Cosa si celebra? Cinque secoli dall’arrivo del Vangelo o dalla conquista coloniale? Il dibattito è aperto. Il popolo filippino ha talmente integrato valori e usanze cristiane da farli diventare parte della propria identità. Ce ne parla un noto storico.
Perché celebrare i 500 anni dall’arrivo della cristianità? Non è una celebrazione del colonialismo? Non si è detto che la fede ci libera?
Abbiamo sempre pensato che, quando gli spagnoli arrivarono, e portarono il cattolicesimo nel paese, 500 anni fa, la gente delle Filippine, senza una propria volontà precisa, fu forzatamente convertita in cattolica. Sebbene san Giovanni Paolo II abbia chiesto scusa e abbia domandato di perdonare il fatto che la chiesa è stata un tempo utilizzata per il colonialismo, questa è solo una parte della storia.
C’è stata, infatti, la Pag-aangkin, ovvero «appropriazione». Come la maggior parte delle influenze straniere arrivate nel nostro paese, abbiamo reso filipino il cattolicesimo, facendolo diventare parte della nostra identità, come i negozi e le case di pietra. Lo abbiamo reso tanto filippino quanto può esserlo.
Abbiamo accettato il cattolicesimo perché esso riflette la fede che la maggior parte dei filippini aveva già, prima del contatto con gli spagnoli nel 1521. Noi vedevamo «anitos» (spiriti degli antenati, ndt) nei santi, vedevamo collane e orecchini nei rosari e croci, vedevamo la nostra morte nel Santo Entierro (processione del Venerdì santo, ndt), e pulivamo la statua con fazzoletti per avere il suo potere di guarigione. Cantavamo il Pasiong Mahal (racconto epico in filippino della passione, morte e resurrezione di Cristo, ndt), come cantiamo i nostri poemi epici.
La fede reale
Davvero l’amore dei filippini per Dio e Gesù è reale. Gli storici sottolineano che la storia evangelica del Dio che sacrifica il suo unico figlio per diffondere luce, che soffre tenebre e morte e risorge nella gloria, è stata anche riletta dai nostri eroi nazionali, come José Rizal e Andrés Bonifacio, nella storia della nostra gente: siamo stati un tempo liberi e prosperi come un’isola [felice], poi abbiamo sofferto disuguaglianze e schiavitù e ora dobbiamo risorgere e riconquistare la nostra libertà (Rizal è forse il maggiore eroe nazionale, la sua esecuzione nel 1896 ne ha fatto un martire della rivoluzione filippina, ndt).
I Katipunteros (membri del Katipunan, società clandestina anti coloniale fondata nel 1892 per liberare il paese dalla Spagna, ndt) tennero un incontro in una grotta nella provincia del Morong, un Venerdì santo, non solo perché era un giorno sacro, ma perché ricordava loro che, proprio come Gesù, essi dovevono essere pronti a sacrificare le proprie vite per salvare il loro popolo dalla schiavitù.
In quell’occasione scrissero con un pezzo di carbone sul muro della grotta: «I figli del popolo sono venuti cercando la libertà. Lunga vita alla libertà!». Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto (eroi e padri della rivoluzione filippina del 1896-99, presidente del Katipunan il primo e alto ufficiale il secondo, ndt) pensavano che per avere una vera «Kalayaan» (libertà) e stare in armonia, fosse necessario avere una buona volontà. Bonifacio ci ricorda che amare Dio è come amare la propria patria natia e i propri compagni.
La narrativa del luce-buio-luce, della tragedia e redenzione, della vita di Gesù Cristo, era la narrativa dei padri e delle madri di questa nazione, usata per immaginare la creazione della nazione stessa. Per sperare in una vita migliore nel futuro.
Ispirazione di vita
In tempi più recenti il fervore religioso ha ispirato anche leader come Hermano Puli e i cattolici del People power revolution (la rivoluzione del 1896-99) per lottare per i propri diritti.
Nelle Filippine, le rivoluzioni sono al di là della politica e sono espresse in molte maniere diverse, tanto che possiamo manifestare la nostra «himagsikan» (ribellione) anche attraverso la nostra fede.
I cinquecento anni passati hanno visto la storia della Chiesa cattolica filippina identificarsi non solo con quella di padre Mamasols e padre Salvis, ma anche con quella di personaggi come il vescovo Domingo de Salazar (primo vescovo di Manila, 1579-94) che lottò contro gli abusi nei confronti degli indigeni perpetrati dai conquistatori spagnoli, o con quella dei padri Pelaez, Gomez, Burgos e Zamora che lottarono per i diritti dei filippini e la loro partecipazione nella direzione della chiesa locale. Nella nostra storia fu un prete cattolico, Gregorio Aglipay, che guidò la prima repubblica costituzionale democratica asiatica (sacerdote, rivoluzionario e nazionalista, partecipò alla guerra di liberazione contro l’occupazione statunitense 1899-1911, ndt). Poi molti religiosi e laici cattolici hanno partecipato alla costruzione della [nostra] storia.
«Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua chiesa», una frase che ogni cattolico recita in ogni messa, significa che i figli e figlie del paese possono avere sbagliato ma la fede dei filippini sostiene la sopravvivenza della cristianità nella nostra nazione. La nostra fede in Dio ci fa sopravvivere a ogni calamità e vicissitudine, e mentre le chiese europee stanno chiudendo una dopo l’altra, i filippini continuano a riempire i luoghi di culto per esprimere la propria fede e gratitudine, qui, e all’estero.
Quindi come non possiamo celebrare 500 anni di cristianità nelle Filippine, quando questa è diventata parte della nostra esperienza nazionale e di quello che noi siamo? Come non possiamo celebrare tale ricorrenza quando questa è la fede della maggioranza dei filippini? Certo è una chiesa umile abbastanza per ammettere di essere sempre bisognosa di purificazione (semper purificanda), e di imparare dalle lezioni dal passato. Ma non dovremmo mai privarci dell’opportunità di celebrare i nostri trionfi.
Rizal disse: «Per predire il destino della nazione, è necessario aprire i libri che parlano del suo passato». Io dico, per celebrare 500 anni della nostra fede in Gesù Cristo dovremmo riflettere sul regalo che questo ci ha dato nell’ispirarci a creare la nostra propria nazione, e mostrare il nostro amore per ogni filippino.
Xiao Chua
Due domande al professor Xiao Chua
Come vive il filippino medio le celebrazioni dei 500 anni?
«Anche se ci dichiariamo un paese cattolico, molta gente pratica la propria fede in Dio senza partecipare alla vita della Chiesa, quindi può anche non essere a conoscenza delle commemorazioni.
Ma per chi è attivo nelle parrocchie, la Conferenza episcopale delle Filippine e anche Radio Veritas, hanno parlato dei 500 anni di evangelizzazione fin dal 2011.
La pandemia ha reso la celebrazione di basso profilo: il giorno preciso del cinquecentenario, la città di Cebu, centro dei festeggiamenti, era in lockdown, e la basilica di Santo Niño ha ammesso un numero limitato di persone durante la santa messa per la rievocazione storica del primo battesimo. A Manila, inoltre, c’è stato solo un rosario virtuale.
La decisione di lasciare che ogni diocesi si organizzasse indipendentemente, ciascuna con un proprio logo e inno, ha rischiato di mostrare una chiesa delle Filippine disunita. I social media, nonostante la pandemia, hanno aiutato, perché la complicata storia della chiesa è stata discussa nei webinar, ad alcuni dei quali sono stato invitato, e ha anche generato interessanti dibattiti tra chi vede questa come la celebrazione del colonialismo e chi invece la celebra come un tributo alla nostra fede».
Come sono state viste queste celebrazioni dal potere in carica, e dal presidente in particolare?
«Sebbene il presidente Duterte avesse esitato a commemorare i 500 anni di cristianità, il governo ha incluso l’anniversario nella triplice commemorazione del Cinquecentenario: Filippine parte della prima circumnavigazione del globo, l’arrivo della cristianità e la vittoria a Mactan di Lapulapu contro Magellano.
Il Comitato nazionale del cinquecentenario (National quincentennial committee, Nqc), incaricato dal presidente di supervisionare gli eventi commemorativi del 1521, si è strettamente coordinato con la gerarchia ecclesiastica, e ha incluso anche aspetti della fede nei resoconti storici, nelle esibizioni e nei materiali prodotti.
Gli storici della chiesa sono stati pure invitati a fare parte del Mojares Panel, che ha preparato il sito della prima messa di Pasqua.
Quindi, nonostante il fatto che la chiesa abbia avuto le sue proprie celebrazioni, non è stata esclusa dallo stato grazie agli sforzi del Nqc e al suo segretariato».
Marco Bello
2/ Dallo sbarco di Magellano al lockdown di Duterte
Il popolo delle 7.641 isole
Paese particolare, galassia di isole, sovrapposizione di culture. Dopo aver subito la colonia e l’occupazione, cerca la sua via. Con lo specifico di aver avuto due presidenti donna, e forse una terza è in arrivo.
Le Filippine sono un paese particolare, composto da 7.641 isole sparpagliate a Sud di Taiwan e a Nord del Borneo e dell’Indonesia. A Est sono lambite dal Mare Cinese meridionale e a Ovest dal Mare delle Filippine. La popolazione, di circa 110 milioni di abitanti, vive prevalentemente su alcune di esse. Esiste tuttavia una grande diaspora, ovvero filippini che vivono, per brevi o lunghi periodi, all’estero, che si stimano essere oltre dieci milioni.
Il paese si può suddividere in tre gruppi di isole: quelle del Nord, regione chiamata Luzon, le isole del centro, Visayas, e le isole del Sud, Mindanao. A Sud Est si trova, inoltre, la lunga isola Palawan.
La storia di questo paese ha visto una lunga colonizzazione spagnola, un’occupazione statunitense e una breve presenza militare giapponese durante la Seconda guerra mondiale. La sfera d’influenza geopolitica è rimasta quella degli Stati Uniti, anche se, in tempi recenti, ci sono state frizioni. Nel frattempo la Cina continua il suo approccio aggressivo in quel tratto di mare.
Cerchiamo di vedere gli aspetti più importanti di questa lunga storia.
Colonia delle colonie
Popolazioni locali (Aeta e Igorot) vivono sulle isole da millenni, quando dal II secolo iniziano le migrazioni di altri popoli dalle attuali Indonesia e Malesia. Anche commercianti cinesi si stabiliscono sulle isole. Nel corso del XV secolo le isole del Sud sono popolate da gente islamica, che si organizza e si costituisce in alcuni sultanati.
È nel 1521 che l’esploratore portoghese Fernando Magellano si imbatte nell’arcipelago, approdando nell’attuale isola centrale di Cebu. Qui stabilisce una base, che chiama San Labaro, e dichiara il territorio annesso al Regno di Spagna. È proprio a Cebu che avvengono i primi battesimi e ha inizio ufficialmente l’evangelizzazione dell’arcipelago. Magellano muore in seguito a uno scontro con un gruppo locale, comandato dal condottiero noto come Lapulapu.
I viaggi dalla Spagna si susseguono, ma le isole interessano anche a olandesi, inglesi e portoghesi i cui avventurieri scorrazzano nella regione. Solo nel 1564 il navigatore Miguel Lopez de Lagazpi, giunto dalle colonie spagnole del Nuovo Mondo (attuale Messico) stabilisce il primo possedimento stabile. Le Filippine per lungo tempo non dipendono dalla madrepatria spagnola, ma dalle sue colonie americane, con capitale Acapulco. Il nome Filippine è dato inizialmente alle isole Leyte e Samar da un altro navigatore, Ruy Lopez de Villalobos, nel 1543, in onore del futuro re Filippo II di Spagna.
Da notare che gli spagnoli non riusciranno mai a sottomettere i musulmani che controllano le isole del Sud, Mindanao e Sulu, e che, con le loro milizie, compiono scorribande nelle altre zone a danno della colonia.
Il dominio spagnolo dura fino alla fine del XIX secolo, quando cresce un movimento indipendentista che lotta per liberare le isole. Sono di questo periodo i maggiori eroi nazionali: José Rizal, Andrés Bonifacio ed Emilio Jacinto. Il primo, poeta, scrittore, rivoluzionario e oculista, viene catturato e ucciso nel 1896, all’età di 35 anni. È il vero ispiratore del movimento nazionalista filippino, e influenza in particolare di Bonifacio e Jacinto, tra i fondatori del Katipunan, il movimento rivoluzionario che porta avanti l’insurrezione.
L’occupazione Usa
L’indipendenza (la prima) è proclamata nel giugno del 1898, e il primo presidente si chiama Emilio Aguinaldo, un altro protagonista della ribellione. Da subito, gli Stati Uniti si interessano all’arcipelago. La Spagna, al termine della guerra ispano-statunitense nelle Americhe (1898), oltre a perdere Cuba, che rientra sotto l’influenza Usa, cede le Filippine, insieme a Porto Rico e Guam (isola del Pacifico, oggi territorio non incorporato degli Usa) in cambio di un indennizzo.
Inizia così l’occupazione statunitense che molto influenzerà la società e la cultura filippina.
Il movimento indipendentista riprende la guerra di liberazione contro il nuovo oppressore, ma questa volta non ha gioco facile. Dopo dodici anni sono circa un milione i filippini morti a causa del conflitto.
Gli Usa si ritirano solo durante la Seconda guerra mondiale, quando il Giappone attacca le isole (1941) e le occupa sconfiggendoli. Famosa è la marcia di 80mila prigionieri nel 1942 sulla penisola di Baatan. Si stima che, per raggiungere a piedi i campi di prigionia, muoiono circa 10mila filippini e 1.200 americani.
L’esercito Usa sbarca nel paese nel 1944 e ne riprende il controllo alla resa definitiva del Giappone il 2 settembre 1945.
L’indipendenza viene poi concessa dagli Usa nel luglio del 1946, ma l’influenza economica e militare della superpotenza, che conserva diverse basi nell’arcipelago, continuerà.
Va ricordato che l’economia è prettamente rurale e la gestione della terra avviene attraverso il grande latifondo. La maggioranza della popolazione, impiegata in agricoltura, è sfruttata con il sistema della mezzadria.
Il periodo Marcos
Ferdinand Marcos, già presidente del Senato, viene eletto capo di stato nel 1965.
Grazie all’appoggio finanziario statunitense, riesce ad avviare nel paese una grande crescita economica. Viene quindi rieletto nel 1969. Intanto, a Mindanao, è attiva una guerriglia indipendentista musulmana, il Fronte di liberazione nazionale dei Moro (Flnm), e in altre zone è presente un altro movimento armato, il Nuovo esercito del popolo, di ispirazione maoista. Marcos sempre appoggiato dai militari Usa, opera una repressione che porterà alla dichiarazione della legge marziale nel 1972, con la quale sospende diritti civili e libertà. Molti oppositori sono costretti all’esilio.
Nel 1973 entra in vigore la nuova Costituzione che permette a Marcos di ricandidarsi e vincere alle elezioni del 1981. Nel nuovo decennio, però, finisce la crescita economica degli anni ‘70.
L’oppositore Benigno Aquino jr., detto Ninoy, di rientro da un lungo esilio, viene assassinato all’aeroporto appena entrato nel paese. La vicenda colpisce la popolazione e inizia il declino del dittatore. Anche gli alleati di sempre lo abbandonano, e gli Stati Uniti spingono Marcos a elezioni anticipate nel 1986. Contro di lui Corazón Aquino, la vedova di Benigno. Marcos sostiene di aver vinto, ma la Aquino, forte dei dati degli osservatori internazionali, contesta i risultati ufficiali. Marcos si vede costretto a lasciare e opta per un esilio negli Stati Uniti.
La presidenza Aquino
Corazon «Cory» Aquino ha il merito di far modificare la Costituzione (1987), riducendo i poteri del presidente, e di cercare una mediazione con gli indipendentisti, dando più autonomia alle isole del Sud e a quelle del Nord. Tenta pure di avviare una riforma agraria. Durante il suo mandato, nel 1991, i militari statunitensi lasciano definitivamente l’arcipelago, dopo quasi un secolo di presenza.
Le succede, nel 1992, il segretario alla difesa, Fidél Ramos, che continua la via per la pacificazione con i gruppi ribelli. Nel 1996 firma un accordo di pace con il Fronte di liberazione nazionale dei Moro. Il leader del Flnm diventa governatore della regione autonoma del Mindanao.
Intanto, la crisi economica che ha coinvolto l’Asia non risparmia le Filippine.
Nel 1998 viene eletto il cantante Joseph Estrada alla presidenza, ma ben presto è coinvolto in importanti casi di corruzione e perde il consenso popolare. La gente scende in piazza contro di lui, e il parlamento inizia un processo di destituzione. Estrada sarebbe titolare di milioni di dollari in conti bancari protetti. Lo stesso presidente si dimette nel gennaio 2001 e viene sostituito con la sua vice, Gloria Macapagal Arroyo.
Gloria Arroyo, figlia d’arte
Gloria Arroyo è figlia del nono presidente delle Filippine, Diosdato Macapagal, predecessore di Marcos. Sotto la sua presidenza, l’economia cresce e l’inflazione diminuisce.
Nel 2004 viene rieletta, ma anche accusata di brogli elettorali. Nonostante questo, la Arroyo resta in carica fino alle elezioni del 2010. La sua figura è controversa. Grande alleata degli Stati Uniti, riesce a fare crescere l’economia anche durante il secondo mandato presidenziale, ma la povertà delle classi basse del paese, al contrario, aumenta.
Nel 2006 elude un tentativo di colpo di stato da parte dell’esercito e proclama la legge marziale. Durante i suoi due mandati continua la lotta, mai estinta, contro i fronti ribelli interni, il Flnm e i comunisti del Nuovo esercito popolare.
Le organizzazioni per i diritti umani rilevano un incremento di omicidi politici di oppositori e di giornalisti durante i due mandati della Arroyo.
Nel 2010 le succede Benigno Aquino III, figlio di Corazón Aquino e Ninoy. Aquino, pur essendo oppositore di Arroyo, si appoggia sulle sue riforme e porta il paese in costante crescita economica. Nonostante questo, è criticato per la cerchia dei suoi collaboratori, accusato di conduzione clientelistica, e per la cattiva gestione di momenti di crisi, come calamità naturali (nel 2013 il tifone Yolanda causa la morte di 8mila persone) o la recrudescenza della guerriglia islamista.
Il candidato del suo partito per le elezioni del 2016 perde contro Rodrigo Duterte.
Duterte, il duro
Rodrigo Duterte, già sindaco di Davao, è il primo presidente delle Filippine originario del Midanao (il Sud). Impone subito una politica di «tolleranza zero» su alcune tematiche, come il traffico e consumo di droga (cfr. MC marzo 2019), utilizzando metodi repressivi al limite della legalità.
