndd-Fdd sceglie il generale Evariste Ndayishimiye. «Nkurunziza voleva Pascal Nyabendo, presidente dell’Assemblea nazionale, ma questi non aveva fatto la guerra. I generali hanno preferito Ndayishimiye. Lui è di certo il generale meno coinvolto in affari sporchi, in storie di corruzione e in massacri. Benché ai tempi fosse alla presidenza, e quindi al corrente di tutto, era la figura più presentabile», ci racconta una altro giornalista, che ancora vive e lavora a Bujumbura.

Nel maggio 2020, senza difficoltà, le elezioni consacrano vincitore il candidato del Cndd-Fdd. Nadyishimiye dovrebbe prendere la presidenza ad agosto, ma Pierre Nkurunziza muore improvvisamente l’8 giugno. Così l’investitura è anticipata al 18 giugno.

La morte di Nkurunziza resta avvolta nel mistero: c’è chi dice sia stato avvelenato, altri che sia morto per Covid. Probabilmente non si saprà mai.

Il nuovo presidente esordisce con un ammorbidimento. «Nel suo discorso, diceva ai partiti politici di opposizione di non avere più paura di criticare il governo, affinché esso si possa migliorare. Ha chiesto ai membri del suo partito di non considerarli come nemici, ma piuttosto come partner. È un atteggiamento un po’ paternalistico però», ci racconta il giornalista. Il 28 gennaio 2021, il presidente esorta il Consiglio nazionale di comunicazione a «sedersi con i responsabili dei media per trovare soluzioni». Ricordiamo che, all’indomani del tentato golpe, alcune radio come Radio Publique
Africaine
(Rpa), Radio-télévision Renaissance, sono state distrutte e i giornalisti sono dovuti fuggire. Per altri media sono scattate sanzioni, come la sospensione. Anche radio internazionali come Bbc e Voice of America sono state silenziate. Molti giornalisti si sono organizzati in esilio per continuare a informare attraverso piattaforme social, web radio e gruppi Whatsapp o Telegram (cioè tramite la diffusione di servizi audio via programmi di messaggistica).

Il sito del giornale Iwacu, l’unico indipendente rimasto, bloccato da anni, così come il popolare forum dei lettori, dovrebbe essere ripristinato a giorni (al momento in cui scriviamo è ancora inaccessibile dal Burundi).

Un altro aspetto interessante è che il presidente si dice per la «tolleranza zero» contro la corruzione. Anche in questo caso occorrerà vedere se ci sarà un seguito alle parole.

Ci dice il giornalista: «Ho chiesto al leader del principale partito di opposizione, il Cnl (Congresso nazionale per la libertà), Agathon Rwasa, e lui ha risposto: “Vorrei crederlo, ma il discorso sarà applicato?”. Il dubbio c’è. Sì, il nuovo presidente ha la buona volontà di cambiare le cose, fa discorsi di aperture, ma sarà seguito dal suo partito, dalla maggior parte dei membri?».

La squadra di governo

Ci si domanda se il cambio politico espresso dal presidente sia reale. «Sì e no – ci risponde il giornalista in esilio -. Sì nella misura in cui ci sono nuove personalità, delle novità, ma non abbiamo notato un vero cambiamento come la lotta alla corruzione, la riduzione delle violazioni contro i diritti umani. In generale possiamo dire che c’è una certa stabilità, una certa pace politica, ma è così perché ci sono pochissime voci critiche attive in Burundi». E continua: «I leader della società civile sono per la maggior parte in esilio, l’attività dei partiti politici è minima, non c’è ancora il pluralismo, occorre dare tempo al nuovo presidente, vedremo cosa farà».

Qualche dubbio resta soprattutto sulla squadra che lo circonda. «Sono sempre gli stessi, anzi qualcuno è uscito ancora più allo scoperto». Il nostro interlocutore si riferisce ai due falchi del partito, i generali Alain-Guillaume Bunyoni e Gervais Ndirakobuca, nominati premier e ministro dell’Interno e della sicurezza, entrambi sotto sanzioni dirette dell’Unione europea dal 2015 per «atti di violenza, repressione e incitazione alla violenza».