Anche nella gestione delle pandemia da Covid-19 Duterte si rivela particolarmente duro. Nel marzo scorso ordina alla polizia di arrestare chiunque non indossi in modo opportuno la mascherina (ad esempio sotto il naso). Altre punizioni sono già state decise e apllicate, per violazioni come quella del coprifuoco.
Il primo lockdown scatta nel marzo 2020 nell’isola centrale Luzon (dove si trova Manila) per 53,3 milioni di persone. Altre chiusure si susseguono nelle diverse isole, mutuate dai governi locali. Il «Time magazine» riporta che, in alcuni casi, i poliziotti possono arrestare, picchiare o anche sparare su chi si trovasse in strada senza permesso.
Nel 2022 gli abitanti delle 7.641 isole si recheranno alle urne. Rodrigo Duterte sta cercando di convincere sua figlia Sara, che gli è già succeduta come sindaco di Davao, a candidarsi. La Costituzione limita, infatti, la presidenza a un solo mandato di sei anni. Sara, trainata dalla popolarità del padre, sta vincendo tutti i sondaggi elettorali, ma non ha ancora deciso.
La migrazione femminile dal Venezuela alla Colombia
Uno zaino di sofferenza
Oggi si stima che la maggioranza dei migranti venezuelani in Colombia sia costituita da donne («migrazione femminizzata»). Per loro, conosciute come simbolo di bellezza, ci sono pericoli e insidie aggiuntive. Inclusa la morte violenta.
Bogotà. «Venezuela duele», il Venezuela fa male. Utilizzando un’espressione che l’indimenticato Eduardo Galeano aveva coniato con riferimento a Cuba («Cuba duele»), si riesce a rendere l’idea del dramma che sta vivendo il paese sudamericano, la sua gente e tutte e tutti coloro che a quella terra tengono particolarmente. Secondo l’Onu, sono più di 5,6 milioni le persone che hanno abbandonato la patria del Libertador Simón Bolívar, un paese in preda a una crisi umanitaria complessa della quale non si vede all’orizzonte una pronta risoluzione. Milioni di venezuelani hanno dato forma a un vero e proprio esodo, il più grande che la regione latinoamericana abbia sperimentato negli ultimi anni. Almeno due milioni di migranti si trovano nella vicina Colombia, un milione in Perù, e altre centinaia di migliaia sparsi tra Ecuador, Cile, Argentina, Brasile, Repubblica Dominicana, Panama, Costa Rica, Messico e anche fuori dalla regione, soprattutto negli Usa, in Spagna e, con una nutrita comunità, anche in Italia.
Il migrante venezuelano
Il trattamento ricevuto dai migranti venezuelani non è omogeneo e risponde a una serie di variabili e considerazioni che vanno dal loro status politico, sociale ed economico, all’età, al genere, al momento storico della migrazione, al titolo di studio o professionale che possiedono e al paese nel quale sono emigrati. Gli ultimi, coloro che appartengono a quella che gli esperti definiscono la terza ondata migratoria (iniziata nel 2015 ed esplosa nel 2018), sono i più vulnerabili. Hanno lasciato il paese solo con quello che sono riusciti a caricarsi sulle spalle iniziando a camminare, letteralmente a camminare. A piedi hanno attraversato ponti, fiumi, selva e montagne. Con la determinazione della ricerca di un futuro migliore per loro e per i loro figli, hanno fatto quello che nessun venezuelano avrebbe mai pensato di poter fare: lasciare la propria casa. Quella venezuelana non è infatti una comunità nella quale la migrazione faccia parte di un processo sociale e storico. Al contrario, il paese sudamericano è stato, fin dal 1800, una terra che ha accolto chiunque scappasse da fame, guerra e miseria. Per questo il Venezuela è, ad oggi, uno dei grandi esempi mondiali di meticciato etnico e culturale. Ora, però, le cose sono cambiate e da paese di accoglienza, il Venezuela si è trasformato nel più grande generatore mondiale di migranti, superato solo dalla Siria.
Donna venezuelana, immagine e mito
In questo immenso e costante flusso migratorio le donne rappresentano quasi il 50% del totale, a volte arrivando anche a superare, come nel 2019 per il caso colombiano, questa percentuale. In questo senso, se pur è necessario riconoscere che la situazione migratoria rappresenta di per sé una sfida, è innegabile che per le donne sia il processo migratorio sia l’inserimento sociale nel paese di destinazione presentino delle insidie e dei pericoli aggiuntivi.
L’immagine della donna venezuelana nella regione latinoamericana (e non solo) è ipersessualizzata e, per decenni, è stata venduta come lo standard di bellezza da eguagliare. Se a questo aggiungiamo la situazione di estrema vulnerabilità e necessità con la quale la maggior parte di loro lascia il Venezuela e l’onnipresente machismo che permea le società latinoamericane, diventa purtroppo facile intuire a quali pericoli siano più esposte. Nello stesso Venezuela il traffico di esseri umani al fine dello sfruttamento sessuale è esploso negli ultimi anni, soprattutto verso Trinidad e Tobago, lo stato caraibico che si trova a soli undici chilometri dal porto venezuelano di Güiria (stato Sucre). La situazione è però particolarmente grave in Colombia, paese sul quale si concentra questo dossier. Già nel 2019, attraverso l’innovativo progetto di ricerca «Mappa interattiva dei casi di donne migranti e rifugiate venezuelane morte e scomparse all’estero», promosso dall’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’Università Carlos III di Madrid, la Colombia emergeva come il paese più pericoloso per le donne venezuelane. A seguito di quel progetto, la pubblicazione «Violencia contra mujeres migrantes venezolanas en Colombia, 2017-2019: Estado de la cuestión, georreferenciación y análisis del fenómeno» (luglio 2020) approfondisce e chiarisce i dettagli della particolare situazione di emergenza vissuta in Colombia dalle donne venezuelane migranti. Nel triennio oggetto di studio (2017-2019), i dati parlano di una «migrazione femminizzata», giacché a dicembre 2019, il 52% dei migranti nel paese erano donne. In termini geografici, la più alta concentrazione di migranti venezuelani in Colombia alla fine del 2019 si trovava nel distretto della capitale Bogotá: 352.431 persone, cioè il 19,9% delle 1.771.237 registrate nel paese dall’ente nazionale Migración Colombia. Analizzando i casi di morte scopriamo che, dal 2017 al 2019, nel paese si sono registrati 349 decessi di donne venezuelane: più di un terzo assassinate. In quel triennio si è registrato un femminicidio di una donna venezuelana in Colombia ogni 11,5 giorni e, se teniamo conto della cifra totale di decessi (morti violente dovute a incidenti, suicidi e morti naturali) osserviamo che, nei tre anni analizzati, in Colombia è morta una donna venezuelana ogni 3 giorni. I casi di morte però non seguono specularmente la concentrazione geografica della migrazione. Infatti, nonostante fosse il distretto della capitale Bogotà il luogo con la più alta concentrazione di migrazione venezuelana in Colombia, in relazione alle morti violente, osserviamo che i dipartimenti di confine di Nord di Santander e La Guajira rappresentano il 46,21% del totale, rispettivamente 38 e 23 casi. Il dato aumenta ancora di più se si considerano solo gli omicidi: in questo caso, i dipartimenti già menzionati, sommano il 52,17% del totale degli omicidi di donne migranti venezuelane nel triennio 2017-2019 in tutto il paese. Questi due dipartimenti corrispondono ai punti di origine delle rotte migratorie del Nord (frontiera di Maicao) e del Sud (frontiera di Cúcuta) della Colombia: rotte che, ad oggi, continuano a essere percorse e continuano a essere estremamente pericolose.
Violenze, femminicidi e «sesso di sopravvivenza»
Le cifre relative alle donne migranti venezuelane morte in Colombia, analizzate nella pubblicazione del 2020, provengono da rapporti ufficiali dell’Istituto nazionale di medicina legale e scienze forensi della Colombia, dalla Direzione delle indagini criminali e Interpol – Polizia nazionale della Colombia (Dijin) e da rapporti di organizzazioni non governative e agenzie dell’Onu. Proprio partendo da un’analisi dei dati raccolti dalla Dijin, si può costruire un profilo tipico della donna venezuelana vittima di femminicidio in Colombia nel triennio 2017-2019: si tratta di una donna di circa 27 anni, con almeno studi elementari, non legata a gruppi illegali, non sposata e con una situazione lavorativa precaria.
Come visto, la situazione delle donne venezuelane migranti a fine 2019 presentava già un grado di estrema emergenza e, con l’arrivo del Covid-19 nel primo trimestre 2020, la loro condizione ha subito un notevole peggioramento. L’impossibilità di raccogliere i dati per le stringenti misure di confinamento, l’invisibilizzazione dei casi e l’impunità dei carnefici, hanno reso le donne ancora più vulnerabili.
Si è diffuso massivamente quello che è conosciuto come «sesso di sopravvivenza» e che consiste nel baratto del proprio corpo in cambio di beni di prima necessità: trasporto, alloggio, alimenti o medicinali vengono «pagati» con sesso. In altre parole, questo diventa moneta di scambio in una pratica di violenza estrema che mira a togliere qualsiasi tipo di dignità all’altro, approfittando di un privilegio circostanziale. Troppo spesso le donne venezuelane non hanno scelta: con figli a carico (insieme a loro in Colombia o in attesa delle rimesse in Venezuela), subiscono questa brutale aggressione strutturale, sacrificando i loro corpi sull’altare del bene maggiore: il sostentamento dei loro figli e delle loro famiglie.
Lungo le rotte migratorie (le descriveremo più avanti), non è strano incrociare migranti venezuelani che provano a fare ritorno in patria (chiamati retornados) dopo un’esperienza fallimentare in un altro paese. Tra di loro molte donne che, oltre al faticoso e lungo processo migratorio, portano addosso il vissuto di esperienze traumatiche e umilianti, di sofferenza e di vergogna che non potranno mai condividere con i loro cari.
La mossa della Colombia
Il 2021 si è aperto però con una luce di speranza. Nonostante la recrudescenza della pandemia e dell’emergenza migratoria, qualcosa in Colombia si è mosso. Lo scorso 8 febbraio, il presidente del paese Iván Duque ha presentato una bozza di decreto che mette in moto lo «Statuto temporaneo di protezione per i migranti venezuelani» (Etpv, nella sua sigla in spagnolo). Questa misura copre legalmente quasi un milione di venezuelani che si trovano in Colombia in condizione di irregolarità migratoria e che sono entrati nel paese prima del 31 gennaio 2021. L’Etpv consiste in un meccanismo di protezione legale temporanea rivolto alla popolazione migrante venezuelana che integra il regime internazionale di protezione dei rifugiati con l’obiettivo di registrazione della popolazione migrante venezuelana nel paese e concede un beneficio temporaneo di regolarizzazione a chi possiede i requisiti stabiliti. L’Etpv sarà valido per 10 anni con possibilità di proroga o risoluzione anticipata a seconda del contesto futuro.
Un primo passo dunque verso la legalizzazione della permanenza delle persone venezuelane migranti in Colombia, condizione però che non risolve tutte le altre vulnerabilità intersezionali che pesano come macigni specialmente sui corpi delle donne.
Diego Battistessa
La migrazione: la via di Cúcuta
Al di là del ponte Simón Bolívar
Passare in Colombia costa soldi e rischi e non risolve i problemi. In aiuto dei migranti è scesa in campo anche la diocesi di Cúcuta.
San José de Cúcuta, attuale capitale del dipartimento colombiano del Nord di Santander, è stata ed è una citta nevralgica del Sud America. Il nome stesso di questa città rispecchia l’incontro-scontro di due mondi, essendo composto da San José (in onore alla figura biblica di Giuseppe, padre putativo di Gesù) e Cúcuta, nome del cacique del popolo indigeno Barí che dominava quelle terre prima dell’arrivo dei conquistadores spagnoli. Un luogo di lotta e insorgenza, una città nella quale, oltre alle numerose placche commemorative del passaggio del Libertador Simón Bolívar, sono presenti due statue in ricordo di donne che ne hanno segnato le vicende e la storia: una è dedicata a Doña Juana Rangel de Cuellar, che nel 1733 donò 782 ettari di terreno al sindaco della città di Pamplona per promuovere la fondazione di Cúcuta; l’altra, all’interno del parco che porta il suo nome, è dedicata all’indipendentista Mercedes Abrego.
Una placca commemorativa racconta la sua storia: «Doña Mercedes Abrego de Reyes. Dama cucutegna, sarta che cucì e omaggiò al Libertador la sua elegante uniforme di Brigadiere con motivo del trionfo di Bolívar su Ramón Correa, nei pressi di Cúcuta. Quando le truppe realiste riconquistarono la città nell’ottobre 1813, fu condannata a morte per aver aiutato i ribelli. Fu giustiziata il 21 di ottobre del 1813 per ordine di Bartolomé Lizon. Fu portata di notte, in vestaglia e scalza, dalla sua casa in Urimaco fino al luogo dell’esecuzione. Camminò per le strade della città sotto forte scorta. Una volta giunta nel luogo predisposto, l’ufficiale a capo della scorta chiese a chiunque si sentisse capace di tagliare con un solo colpo la testa ad una donna, di fare un passo avanti. Ignacio Salas fu il suo assassino, che riversò la sua sete di sangue sulla donna, decapitandola con un solo colpo di sciabola: suscitando in quel modo gli applausi e gli encomi dei suoi compagni d’armi».
Più a Sud, nell’area metropolitana di Cúcuta, troviamo Villa del Rosario. Si tratta della città natale del generale José de Paula Santander e sede dello storico congresso del 1821 nel quale, sotto l’egida di uno dei grandi padri della patria colombiana, Antonio Nariño venne redatta quella che è passata alla storia come la costituzione di Cúcuta. A Villa del Rosario, in quello che oggi è il Parco Grancolombiano, oltre alla casa di Santander, si trova ciò che resta del Tempio del Congresso, semidistrutto dopo il terremoto del 18 di maggio 1875, passato alla storia come «il terremoto delle Ande».
«Trochas» e «trocheros»
Proprio in questa cittadina così emblematica, oggi parte del conglomerato urbano di Cúcuta, si trova il quartiere chiamato «La Parada» (la fermata), punto di inizio della traversia di migliaia di venezuelane e venezuelani migranti. Si tratta del punto zero dell’esodo, uno dei luoghi simbolo del più grosso fenomeno migratorio che la storia recente dell’America Latina ricordi. Il rito di passaggio avveniva attraversando il ponte Simón Bolivar, costruito sul fiume Tachira, frontiera naturale tra due paesi che alternano amore e odio, fin dai tempi dell’indipendenza. Scaramucce diplomatiche prima, ed esigenze sanitarie poi, hanno reso terra desolata quei pochi metri di asfalto che uniscono due mondi così simili ma allo stesso tempo così diversi.
Se i ponti sono chiusi (ma la situazione è in cambiamento, ndr), non è così però per le frontiere informali. Decine infatti sono le trochas, stretti passaggi tra la selva e il fiume Tachira che permettono quotidianamente a centinaia di persone di passare illegalmente da un lato all’altro del confine. A guidare i gruppi di migranti in questi sentieri della speranza attraverso acqua e foresta, sono i trocheros, persone che conoscono la zona e che hanno ottenuto il beneplacito dei gruppi criminali che controllano il contrabbando di merci e persone. Chiunque voglia passare dal Venezuela alla Colombia (e viceversa) deve scendere a patti con i colectivos (gruppi armati al margine della legge, spesso conniventi con la polizia) nella città venezuelana di San Antonio del Tachira.
Una volta pagata la tariffa concordata e trovato un trochero, si può passare, pagando dal lato colombiano un’altra tariffa di «destinazione». A marzo 2021 i prezzi per il passaggio erano relativamente bassi, questo era dovuto soprattutto alla gravissima crisi economica del Venezuela, alla chiusura delle frontiere e alle misure di confinamento stabilite nel paese da Nicolás Maduro. Per passare da Sant’Antonio del Tachira a La Parada erano necessari 5mila pesos colombiani da ambo i lati (un totale di 10mila pesos che equivale a circa 2,5 euro). Il problema però per la maggior parte dei migranti venezuelani è arrivare a Sant’Antonio del Tachira, cosa per niente ovvia e potenzialmente molto pericolosa. Ecco, dunque, che per garantire un transito sicuro da Valencia, Barquisimeto, Merida o San Cristobal, bisogna sborsare l’equivalente di centinaia di dollari ai colectivos. Questo ovviamente vale anche per un eventuale viaggio di ritorno.
I problemi in territorio colombiano
Considerato quanto detto fino ad ora, ci si potrebbe immaginare che una volta arrivati dalla parte colombiana del fiume Tachira, il peggio sia passato e invece i problemi per i migranti venezuelani non faranno che moltiplicarsi. La Parada non è un luogo nel quale pensare di poter rimanere permanentemente e di fatto quasi nessun venezuelano considera questa opzione come un piano percorribile. L’idea è rimanere giusto il tempo necessario per racimolare qualche soldo e poi andare a Cúcuta. Da lì, diventa più facile trovare delle opportunità di guadagno e pianificare il resto del viaggio che passerà per la rotta stradale di 202 km che unisce la capitale del dipartimento del Nord di Santander con Bucaramanga. Una volta giunti a Bucaramanga, ogni scelta diventa possibile: rimanere in Colombia e dirigersi verso un’altra grande città o continuare il viaggio verso un altro paese (Ecuador, Perù, Cile e Argentina) più a Sud.
Nonostante ciò, negli ultimi anni La Parada si è trasformata in una sosta transitoria a medio termine, dove le famiglie venezuelane spendono oramai settimane o mesi. La pandemia ha poi peggiorato le cose, limitando la mobilità e costringendo diversi nuclei familiari a cercare una sistemazione semistabile. In questo contesto è sorta un’«architettura del migrante», promossa da persone locali che hanno visto la possibilità di fare business, trasformando degli stabili fatiscenti in case provvisorie per i venezuelani migranti. Stabili di un solo piano sono stati compartimentati con stanze di dieci metri quadrati ciascuna, nelle quali vivono intere famiglie, condividendo un patio e un bagno in comune. In queste misere, insalubri e promiscue soluzioni abitative, possono vivere anche 5 o 6 famiglie (una per stanza), fino a 30 persone condividendo una doccia e un bagno. Ogni nucleo familiare cucina nella stanza nella quale vive con una bombola di gas noleggiata, che deve pagare giornalmente: anche l’affitto è giornaliero (circa 10 pesos al giorno) e viene pagato ogni sera, chi non paga viene sbattuto fuori.
Per il corpo e per lo spirito
In tutta questa tenebra c’è però un punto di luce: la «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» della diocesi di Cúcuta. Questo spazio di ristoro, per il corpo e per lo spirito, è stato inaugurato il 5 giugno del 2017 e da allora si è trasformato in un luogo di speranza e sollievo per quanti arrivano a La Parada. L’idea della diocesi di Cúcuta era quella di provvedere un appoggio integrale alla popolazione migrante in transito e non, garantendo alimentazione, medicinali e cure mediche, attenzione psicosociale e assistenza legale. La chiesa cattolica di Cúcuta ha messo in marcia un incredibile progetto, appoggiato dallo stesso papa Francesco, che ha visto sommarsi alla causa il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam), l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur / Unhcr), Caritas internazionale, Adveniat (il programma della Conferenza episcopale tedesca che sostiene e finanzia progetti pastorali in America Latina e Caraibi), Caritas Colombia, Caritas spagnola, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti d’America e la catena di radio spagnola Cope. Con l’aumento del flusso migratorio nel 2018 e, successivamente, con l’arrivo del Covid-19 a inizio 2020, l’attività della «Casa di passaggio della Divina Provvidenza» è stata però fortemente rallentata. Negli ultimi mesi si è deciso di ridurre l’accesso alla struttura (che prima offriva servizio a 3.500 persone al giorno) dando la priorità all’alimentazione di bambini, donne e anziani: oggi vengono serviti 350 pasti quotidiani, cifra che non soddisfa la grande richiesta di cibo e assistenza integrale che continua a esistere nel quartiere.
Cúcuta e prostituzione come necessità
A 15 minuti in auto da La Parada, tragitto che la maggior parte dei migranti venezuelani percorrono a piedi, si arriva a Cúcuta. La situazione in città è critica e questo non è dovuto solo al coronavirus (a partire da aprile 2020). Secondo i dati di Migración Colombia al 31 dicembre 2019, nella capitale del dipartimento del Nord di Santander si trovavano circa 105mila cittadini venezuelani su una popolazione totale di 700mila persone (e in tutto il dipartimento più di 200mila venezuelani, che corrispondeva all’11,5% del totale nazionale).
La saturazione degli spazi abitativi e lavorativi ha prodotto in città una precarietà senza precedenti, accompagnata da una situazione di grande vulnerabilità, specialmente per le donne e le bambine. Gli uomini, in mancanza di un’alternativa lavorativa, si dedicano al rebusque: un’attività di riciclaggio attraverso la quale, perlustrando tutte le strade delle città e ispezionando la spazzatura, riescono a raccogliere plastica, alluminio, vetro, cartone e metalli che poi rivendono nei centri preposti al riciclaggio. Per le donne la prima alternativa e la più remunerativa è la prostituzione. Alcune cercano di dedicarsi ad altre attività, come la vendita di caffè nella zona del Terminal dei bus, ma la pressione sociale e la promessa di facili guadagni spesso fa pendere la bilancia verso la vendita dei loro corpi. Oramai a Cúcuta è quasi impossibile trovare una donna in situazione di prostituzione che sia colombiana: «la piazza» è stata occupata completamente dalle donne venezuelane che hanno ridotto della metà le tariffe vigenti prima del loro arrivo. La maggior parte di queste ragazze (spesso di età compresa tra i 18 e 30 anni) non esercitavano la prostituzione in Venezuela ed è qui, lontane da casa, sole e senza alternative che cadono nella rete dei locali notturni che popolano la Septima avenida (Strada numero 7). Molte di loro hanno già svariati figli e alcune li hanno portati con loro nel viaggio. I bambini e le bambine passano le giornate in stanze d’albergo accanto a quelle dove le madri ricevono i clienti che trovano nei locali o per strada. Quasi nessuno di questi bambini è scolarizzato. Passano le giornate dormendo per ingannare la fame o guardando la televisione. Le madri sono coscienti che questa non è la situazione ideale, ma sanno che è l’unico presente che possono offrire, almeno per il momento, ai loro figli.
Sono centinaia le donne venezuelane che riempiono la «settima», e per le misure adottate in Colombia per contenere i contagi, sono costrette a scendere in strade fin dalla mattina per poter lavorare fino all’orario del coprifuoco, ogni giorno sempre più stringente. La polizia spesso entra nei locali facendo ronde e retate, soprattutto per assicurarsi che nessuna minore d’età venga prostituita.
Verso altre piazze
In Colombia, il commercio sessuale è tollerato e in ogni città esistono dei quartieri di tolleranza (veri gironi dell’inferno) dove, a volte, la polizia cerca di fare atto di presenza ricordando che la prostituzione minorile è un reato. A Cúcuta le tariffe sono bassissime e sono le stesse ragazze a pagare la pieza (la stanza d’hotel). Un cliente paga 30mila pesos (7,5 euro) per trenta minuti e considerando i costi che le venezuelane devono sostenere quotidianamente (cibo per loro e per i figli e la stanza dove dormire), molto spesso devono riuscire a trovare almeno tre clienti al giorno. Un’impresa davvero ardua di questi tempi e per questo, molto spesso, sono costrette a negoziare il prezzo fino quasi alla metà.
Però anche Cúcuta, come La Parada, è un luogo di passaggio, soprattutto per le donne che ascoltano le storie di altre compagne d’avventura che raccontano meraviglie, di Cali, Bogotà, Cartagena e Medellin: città dove si può lavorare di più e meglio, dove i clienti sono europei e statunitensi e, dunque, si può inviare più denaro alla famiglia rimasta in Venezuela. Ragione quest’ultima, che rappresenta il vero scopo del processo migratorio per molte di loro.
Per raggiungere queste città via terra da Cúcuta, (la stragrande maggioranza di loro non ha documenti d’identità validi e non può prendere l’aereo) bisogna però arrivare prima a Bucaramanga.
Le tende e la «lavanda» dei piedi
Sono 202 i km che separano Cúcuta-Villa del Rosario da Bucaramanga, capitale del dipartimento di Santander e circondata dalla cordigliera orientale delle Ande. Il cammino verso questa città è pieno di insidie e pericoli ma nonostante ciò, ad oggi, sono migliaia i migranti venezuelani che hanno realizzato a piedi (a volte scalzi) questa traversata. Lungo quella che è già stata ribattezzata la ruta de los caminantes («la rotta dei camminanti») sono stati installati nel corso degli ultimi anni almeno 13 punti di aiuto e supporto. I primi 9 si trovano nel primo tratto di 75 km (circa 16 ore di cammino) che collega Villa del Rosario con la cittadina di Pamplona. Si tratta di punti di ristoro, alberghi dove poter pernottare, tende nelle quali ricevere assistenza medica e cibo: un sollievo fisico e spirituale.
Sono molte le organizzazioni, confessionali e non, dedicate ad aiutare i camminanti. Tra queste spiccano sicuramente: Samaritan’s Pursue, con l’albergo situato nella località Don Juana a 35 km da Cúcuta, e la Carpa esperanza Jucum (Tenda speranza della gioventù), situata a pochi km da Pamplona, dove giovani volontari si dedicano alla «lavanda» dei piedi dei migranti, alla cura delle piaghe e a distribuire nuovi calzari.
Una volta giunti a Pamplona, i migranti devono riposare e recuperare energie perché li aspetta la parte più dura e pericolosa del viaggio: la scalata del «paramo de Berlin», un passaggio di montagna a più di 3mila metri d’altezza. Da Pamplona a Bucaramanga ci sono altri 4 punti di appoggio che cercano di provvedere i migranti con acqua, cibo e indumenti pesanti per far fronte al freddo delle Ande che alle volte raggiunge gli zero gradi. Le persone provenienti dal Venezuela sono abituate ad un clima caldo. Per loro la traversata di questo passaggio di montagna è qualcosa di sovrumano. Uomini e donne, spesso con bambini piccoli in braccio, in pantaloni corti e t-shirt, con ciabatte o scarpe sportive non adatte a quel clima. Questa è la scena che si ripete costantemente nel «paramo de Berlin», e che più di una volta ha rappresentato una condanna a morte per le persone più fragili, sfiancate dalle lunghe ore di cammino, già malate, o per i più piccoli. Superato il passo, inizia la discesa verso Bucaramanga, un punto di luce e speranza prima di decidere verso dove e come proseguire il cammino. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 e le relative restrizioni alla circolazione hanno ridotto il flusso di camminanti, ma – nel primo semestre 2021 (specialmente tra gennaio e marzo) – si è tornati a vedere un fiume di persone che, in fila indiana, la maggior parte con lo zaino con i colori della bandiera bolivariana in spalla, camminano e camminano. Senza sosta.
Diego Battistessa
La migrazione: la via della Guajira
Quando il destino è la strada
Anche la penisola colombiana della Guajira è territorio di transito per molte migranti venezuelane. Tappa di un percorso verso altre città dove curarsi o partorire. O prostituirsi con i turisti del sesso.
La Striscia, «la Raya», così si chiama popolarmente lo spartiacque che, nella penisola della Guajira, divide ufficialmente la Repubblica bolivariana del Venezuela dalla Colombia. Si tratta di pochi metri che per migliaia di venezuelane e venezuelani rappresentano la possibilità di un nuovo inizio. Per lungo tempo questa frontiera (mentre scriviamo la situazione è in evoluzione, ndr), così come le altre tra Venezuela e Colombia, è rimasta chiusa. Le autorità permettevano solo il passaggio, a piedi, dei membri delle comunità transnazionali indigene Wayuú, nativi della penisola della Guajira, che vivono a cavallo dei due stati. Per tutti gli altri l’unico passaggio era attraverso las trochas (i sentieri), che comunque si trovano a pochi metri da «La Raya». Non esiste infatti un vero e proprio controllo militare di questa frontiera dal lato colombiano: gli unici funzionari presenti sono quelli di Migración Colombia, che non hanno funzione di ordine pubblico. È così che, nonostante la pandemia da Covid-19 e le restrizioni, centinaia di persone continuano ad arrivare in Colombia dal fluido confine nel Nord del paese.
Prima tappa a Maicao, Colombia
Una volta entrati in Colombia, nel dipartimento della Guajira (che prende il nome dalla stessa penisola), la prima sfida per i migranti è riuscire a raggiungere la città più vicina: Maicao. Sì, perché «la Raya» si trova nella frazione di Paraguachón, appartenente a Maicao, ma distante 12 km dall’urbe. A Paraguachón, esiste un primo centro di attenzione al migrante gestito da Acnur e dalla Croce rossa colombiana, ma si trovano anche decine di intermediari informali che offrono, a chi se lo può permettere, ogni tipo di servizio: trasporto, merce di contrabbando e cambio moneta, tra gli altri. Chi arriva a Paraguachón spesso viene dalla città venezuelana di Maracaibo (stato Zulia) e ha affrontato un lungo viaggio di più di 100 km con mezzi di fortuna (spesso sul sedile posteriore di una moto) e pagando i colectivos per avere «garanzia» di un passaggio sicuro. Una volta superata la frontiera, molti migranti decidono di proseguire a piedi per Maicao, sotto il sole inclemente della Guajira. Non è solo il sole però a costituire una sfida e un pericolo (soprattutto per le persone anziane e le donne incinte), ma sono anche le bande di predoni che popolano questa terra di nessuno. I taxisti che percorrono la rotta di collegamento tra la frontiera e Maicao sono sempre in allerta e, quando possono, viaggiano in convoglio per dissuadere possibili attacchi armati con fine di rapina.
Da questa frontiera, così come da quella di Cúcuta, solevano passare due tipi di migranti. I commercianti, che venivano per pochi giorni o settimane in Colombia per acquistare merci da poter poi introdurre in Venezuela, e coloro che, invece, zaino bolivariano in spalla, erano decisi ad abbandonare la terra di Bolívar. Dal 2018 in avanti, anno del totale collasso della moneta nazionale venezuelana (il bolívar), il potere d’acquisto dei venezuelani si è ridotto all’osso e il paese è ormai de facto dollarizzato. Questo, e la lunga chiusura delle frontiere, ha ridotto tantissimo il flusso di commercianti e oramai gli unici venezuelani in arrivo sono quelli che scappano da una delle peggiori crisi umanitarie della regione. Come succede per la rotta Sud a Cúcuta-Villa del Rosario, l’idea è quella di fare un breve stop a Maicao per continuare poi lungo la costa per Riohacha, Santa Marta, Barranquilla e, a volte, Cartagena.
A Riohacha, capitale della Guajira
Riohacha è la capitale del dipartimento della Guajira ed è una cittadina che riunisce un crogiolo di etnie, tradizioni e conflitti sociali. Mestizos, afrodiscendenti e indigeni Wayuú abitano lo spazio urbano e rurale (in modo direttamente proporzionale al loro status economico e sociale), vivendo ora gomito a gomito con l’incipiente migrazione venezuelana. Acnur ha aperto in città un grande ufficio vicino al lungomare, cercando di supportare sia l’amministrazione locale che le organizzazioni che appoggiano i migranti. Il dipartimento della Guajira è però uno dei dipartimenti più depressi a livello economico di tutta la Colombia e, in questo contesto, sviluppare azioni di mitigazione della vulnerabilità dei migranti venezuelani, diventa molto difficile. Per questo anche Riohacha per la maggior parte dei migranti non rappresenta una meta, ma una tappa transitoria verso città economicamente più attive e che presentano maggiori opportunità. Inoltre, per quelle donne venezuelane che vedono nella prostituzione l’unico mezzo di sostentamento, Riohacha è un’ambiente ostile e inospitale, dove non è possibile prostituirsi per la strada alla luce del sole. In città prevale una mentalità proibizionista e anche se la prostituzione è implicitamente tollerata, non può però essere esibita in bella vista. Questo e la mancanza di un turismo internazionale, che nel Nord si concentra a Santa Marta e Cartagena, spingono le donne a continuare il loro viaggio verso Ovest.
Santa Marta, capitale del dipartimento di Magdalena, è una città conosciuta per le sue coste ed è meta di turismo nazionale e internazionale. I samari (questo il gentilizio per gli abitanti della città) sono molto fieri della loro tradizione e cultura, e di uno dei grandi figli della città: Carlos Alberto Valderrama (El Pibe Valderrama) famoso calciatore dalla folta capigliatura ossigenata che impressionava il mondo negli anni Novanta. A Santa Marta la migrazione venezuelana è molto presente, e il lungo mare è tristemente popolato da donne venezuelane in situazione di prostituzione. Da Riohacha a Santa Marta ci vogliono almeno tre ore e mezza di bus ma, anche in questo caso, per alcuni la rotta viene fatta a piedi. In questa città le donne venezuelane in situazione di prostituzione raccontano di una particolare dinamica che le vede impegnate in quelle che loro stesse definiscono «stagioni lavorative». Prima della pandemia e della conseguente chiusura delle frontiere e difficoltà di movimento, solevano venire a Santa Marta direttamente dalla zona di Maracaibo e qui si fermavano per circa due mesi. Con il denaro raccolto prostituendosi, tornavano in Venezuela dove le aspettava la famiglia (soprattutto madri e figli). Rimanevano in Venezuela fino a quando il denaro raccolto non cominciava a scarseggiare, momento nel quale diventava necessario tornare a Santa Marta per una nuova «stagione». Questa dinamica, come detto, si è interrotta con l’arrivo del Covid-19, quando decine di donne venezuelane sono rimaste bloccate in Colombia, senza poter vedere la loro famiglia da più di un anno.
In questo senso, oltre allo stile di vita estremamente logorante, l’aspetto psicologico sta passando loro una fattura molto salata. Lontane dai figli che avevano salutato pensando di poterli vedere solo dopo qualche settimana, molte di loro hanno perso familiari morti per la pandemia, persone care alle quali non hanno potuto dire addio. A Santa Marta la prostituzione è tollerata e accettata, tanto che si esercita fin dalle prime ore del giorno lungo tutto il lungomare, soprattutto nel centrale parco Bolívar e anche di fronte all’edificio dell’amministrazione centrale del dipartimento.
Le Ong di Barranquilla
Cento chilometri a Ovest di Santa Marta si trova Barranquilla, conosciuta anche come «la arenosa», capitale del dipartimento dell’Atlantico. Qui la situazione della migrazione venezuelana è completamente differente rispetto alle altre città che formano la rotta Nord: le persone che hanno lasciato il Venezuela cercano in questa città la possibilità di stabilirsi in modo permanente. Barranquilla è la quinta città più grande della Colombia, con una popolazione di un milione di abitanti, il 10% dei quali sono migranti venezuelani.
Si tratta di un polo commerciale importante dove, prima della pandemia, abbondavano le opportunità di lavoro e di commercio. Il clima costiero è un altro elemento di confort per i migranti venezuelani che, nel corso degli ultimi anni, hanno visto Barranquilla come una reale opportunità di ricostruzione di un futuro di speranza. In questa città si trova uno dei più brillanti esperimenti di supporto locale integrale alla popolazione migrante di tutta la Colombia: il «Centro di integrazione per i migranti», creato nel novembre 2019 dall’amministrazione comunale della città. Questo punto di supporto si trova tra la Carrera 45 e Calle 45, alle porte del centro storico della città. Adriana Padilla è la coordinatrice della struttura, che lavora in costante coordinamento con la direzione del Gruppo interagenzia sui flussi migratori misti (Gifmm) e con le diverse organizzazioni che lo compongono. Questo centro è davvero il fiore all’occhiello dell’assistenza alla migrazione venezuelana in Colombia. Al suo interno vengono svolte attività polivalenti portate avanti tra le altre da Oim, Acnur, Unicef e Croce rossa colombiana. Inoltre, la risposta alle diverse esigenze delle persone che accedono al centro è legata ad un accordo quadro con un’altra dozzina di Ong nazionali e internazionali (Plan international, Danish refugee council e World vision), che svolgono attività specialistiche per rispondere a particolari situazioni di vulnerabilità. Nella struttura, grazie al finanziamento di Acnur e al lavoro svolto da alcune Ong locali (come De Pana Que Si e Fuvadis), si sono aperti anche canali di appoggio per rispondere alle particolari situazioni delle donne venezuelane migranti (in special modo gravidanze e situazioni di violenza familiare) e delle persone appartenenti al gruppo Lgbtiq+ (persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer).
La prostituzione a Barranquilla
Barranquilla è stata la meta di centinaia di donne venezuelane migranti che cercavano un posto sicuro dove partorire o dove poter essere visitate e accompagnate durante la loro gravidanza. Negli ospedali colombiani sette migranti venezuelani su dieci sono donne; a Barranquilla, città di riferimento della costa colombiana, il 70% dei parti è di madri venezuelane.