«Il presidente ha delle buone intenzioni ma non avrà la possibilità di realizzare la sua politica, perché è circondato da uomini molto duri. Sono quelli che gli aveva indicato Nkurunziza e lui ha seguito queste direttive perché considera il suo predecessore come il suo grand père (nonno)», ci confida una fonte burundese. Qualcuno dice addirittura che non è il presidente a dirigere il paese, ma il primo ministro. «Ad esempio, non nomina nessuno, sono tutti uomini di Bunyoni».

Un altro aspetto, critico per un cambio di passo, è la base del partito, quella che controlla il territorio. Tutte le autorità locali, province, comuni, fino al livello più capillare di divisione amministrativa, la collina, sono dirette da gente del Cndd-Fdd. «Il paese è totalmente controllato. Se, come giornalista devo andare a fare un servizio nell’interno, devo chiedere il permesso al governatore, che mi segnala al cumune e infine al capo collina», ci dice il giornalista di Bujumbura. La struttura piramidale difficilmente cambierà, e il rischio è che manterrà la sua rigidità.

Le attese della gente

I burundesi, in generale, sono in attesa di vedere se ci sarà un effettivo miglioramento, con un minimo di speranza e una certa preoccupazione.

«Da quando è stato eletto il nuovo presidente, molte persone vivono uno stato di attesa e allerta. Aspettano e cercano di capire cosa sta succedendo. Inoltre, si comincia a parlare di rotture interne al partito. Ci sono stati arresti di personalità del Cndd-Fdd. Una probabile lotta interna per il potere», ci racconta Valeria Alfieri, ricercatrice, esperta della regione dei Grandi Laghi africani.

Un altro fronte contro il regime burundese è quello dell’opposizione armata. Sebbene il governo la neghi, esistono dei gruppi armati burundesi che hanno le basi nella confinante Repubblica democratica del Congo (Rdc) e conducono assalti di disturbo.

«Si tratta di partiti di opposizione che stanno cercando di mettere in piedi dei movimenti armati.
Altri sono legati ai golpisti del 2015. Avvengono reclutamenti nei campi di rifugiati burundesi all’estero. Cominciano a dare fastidio quando riescono a muoversi tra Congo e Rwanda, e se riescono a mettere le mani su risorse minerarie per finanziarsi. Tutto è molto legato a quello che succede in Congo». Continua la ricercatrice. «In Rwanda il presidente Paul Kagame non è interessato all’instabilità, ma chiude un occhio su questi movimenti».

Il 2 febbraio scorso una delegazione dell’Unione europea è stata in visita a Bujumbura dove ha iniziato una serie di incontri con il ministro degli Esteri Albert Shingiro. Le due parti hanno previsto un percorso per giungere all’eliminazione delle sanzioni entro fine novembre.

Le sanzioni, oltre quelle dirette ad alcuni alti funzionari, hanno privato il governo del Burundi di aiuto budgetario di circa 430 milioni di euro in cinque anni. D’altro canto, i rappresentanti dei paesi membri non sono stati più ricevuti nei ministeri burundesi, la repressione dei diritti umani è aumentata, mentre il Burundi ha intensificato gli affari con la Cina e la Russia. Insomma, come dire, dopo cinque anni di separazione, approfittiamo del nuovo presidente più presentabile, per cercare di ricostruire una relazione che conviene a tutti, con buona pace dei diritti umani.

Marco Bello


I giovani burundesi e le sfide del futuro

Un paese benedetto da Dio?

Il piccolo Burundi ha poco spazio per coltivare. I giovani, anche quelli che studiano, non hanno possibilità di trovare un lavoro. Alcuni missionari e Ong tentano di dare loro una speranza per l’avvenire.