Per quanto riguarda le donne venezuelane in situazione di prostituzione, esse si concentrano nei locali che popolano il centro storico, nella zona del Parque de los enamorados (parco degli innamorati), lungo la Carrera 40, tra le strade 45 e 42. Camminando per quella zona, estremamente pericolosa nelle ore notturne, si possono intravedere decine di donne migranti venezuelane «ammassate» dentro i locali in attesa dei clienti di turno. A Barranquilla però, così come in altre città economicamente più attive (come, ad esempio, Medellin), la prostituzione si muove anche attraverso internet. Sono decine infatti le pagine di incontri dove le donne venezuelane offrono i loro servizi in appartamenti, centri di massaggi erotici, bar o direttamente a domicilio. Un «mercato» cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto con le restrizioni per evitare i contagi da Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti locali e all’attivazione del coprifuoco a partire dalle venti.
… e a Cartagena de Indias
Come detto, per la maggior parte dei migranti venezuelani la rotta Nord si interrompe a Barranquila, ma non mancano coloro che, percorrendo altri 120 km verso Ovest, decidono di arrivare alla città di Cartagena de Indias, vero grande polo turistico internazionale del «Caribe colombiano». In questa città si vive praticamente solo di turismo e sono centinaia i venezuelani che lavorano per le strade come promotori di ogni tipo di servizio. Una delle grandi piaghe di Cartagena è però il turismo sessuale, dovuto in gran parte a uomini statunitensi ed europei che arrivano nella capitale del dipartimento di Bolívar solo alla ricerca di droga e prostituzione. Le autorità locali hanno combattuto, soprattutto nel 2018, questo fenomeno, ma ad oggi la situazione non è cambiata molto. Alla sera, la zona della torre dell’orologio, giusto all’entrata della cinta muraria della città, si popola di donne in situazione di prostituzione a caccia del turista di turno. Anche in questo caso, la maggior parte di loro sono venezuelane, giovani, avvenenti, con diversi interventi di chirurgia plastica per incarnare quello stereotipo così mercificato ed esportato in tutto il mondo dalla fabbrica della bellezza di Osmel Sousa (il padrino di Miss Venezuela). Le tariffe variano: si può passare dai 100 dollari per 30 minuti ai 500 dollari per tutta la notte. È per questo che Cartagena, soprattutto per le giovani migranti venezuelane che rispondono ai parametri del mercato del sesso, diventa il luogo dove i turisti sessuali sono disposti a comprare il loro corpo pagando in dollari sonanti.
Diego Battistessa
Inserti
«Ranchitos»
Capita spesso che famiglie di migranti venezuelani, trovandosi nell’impossibilità di pagare un alloggio nelle località colombiane nelle quali giungono, decidano di occupare un pezzo di terra in periferia e costruire un «ranchito» (baracca). Si tratta di costruzioni fatte di cartoni, lamiere, teloni e coperte. Luoghi senza acqua ed elettricità, insalubri, spesso in zone rischiose (come il costato di una montagna), ma che per i migranti sono ciò che di più può somigliare alla parola casa. Dopo l’arrivo di una o due famiglie si sparge la voce ed è così che altre decine di persone giungono per occupare il loro pezzetto di terra e potersi mettere un tetto sopra la testa. Di solito, gli abitanti delle città dove avvengono le invasioni non vedono di buon occhio questa pratica e le amministrazioni locali provano, spesso con la forza, a sfrattare gli occupanti non fornendo loro però nessuna soluzione alternativa. Questo è quello che sta succedendo nel quartiere San Matteo, periferia di Cúcuta, dove è sorto da due anni un insediamento di migranti venezuelani ribattezzato «Nuova Speranza». Si tratta di una ventina di baracche costruite su di un suolo argilloso e sull’orlo di un crepaccio: un accampamento dove vivono circa 70 persone (18 famiglie), metà delle quali minori d’età. Gli «invasori» hanno trovato il modo di collegarsi alla rete elettrica cittadina e anche per l’acqua hanno trovato il modo di diventare autosufficienti con un sistema (precario) di tubature. Non sono ben accetti dai vicini del quartiere San Matteo, specialmente dal centro di addestramento della polizia che si trova giusto sopra di loro, in cima alla collina. Ad oggi l’amministrazione della città di Cúcuta ha intimato lo sgombero della zona per motivi legati alla sicurezza e alla salute degli stessi migranti (soprattutto dei minori) ma senza offrire alternative, nessuno lascerà «Nuova Speranza».
Di.Ba.
Torturatori
A Bogotà esiste un quartiere dove ad ogni ora del giorno è possibile «comprare» un corpo di una donna venezuelana migrante. Si tratta di Santa Fe, zona di tolleranza della capitale colombiana, fiera della spoliazione dei diritti, luogo nel quale si commercia approfittando della miseria altrui. Donne e ragazzine (molte sono minorenni), praticamente nude, aspettano sui marciapiedi delle strade dalle 15 alla 22, il torturatore di turno. Sì perché, come ricordano María Galindo e Sonia Sánchez nel libro Ninguna mujer nace puta, una donna in situazione di prostituzione si incontra con prostituenti, stupratori e torturatori, non con clienti. Camminando per quelle strade, ciò che si vede è la nudità dei loro corpi, ma quello che molti non vedono (non vogliono vedere) è la nudità di diritti. Donne e bambine vestite solo di forza di spirito e dignità, tenute spesso in piedi dalla droga (che aiuta anche a non sentire la fame), mentre deambulano in una strada che oramai è tutto il loro mondo, tutto il loro inferno. Vivono negli hotel della zona (spesso con i loro figli), pagando una quota giornaliera. Inviano settimanalmente soldi ai parenti rimasti in Venezuela, che quasi mai sono al corrente della non vita che fanno queste donne nel quartiere di Santa Fe. Ombre, fantasmi di ciò che erano un tempo: in Venezuela molte di loro prima del collasso del paese, avevano davanti una promettente carriera professionale oppure stavano frequentando l’università.
Di.Ba
I morti di Sonia
Si chiama Sonia Bermúdez Robles, ha 65 anni e per tutta la vita ha avuto a che fare con la morte essendo una tanatologa forense. Sonia è originaria di Riohacha e proprio nella capitale della Guajira ha lavorato per più di 40 anni nell’istituto di medicina legale, realizzando circa 5mila autopsie. Nel 1996, a dieci chilometri dalla città, sulla via per Valledupar, Sonia occupa un terreno di cinque ettari di proprietà del comune e inaugura il cimitero «Gente como uno» (Gente comune, come noi). Inizialmente il cimitero rispondeva all’esigenza di dare sepoltura agli N.N. e alle persone di bassa o nessuna capacità economica (persone che non sarebbero state sepolte nel cimitero centrale della città), ma con l’esplosione della crisi migratoria venezuelana le cose sono cambiate drasticamente. A partire dal 2018, sono state decine le richieste ricevute da Sonia per poter dare sepoltura ai migranti venezuelani morti nella Guajira: persone le cui famiglie non disponevano di risorse economiche per il funerale e delle quali né lo stato venezuelano, né quello colombiano, erano disposti a farsi carico. Di fronte a questa situazione Sonia ha risposto «presente», e da quel momento ha dato cristiana sepoltura a più di 500 migranti venezuelani nel suo cimitero, la maggior parte infanti e persone anziane. Il lavoro di Sonia è oggi riconosciuto internazionalmente, e anche l’Onu ha celebrato il suo esempio di solidarietà e costruzione della pace.
Di.Ba
L’angelo della morte (Es 11)
testo di Angelo Fracchia – illustrazione di Marco Francescato |
Il racconto della Pasqua è il centro del libro dell’Esodo, di cui copre direttamente quattro capitoli. Essi a volte si fanno un po’ contorti, anche perché non sono solo delle narrazioni, ma il fondamento della vita liturgica e della preghiera di Israele. In particolare, fondano liturgicamente una festa assolutamente centrale, che nel tempo ha raccolto in sé diverse celebrazioni nate precedentemente in tempi e luoghi differenti.
Le tre feste
La Pasqua nomade.
Da una parte c’è una festa che si celebra in un giorno preciso dell’anno, il 14 del mese di Nisan. I mesi ebraici sono basati sui ritmi della luna: il primo giorno del mese coincide con il novilunio, per cui a metà mese splende la luna piena. Per evitare che, col tempo (e come accade con il calendario lunare islamico), i mesi finiscano con lo scivolare fuori dal loro contesto stagionale, il calendario ebraico riadatta la scansione lunare a quella solare tramite un complesso sistema di integrazioni, un po’ come succede con i nostri anni bisestili.
Questa festa «a data» (anche se sembra che in origine potesse essere celebrata solo quando la luna piena effettivamente si vedeva, cioè con cielo sereno) segnava per i pastori l’uscita dagli accampamenti invernali, più sicuri ma ormai sporchi e con poco cibo. Era il momento di partire in transumanza, confidando che nei pascoli del «deserto» fosse piovuto e ci fosse quindi speranza di vita ed erba fresca. Era un passaggio segnato dall’incertezza e dalla paura di brutte sorprese lungo il viaggio e all’arrivo. Spesso l’umanità esorcizza la paura anticipandola, quasi pagando un prezzo alla sfortuna. Per questo, prima di partire, i pastori sacrificavano un agnello nato nell’anno, simbolo della speranza di vita, quasi a garantirsi di aver pagato il conto con la morte. E poi consumavano il pasto che avrebbero mangiato per mesi da nomadi: senza comodità, finendo tutto quello che cucinavano, con erbe «amare» (cioè selvatiche, non coltivate), pronti a ripartire subito.
La Pasqua sedentaria.
I contadini celebravano una festa diversa, al momento della mietitura dell’orzo. L’orzo nel Vicino Oriente matura tra marzo e inizio aprile, dipende molto dalle piogge invernali ma non viene minacciato dal calore dell’estate. È il primo cereale a spezzare il digiuno invernale. Non garantisce cibo per tutto l’anno (per quello diventa prezioso il grano di maggio-giugno), ma costituisce in qualche modo la promessa che il cibo ci sarà. Ecco perché in primavera la consuetudine è di purificare le madie, gettando tutti i cereali e le farine vecchie, per evitare che vi si annidino funghi e germi pericolosi per la salute. Ecco la celebrazione degli «azzimi».
Anche i contadini sono coscienti che questo buttare il cibo vecchio, che pure è passaggio di sanificazione doveroso, è un gesto rischioso, che chiede fiducia nel futuro. La festa col primo raccolto è già reale, ma rimanda a una festa maggiore, che si compirà, più o meno, cinquanta giorni più tardi, alla mietitura del nuovo frumento.
La Pasqua storica.
In questo contesto si inserisce un terzo ricordo festoso, che non richiama i cicli della natura, ma un evento storico nel quale almeno alcuni gruppi di ebrei avevano vissuto un’esperienza di liberazione da un’oppressione mortale, dalla quale erano stati liberati dovendosi fidare di una promessa che li invitava ad attraversare i rischi della morte per approdare alla libertà. È il racconto principale dell’Esodo, che raccoglie intorno a sé, come sintesi, anche le altre esperienze.
Queste, che erano da tempo celebrate in autonomia, a un certo punto inizieranno a essere festeggiate insieme alla terza, con una certa forzatura da parte di tutte, ma anche con un reciproco riconoscimento: cioè che la logica di fondo restava la stessa, quella di una fiducia oltre i timori, in vista di un «di più» di vita. Chi le ha unite ha colto che, nella varietà delle esperienze che testimoniavano, condividevano lo stesso approccio di fiducia in una parola che chiamava a vivere.
L’ombra della morte
Su tutto questo si affaccia la presenza particolarmente inquietante e fastidiosa della morte. Non solo della morte che colpisce i nemici della vita, ma anche della morte degli innocenti.
Ancora una volta, e prima di avere qualche indicazione interpretativa in più, dobbiamo ricordarci che leggiamo testi che vengono da culture lontane dalla nostra.
Tutte le generazioni umane, da che ne abbiamo memoria, lamentano la decadenza dei tempi e la degenerazione dei costumi, rimpiangendo quando si era giovani e il mondo andava molto meglio. È una lamentela che troviamo già su manoscritti di cinquemila anni fa. Chi però guarda la storia umana un po’ più dall’alto, deve ammettere che questo pessimismo è sufficientemente infondato. Il nostro tempo è gonfio di ingiustizie, di violenze, di sopraffazioni, di morti innocenti e di ingiustizie non sanate. Ma parole come la dichiarazione dei diritti dell’uomo, che non accetta distinzioni per ragioni di sesso, di etnia, di età, di formazione, di convinzioni, sono parole che non erano state mai scritte fino a pochi decenni fa. Un tribunale internazionale che processi crimini contro l’umanità (anche nel rispetto delle leggi del proprio stato) è esperienza storicamente recente. Nel Vicino Oriente antico, chi veniva sconfitto sapeva di non avere nessuna legge internazionale a cui appellarsi, neanche solo a livello teorico. A livello aneddotico, una lingua povera di termini come l’ebraico biblico (circa 6.000 vocaboli) ha una ventina di sinonimi che indicano l’«avere paura». La presenza della morte era incombente sempre, ed era anche più facile da accettare nei confronti dei «nemici». Anche il percorso dei credenti ha faticato e ha avuto bisogno di tempo per cogliere che Dio non poteva amare solo una parte di umanità.
Il confronto tra Mosè e il faraone (ma sarebbe meglio dire tra il Dio d’Israele e il presunto dio in terra degli egizi) si presenta anche come uno scontro militare, e già all’inizio Dio aveva promesso agli ebrei che ne avrebbero riportato un bottino (Es 3,21-22), e così sarà (11,1-3).
Ma c’è una ragione in più che giustifica la morte dei primogeniti d’Egitto, agli occhi antichi.
Un mondo culturale diverso
Mentre leggiamo questi testi antichi, che pretendono di avere valore ancora per noi oggi, non dobbiamo mai dimenticarci che siamo costretti a fare ricorso a delle traduzioni. Non solo nel senso che quei testi sono scritti in una lingua che la maggior parte di noi non riesce a leggere, ma anche nel senso che vengono da un mondo culturale che non è il nostro. Pensiamoci: noi italiani siamo in grado di leggere la Divina Commedia senza traduzioni. Ma per lo più non la capiamo. Comprendiamo le parole, intendiamo le frasi, ma per penetrarne il senso abbiamo bisogno di note che ci spieghino quale modello teologico avesse presente Dante, a quali riferimenti letterari e simbolici si rifacesse, a quali sottintesi politici e contemporanei alludesse, solo allora possiamo cogliere meglio che cosa dica. Anche se parliamo la stessa lingua, non condividiamo più la stessa cultura, e questo rende la comprensione faticosa.
Il nostro approccio culturale, anche quando parliamo di spirito e di anima, è tendenzialmente razionale. Abbiamo bisogno di ragioni, di argomenti, magari anche di prove. Intuiamo che non tutto si esaurisce nella razionalità (abbiamo passioni, timori, speranze, e sappiamo che muovono gran parte di noi), ma il nostro approccio di fondo resta razionale. I più profondi tra noi riescono a mantenere, dentro a un’impostazione razionale e logica, lo sguardo di chi mira in alto, e ci affascinano; altri, che perdono il contatto con la concretezza, li pensiamo sognatori… o anche un po’ pazzi.
Il mondo del Vicino Oriente antico ragiona invece per simboli, per quadri ideali, per grandi sistemi. Le spiegazioni razionali lo lasciano freddo, se non si inseriscono in un contesto simbolico coerente.
Non siamo sbagliati noi o loro. Siamo diversi. E, per poterci capire, dobbiamo renderci conto che parliamo lingue culturali diverse. Il vero errore sarebbe pensare che quegli autori antichi scrivano come scriveremmo noi.
Ebbene, in quel contesto simbolico, la questione dei primogeniti assume un valore diverso.
Dio libera tutti?
Uno dei principi che attraversa il Primo Testamento è la consapevolezza che la vita è dono di Dio. L’uomo non ne ha il dominio. Ecco perché, quando all’umanità venne concesso di uccidere per nutrirsi (a partire da Gen 9), Dio stabilì che, simbolicamente, ci si dovesse astenere dal cibarsi di sangue, ritenuto la sede della vita (cfr. Lv 17,10-14; Dt 12,15-16). Un altro elemento simbolico che ricordava che Dio era il Signore della vita era il richiamo che ogni primizia, delle piante o degli animali, apparteneva a Dio. Per questo i primi frutti dell’anno erano dati in offerta a Dio (ad es. Nm 15,20-21; Dt 26,2) e anche i primogeniti degli animali, i quali potevano essere offerti in sacrificio o, a seconda della specie, essere riscattati con altri doni (ad es. Es 13,12-13). Solo l’uomo doveva obbligatoriamente essere riscattato, perché la sua vita è sacra.
Il riscatto comportava l’idea di entrare in una sorta di scambio di favori. Il primogenito avrebbe dovuto essere di Dio, che però lo lasciava vivere in cambio di un’offerta più piccola che in qualche modo manteneva il beneficiato in una condizione di privilegio. È il segreto dello scambio commerciale vicinorientale, nel quale la compravendita è soltanto una parte della relazione personale che si viene a creare. Pagare completamente un commerciante significherebbe concludere lo scambio, decidere di chiudere la relazione e di non avere più nulla a che fare con lui.
È questo il modo con cui un lettore vicinorientale antico avrebbe colto la morte dei primogeniti d’Egitto: certo, è un atto di guerra, crudele come in tutte le guerre. Ma è anche l’atto con cui Dio riconosce all’Egitto la sua libertà di regolamentarsi senza Dio. Il Dio d’Israele se ne va dall’Egitto senza lasciare debiti né crediti, prendendosi semplicemente il suo. E il suo è rappresentato dai primogeniti. Con la loro morte, Dio riconosce di non avere più conti aperti, l’Egitto è libero di fare la sua vita senza di lui.
A noi suona una crudeltà inutile, alle menti antiche risuonava come una forma, magari cruda, con cui Dio riconosceva la libertà degli altri, e non imponeva loro la sua presenza. Persino ai nemici.
Angelo Fracchia (Esodo 06 – continua)
Chiamiamola tortura
testo di Patrizio Gonnella |
Ai tempi del G8 del 2001, in Italia non era ancora reato. Eppure, il nostro paese aveva firmato la convenzione Onu del 1984. Dopo troppa attesa, nel 2017 è finalmente entrata nel codice penale, ma c’è ancora molto lavoro da fare.
In questi giorni, ricorrono i vent’anni dai fatti del G8 di Genova, dalle brutalità e dalle torture nella scuola Diaz e nella caserma Bolzaneto.