Quando si atterra a Bujumbura si sorvola il lago Tanganika situato a 773 m d’altitudine e si vede lontano il monte Heha, di 2.670 m, a 30 km a Nord Est della città. Laggiù, è la zona detta Bujumbura rural, dove il clima è fresco e la nebbia copre spesso le montagne. La città di Bujumbura si estende a perdita d’occhio lungo i grandi assi stradali che la attraversano. In meno di venti anni ha cambiato aspetto. Le automobili hanno invaso le grandi arterie e il traffico è oggi regolato da semafori. Nuovi quartieri si stendono lungo gli ampi viali che escono dalla città e le colline intorno, un tempo coltivate, vedono spuntare case come funghi, mentre i quartieri popolari si addensano e si estendono con una rapidità sconcertante.

Tutte le province del paese conoscono un’evoluzione simile. Le costruzioni in mattoni cotti, cemento e tetti in lamiera sostituiscono poco alla volta quelle in mattoni di terra compattata coperte di tegole. L’accesso all’acqua e all’elettricità è migliorato nei quartieri della città, come sul territorio nazionale. Anche internet e telefono cellulare sono oggi presenti ovunque.

Un anno complesso

Nel 2020 il Burundi ha conosciuto molti cambiamenti. Le elezioni hanno portato al potere un nuovo presidente, sempre del partito dell’aquila, simbolo del Cndd-Fdd, affisso a tutti gli angoli delle strade. Molti governatori di provincia e amministratori comunali sono stati cambiati. La popolazione ha reagito all’annuncio dei risultati senza manifestare né gioia né tristezza.

Il Tanganika ha visto le sue acque alzarsi di oltre due metri e rovinare numerose case del litorale nel marzo dello scorso anno.

Nello stesso mese la pandemia di Covid ha causato la chiusura di frontiere e il blocco dei voli commerciali. Misure tolte e rimpiazzate da periodi di quarantena di sette giorni obbligatori in hotel, con test sistematici dei passeggeri. Ma le frontiere terrestri restano chiuse, a eccezione del traffico delle merci tramite camion. Tutto questo ha avuto ripercussioni economiche sugli scambi transfrontalieri, in particolare sugli assi che collegano il Burundi con  Congo RD e Rwanda.

Le feste di matrimonio e le cerimonie di fidanzamento, o celebrazioni di lutti, continuano a ritmare la settimana della vita sociale del paese. Le chiese sono pure piene. Cattolici e protestanti costituiscono l’85% della popolazione. Ma la povertà crescente e l’aumento della disoccupazione iniziano a creare problemi. Il Fondo monetario internazionale ha appena classificato il Burundi come primo dei paesi più poveri del mondo. In un paese tradizionalmente agricolo, dove il 90% della popolazione attiva è ancora occupata nei campi, ci si chiede quali prospettive ci siano per la gioventù. Come vivono i giovani in un paese in piena esplosione demografica e urbanizzazione accelerata, dove le terre non bastano più a dare lavoro a tutti?

Missione giovani

Padre Kinglesy, missionario nigeriano dei missionari d’Africa, responsabile della pastorale dei giovani a Buyenzi, un quartiere densamente popolato del centro di Bujumbura, ci spiega come accompagna i giovani: «Cercano di cavarsela con pochi mezzi. Qui cristiani e musulmani vivono insieme. Si capiscono. Il quartiere è misto, conta diverse moschee e si parla volentieri lo swahili, la lingua privilegiata dei musulmani. A Buyenzi ci sono molti meccanici di origine congolese venuti all’epoca coloniale. Ci sono anche molti giovani migrati dall’ambiente rurale. Alcuni tentano di fare dei piccoli commerci, o dei lavoretti. Ma vediamo anche sempre più delle ragazze molto giovani cadere nella prostituzione. Vengono a confidarmi che è il loro unico mezzo di sopravvivenza, non hanno altra opzione. Ci sono anche diversi furti che constatiamo essere in aumento in questo quartiere che è vicino al mercato. È a causa della fame. Molti giovani dormono fuori, sotto le verande dei negozi, perché mancano alloggi, ma non sono disperati. E quelli che hanno un piccolo spazio per abitare, quando lo vediamo, ci diciamo che sono coraggiosi.