Sono trascorsi, dunque, due decenni da quel caldo luglio del 2001, quando la tortura divenne notizia di prima serata. Tortura usata su un movimento variegato che manifestava e lottava contro le ingiustizie di una globalizzazione fortemente iniqua.
In quella circostanza, una buona parte delle istituzioni si sentì legittimata a ragionare e agire come se si fosse in uno stato di eccezione. La presenza di due ministri nella cabina di regia delle operazioni di polizia contro i manifestanti assunse il significato di autorizzare l’eccezionalità di quanto stava accadendo.
Ci furono le brutalità della Diaz, e poi le torture di Bolzaneto.
Uno dei torturatori di Bolzaneto, dopo essersi vantato di essere nazista e di provare piacere a picchiare un manifestante «omosessuale, comunista», dopo averlo offeso dicendogli «frocio ed ebreo», gli strizzò i testicoli, come nella tradizione tragica della tortura a Villa Triste a Firenze o a Villa Grimaldi in Cile.
Machismo e fascismo, come sempre, insieme.
Prima di Genova, e dopo
Le torture a Genova non furono episodi marginali ascrivibili alle solite mele marce. Fu qualcosa di sistemico e strutturale.
L’anno prima, nel 2000, vi erano state le violenze di Napoli in occasione del Global forum, e quelle denunciate nel carcere di San Sebastiano a Sassari.
Nel luglio del 1998 l’Italia aveva firmato solennemente, al Campidoglio, lo statuto della Corte penale internazionale che avrebbe dovuto giudicare su scala globale i gravi crimini contro l’umanità, tra cui, appunto, la tortura.
Tredici anni prima di Genova, nel 1988, l’Italia aveva firmato e ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 che, all’articolo 1, definiva il crimine e, agli articoli successivi, impegnava tutti i paesi firmatari a punirlo.
Finalmente è reato
In Italia la tortura divenne reato solo nel 2017, dopo le condanne del nostro paese da parte della Cedu (Corte europea dei diritti umani) nei casi Cestaro e Asti.
Era il 18 luglio del 2017 quando fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge che finalmente introduceva nel codice penale, all’articolo 613-bis, il delitto di tortura. Era una legge scritta male perché definiva il crimine di tortura in modo non del tutto sovrapponibile con quanto previsto dall’articolo 1 della Convenzione Onu del 1984, ma sappiamo – grazie a Voltaire – che il meglio è nemico del bene. Fu perciò ragionevole giungere comunque alla sua approvazione contro l’opposizione della destra, da sempre preoccupata di non porre limiti all’azione delle forze di polizia, e anche contro coloro che, senza sguardo strategico, avrebbero preferito non avere nessun reato di tortura piuttosto che quello oggi codificato.
Oggi, in Italia, la tortura è reato, e ci sono le prime condanne per fatti avvenuti negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano.
Altri procedimenti penali per tortura nelle carceri sono in corso.
Dunque, ora nei tribunali possiamo formulare un nome tragico che, fino al 2017, era impossibile e vietato pronunciare. Si poteva parlare di abusi, maltrattamenti, lesioni, ma non di tortura.
Una lotta culturale
È importante, ora, che tutti gli attori del sistema della sicurezza, compreso quello penitenziario, facciano convergere le loro forze intorno alla repressione e alla prevenzione della tortura. La criminalizzazione della tortura, infatti, va a beneficio anche degli operatori della sicurezza che si muovono nel solco della legalità.
Nessuno era così ingenuo da pensare che una volta ottenuta la legge, buona o brutta che fosse, la tortura sarebbe stata bandita di punto in bianco dalle nostre prigioni, caserme, centri per migranti, e dalle strade.
Il fatto che la tortura sia un reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per la sua prevenzione e per la punizione di chi commette tali atti.
È fondamentale che vi sia una rivoluzione che metta al centro la persona e la sua dignità.
Speriamo che tutte le forze dell’ordine se ne rendano conto e diano un segnale culturale in questa direzione, ad esempio rendendosi disponibili a compiere un percorso di prevenzione concreta della tortura. Un tema rimasto irrisolto, ad esempio, è quello dell’identificazione del personale di polizia, dentro e fuori le carceri. Basterebbe una parola dei vertici affinché possa essere conseguito un risultato. Non ci sarebbe neanche bisogno di una legge, basterebbe un diverso modello organizzativo.
Un altro tema è la costituzione di un fondo per le vittime di tortura. È questa una richiesta che arriva direttamente dalle Nazioni Unite, ma non ve n’è traccia nel nostro ordinamento.
Formare gli operatori
Ai fini della prevenzione della tortura, un’attenzione più significativa dovrebbe essere rivolta alla formazione degli operatori di polizia e, guardando alle carceri, dello staff penitenziario. Per un personale che non di rado opera in condizioni difficili, infatti, la formazione dovrebbe prevedere, oltre alla teoria, anche la pratica utile per la gestione non violenta dei casi complessi.
È necessario che la formazione sia multidisciplinare e coinvolga operatori non solo di polizia: in carcere un caso difficile si affronta tutti insieme: direttore, poliziotti, educatori, mediatori, psicologi, medici. Fuori dal carcere ugualmente. Si pensi alla neutralizzazione di una crisi di una persona che presenta disturbi psichiatrici: essa non può essere affidata ai soli poliziotti, alle loro armi, alle loro pistole con scariche elettriche.
Dunque la formazione deve essere coordinata e integrata, deve riguardare insieme assistenti sociali, educatori, personale in divisa. E deve riguardare anche i medici. Nelle ultime inchieste per violenze, abusi e tortura nei confronti di detenuti, il ruolo dei medici, seppur gregario, è emerso drammaticamente. Qua e là ci sono incriminazioni per non avere certificato le lesioni viste, per non avere visitato la persona che ne aveva diritto; per negligenza, complicità, soggezione all’apparato securitario.
Il ruolo dei medici è emerso in tutta la sua tragicità nelle violenze avvenute nei confronti dei detenuti delle carceri italiane dopo le rivolte del marzo 2020, in piena pandemia.
Il medico è un avamposto contro le tentazioni di violenza, e deve rispondere al proprio codice deontologico prima che allo spirito di corpo dei custodi.
Lo spirito di corpo
Fortunatamente, diverse inchieste stanno andando avanti da quando è stato introdotto il delitto di tortura nel Codice penale.
Queste azioni giudiziarie ci rassicurano, perché mostrano uno stato che non si lascia plagiare dallo spirito di corpo, e non rinuncia a indagare dentro le proprie istituzioni.
È lo spirito di corpo, infatti, il nemico numero uno per chi vuole reprimere la tortura. Esso è come una cortina fumogena che annebbia la vista degli investigatori. Solo se viene rotto dall’interno, com’è accaduto nel processo Cucchi, c’è la possibilità di avvicinare la verità giudiziaria alla verità storica.
La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato, anche un’amministrazione dello stato disposta a sanzionare. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non si ispiri al machismo, ma alla prevenzione sociale.
Richiede anche la dismissione di squadre e corpi speciali.
La tortura non è mai una questione di mele marce: si insinua là dove trova spazio e terreno fertile, là dove il sistema consente che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. Nel lavoro pubblico, al centro deve esservi sempre la protezione della dignità delle persone, libere o detenute che siano.
Colpa e vergogna
Per l’azione pubblica, l’uomo deve essere sempre un fine, mai un mezzo. La tortura è un crimine contro la dignità di una persona che viene ridotta a cosa, producendo in lei vergogna e finanche senso di colpa.
La vergogna nasce sempre all’interno di una relazione interpersonale, quando l’altro s’impossessa dell’io e lo degrada a oggetto. Il senso di colpa, a sua volta, può nascere nella vergogna. La colpa, infatti, non è solo quella criminale provocata dalla trasgressione, è anche quella politica, quella morale, metafisica o collettiva. Scrive Karl Jaspers che è una colpa anche il fatto di essere ancora vivi dopo Auschwitz. Anche i sopravvissuti, con il loro carico di dolore, hanno il senso di colpa di essersi salvati a differenza degli altri.
Vergogna e senso di colpa fanno parte della semantica della tortura: il torturato, per ottenere giustizia, deve essere capace di raccontare le violenze subite, spesso umilianti, a qualcuno che potrebbe non credergli. Per ridurre i danni sulla sua vita futura, avrà bisogno di anni di psicoterapia senza la quale potrebbe non uscirne salvo, sempre che disponga dei soldi per pagarsi un buon terapeuta. L’idea del suicidio resta sempre sullo sfondo come via di scampo alla vergogna e alla colpa.
Il torturato, per fare sapere agli altri cosa ha subito, potrebbe essere costretto a denudarsi e mostrare le ferite sul proprio corpo.
Crimine contro la dignità
A Bolzaneto, a una ragazza che chiedeva di andare in bagno e di avere un assorbente, venne gettata della carta appallottolata sul pavimento, attraverso le sbarre. La ragazza fu costretta a cambiarsi l’assorbente in cella usando pezzi di vestiti. Il tutto alla presenza anche di uomini.
Esiste un consolidato orientamento della giustizia internazionale secondo cui il rifiuto di dare gli assorbenti a una donna, di tenere conto dei suoi bisogni intimi, equivale a torturarla.
Quella ragazza probabilmente avrà provato vergogna di essere donna. La tortura spesso fa vergognare di essere se stessi.
A volte, la violenza che origina la tortura è una violenza sessuale. In alcuni casi la violenza sessuale è brandita come minaccia.
Sempre a Bolzaneto, una ragazza italiana, mentre veniva accompagnata dalla cella al bagno, fu costretta a camminare lungo il corridoio con le mani sulla testa abbassata. Fu colpita con calci. Venne derisa e minacciata. E venne, infine, insultata con i peggiori epiteti. Frasi offensive intrise di riferimenti sessuali.
Quella ragazza, una volta uscita dal tunnel di quella violenza, probabilmente avrà sviluppato un doppio senso di colpa: per essersi trovata in quel luogo, ma anche per avere avuto paura di quei miserevoli torturatori.
La persona torturata prova vergogna per la propria debolezza, per la propria scarsa resistenza alle pressioni psicologiche.
Se la persona torturata è un uomo, prova vergogna per non avere reagito. Se ha parlato, si vergogna per avere ceduto alle pressioni e avere confessato, il vero o il falso che sia. Non avrà più il coraggio di guardare in faccia i propri amici. Proverà vergogna di se stesso.
Vergogna e senso di colpa permangono anche durante il processo che dovrebbe restituire giustizia. Sono sentimenti conosciuti anche dai familiari delle vittime torturate e uccise.
Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha raccontato di come, nel processo, lei da vittima è stata ridotta a imputata.
Si parla, in quei processi, dello stile di vita dei loro congiunti, si indaga sulla famiglia, si cerca di infangare l’immagine del torturato, così da fare provare vergogna e colpa ai familiari, forse per farli desistere dall’andare avanti.
Papa Francesco e la tortura di tutti i giorni
La tortura è un reato che si consuma lentamente. Durante la tortura la persona prova paura, terrore. E terrore è quello che i migranti vivono nelle prigioni libiche, nelle quali gli organismi internazionali hanno provato esservi tortura sistematica, insieme a stupri e omicidi.
«Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena», così papa Francesco, in un discorso del 2014 all’Associazione internazionale dei penalisti.
Il papa, con poche parole intrise di forza argomentativa e chiarezza, rimuove la tortura dai libri della storia delle pratiche plausibili della giustizia, e la colloca dentro un presente tragico. Distingue tra la tortura giudiziaria, praticata per estorcere confessioni o indurre alla delazione, e la tortura quale esercizio ordinario del potere di punire.
La tortura su cui maggiormente si sofferma il papa non è quella che ha un fine investigativo, ma la tortura di tutti i giorni, quella che non fa notizia, invisibile, quella data per scontata, accettata come se fosse normale condimento della sanzione legale. Quella che i migranti respinti dalle nostre coste potrebbero raccontare facendo impallidire il mondo dei benpensanti.
La contemporaneità restituisce una casistica dolorosa delle torture possibili. Papa Francesco, con il motu proprio dell’11 luglio del 2013, introdusse il delitto di tortura nell’ordinamento giuridico interno allo stato del Vaticano, fino ad allora quasi del tutto sovrapposto a quello italiano. Fu utilizzata la definizione presente all’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura.
La tortura è, dunque, quel plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. La detenzione produce sofferenza. È di per sé un male. La tortura è un’ulteriore inflizione di dolore, oltre a quello oggettivamente prodotto dalla perdita o dalla limitazione della libertà.
Nelle guerre, nelle deportazioni, nelle follie di regime, nei campi profughi, nei luoghi di confine, nelle carceri legali e illegali, viene azzerata la dignità umana e la persona viene degradata a cosa.
La tortura ordinaria
Papa Francesco non si scaglia solo contro la tortura «eccezionale», quella scenica, quella usata come strumento di repressione dalle dittature spietate o dai regimi militari o teocratici. Papa Francesco si preoccupa della tortura «ordinaria», quella delle democrazie contemporanee, degli stati liberali. Si preoccupa della tortura di tutti i giorni.
La tortura è una delle forme di management della sovranità. La sovranità è il nemico da sconfiggere. Fino a quando la sovranità sarà eretta a baluardo etico, filosofico e giuridico dello stato moderno, ci saranno sempre guerre. E ci sarà sempre la tortura. Perché la tortura si nutre dello stesso concime della guerra. Si nutre di sovranità. La sovranità è belligena, nonché intrinsecamente violenta.
Attraverso, dunque, la lente della tortura (e la lotta per la sua proibizione) è possibile comprendere il rilievo del processo di desovranizzazione dello stato quale antidoto alla violenza. Va rotto il circolo vizioso della violenza. Più nonviolenza uguale più dignità umana. Più dignità umana uguale meno sovranità. Meno sovranità uguale meno tortura.
Patrizio Gonnella*
*Patrizio Gonnella è presidente dell’Associazione Antigone. Insegna sociologia e filosofia del diritto all’Università Roma Tre. Ha scritto numerosi saggi e articoli sui temi della pena e dei diritti umani. È editorialista del quotidiano «il Manifesto» e cura una
trasmissione radiofonica su Radio Popolare.
La tortura secondo l’Onu
Convenzione Onu del 1984 contro la tortura, ratificata dall’Italia con la legge n. 498/1988.
Articolo 1.
Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate.
Un rifiuto che suona
testo e foto di Valentina Tamborra |
Una distesa di immondizie tristemente famosa. Donne e bambini che ci fanno il proprio luogo di lavoro. E poi la colla da sniffare, per superare fame e fatica, e il degrado ambientale e sociale. Ma in molti cercano di cambiare questa realtà.
Siamo a Dandora, una località a circa 10 chilometri da Nairobi, capitale del Kenya.
Qui sorge una discarica che «vanta» alcuni infelici primati. Non solo è la pattumiera più grande di tutta l’Africa orientale, ma è stata anche definita da molte organizzazioni il luogo più inquinato del pianeta.
L’immensa discarica a cielo aperto è il luogo dove ogni giorno confluiscono circa duemila tonnellate di rifiuti provenienti dalla capitale.
Uno scenario dantesco: cumuli di rifiuti che formano vere e proprie montagne, vapori dall’odore nauseabondo che sporcano l’aria azzurra che, improvvisamente, ad altezza occhi, diventa nebbiosa.
Sullo sfondo, la città di Nairobi si staglia con i suoi grattacieli e i luoghi del business, che sembrano quanto di più lontano possa esserci dall’inferno che caratterizza luoghi come la discarica e le baraccopoli attigue.
Attorno alla discarica di Dandora, infatti, sono sorti molti slum – baraccopoli appunto – fra cui la famosa Korogocho. Per entrare in questo luogo abbiamo bisogno di una guida e di protezione: quattro uomini ci scortano sicuri attraverso corridoi di rifiuti accatastati gli uni sopra gli altri.
All’interno di Dandora è purtroppo di casa la violenza. Sono luoghi, questi, dove persone disperate farebbero qualsiasi cosa pur di sopravvivere e non è saggio avventurarsi da soli da queste parti.
Persino il taxi che ci ha accompagnati vicino all’entrata della discarica non ha voluto procedere oltre.
La contesa dei rifiuti
Camminando fra i rifiuti non è raro assistere a scene di scontri fra esseri umani e animali. Gli uccelli infatti, enormi marabù simili ad avvoltoi, non di rado si avvicinano ai bambini strappando loro di mano quel poco di cibo trovato scavando nella spazzatura.
La discarica di Dandora, che era già stata dichiarata al limite della capienza nei primi anni 2000, è ormai fuori controllo: i rifiuti ricoprono un dislivello di circa 200 metri.
Nel 2006 era sembrato realizzabile un progetto di bonifica, che però poi è naufragato a causa dell’utilizzo poco chiaro dei fondi stanziati per l’operazione.
Ogni giorno qui a Dandora migliaia di persone lavorano fra i cumuli di immondizia, selezionando il materiale da rivendere, abiti o cibo ancora commestibile. Per molti abitanti degli slum, dunque, la discarica, seppur tossica e pericolosa, resta l’unica forma di guadagno e sostentamento. Per questo motivo, alcune organizzazioni che si battono per il trasferimento della discarica (come, ad esempio, i Missionari comboniani) pongono al governo il problema di garantire che questa fonte di risorse non venga del tutto preclusa alle popolazioni locali.
Queste persone, in larga parte, sono bambini. Poveri, senza cibo né scolarizzazione, si trovano ben presto legati a doppio filo a questo luogo terribile.
Nel loro sangue sono state rinvenute forti concentrazioni di mercurio, cadmio e piombo e i problemi respiratori sono all’ordine del giorno. Respirare i fumi tossici della putrefazione, infatti, causa danni polmonari irreversibili.
Chokora
C’è un nomignolo che definisce i bimbi di strada, coloro i quali nella spazzatura vivono, o meglio sopravvivono: chokora. Si legge «ciokorà» e in lingua kiswahili significa monello, bambino fastidioso, ma anche rifiuto. In qualche modo, dunque, il destino di questi bimbi viene cucito su di loro, finisce per identificarli.
I bambini vengono dalle vicine baraccopoli, Canaan, Shashamane, Korogocho, e qui passano la giornata cercando di sopravvivere. Si riuniscono in gruppi, spesso sono scappati di casa perché non avevano abbastanza cibo e la vita di strada sembrava un’alternativa allettante in confronto al morire di stenti in una capanna di lamiera.
Nairobi e i suoi slum sono tristemente noti per il fenomeno dei minorenni abbandonati a se stessi, anche se molto piccoli. Nonostante gli sforzi di centinaia di organizzazioni umanitarie il loro numero è aumentato negli ultimi 25 anni.
Una piaga che spesso colpisce questi minori è la tossicodipendenza: già a 6 o 7 anni, infatti, iniziano a sniffare colla. La comprano per pochi spiccioli, soldi guadagnati vendendo ciò che nella spazzatura è ancora utilizzabile. Sniffare aiuta a non sentire la fame, la sete, il freddo, la solitudine.
Se ne vedono ovunque di bimbi definiti «zombie»: l’andatura barcollante, gli occhi vitrei con lo sguardo perso nel vuoto. Spesso si riuniscono in gruppi e diventano purtroppo estremamente pericolosi. Rapinano, feriscono, attaccano, perché questa è l’unica modalità di vita che è stato concesso loro di imparare.
Musica di strada
L’Ong internazionale Amref health Africa opera nella discarica di Dandora per il recupero dell’infanzia. Qui, i suoi operatori umanitari, portano avanti l’iniziativa «Out of the streets».
Il progetto consiste nel recupero dei bambini di strada attraverso lo strumento della musica.
A scendere sul campo e impegnarsi nel lavoro di sostegno e recupero, spesso sono ex ragazzi di strada, proprio come Samuel che ci accompagna nei vicoli dello slum e della discarica.
La prima cosa da fare quando si giunge in luoghi come questi, è guadagnare la fiducia dei bambini che, abituati a ogni sorta di abuso e violenze, diffidano dall’essere avvicinati.
Una colazione insieme, un po’ di tè e chapati (una sorta di pane azzimo tradizionale), una chiacchiera, la promessa di una doccia calda e vestiti puliti. Qualcuno accetta, i più piccoli soprattutto, e decide di seguire Samuel al centro Amref. Qualcun altro, più diffidente, resta a osservare. Il mezzo migliore per far sì che i bimbi continuino ad accettare l’aiuto degli operatori sociali è il passaparola. Saranno infatti i bambini accolti nei centri Amref a essere in qualche modo portavoce della possibilità di riscatto.
Dal primo contatto, dunque, inizia il circolo virtuoso che potrà portare questi ragazzi al recupero di se stessi, alla disintossicazione e alla scoperta della bellezza e di un’alternativa di vita possibile attraverso la scuola, la cultura, la musica.
Musica e canto infatti sono dappertutto nel contesto sociale kenyano, gli stessi chokorà hanno imparato a comporre canzoni e filastrocche con questo loro nome, cercando di farne così una sorta di bandiera che determini un’appartenenza.
All’interno dei centri Amref, i bambini tornano a scoprire il proprio valore e quello di un pezzo di latta, un barattolo, un contenitore, che da immondizia diventa tamburo. Pezzi di plastica con cui costruire un organo e ancora maracas fatte con vecchie bombolette di spray per l’ambiente. Tramite workshop e lezioni dedicate, costruiscono strumenti e li suonano. In questo modo ritrovano – almeno in parte – quel mondo spensierato che era stato loro tolto.
Il riciclo, il riutilizzo, il dare valore a ciò che prima era destinato a scomparire fra le pieghe della società, diventa quindi iconico, è il riscatto per questi ragazzi privati di un diritto fondamentale: l’infanzia.
Una madre
In una baracca grande come uno sgabuzzino, vive la mamma di due dei bimbi aiutati da Amref. I bimbi vanno a scuola grazie al sostegno della Ong.
Un’unica stanza dove dormire, mangiare, studiare. Nessun materasso, solo qualche coperta fra il corpo e il pavimento e come sedie, dei vecchi fusti di vernice. Eppure, in mezzo a questo, notiamo proprio vicino alla finestra un quaderno aperto: la grafia è sottile e fitta. Chiediamo cosa sia: «Preghiere, inni al Signore», ci risponde la donna. Ci racconta che ogni giorno ringrazia Dio per la ricchezza che possiede: i suoi figli, la possibilità per loro di andare a scuola e avere forse un futuro migliore e un tetto sopra la testa. Per essere felice, ci dice, le basta sapere che oggi sta un po’ meglio di ieri e che esiste un futuro possibile.
In una baracca, in mezzo alla polvere, nel caldo soffocante delle baraccopoli di Nairobi, si cela la bellezza che nasce dalla speranza e dalla fede.
Valentina Tamborra
Il progetto
Dal 2001, il progetto «Out of the streets» di Amref healt Africa ha raggiunto circa 26mila minori in stato di vulnerabilità. Nel periodo 2016-2019, 300 minori sono stati sostenuti ogni anno. In questo triennio, infatti, ogni anno Amref ha accolto una media di cento tra ragazzi e ragazze all’interno del centro polifunzionale diurno di Mutuini. Duecento tra ragazzi e ragazze, all’anno, sono stati invece appoggiati nella formazione (istruzione primaria e secondaria e training vocazionali, per capire cosa vorrebbero fare).
Ma non solo di bimbi di strada ci si occupa a Mutuini, all’interno del centro che visitiamo, l’Amref child development centre Dagoretti.
Qui infatti sono presenti anche diverse realtà che hanno come focus la salute e l’emancipazione femminile.
Le donne imparano a leggere, a far di conto, a preservare la propria salute, ad esempio seguendo corsi di educazione sessuale. In Kenya, infatti, l’Hiv è una realtà tristemente estesa.
Attraverso corsi e workshop si parla di eguaglianza di genere, di autonomia.
Un’altra delle attività portate avanti è l’inserimento nel mondo lavorativo e la creazione di opportunità legate ad esso.
L’approccio di questa organizzazione umanitaria resta quello di rafforzare le reti comunitarie esistenti, siano esse previste da una direttiva del governo o siano strutture informali costruite dalle comunità che popolano una determinata zona.
Dalle discariche al palcoscenico di un teatro, dal raccogliere pezzi di vetro e latta per rivenderli, a imparare l’uso di uno strumento musicale e appassionarsi a qualcosa che, forse, li aiuterà ad avere un futuro.
Una seconda opportunità di vita, non più rifiuti dunque, ma esseri umani parte del tessuto sociale.
È in Messico, a due passi dalla California. Da tempo le statistiche la pongono ai primissimi posti tra le città più violente del mondo. Eppure, a dispetto di tutti i problemi, Tijuana accoglie migranti da molti paesi. Come dimostra la presenza di varie associazioni d’aiuto, laiche e religiose. Due di esse sono raccontate in queste pagine.
1/ La «Casa del migrante» degli Scalabriniani sui Sentieri del sogno.
Il centro di accoglienza dei missionari scalabriniani è più di un rifugio. È una casa. Piena di umanità e di sorprese.
Tijuana, la città più popolata del Messico (escludendo la capitale), è nota per essere la città di frontiera per eccellenza. È situata nello stato della Baja California e solo trenta chilometri la separano dalla ricca San Diego. L’influenza degli Stati Uniti è parte della storia di questa metropoli. Lo si percepisce dalla crescita del settore edilizio che cerca di imitare uno stile gringo, pur mantenendo forte l’identità messicana. Fino a una decina di anni fa, la città, grazie alla sua posizione strategica, era un luogo di passaggio, la gente arrivava e attraversava la frontiera, in tempi più o meno brevi.
Tutti a Tijuana
Negli ultimi anni l’attrazione verso l’agognato sogno americano ha preso una piega più drammatica. A ricordarlo sono le croci bianche poste vicino al famoso muro a Las playas e non ultima la morte di un ragazzo cubano a fine marzo, affogato nell’intento di raggiungere la spiaggia di San Diego.
La complessità del fenomeno migratorio è aumentata e, negli ultimi anni, la città si è ritrovata a essere il punto di arrivo per tanti migranti e il luogo di rimpatrio per i deportati dagli Stati Uniti. I flussi migratori verso gli Usa non vengono coordinati da strutture pubbliche, statali o federali, ma da associazioni benefiche, la maggioranza religiose, che cercano di mettere ordine in un sistema d’accoglienza tanto generoso quanto caotico e inefficiente. Queste strutture, chiamate albergues, formano una rete solidale pronta ad accogliere famiglie, ragazze madri e migranti Lgbtq. Oltre a dare un posto letto e un pasto caldo, offrono servizi per aiutare gli ospiti migranti a integrarsi nella società. Gli albergues sono distribuiti soprattutto nella zona Nord della città, vicino al confine. Lavorano autonomamente mantenendo il contatto in caso di iniziative comuni di formazione o di protesta, come nei casi di marce organizzate contro la chiusura del confine o l’inasprimento delle politiche per i richiedenti asilo.
La grandezza di Tijuana sta nell’accogliere tutti. Ne sono testimoni le comunità di haitiani perfettamente integrate in un contesto linguistico e culturale diverso dalle proprie origini. Dopo il tragico terremoto che colpì Haiti nel 2010, gli haitiani erano la maggioranza dei migranti ospitati nei centri di accoglienza e, grazie al virtuoso lavoro dei volontari e degli operatori umanitari presenti nel territorio, sono riusciti a crearsi una comunità che dà vita anche a diverse iniziative culturali, inclusa una stazione radiofonica in lingua francese e creola (Radio haitiano en Tijuana).
Emergenza su emergenza
L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 ha, inevitabilmente, messo a dura prova le strutture di accoglienza che hanno dovuto reggersi quasi esclusivamente sulle capacità interne di sostentamento.
La Casa del migrante è uno dei centri di accoglienza più grandi della città. Aperta nel 1987 e gestita dalla congregazione degli Scalabrini, dispone di 140 posti letto che, prima dell’emergenza sanitaria del Covid-19, sono sempre stati occupati da migranti di sesso maschile. La Casa è un luogo accogliente e offre molti servizi, tra cui quello legale, psicologico e un percorso per l’inserimento al lavoro. Nell’arco del soggiorno, che, in media (ma ci sono eccezioni), è di trenta giorni, gli ospiti possono seguire dei corsi di formazione, usufruire del servizio medico, avere tre pasti giornalieri, oltre al posto letto. Le regole per l’ingresso sono chiare: ogni ospite deve collaborare nella pulizia giornaliera, in cucina e in altre attività richieste. Nel centro il tempo sembra immobile. A causa del Covid si può uscire solo per andare al lavoro, mentre tutte le altre uscite devono essere autorizzate dal personale. La routine è scandita da orari rigidi, la maggior parte dei residenti esce presto per andare a lavorare e torna la sera in tempo per la cena nella mensa. L’obiettivo del personale della Casa è quello di aiutare gli ospiti con le pratiche burocratiche e di fornire supporto nella ricerca attiva del lavoro affinché possano sostenere le spese per l’affitto una volta finito il soggiorno nella struttura.
Nonostante le chiusure per la pandemia, il lavoro a Tijuana non è mai mancato: i migranti trovano occupazione nell’edilizia, nelle lavanderie degli hotel, come addetti alla sicurezza o alle pulizie nei centri commerciali. Il problema principale rimane quello degli stipendi bassi, non proporzionati al costo degli affitti, molto alto, in aggiunta alla scarsa disponibilità di trasporto pubblico che costringe a non abitare troppo lontani dal luogo di lavoro.
Il Covid-19 ha colpito anche la Casa del migrante dove ci sono stati casi di positivi, prontamente individuati e isolati nelle stanze attrezzate per la quarantena e con bombole di ossigeno. Sono stati mesi duri. La regione della Baja California è stata tra le più colpite in Messico, ma la consapevolezza del collasso del sistema sanitario pubblico non ha sconfortato il direttore della Casa, padre Murphy (vedi sotto) che, con gli altri collaboratori, ha deciso di dimezzare gli ingressi e aprire le porte alle famiglie.
Storia di Doris e Gerson
I migranti che viaggiano con i bambini sono in costante aumento. Non sono solo i nuclei familiari a mettersi in viaggio, ma anche giovani padri soli con figli piccoli e ragazze in stato di gravidanza avanzato, che portando con sé i figli sperano di avere più possibilità di cruzar (attraversare) il confine e non essere respinti.
Gli effetti a lungo termine della pandemia colpiranno soprattutto i ragazzi in età scolare perché le scuole pubbliche messicane sono chiuse da un anno e, anche se il centro fornisce una sala per giocare, educatori e aule con il computer, non tutti possono seguire le lezioni online. Senza dimenticare che molti minori arrivano analfabeti presentando disturbi del linguaggio e dell’apprendimento.
Per fortuna, i bambini si abituano facilmente a tutto. Per loro la Casa del migrante è un luogo sicuro dove ci sono attività quotidiane e persone che provano a colmare le loro lacune scolastiche. Per mesi, nella sala giochi, a insegnare a leggere e scrivere c’è stata Doris, honduregna di 35 anni con un master in finanzia e uno in pedagogia. Doris, con suo marito Gerson e i loro due bambini di 3 e 6 anni, sono stati ospitati nella casa per 5 mesi (da ottobre 2020 a febbraio 2021), sono scappati da San Pedro Sula nell’estate del 2019 a causa delle continue minacce ricevute dalla criminalità locale. In Honduras stavano bene, entrambi avevano studiato all’università e Gerson lavorava come ingegnere in una famosa compagnia di bevande, ma ultimamente anche le famiglie «normali» sono diventate un target per le gangs locali.
Le cause che spingono i migranti provenienti da Guatemala, Honduras ed El Salvador sono di origine politica, economica e ambientale, ma soprattutto sociale: le persone fuggono dalla violenza e da stati inadeguati e corrotti. Per molte famiglie la fuga rappresenta l’unica soluzione. Al tempo stesso, la pressione della minaccia comporta lo sviluppo di una resilienza naturale della quale sono portatrici soprattutto le donne. Infatti, più che il sogno di una vita negli Stati Uniti, esse cercano un luogo lontano dalla violenza che molto spesso subiscono sui loro corpi.
La sofferenza composta di Doris mi ha colpito più di altre: non si è lasciata mai andare, neppure quando ha saputo di aver perso la madre in Honduras e non poterle dare neppure l’ultimo saluto. Eppure, il giorno dopo era di nuovo pronta a dedicarsi ai bambini.
Novelli Caronte
Prima di Tijuana, la famiglia di Doris è stata in viaggio per un anno. Gerson, suo marito, mi ha spiegato che non puoi più tornare indietro, una volta che sei riuscito a resistere a violenze di ogni sorta. La meta iniziale era Tamaulipas, lo stato messicano al confine con il Texas, ma anche lì sono stati vittime di estorsione e sequestro. Hanno provato due volte ad attraversare il confine mettendosi in contatto con i coyotes, i trafficanti di uomini che si fanno pagare fino a 12mila dollari per superare il confine.
I coyotes vengono trovati tramite passa parola, anche all’interno degli stessi centri di accoglienza, dove a volte riescono a entrare fingendosi dei migranti bisognosi, per reclutare persone promettendo passaggi sicuri di sola andata per gli Stati Uniti. I coyotes, chiamati anche polleros, sono dei moderni Caronte: traghettano le «anime» per denaro. Non solo per attraversare il confine Nord, ma per l’intera rotta migratoria che incomincia a Tapachula, nello stato del Chiapas, al confine con il Guatemala. La rotta dei migranti costituisce uno dei business più proficui per la criminalità locale.
A spiegarmi come funziona il lavoro dei coyotes è Gerson, che mi mostra i messaggi con cui si accordava sul pagamento: una parte viene pagata in anticipo e la seconda una volta arrivati sull’altro lato. Come prova della presunta affidabilità vengono mandati dei video di chi è riuscito a farcela. Anche loro, qualche mese prima, con un piccolo gommone di fortuna, hanno attraversato il Rio Grande riuscendo a entrare nello stato del Texas, per poi essere respinti dalla polizia di frontiera. Dopo l’elezione del nuovo presidente Joe Biden, fiduciosi in un repentino cambio di politiche migratorie, Gerson e Doris hanno ritentato. Questa volta via terra, senza paura di sfidare l’area desertica che separa il confine. Anche il secondo tentativo della famiglia è però fallito. Così, tornati alla Casa del migrante, hanno aspettato e sperato. All’inizio di marzo 2021, dagli Stati Uniti la loro richiesta di asilo è stata sbloccata e, finalmente, in aprile hanno avuto la possibilità di raggiungere dei familiari in Minnesota. Qui ha avuto inizio la loro nuova vita.
Storia di Moses
A tutt’oggi (almeno fino al 21 giugno 2021, ndr), il confine rimane chiuso. È da marzo 2020 che, in nome della sicurezza nazionale, non è più possibile entrare negli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione Trump aveva strumentalizzato l’emergenza sanitaria per sospendere le richieste di asilo in corso, ma un cambio di rotta si sta avvertendo con la presidenza di Joe Biden.
La storia di Moses, forse più di altre, rappresenta la concretizzazione del sogno americano e della speranza di chi non ha mai perso la fede nel ritorno a politiche migratorie più umane. Il giorno dei risultati delle elezioni americane (a novembre 2020), tra lo scetticismo generale, era l’unico che saltava di gioia e mostrava orgoglioso la foto sul cellulare del neoeletto presidente Joe Biden e della sua vice Kamala Harris. Moses è un ragazzo di 32 anni originario del Ghana, unico ospite africano della Casa dove è rimasto per sei mesi. Era uno dei pochissimi che non parlava spagnolo e non aveva interesse a impararlo: dopo il lavoro preferiva leggere gli ultimi articoli sulla situazione politica e la legislazione americana in materia d’immigrazione. Ha lasciato il suo paese e suo figlio per inseguire il suo american dream e poter raggiungere il fratello nel Minnesota. Per lui gli Stati Uniti «sono un paese dalle illimitate possibilità sotto tutti gli aspetti della vita». Lo dice chiaramente: non è scappato perché il Ghana non sia un paese sicuro, ma perché vuole utilizzare i suoi studi in marketing, crescere a livello professionale e mandare i soldi alla famiglia. Nel 2017, con un biglietto aereo di sola andata, è arrivato a San Paolo in Brasile, dove ha lavorato per una compagnia per due anni. Ha poi intrapreso il lungo viaggio che lo ha portato fino a Tijuana. Moses ha seguito la rotta «tradizionale»: con un pullman è entrato in Nicaragua, poi in Guatemala tramite un coyote, una volta giunto a Tapachula, in Messico, è stato ospitato in un centro di accoglienza. L’attesa dei documenti per poter rimanere nel paese si è prolungata, ma senza demordere Moses è rimasto sei mesi nella città di frontiera del Sud per poi volare fino a Tijuana. Ci tiene a ripetere che non è stato facile, che ha studiato le leggi, che ha pregato e, soprattutto, che è stato perseverante. Uscito dalla Casa, il 27 gennaio 2021 con altri migranti che già avevano effettuato quel percorso, Moses ha attraversato il Rio Grande ed è entrato nel perimetro americano. Quando l’agente della polizia di frontiera gli ha chiesto di tornare indietro, ha continuato ad avanzare finché non sono stati costretti a portarlo alla stazione di frontiera dove è rimasto tre giorni per poi essere trasferito al South Texas detention complex di Pearsall, un centro di detenzione vicino a San Antonio. Dopo due mesi, si è presentato davanti alla corte senza essere rappresentato da un legale: il giudice gli ha approvato un visto temporaneo fino al 12 ottobre 2021, rinnovabile fino a quando si valuterà la sua domanda di asilo. Mentre al cellulare parliamo della sua nuova vita americana, mi manda una foto, quasi a dimostrarmi che bisogna sempre avere fede e non demordere. Come ha fatto lui che, al quarto giorno dal suo arrivo a Minneapolis, nel Minnesota, ha trovato lavoro presso la Smith Medicals, una compagnia che produce dispositivi medici, grazie alla segnalazione dei vicini di casa.