La nostra missione è la promozione della pace. Spingere i giovani a cercare in se stessi i talenti non sfruttati. Attraverso la danze e i concerti si dà loro uno spazio d’espressione. Organizziamo delle competizioni di danza moderna, e sviluppiamo anche il canto e abbiamo qualche strumento musicale per chi vuole esercitarsi».

Alcuni giovani utilizzano anche le danze e il canto per guadagnare qualcosa, proponendosi di suonare nei matrimoni e nelle feste. Questo può permettere loro di pagarsi gli studi.

«Noi ci occupiamo anche dei bambini di strada. Una Ong ci ha proposto di costruirci un forno per il pane, che permetterà di sviluppare una piccola attività generatrice di reddito per qualcuno di loro. Abbiamo pure creato una piccola biblioteca con una sala di lettura per gli studenti che vengono a cercare un posto calmo e illuminato per studiare».

Avvenire sospeso

Spesso gli universitari alla fine degli studi hanno come unica opzione quella di proporsi a una società di sicurezza o a uno sportello di vendita di carte telefoniche, o come camerieri nei baretti di quartiere. Una giovane laureata non ha trovato altro che lavorare come baby sitter per una famiglia ricca. Un’altra che ha terminato la scuola secondaria è tornata alla campagna per coltivare. Perché, dice, «almeno qui posso trovare un sapone per lavarmi». Ma questo ritorno alla terra non sempre è auspicabile, in quanto constatiamo che in certe province i fratelli coltivano i campi a stagioni alternate, perché la terra è diventata troppo poca.

Il regime attuale ha concentrato molte risorse nella mani del colonnelli del partito. Essi gestiscono o controllano una parte dell’economia e investono nei trasporti, bus o piccole moto a tre ruote, i took-took, che sono diventate i principali trasporti di merce, o ancora in certe imprese, come il primo produttore di concime del paese, la Fomi. Il settore minerario è pure trainante.

I giovani del partito, chiamati Imbonerakure, che significa «quelli che vedono lontano», pattugliano il paese sotto l’occhio benevolo dei militari. Un contributo obbligatorio è dovuto per i giovani, ai quali è chiesto di arruolarsi con la promessa di un successivo ipotetico impiego. Un quadro che sembra molto scuro per l’avvenire dei giovani.

Diversi programmi di appoggio all’inserimento lavorativo fanno sforzi per creare opportunità per i giovani, e favorire lo sviluppo delle filiere, siano esse agricole, di allevamento o per la trasformazione del latte o la produzione del miele. Anche tramite il trasferimento di competenze degli artigiani verso i giovani, stimolando i più dotati a fornire formazione o possibilità di apprendistato.

Sarebbe il caso anche di aiutare gli universitari a inventare dei lavori creativi, a posizionare meglio il paese sui mercati regionali, a innovare utilizzando gli strumenti digitali.

È vero, il Burundi è un paese che ha del potenziale, ma è tempo di uscire dal torpore creando le condizioni per scappare alla corruzione e garantire la sicurezza e l’uguaglianza delle possibilità per tutti.

Jérémie Kabisa*
*Espatriato congolese che vive e lavora a Bujumbura.

Bibliografia

• Valeria Alfieri, Le Burundi sous Ndayishimiye: une page qui se tourne?, Revue Hommes et libertés, marzo 2021.

Archivio MC

• Marco Bello, Scivolando del baratro, MC 03 2016.
• Marco Bello, La verità sono io, MC 06 2013.
• Marco Bello, Radio incontro, MC 05 2011.