Doña Ricarda
Dentro la Casa, i vissuti e le storie vengono raccontate soprattutto nei momenti conviviali, come in cucina, quando le madri aiutano la cuoca della casa, doña Ricarda che, con lo sguardo, controlla come preparano i tamales e soprattutto, con il suo atteggiamento materno, ascolta, consola, consiglia e cerca di proteggere le sue niñas, come le piace chiamarle.
Federica Mirto*
Padre Pat Murphy
La soluzione? Una vita migliore
Il newyorkese padre Pat Murphy è direttore della Casa del migrante di Tijuana dal 2013. «La maggioranza delle persone arriva dal Sud del Messico e dall’Honduras. Con un desiderio in comune: scappare dalla violenza e dalla povertà».
Da tempo, sul fenomeno migratorio ha messo le mani la criminalità. «Sì – conferma padre Murphy -, perché questo è veramente un grosso affare. Il governo messicano non controlla e la corruzione è dilagante. Tutto ruota attorno al denaro». Gli chiediamo se, come missionari scalabriniani, collaborano con altri. «Naturalmente. Noi collaboriamo con la Chiesa locale e le altre chiese, anche se non tutti capiscono pienamente la sfida dell’emigrazione». Una sfida che, invece, è stata colta dal nuovo presidente statunitense. «Ma è presto per dire se con Biden la situazione sia cambiata. Noi però siamo pieni di speranza che le cose miglioreranno».
«Da anni io ripeto che la soluzione è molto semplice. Abbiamo necessità di sistemare le cose nei paesi di provenienza dei migranti affinché essi non abbiano necessità di emigrare. In altri termini, se si riuscirà a migliorare la vita al Sud, le persone non lasceranno le loro case».
Pa.Mo.
2/ Il «Proyecto salesiano» di Tijuana e i migranti
Tempi di resistenza
La pandemia ha complicato tutto: più bisognosi, meno donazioni, meno volontari. Anche per
i Salesiani della città di frontiera sono mesi duri. Ne parliamo con padre Leyva e Claudia Portela.
«A causa della pandemia abbiamo iniziato a offrire il cibo in scatole di polistirolo poiché le persone non possono mangiare nelle nostre strutture. Abbiamo realizzato una sorta di circuito che gli utenti sono obbligati a seguire prima di ricevere il cibo: si lavano le mani e si disinfettano con alcol. Soltanto dopo questa procedura preparatoria, ricevono una scatola con il cibo (bilanciato), la loro merenda (un pane o dei biscotti) e la loro bevanda (generalmente il caffè). Durante la pandemia abbiamo interrotto solamente il servizio di parrucchiere, ma adesso abbiamo ripreso anche quello. Come offriamo di nuovo le chiamate nazionali e internazionali gratuite».
Così raccontano padre Agustín Novoa Leyva, direttore del progetto salesiano di Tijuana, e Claudia Portela, amministratrice generale e coordinatrice del refettorio («desayunador salesiano padre Chava»).
Alle strutture dei Salesiani di Tijuana si presentano bisognosi di ogni tipo: persone senza fissa dimora (personas en situación de calle), migranti, deportati dagli Stati Uniti. «Nelle file per entrare nel refettorio – conferma Claudia – si possono incontrare uomini e donne di ogni età, bambini e adolescenti. Quelli che arrivano qui sono accettati indipendentemente dall’appartenenza, dall’età o dal sesso».
Nascita e servizi offerti
I Salesiani operano a Tijuana da 34 anni, ma il refettorio è nato 21 anni fa per merito del padre Salvador Romo Gutiérrez («padre Chava») coadiuvato dalla signora Margarita María Andonaegui Padilla. Ha iniziato a operare il 30 gennaio 1999 con 17 commensali che divennero presto 400 per due volte a settimana. Poi, 700 a fine 2001 e mille nel 2007 nella sede attuale. Dal 2010 il refettorio opera dal lunedì al sabato e serve tra le 1.200 e 1.500 persone al giorno. Numeri importanti, dunque.
«A chi bussa alla nostra porta offriamo da mangiare, servizio medico e psicologico, tagli di capelli, cambi d’abito, consulenza legale. Prima della pandemia, offrivamo seminari e avevamo accordi con le istituzioni locali affinché le persone potessero terminare gli studi o iniziare una carriera tecnica. Abbiamo anche un ostello maschile (albergue temporal), che attualmente ospita una trentina di uomini».
Tutti i servizi offerti dalle strutture salesiane sono gratuiti, anche per l’aiuto fondamentale dei volontari. «La maggior parte di quelli che lavorano alla mensa – spiega Claudia – sono volontari. Non abbiamo un numero esatto visto che ruotano sovente. Oggi, a causa della pandemia, il loro numero è diminuito, ma potremmo dire che ci sono circa 30 volontari permanenti».
I minori
Anche a Tijuana come altrove, il problema dei minori non accompagnati è una questione delicata. Padre Agustín e Claudia spiegano che, al centro, sono pochi i minori che si presentano da soli: la maggioranza arriva con un familiare o un altro accompagnatore. Quando accade che arrivino degli adolescenti, la cosa è problematica perché l’ostello salesiano è soltanto per adulti. Aperto nel 2010, l’ostello ha limiti di capienza e di permanenza. E regole precise: «Per essere ammessi è obbligatorio seguire alcune norme di convivenza. Tra queste, ci sono il non consumare droghe e alcol, aiutare nei lavori domestici e nel refettorio, attenersi agli orari di entrata e uscita».
Biden e Kamala
Chiediamo un parere sul vicino di casa, sogno di tutti i migranti che arrivano a Tijuana. Il cambio alla Casa Bianca è visto con speranza. «A differenza della passata amministrazione – spiegano – , il governo di Joe Biden vede la questione dell’immigrazione come un problema delicato da affrontare quindi con molta attenzione. In primis, ha adottato politiche pubbliche più flessibili e umane». Approcci diversi da quelli di Trump, ma da verificare alla prova dei fatti.
Rispetto poi alle norme di protezione domestica, gli Stati Uniti – osservano i due interlocutori – dovrebbero addestrare i loro agenti a trattare con dignità e giustizia i migranti ma anche i criminali. Quanto ai migranti minori, entrati negli Stati Uniti al seguito di genitori privi di documenti, non hanno dubbi: «Non sono colpevoli. Dovrebbero avere la possibilità di legalizzare la loro posizione», spiegano.
In questi mesi i numeri ufficiali della migrazione verso gli Usa sono passati di record in record.
A inizio giugno, Kamala Harris ha compiuto il suo primo viaggio internazionale come vicepresidente Usa visitando il Guatemala (che, con Honduras e El Salvador, forma il «Northern triangle») e il Messico per promettere aiuti allo sviluppo che fermino il crescente esodo migratorio. Ma, soprattutto, per ripetere: «Do not come» (non venite!).
«Esiste una soluzione?», domandiamo a padre Agustín e Claudia. «La soluzione arriverà quando i governi dei paesi d’emigrazione miglioreranno le loro politiche, prendendosi cura dei propri cittadini e proteggendo i loro diritti. La maggior parte delle persone fugge per migliorare la qualità della vita, perché in patria non ha un lavoro o perché è minacciata o è costretta a far parte di bande criminali come nel Salvador. Solamente quando i governi affronteranno seriamente questi problemi, la migrazione potrebbe diminuire».
Sembra il classico uovo di Colombo, ma – volendo essere molto realisti -, questa soluzione richiede volontà politica, soldi e tempo. Avere tutto questo non pare né facile né immediato.
Paolo Moiola
Coraggio e missione
All’inizio di giugno, i Missionari della Consolata in Europa (Italia, Polonia, Portogallo e Spagna), 230 in tutto (al 25 marzo 2021), si sono «radunati» online per riflettere insieme su cosa vuol dire essere missionari, oggi, in questo continente. I fattori in gioco non sono incoraggianti. Tra quelli interni al nostro Istituto ci sono l’invecchiamento dei missionari, l’assenza di nuove vocazioni europee, le strutture pesanti. Tra quelli presenti nella società europea ci sono la scristianizzazione e le conseguenze, ancora imprevedibili, della pandemia che hanno messo sottosopra un modo di vivere e chiedono nuove risposte dall’evangelizzazione.
Di fronte a tutto questo, ci si poteva aspettare un’assemblea scoraggiata e rassegnata. Invece il realismo degli interventi era carico di speranza, ottimismo e coraggio. Un bell’esercizio di fede, sostenuto dal motto del beato Allamano: «Coraggio, e avanti in Domino (nel Signore)!».
Condivido qui solo poche frasi rivelatrici dello spirito di questi giorni.
Padre Stefano Camerlengo, superiore generale, sì è domandato insieme a noi: «Che cosa facciamo ora? Che cosa siamo diventati? Che cosa resterà di tutto questo? [La pandemia] è solo una dolorosa – per molti, drammatica – interruzione, per ricominciare appena possibile da dove eravamo rimasti? Oppure avremo il coraggio di iniziare un percorso diverso? […] A quali condizioni sarà possibile fare cose nuove per davvero? Come sarà il nostro Istituto domani, fra qualche anno? Come continuerà la sua missione? Quale sarà il volto della missione futura?
Sono domande importanti, fondamentali, che richiedono tanta interiorità. Cerco di riassumerle in questo modo: a quale condizione ci potrà essere un vero e stabile cambiamento nel nostro stile di vita, di presenza e di missione? Rispondo: la novità può venire solo dal cuore, cioè dall’interiorità silenziosa della coscienza di persone che non si sottraggono ai perché della vita e alle esigenze della propria vocazione missionaria. Senza tenerezza, senza cuore, senza amore, non ci sarà profezia né testimonianza credibile!
Carissimi, mi piacerebbe che mettessimo più cuore in quello che facciamo. Mi piacerebbe che prima delle difficoltà e dei problemi lasciassimo parlare il cuore. Mi piacerebbe che cominciassimo ogni riflessione e discernimento avendo a cuore il nostro continente e la nostra gente. […]
La cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri. È bello sentire la paternità del nostro caro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere; che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, incomprensioni, vedute limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Carissimi, ricordiamoci che siamo presenti in Europa perché è luogo di missione e siamo chiamati a vivere e a operare da missionari anche qui. […] Non possiamo abdicare, ma dobbiamo rilanciare e tornare a entusiasmare».
Padre Daniele Giolitti, dalla Certosa di Pesio (Cn), prendendo spunto dalle parole del Signore rivolte a Paolo chiuso in prigione: «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così bisogna che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11), ha detto: «Il coraggio è fiducia ed è il contrario della paura. Coraggio è, sì, forza agonistica, ma è soprattutto una virtù del cuore. È la forza spirituale per andare avanti o, come dicono i Padri del deserto, la “forza per buttare il cuore oltre l’ostacolo”. Ancora: la paura è la mancanza di fede, il coraggio è la fede di vivere la vita fino in fondo, di viverla da vivi, non da morti. Il Signore dice a Paolo che “bisogna che dia testimonianza anche a Roma”. Cosa significa? Paolo dirà: per me è una necessità evangelizzare, non ne posso fare a meno (1 Cor 9,16). Bisogna è la parola che Gesù usa sempre quando parla della sua morte (cfr Lc 17,25), non per dire che lui è costretto a farlo, ma che il donarsi fino alla fine è un bisogno interiore. Come bisogna che l’acqua bagni, se no non è acqua, che il fuoco bruci, che la vita viva, così “bisogna che tu mi testimoni”, è la necessità di essere come Cristo. […] In conclusione, nei periodi di discernimento e di crisi, guardiamo al nostro futuro come Paolo, accogliendo la Parola e la missione: la prima ci consola e ci dà coraggio, la seconda ci spinge ad andare. Così facendo siamo spinti nel cammino verso un mondo altro: un cammino che diventa sogno e disegno di Dio per ogni uomo e donna». Anche in Europa.
Noi e Voi, dialogo lettori e missionari
Proibire le armi nucleari
Un forte appello a Governo e Parlamento dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di
Acli, Azione cattolica italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, Agesci, Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana), Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, Mcl (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Amici di Raoul Follerau, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, Focsiv (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario), Centro Internazionale Hélder Câmara, Centro Italiano Femminile, Csi (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, Masci (Movimento adulti scout cattolici italiani), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Movimento Cattolico Mondiale per il Clima, Federazione Stampa Missionaria Italiana (a cui è associata MC), Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Fraternità francescana frate Jacopa, Comunità Cristiane di Base, Associazione delle Famiglie Italiane.
L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari
Il 22 gennaio 2021, al termine dei 90 giorni previsti dopo la 50esima ratifica, il «Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari» è diventato giuridicamente vincolante per tutti i Paesi che l’hanno firmato.
Questo Trattato, che era stato votato dall’Onu nel luglio 2017 da 122 Paesi, rende ora illegale, negli Stati che l’hanno sottoscritto, l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento, l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari.
Il nostro Paese non ha né firmato il Trattato in occasione della sua adozione da parte delle Nazioni Unite, né l’ha successivamente ratificato. Tra i primi firmatari di questo Trattato vi è invece la Santa Sede.
In Italia, nelle basi di Aviano (Pordenone) e di Ghedi (Brescia), sono presenti una quarantina di ordigni nucleari (B61). E nella base di Ghedi si stanno ampliando le strutture per poter ospitare i nuovi cacciabombardieri F35, ognuno dal costo di almeno 155 milioni di euro, in grado di trasportare nuovi ordigni atomici ancora più potenti (B61-12).
Il nostro Paese si è impegnato ad acquistare 90 cacciabombardieri F35 per una spesa complessiva di oltre 14 miliardi di euro, cui vanno aggiunti i costi di manutenzione e quelli relativi alla loro operatività.
Le armi nucleari sono armi di distruzione di massa, dunque, in quanto tali, eticamente inaccettabili, come ci ha ricordato anche papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone domenica 24 novembre 2019, a Hiroshima. «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra».
Il 22 gennaio 2021 autorevoli esponenti della Chiesa cattolica di tutto il mondo, tra i quali il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, e mons. Giovanni Ricchiuti, arcivescovo della diocesi di Altamura-Gravina-Acquaviva delle Fonti e presidente di Pax Christi Italia, hanno sottoscritto a loro volta un appello in cui «esortano i Governi a firmare e ratificare il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari», sostenendo in questo «la leadership che papa Francesco sta esercitando a favore del disarmo nucleare». Altri vescovi italiani si sono espressi pubblicamente in questa direzione e anche numerose sedi locali delle nostre associazioni e dei nostri movimenti hanno fatto altrettanto.
A tutti questi appelli, unendoci convintamente alla Campagna nazionale «Italia ripensaci», che ha registrato una vasta e forte mobilitazione su questo argomento, aggiungiamo ora il nostro e chiediamo a voce alta al Governo e al Parlamento che il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu di Proibizione delle Armi Nucleari.
La pace non può essere raggiunta attraverso la minaccia dell’annientamento totale, bensì attraverso il dialogo e la cooperazione internazionale.
«La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi».
Questa iniziativa, avviata il 25 aprile 2021, viene chiusa idealmente il 2 giugno 2021 con lo slogan «Per una Repubblica libera dalle armi nucleari».
L’8 maggio scorso padre Paolo Angheben è deceduto ad Addis Abeba (Etiopia) dopo una breve e improvvisa malattia di Covid-19. Per giorni le sue condizioni sono state seguite con affetto e preghiera sia dalla gente della sua missione, Gighessa, che dai tanti amici con cui ha condiviso il suo cammino missionario e sacerdotale. Nato nel 1946 a Riva di Vallarsa (Tn), ha fatto i voti come missionario della Consolata nel 1968 alla Certosa di Pesio (Cn), ordinato sacerdote al suo paese nel 1974, è subito stato mandato in Etiopia, dove è rimasto fino alla morte eccetto i sei anni passati in Certosa di Pesio dal 1994 al 2000. I superiori avevano già pianificato il suo rientro in Italia, ma una chiamata più impellente lo ha invitato a far festa con i santi, in compagnia del beato Allamano e di tanti altri missionari che lo hanno preceduto.
L’irripetibilità di un incontro
La notizia della morte di padre Paolo Angheben mi ha profondamente addolorata per la sua grandezza come uomo, come sacerdote e come missionario che ha donato la sua vita alla popolazione dell’Etiopia, curandone tutti gli aspetti, da quello esistenziale a quello religioso e vocazionale.
Ho incontrato padre Paolo Angheben una sola volta nell’estate del 1999 alla Certosa di Pesio, ma tale incontro ha lasciato una traccia indelebile nella mia vita. Stavo trascorrendo lì alcuni giorni di riposo, invitata da padre Francesco Peyron, per ridefinire il cammino della fede e recuperare energie in vista della ripresa del mio lavoro, dedicando del tempo alla preghiera e alla meditazione, in un contesto caratterizzato da semplice e calorosa accoglienza, in compagnia di molte persone con percorsi di fede diversificati, con le sante Messe celebrate in orario preserale frequentate da tutti gli ospiti in modo attivo, con un cielo azzurro terso di giorno e stellato di notte, un paesaggio con piante verdi rigogliose e i profili delle Alpi Marittime all’orizzonte.
Fin dal primo giorno avevo notato come padre Paolo avesse incontri frequenti e accogliesse con un largo sorriso, regalando disponibilità e sapienza. Ho scambiato con lui qualche considerazione su come la fede debba incarnarsi nella quotidianità rispondendo al desiderio di Dio che ogni uomo si salvi e si santifichi, in quanto da Lui desiderato. Abbiamo anche riflettuto sulla non linearità di tale percorso, contrastato a volte dalla individuale fragilità e a volte dagli eventi esterni. È rimasto indelebile in me il confronto con un uomo di profonda fede, consapevole della complessità di tale scelta in ogni situazione, in particolare nell’ambito missionario in cui si intrecciano la promozione umana e l’annuncio della Parola di Dio; conservo in me il dono di aver vissuto un incontro irripetibile con una persona di grande umanità, singolare eleganza e particolare dignità.
Milva Capoia
18 maggio 2021
Testimonianze dall’Etiopia
Traduciamo qui alcuni commenti ricevuti dall’Etiopia nei giorni successivi all’annuncio della morte di padre Paolo.
1. «Abba Paulos, hai ricevuto da Dio il dono di essere guida spirituale; ora il Signore ti ha ripreso a stare nella sua gloria. Ora che sei alla presenza di Dio, intercedi per noi».
«Abba Paulos è stato un buon esempio di sacerdote missionario. Avendo visto la sua semplicità, mi piace ricordare il versetto “lasciate che i bambini vengano a me, perché di essi è il Regno dei cieli”».
«Abba Paulos, manchi tanto a tutti noi qui in Etiopia. Tu sei stato il nostro padre spirituale, il nostro punto di riferimento quando ci sentivamo aridi spiritualmente e avevamo bisogno di essere ricaricati. Sei stato un’icona di vero missionario che ha assunto la vita, la cultura, la lingua di coloro ai quali sei stato mandato. Noi sacerdoti e l’intera comunità cattolica dell’Etiopia sentiamo fortemente la tua mancanza, ma è incoraggiante e di conforto aver avuto un prete santo come te in mezzo a noi. Noi crediamo davvero che tu abbia “combattuto la buona battaglia, terminato la corsa, conservato la fede” e che riceverai la “corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, ti darà quel giorno” (cfr 2 Tim 4,7-8)».
«Abba, tu sei stato per noi molto di più di quanto tu abbia creduto. Noi di Gighessa siamo frutto del tuo lavoro e della tua fatica. Tu hai fatto la tua parte fino alla fine. Rimani nei nostri cuori sempre. Riposa in pace. Rimarrai nel cuore di molte persone. Tu hai segnato il cuore, la mente e anche il lavoro di molti. Che la tua partenza ci renda ancora più determinati a continuare il tuo lavoro».
dal gruppo «Abba Paulos»
Nadim e Afghanistan
Gentile redazione,
l’articolo di Simona Carnino è bellissimo (MC 04/2021). I protagonisti della storia dovrebbero essere i primi in corridoi umanitari. Che cosa pensare di Civil society human rights network? Che conclusione tirare? Che ogni persona onesta e coraggiosa deve arrendersi e scappare da lì?
Il giovane Nadim ha tentato e si è arreso. Auguriamo ogni fortuna in Germania a questa famigliola. E cosa pensare dell’Afghanistan? Probabilmente che resti il peggior posto del mondo (e che da lì non esca più nessuno?).
Carlo May
Abbiamo passato l’email all’autrice dell’articolo. Ecco la sua risposta.
Gentile Carlo,
grazie per il suo messaggio e anche per la simpatia dimostrata per Nadim, Fawkia e Tamkin. Leggo sgomento e sensibilità tra le sue righe e la necessità di avere una risposta non filtrata. Per questo motivo, ho tradotto il suo messaggio in inglese e l’ho mandato a Nadim. Provo a tradurle di seguito la sua risposta.
«Ciao Carlo, grazie per il messaggio, che mi ha reso il giorno migliore. Presto l’Afghanistan vivrà tempi ancora più bui. Gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan per i propri interessi personali e molti conflitti si sono generati proprio a causa loro. Però ora la ritirata delle truppe Usa dall’Afghanistan non genererà un miglioramento, perché si creeranno nuovi conflitti interni e a nessuno interesserà nulla.
Il Civil society human rights network continua a lavorare, ma gli attivisti rischiano la vita. Se guardi i ranking internazionali, l’Afghanistan è sempre agli ultimi posti per diritti umani, denutrizione ecc., ma è ai primi posti per corruzione. Credimi se ti dico che appena l’Afghanistan sarà un po’ più sicuro e io potrò combattere per i diritti umani, tornerò subito là».
Simona Carnino
21/05/2021
Errori
Guardando all’ultimo numero, proprio in queste pagine, trovate diversi errori, sfuggiti (questa volta come altre) nonostante l’impegno nelle correzioni. Non è grande consolazione trovarne anche in altre pubblicazioni con più personale e mezzi di noi. Diventano un invito all’umiltà e a prendere coscienza dei nostri limiti.
Vi riporto qui il testo che abbiamo su un quadretto appeso in redazione, regalo di una tipografia tanti anni fa.
«L’errore tipografico è una cosa maligna, | lo si cerca e perseguita, ma esso se la svigna. | Finché la forma è in macchina si tiene ben celato, | si nasconde negli angoli, par che trattenga il fiato. | Neppure il microscopio al scorgerlo è bastante, | prima; ma dopo esso diventa un elefante. | Il povero tipografo inorridisce e freme | e il correttor colpevole il capo abbassa e geme, | perché se pur dell’opera tutto il resto è perfetto, | si guarda con rammarico soltanto a quel difetto».
Se la pace è solo uno slogan
testo di Piergiorgio Pescali |
Il quarto conflitto tra Israele e Hamas si inserisce in una problematica complessa e mai risolta: la questione palestinese. Conversazione con monsignor Pierbattista Pizzaballa, già custode di Terrasanta, oggi patriarca di Gerusalemme.
Il francescano padre Pierbattista Pizzaballa non è solo l’autorità ecclesiastica cattolica più elevata in Terrasanta, è anche una delle figure più esperte e soprattutto rispettate nella difficile situazione politica, culturale e religiosa che caratterizza la tormentata regione mediorientale. Arrivato in Terrasanta nel 1990, è stato «custode di Terrasanta» tra il 2004 e il 2016 (poi sostituito dal trentino Francesco Patton). Successivamente, ha ricoperto il ruolo di amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini per divenire poi patriarca della città il 24 ottobre 2020.
Lo abbiamo intervistato per chiedergli una sua opinione sull’ultimo conflitto israelo-palestinese e su quali potrebbero essere nuove vie in grado di aprire spiragli di dialogo che, ad oggi, sembrano essere preclusi.
La questione Gerusalemme
Lo scorso 21 maggio il quarto conflitto tra Hamas e Israele ha raggiunto una tregua. Da dove ricominciare per evitare che questo sia solo il preludio per un’altra serie di scontri?
«Credo si dovrebbe usare il condizionale: da dove si dovrebbe cominciare. Perché i motivi del conflitto sono sempre gli stessi, non sono cambiati, anche se ogni volta ci sono delle novità, una sorta di corsi e ricorsi alla Giambattista Vico. Ma, fino a quando non si risolverà la questione palestinese, noi saremo costretti a rivedere questi episodi. Quello che in questo momento ha scatenato la violenza è stata Gerusalemme, che rimane il cuore del problema. La questione di Sheikh Jarrah (il piccolo quartiere a Gerusalemme Est dove ebrei e palestinesi si contendono terreni e case, ndr) è stata presentata come una questione legale, quale in effetti è, ma è, prima di tutto, una questione politica.
Mi pare di capire che la nuova generazione, quella dopo la seconda intifada, sia ben connessa con la comunità internazionale, preparata anche culturalmente, determinata e disposta a tutto. Gerusalemme è diventata un punto sul quale non si può scendere ad alcun compromesso. Non più, proprio non più.
Quindi, queste sono le due cose da risolvere perché si possa evitare un nuovo conflitto: primo, la questione palestinese; secondo, riconoscere l’universalità di Gerusalemme, su cui tutti hanno eguali diritti».
Sull’universalità della città santa, l’Onu si è già espressa più volte e, sin dal 1948, ha riconosciuto a Gerusalemme e Betlemme uno status internazionale che nessuno dei due contendenti vuole riconoscere. Sia Israele che Palestina considerano Gerusalemme loro capitale. E qui possiamo passare a una delle cause principali del perdurare del conflitto tra Israele e Palestina: la mancanza assoluta di una volontà di dialogare. Da quando esiste il problema israelo-arabo-palestinese tutti parlano di necessità del dialogo in Terrasanta, ma alla luce dei comportamenti e delle prese di posizione da tifosi da stadio (non solo da parte dei principali attori, ma anche di chi osserva il conflitto dall’esterno), oramai questa dichiarazione d’intenti ha perso credibilità. A me sembra che nessuno abbia intenzione di trovare una via al dialogo.
«Parlare di dialogo, adesso e qui, è soltanto uno slogan. Perché ci sia dialogo debbono, in primo luogo, sussistere delle condizioni su cui fondarlo. Il dialogo, innanzitutto, presuppone che ci sia un desiderio di incontro e scambio che significa volontà di riconoscere l’altro o, per lo meno, di ascoltare le sue ragioni».
E evidentemente non c’è né l’uno né l’altro.
«No, non c’è. Si sta andando verso la colonizzazione politica e – ahimè – anche religiosa, perché le due cose si mischiano. I palestinesi in questo conflitto non gridavano “Palestine”, ma “al-Aqsa” (nome della moschea della vecchia Gerusalemme, ndr). È vero che al-Aqsa è anche il simbolo della Palestina libera, ma il cambio di slogan è simbolico di come stia cambiando il clima.
E questo, come dicevi tu, è il clima generale del Medio Oriente. Non si va verso una cittadinanza che precede le appartenenze settarie e identitarie, ma sono le appartenenze settarie e identitarie che divengono i canali attraverso i quali passa il concetto di cittadinanza. Purtroppo, questo non è un buon segnale per il futuro».
Arabi ed ebrei
Cittadinanza che, all’interno dello stesso stato di Israele, viene messa in discussione per gli israeliani di etnia araba e questo è forse uno degli elementi nuovi che sembra aver elevato la tensione tra Israele e il mondo arabo: l’attrito interno tra arabi israeliani ed ebrei israeliani. Su questo punto in particolare, quanto reale è il rischio di una guerra civile, specialmente dopo che, il 19 luglio 2018, il parlamento israeliano ha adottato una legge che definisce Israele «stato-nazione del popolo ebraico»?
«Se è fuori discussione che gli arabo-israeliani vivono in condizioni decisamente migliori rispetto a qualsiasi altra entità sia in Palestina, che negli altri paesi mediorientali, è anche vero che queste comunità hanno un grosso problema di identità. Un problema che si trascina da molto tempo e che è diventato evidente innanzitutto con la legge basica di tre anni fa, la quale definisce lo stato ebraico senza alcuna menzione della minoranza non ebraica. Va poi detto che, in questi ultimi anni, abbiamo assistito a una maggiore polarizzazione della politica israeliana spostata sempre più a destra e sempre più antagonista verso il mondo arabo. Un antagonismo che si esplica anche con un linguaggio spesso violento e sprezzante che ha approfondito il solco tra le due parti. C’è da dire che forse non ci eravamo resi conto di quanto fosse profondo».
Netanyahu e la destra
In questo spostamento della politica israeliana verso destra e nello scavare in profondità questo solco tra arabi e israeliani, Netanyahu ha giocato un ruolo preponderante. È il vero responsabile dell’attuale situazione e tre delle quattro guerre con Hamas sono scoppiate durante i suoi mandati. È anche vero che gli israeliani negli ultimi undici anni sono andati sette volte alle urne e ogni volta hanno scelto Netanyahu.
«Netanyahu si sposta sempre più a destra e questo è evidente. Pare che Israele non riesca a trovare un’alternativa a Netanyahu. Prima di questo conflitto abbiamo visto che c’era la possibilità di sostituirlo. La nuova guerra tra Hamas e Israele ha rimescolato le carte riportandolo al centro della politica nazionale. Non bisogna farsi illusioni: Israele ideologicamente naviga decisamente a destra. Qualunque sia il primo ministro, sarà molto difficile che la questione palestinese venga affrontata in maniera sistematica come invece sarebbe stato possibile un paio di generazioni fa».
(A inizio giugno, è stato formato un nuovo governo che esclude Netanyahu e il suo Likud. Primo ministro è diventato – per il momento – Naftali Bennet,ndr).
Iran, Turchia e Stati Uniti
Hamas e il Palestine islamic jihad godono di appoggi iraniani e turchi. Al netto delle incomprensioni storiche tra palestinesi ed ebrei, è possibile vedere l’attuale conflitto come una ritorsione della Turchia e dell’Iran contro gli «Accordi di Abramo» (tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, ndr)? Se così fosse, come mai Teheran ha aspettato l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e non ha invece iniziato la sua offensiva tramite terzi quando c’era Trump, il vero scardinatore dei delicati equilibri regionali?
«Non credo che queste situazioni siano state scatenate dall’esterno. L’Iran e la Turchia hanno “preso l’autostop”, come si dice qui. Sono salite sul carro e hanno approfittato della situazione per fare quello che desideravano fare. Credo però che si debba prendere atto che le situazioni sono state scatenate qui e si risolvono qui. La comunità internazionale, che sia Biden o che sia Erdogan o Khamenei, possono contribuire in un senso o nell’altro, ma non possono sostituirsi ai due attori principali che sono Israele e la Palestina».
Gli incontri interreligiosi
Incontri interreligiosi tra musulmani, cristiani e, in misura minore, con gli ebrei ce ne sono stati, ma non hanno mai portato a sviluppi concreti nel processo di pace. Si era parlato anche di «educare alla pace» le nuove generazioni, fondando scuole, villaggi interreligiosi, anche scuole musicali. Tutto questo cosa serve se poi, una volta nei loro quartieri, tra i loro amici e magari anche in famiglia, ognuno torna ad essere antiqualcosa?
«Bisogna distinguere: ci sono dialoghi interreligiosi visti come grandi eventi, che lasciano senz’altro il tempo che trovano. Credo che si debba continuare a farli perché, nell’era delle immagini, esse contano e sono importanti. Il problema di questi incontri religiosi ad alto livello è che non arrivano al territorio e i leader che li guidano o che partecipano, molto spesso non hanno un concreto legame con il territorio. In secondo luogo, bisogna dire che, soprattutto nel caso di ebraismo e islam, non esiste un’autorità comune a tutti. Quindi, tu puoi trovare l’ebreo che partecipa, ma ce ne sarà un altro che la pensa esattamente al contrario; non c’è un’autorità che unifica e che accompagna tutti. Questo rende tutto oggettivamente molto più complesso. A livello di territorio ci sono, è vero, tantissime iniziative, a partire dalle scuole. A cosa servono? Servono innanzitutto a noi perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di incontrare e trovare gente che ci crede e che ti dà un respiro, che credono nell’azione. È vero, molti di questi torneranno a essere sostenitori di Hamas o di Bennet, forse della destra estrema di qui o di là, ma non tutti. Credo, quindi, che sia importante avere queste piccole oasi di antivirus che non riusciranno certo a fermare la malattia, però qualche anticorpo resterà in circolo. Non guardiamo all’esito perché, se guardassimo solo a esso, non faremmo nulla. Bisogna agire innanzitutto perché ci crediamo».
Hamas, tra ideologia e pragmatismo
Nel 2017, Hamas ha emesso un documento in cui accetterebbe i confini dello stato palestinese del 1967, senza però riconoscere Israele. È una contraddizione o un primo passo verso il riconoscimento o, almeno, verso la coesistenza di «due popoli e due nazioni»?
«Hamas è una galassia, non è un partito solo. In lei convivono l’ala militare, l’ala pragmatica, l’ala ideologica; c’è quindi un po’ di tutto. Credo che anche loro siano molto pragmatici e sanno molto bene che Israele non sparirà. D’altro lato, penso che sia molto difficile anche per loro rinnegare quello che è il loro mainstream, quella che è stata la loro ideologia di un rifiuto dello stato di Israele per tutti questi anni. C’è, quindi, da un lato un senso di pragmatismo e dall’altro la difficoltà a cambiare quella che è la loro ideologia principale. Credo che il Medio Oriente non sia mai “aut-aut”, ma piuttosto è sempre “et-et”».
Meno di mille cristiani
I cristiani a Gaza sono una piccola minoranza, meno di mille persone su due milioni di abitanti. Che ruolo hanno nella vita sociale della Striscia?
«I numeri parlano da soli: 800 persone su due milioni sono ben poca cosa. Però, nel loro piccolo, le attività sono tante, forse in proporzione anche maggiori rispetto al loro numero reale. Ci sono scuole, una casa per disabili, cliniche mobili della Caritas al servizio della popolazione, soprattutto là dove non ci sono ospedali. Quella cristiana, seppur piccola, è quindi una realtà molto attiva e aperta ai bisogni generali della popolazione».
Gli aiuti e la corruzione
Cosa può fare la comunità europea – e intendo la società e le organizzazioni civili, non i governi o la politica – per favorire la crescita del dialogo?
«Favorire innanzitutto lo sviluppo di questi territori. La gente vive ancora in condizioni miserrime dal punto di vista sociale. Non ha senso parlare di dialogo e di pace quando si vive in condizioni disumane. Paolo VI diceva che sinonimo di pace è sviluppo. Bisogna fare attenzione anche ai bisogni fondamentali di queste popolazioni e poi favorire tutte le occasioni di incontro e dialogo, di attenzione e vicinanza. Insomma, far sentire che c’è qualcuno che li ascolta».
Non c’è il rischio che la politica palestinese, corrotta e inefficiente, dilapidi gli aiuti economici?
«Occorre trovare altre forme per far arrivare questi aiuti, che già ci sono. Bisogna individuare forme di sostegno che non passino dai governi palestinesi attraverso le comunità locali e le Ong che sono sparse sul territorio. Le soluzioni si trovano».
Piergiorgio Pescali
autore del libro Il custode di Terrasanta. Un colloquio con padre Pierbattista Pizzaballa, Add Editore, Torino 2014
Gio, 1 luglio 2021
Gen 22,1-19; Sal 114; Mt 9,1-8
Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi
La guarigione fisica avviene in un secondo momento, non è su quello che Gesù vuole attirare la nostra attenzione. Lui non è venuto a spazzar via tutti i problemi della nostra umanità malata, ingiusta, divisa. Ci rende però capaci di abitarli da dentro, con una speranza nuova. La novità del Cristianesimo non è in una qualche forma d’immunità alle prove della vita, ma nello stupore di scoprire che Dio ha scelto di abitare proprio quelle crepe e di renderle sopportabili. Lui le ha prese su di sé.
Da Punti Luminosi, un pensiero al giorno del Beato Giuseppe Allamano
La Consolata vi otterrà la grazia di sopportare il martirio incruento di osservare i voti e la regola di vita religiosa. Vi sarà di conforto nelle fatiche dell’apostolato, ma soprattutto vi aiuterà a raggiungere le vette della perfezione.